Frontiere, censimenti, storie Alcune note sul teatro civile in margine ai volumi di Simone Soriani, Letizia Bernazza, Daniele Biacchessi e Marco Baliani di Oliviero Ponte di Pino
Ingrandimenti sull'attore La settima edizione di Voci di Fonte di Fernando Marchiori
Anche se funestata dal maltempo, che ha costretto in spazi chiusi alcuni spettacoli previsti nei luoghi più suggestivi del festival, la settima edizione di Voci di Fonte ha mostrato la consueta vivacità nel delineare uno spaccato teatrale plurale ma sempre rivolto all’arte dell’attore. Così al festival senese, organizzato da laLut, dialogavano quest’anno Francesco Pennacchia e Balletto Civile, Biancofango e Anna Tereschenko, Egumteatro e le Ariette, Lenzi-Lurini e Isola Teatro.
Giancarlo Ilari protagonista dell'Ultimo nastro di Krapp.
In apertura un Ultimo nastro di Krapp interpretato da Giancarlo Ilari con la regia di Massimiliano Farau. L’anziano attore parmense sembra ritrovare in ogni bobina anche un po’ della propria vicenda artistica. Fu Pasolini, assistendo a una riduzione di Uccellacci e uccellini del CUT di Parma negli anni Cinquanta, a spingerlo verso una recitazione “naturale”, chiedendogli di lasciare l’impostazione accademica per una dizione che non celasse l’inflessione dialettale. Nella sua lunga carriera non ha mai dimenticato la lezione e ora che ha 82 anni, Ilari non nasconde più nulla dietro la tecnica e può permettersi di portare in scena L’ultimo nastro di Krapp con una naturalezza che nessuna finzione anagrafica raggiungerebbe.
Se nel testo beckettiano il Krapp sessantanovenne riascolta con ironico distacco la voce del Krapp trentanovenne registrata su nastro, il protagonista di questo allestimento essenziale li mette entrambi in una prospettiva più ampia e li osserva muoversi dentro la propria stessa condizione. È l’uomo che guarda in sé l’attore, le sue diverse stagioni, da una lontananza imprevista dal copione. Un terzo livello di rappresentazione che finisce, senza imbarazzo, per coincidere con la realtà. Così il dispositivo-Krapp, sempre a rischio d’incepparsi nell’assurdo di maniera, si rimette a girare come le bobine tolte alla polvere. Glauco Mauri lo ha fatto riutilizzando, con effetti struggenti, le registrazioni del suo Krapp datato 1961. Ilari lavora sulla durata delle reazioni, passando da feroci eccessi d’ira a lunghe stasi inespressive che lasciano trasparire la sua vulnerabilità, e insieme il suo passo leggero sulla «vecchia palla di fango» del mondo.
Leggeri, pur nella sgradevolezza che emanano solo a leggerli, sono anche i personaggi che Ugogiulio Lurini, con la regia di Giuliano Lenzi, ricava da Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace. Dopo aver accompagnato il pubblico in veste di guida turistica in uno dei luoghi segreti di Siena, le antiche Fonti delle Monache recentemente restituite alla città, il protagonista del primo episodio si rivela un perverso figuro in cerca di avventure particolari con donne appena conosciute. Il collaudato protocollo, non seduttivo ma “contrattuale”, messo in atto con perizia maniacale viene raccontato dall’attore sospeso sopra una vasca tufacea, tra lo stillicidio nettamente percepibile e l’imbarazzo crescente degli spettatori, quasi palpabile nell’umidità dell’ambiente sotterraneo. Lurini gioca sul filo della ripugnanza, rivolgendosi alle signore con toni confidenziali o insistendo su particolari innocui che facilmente possono diventare scabrosi nell’immaginario degli spettatori. Costruisce il personaggio con sottili incrinature della voce, sguardi che covano languore, sorrisi che si spengono equivoci. Ogni tanto si strappa un pelo dal naso, si accarezza la testa calva. Ma in fondo non ci crede neppure lui, ed è sempre pronto a stemperare gli eccessi in una liberatoria ironia.
Soccombenti e senza Lear
Da una lettura «appassionata, costante e carnivora» di Thomas Bernhard nasce Fragile show di Biancofango, con Andrea Trapani che, insieme a Francesca Macrì, firma anche drammaturgia e regia. È la conclusione di una ricerca scenica sul tema dell’inettitudine nel dichiarato «tentativo di scovare, imparare e sostenere il ritmo di un respiro, il respiro di chi si sente sempre al di qua, di chi non riesce a trovare la propria strada eppure la desidera disperatamente». Prima l’adolescenza con In punta di piedi, poi i “giovani” quarantenni con La spallata, e ora la maturità, la necessità dello sguardo indietro sulla propria vita.
Biancofango per Thomas Bernhard.
Dalle pagine finali de Il soccombente, liberamente riviste, il personaggio berhardiano si muove lungo direzioni tangenziali che Trapani incarna con decisa propensione alla fisicità, alla maschera e anche con intelligente riuso di ammiccamenti istrionici. Dunque con tutta una serie di possibili letture metateatrali dell’opera. Il protagonista solfeggia e ritma scale musicali con le dita della mano destra, scandendo i differenti ritmi discorsivi dei vari personaggi. Si agita in un vestito bianco stratificato, eccessivo, tra una panchina e uno spazio mentale che si allunga ogni volta che una luce sagomata si getta verso il pubblico. Una bella prova d’attore, convinta e convincente.
Buona accoglienza per il debutto di Senza Lear, spettacolo di Isola Teatro vincitore del Premio Lia Lapini 2009, che propone una lettura originale del dramma shakespeariano di cui rimangono solo le tre sorelle prima dell’incontro con il padre Lear, onnipotente anche nella sua assenza.
Il Re Lear di Isolateatro.
In scena Laura Riccioli, Elisa Porciatti e Armando Iovino che, con la regia di Marta Gilmore, indossano i panni inquieti di tanti «giovani condannati comunque a vedere meno e vivere di meno di chi è venuto prima. Come Goneril, Reagan e Cordelia. In panchina, aspettando che papà ci chiami dentro. Senza potere, senza denaro, senza governo. Senza figli, ahimè, e senza futuro».
Il Premio Lia Lapini, istituito tre anni fa in memoria della studiosa senese prematuramente scomparsa nel 1999, è una delle rare occasioni in Italia di selezione e di confronto di progetti che superino la dominanza testuale. Un premio di “scrittura di scena”, che riprende l’impostazione teorica su cui lavorava la Lapini ma anche lo sguardo originale di uno studioso di teatro come Maurizio Grande, docente all’Università di Siena, anch’egli morto troppo giovane. L’intenzione è quella di promuovere i percorsi di ricerca teatrale che considerano il lavoro sulla scena come il momento centrale della creazione artistica, praticato utilizzando qualsiasi materiale. Il testo non è escluso, ovviamente, ma l’allestimento non è considerato la “messa in scena” di qualcosa che viene scritto prima. Gli eventuali testi, anche non teatrali, vengono trattati alla stregua degli altri materiali a disposizione: il corpo dell'attore e la sua voce, l’attrezzatura scenotecnica, la musica. Si tratta di un premio di produzione finalizzato alla realizzazione di nuovi spettacoli che il festival senese si impegna a sostenere nel percorso produttivo della durata di un anno, dalla selezione al debutto e oltre. Nella prima fase vengono selezionati quattro progetti tra quelli pervenuti (erano quest’anno oltre 150). Nella seconda fase gli autori selezionati presentano alla giuria uno studio di venti minuti, in base al quale viene scelto il vincitore. Quattro i finalisti dell’edizione 2010: Roberta Sferzi, Silvia Pasello, Pieraldo Girotto e Vincenzo Schino. Ha prevalso quest’ultimo, con un progetto intitolato Sonno, che vedremo a Siena il prossimo anno.
Con il sole in fronte
Contraltare terribilmente attuale a Senza Lear, un altro spettacolo del Festival declina con intensità e precisione il tema della mancata elaborazione del passaggio intergenerazionale. Ispirandosi al caso di Pietro Maso, infatti, Con il sole in fronte di Balletto civile mette in scena il prototipo veneto di una mostruosità filiale che, per citare padre Turoldo, è forse il frutto logico e coerente del sistema sociale in cui viviamo.
Baletto Civile Con il sole in fronte.
«È un rampollo simpatico e violento, – spiega Maurizio Camilli, che dà corpo in scena a una partitura fisica e vocale di grande precisione ed efficacia – e c’è il rischio che alla fine vi piaccia.» Fabbrichetta di infissi, soldi e macchine, eccessi e discoteche. Morto il padre («Non sono stato io», ripete), resta una madre ingombrante ad allontanare l’eredità. È incarnata da Ambra Chiarello, insieme badante e servo di scena. Ogni surplus di energia prende forme danzate, mentre il testo ricostruisce il romanzo di formazione di questo prodotto di un immaginario aberrante ma non privo di lucidità: «Io sono il miosuper-eroe», confessa. Camilli, che firma drammaturgia e scene, e Michela Lucenti, responsabile della scrittura fisica e della messa in scena, hanno trovato un mirabile equilibrio tra teatro e danza, creando una figura che appartiene alla koinè linguistica e culturale dei personaggi di Marco Paolini – anche Camilli è trevigiano – ma che l’attraversa con il ritmo tragico di quelli di Bernard-Marie Koltès. Molto bella e delicata la soluzione con cui, nell’ultima scena, si allude al gesto efferato che ogni spettatore è chiamato a interpretare: sta uccidendo la madre o la badante? Si sta liberando della propria coscienza o dell’umanità che in lui rimane? È un’azione danzata nel corso della quale la madre-badante, in rosso su un tappeto bianco, lo sostiene e lo muove in posizioni che rinviano a una chiara iconografia sacra: madre con bambino, deposizione, pietà. Ma con un solo gesto lui rompe lo schema, rifiuta ogni pietas, e lascia la donna – la sua sagoma immota, la sua traccia vermiglia – sullo spazio bianco dal quale egli esce di scatto.
Il teatro 2.0 al tempo di Facebook Un post da Santarcangelo 2010 di Oliviero Ponte di Pino
Se in un week end di luglio tu fossi passato dalle parti di Santarcangelo, avresti potuto ritrovarti in una situazione bizzarra.
Domini Pùblic in piazza Ganganelli (nella foto di Massimo Marino, Oliviero Ponte di Pino).
Per esempio, in piazza Ganganelli, ti avrebbero visto indossare una giubba colorata (nel caso specifico di colore blu, in quanto “nato a nord del Po”) e poi portare le mani a coppa davanti al viso (perché hai risposto positivamente alla domanda “Tu se mai fotografato nudo?”) o alzare il pugno verso il cielo (perché nella tua vita hai impugnato un’arma). Intorno a te, un centinaio di persone, alcune come te con le mani a coppa e il pugno alzato. Alcuni dei tuoi compagni d’avventura hanno indossato la stessa giacca blu, gli altri ostentano giubbini arancioni (in quanto nati in Emilia Romagna) o gialli (in quanto nati fuori dall’Italia): i tre gruppi sono chiamati a svolgere il ruolo rispettivamente di poliziotti, di prigionieri e di crocerossini, in uno scontro di piazza che evoca il G8 di Genova o magari Guantanamo. E naturalmente alla fine avresti visto il tuo nome scorrere sullo schermo nei titoli di coda, tra gli interpreti.
Domini Pùblic .
Oppure, dopo essere arrivato ai capannoni delle Corderie come spettatore, avesti potuto essere prescelto con altri nove fortunati. Saresti stato bendato, per sprofondare nella cecità più assoluta. Poi ti avrebbero messo in testa una maschera (se ti è va, è quella di Topolino, se sei stato meno fortunato quella di un sorcio o di un maiale) e avresti passato un’ora a farti manipolare come un burattino dai due autori-registi-servi di scena, che ti sussurrano all’orecchio, sorreggendoti, “Fai quattro passi in avanti”, oppure “Stenditi a terra come se fossi morto”, o ancora “Afferra questo pugnale, devi brandirlo su e giù”.
La maschera da porco (particolare).
Tutte operazioni da eseguire con obbedienza cieca e precisione assoluta, perché all’inizio dello spettacolo una voce minacciosa aveva avvertito che discostarsi dalle istruzioni avrebbe potuto essere pericoloso. Una mezz’ora dopo, finalmente libero, ti saresti visto nel filmato che è stato girato e montato durante lo show di cui sei stato protagonista, senza peraltro vedere né capire nulla di quel che accadeva sulla scena.
Super Night Shot.
Se anche tu non avessi avuto l’intenzione di assistere a uno spettacolo, e stavi semplicemente facendo un giretto per il paese con il fidanzato, avresti potuto essere avvicinata da un’invasata con un vistoso abito di lamé (e per di più armata di telecamera). Lei ti avrebbe chiesto, insistente e persuasiva: “Sei disposta a baciare l’eroe che sta salvando la città e il festival?” Impossibile rifiutarsi. Poco dopo, eccoti lì a baciare in mezzo alla folla un totale sconosciuto con il volto nascosto da un’assurda maschera da coniglio. A quel punto l’eroe-coniglio, inebriato dall’incontro e dal successivo giro di valzer, decide di donarti tutto quello che ha (la maschera da coniglio, l’abito bianco, il papillon, la camicia), finché non resta in mutande di fronte a te, in mezzo alla folla. Nel frattempo anche la pazza in lamé si è spogliata ed è rimasta in mutande e reggiseno. Per tua fortuna se ne scappano via correndo tutti e due, urlando di gioia. (Volendo - e naturalmente lo vorrai - potrai rivederti sullo schermo, nel filmato girato dai quattro attori-cameramen-ideatori dell’evento in giro per Santarcangelo, e goderti l’applauso del pubblico dopo il lieto fine.)
Magna Plaza.
O magari, se stavi celebrando il tranquillo shopping familiare del sabato pomeriggio nel mega-centro commerciale Atlante, appena dopo la Dogana di San Marino, saresti passato accanto a un enorme cartello scritto con lo spray rosso, Are You Ready for Love? , non lontano da un enorme coniglio viola di peluche, e avresti potuto soccorrere una ragazza dal nome giapponese che aveva tentato il suicidio (per amore, naturalmente...) e rantolava accanto alla scala mobile tra il primo e il secondo piano. Meglio portare via subito i bambini, succedono cose strane...
Domini Pùblic del catalano Roger Bernat, Enimirc del duo Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato, Super Night Shot del gruppo anglo-tedesco Gob Squad e Magna Plaza degli olandesi Wunderbaum (specializzati in interventi in “appartamenti vuoti, supermercati ed edifici industriali”) sono quattro degli spettacoli dell’edizione 2010 del Festival di Santarcangelo, affidato quest’anno alla direzione artistica di Enrico Casagrande, leader dei Motus.
Santarcangelo 40, all’insegna del rosso Pantone 186 C (“il colore della passione, il colore del sangue, il colore della rivolta”), lavora sui confini tra spazio pubblico e spazio privato, tra attore e spettatore, tra realtà e finzione, tra scena e piazza. Per dirci che qualcosa sta cambiando, e per cercare di capire come.
E’ un progetto di esibita coerenza, che riprende e rilancia l’antica etichetta di “Festival Internazionale del Teatro in Piazza”: anche se oggi, naturalmente, la piazza non è più quella di quarant’anni fa, quella che ospitava la festa di un popolo che ritrovava, riconoscendosi, in uno spazio pubblico, producendo e liberando energia. Oggi la piazza è un non-luogo postmoderno, svuotato di senso anche perché sovraccarico di segni e presenze difficilmente decifrabili, come la “gran piazza” della hall di un centro commerciale.
Questa è una prima differenza. Non si tratta più di creare - attraverso la spettacolarizzazione dello spazio pubblico - una comunità, magari solo provvisoria. Oggi si lavorare per differenze e alterità, segmentando. Le stratificazioni si sono fatte più complesse: non c’è più solo l’asimmetria tra attori e spettatori, tra chi sa e chi non sa, chi agisce e chi assiste passivamente. In questi lavori, per esempio, ci sono almeno tre polarità: ci sono gli autori-registi (che possono eventualmente comparire sulla scena) e gli attori; ci sono gli spettatori casuali: chi attraversa la piazza, chi vaga nel centro commerciale, oppure gli spettatori passivi, “all’antica”, se ci si trova in sala; ma c’è anche una terza categoria, ovvero quella porzione del pubblico a cui, in vari modi, viene chiesto di agire: sono quelli che potremmo definire gli “spettattori”. L’archetipo resta il folgorante Andy Warhol’s Last Love dello Squat Theatre, montato intorno al 1980 sistemando la platea all’interno della vetrina di un negozio e dunque trasformando il pubblico in spettacolo per chi passava sul marciapiede e sbirciava all’interno (la trasformazione di alcuni spettatori in “spettattori” l’ha operata anche Paolo Rossi nel suo Romeo e Giulietta per rianimare un pubblico assuefatto alla passività del telespettatore).
Alcuni di questi spettacoli ricorrono ampiamente a una forma elementare di drammaturgia, ovvero alla sequenza di domande rivolte allo spettatore. E’ un procedimento che ricorda da vicino il “metodo Bausch”, utilizzato dalla coreografa tedesca nelle improvvisazioni con gli attori-danzatori: un esercizio che ha segnato il passaggio dall’epoca del teatro politico, di gruppo, con il predominio della dimensione collettiva, all’età del narcisismo, con l’avvento dei mille io, così fragili e così esibizionisti. Sono domande spesso volutamente elementari e ingenue, a volte intime (e dunque imbarazzanti), il pubblico non dà una risposta udibile. Ma la loro sequenza crea una sorta di dialogo, innescando un meccanismo introspettivo che vorrebbe accendere piccole scintille di auto-consapevolezza.
Domini Pùblic in piazza Ganganelli (foto di Silvia Bottiroli).
A volte il meccanismo può trascendere la consapevolezza individuale. Gli spettatori di Domini Pùblic costituiscono di fatto un campione sociologico, che viene sezionato e ricomposto attraverso una serie di domande che ricordano quelle di un sondaggio o di un’indagine di mercato e che determinano una serie di movimenti e gesti (“Chi ha figli vada verso sinistra, chi non ne ha vada a destra”): il moto browniano dello sciame offre dunque agli spettatori (e al Grande Fratello che li governa) informazioni statistiche di cui loro stessi non erano consapevoli.
Perché in contesti così stratificati si delineano diversi livelli di consapevolezza. Per lo spettatore che, nello spazio pubblico, s’imbatte per caso in una di queste strane azioni, è difficile capire di che cosa si tratti, se di un fatto vero o di finzione – magari è una candid camera o un reality... Ma anche per gli “spettattori” è difficile indovinare come le loro azioni potranno essere interpretate da quel pubblico “innocente”: se l’intenzione del loro gesto corrisponderà all’interpretazione di chi li osserva, distratto oppure curioso.
Non c’è più la netta separazione tra attori e spettatori tipica del teatro all’italiana, insanabile ma in fondo rassicurante. Non c’è più nemmeno la auto-organizzazione spontanea e naturale, quasi biologica, delle feste di piazza, come nell’Orlando Furioso di Luca Ronconi o in 1789 di Ariane Mnouchkine, ma anche nelle parate del Terzo Teatro. Non c’è nemmeno più il coinvolgimento liberatorio, orgiastico, creativo, del Living Theatre: “Perché non mi posso spogliare nudo?”, chiedevano al pubblico gli attori in Paradise Now, e iniziavano a spogliarsi, almeno finché non iniziò a spogliarsi anche qualche spettatore, rendendo la provocazione inoffensiva. E non basta nemmeno la continua reinvenzione dello spazio e della prospettiva teatrale delle avanguardie degli anni Settanta e Ottanta.
Oggi il gioco si è fatto più sottile, complesso, non vuole farsi ingabbiare dall’abitudine e dalle convenzioni, e nemmeno seguire il percorso obbligato della provocazione, dell’aggressione. Richiede una partecipazione ironica –in fondo è teatro, e lo spettacolo che prima o poi finisce – che però mette in causa il corpo e l’immagine pubblica dello “spettattore” (ovviamente nel contesto di un festival, la complicità esibizionistica del pubblico è assai elevata; e sarebbe interessante soppesare il livello di buona educazione richiesto al pubblico, il galateo che deve essere interiorizzato collettivamente perché interazioni di questo genere non vengano destabilizzate, dall’interno o dall’esterno – magari da un intervento delle forze dell’ordine).
Le istruzioni per l'uso di Domini Pùblic sul selciato di Santarcangelo.
Per gestire l’interazione, per definire ogni volta nuove cornici, sono dunque necessarie regole più articolate, ogni volta diverse, e spesso anche un supporto tecnologico. Lo spettacolo vero e proprio è spesso preceduto da un prologo, che dettaglia alcune “istruzioni per l’uso” e prepara i partecipanti. In Super Night Shot, agli spettatori che si accalcano ancora fuori dal teatro viene chiesto di salutare l’arrivo degli attori con un euforico lancio di petardi, urla e applausi (salvo poi scoprire, al culmine della serata, che questa prima scena, girata con la loro partecipazione, è in realtà “The End”, la fine di una missione videoteatrale). Gli “spettattori” di Domini Pùblic e Magna Plaza sono invece dotati di cuffie: nel primo caso per ricevere le necessarie istruzioni (nella forma “se... allora...”, in genere lunghe più o meno come un post di Twitter); nel secondo per seguire i dialoghi tra gli attori nell’ampio e rumoroso spazio del centro commerciale (il modello è anche quello dei silence parties, dove i danzatori si muovono al ritmo di una musica che sentono solo loro, in cuffia: il sabato notte, nella silenziosa piazza Ganganelli, avresti potuto vedere un gruppo di ragazzi che ballavano, con una cuffia in testa, al suono di una musica che sentivano solo loro).
I sistemi di regole di questi show interattivi possono ricordare quelli di un gioco, di uno sport. Ma anche quelle attualmente in vigore nei social networks, dove peraltro sono in voga da sempre quiz e pseudo-quiz come quelli impartiti in alcuni di questi spettacoli e allestimenti. Anche i social networks sono gestiti da registi-drammaturghi (gli sviluppatori), che decidono le regole dell’interazione e costruiscono la piattaforma tecnologica che può supportarla. Gli “spettattori” iscritti al network interagiscono all’interno di queste regole: alcune esplicite, altre implicite perché imposte dai vincoli “tecnici” della struttura. Eventualmente la partecipazione di questi “spettattori” può essere regolata e vincolata da ulteriori meccanismi e regole. I normali internauti, l’equivalente dei passanti, hanno un accesso solo parziale al sistema; e non conoscono le regole, che possono solo intuire (o meglio, dedurre), curiosando nella porzione “pubblica” e aperta del social network.
Un altro elemento spesso ricorrente in questi lavori (e presente già in Andy Warhol’s Last Love, dove una telecamera seguiva il percorso di avvicinamento alla scena-vetrina del fantasma di Ulrike Meinhof) è l’uso “forte” del video, che dà forma alle dialettiche piccolo-grande, interno-esterno, passato-presente. Il teatro, si sa, è da sempre preparazione e attesa: ovvero la drammaturgia e le prove degli attori, in previsione di quello che poi accadrà nella compresenza con gli spettatori. E’ anche uno spazio-tempo in vario modo separato, distinto dallo spazio-tempo della quotidianità. Il video permette di rendere fluido questo confine, di rimetterlo in discussione. La registrazione trasforma l’evento, irripetibile e inafferrabile, in testo e in opera. Nel caso di Enimirc e Super Night Shot, costituisce la seconda parte, dell’evento live che si è appena compiuto, registrato e montato in diretta. In Enimirc il video ritrova liveness nell’interazione con il pubblico che ha appena assistito alle riprese.
E’ una drammaturgia che non costruisce un unico testo (lo spettacolo preparato nel corso delle prove dalla compagnia, al quale assisterà il pubblico); e nemmeno una serie di microeventi liberamente ricomponibili. Costruisce piuttosto una serie di testi paralleli e sovrapposti: un primo livello, la sequenza di istruzioni impartite dagli autori-registi-attori (di fatto, un algoritmo); un secondo livello, le azioni eseguite e vissute dagli “spettattori”, in base alla partitura; infine, lo spettacolo costituito dalle azioni degli “spettattori” così come lo possono vedere testimoni di queste azioni, con la spettacolarità teatrale che irrompe all’interno della vita quotidiana che invitano alla deduzione: “Ma cosa sta succedendo? Che stanno facendo? E quelli che guardano? E’ vero o finto?”
Todos los grandes gobiernos han evitado el teatro intimo.
Spesso a questi testi se ne intreccia un altro, una sorta di palinsesto che offre un filo conduttore dell’evento. Nella trama e nei personaggi, Magna Plaza ricalca esplicitamente Dolls di Takeshi Kitano. Uno spettacolo dalla struttura apparentemente tradizionale come Todos los grandes gobiernos han evitado el teatro intimo del drammaturgo argentino Daniel Veronese rivisita in chiave moderna Hedda Gabler, salvo obbligare i suoi personaggi a vivere (o rivivere un po’ freneticamente) tutta la loro vicenda in un teatro, abitanti precari di una scenografia labirintica e claustrofobica, in un beffardo ribaltamento del rapporto scena-realtà.
La crossmedialità e la intertestualità (che hanno incuriosito i Motus, da sempre al lavoro su queste grammatiche) possono operare anche su altri livelli. Gli interpreti del testo di Veronese recitano con lo “straniamento naturale” e la frettolosa sprezzatura tipica delle telenovelas. Enimirc si appoggia agli stilemi dell’horror e alla cronaca nera (con una strizzata d’occhio al famigerato episodio del cavallo a Santarcangelo ’85). Super Night Shot rimanda al fumetto e al filone catastrofico, come le proiezioni video di Cosmesi per NEROep, una sequenza di crolli catastrofici e rumore di fondo.
Nel loro insieme, questi spettacoli – per certi aspetti ingenui e giocosi, ma costruiti con intelligenza – paiono delineare una specie di teatro 2.0, non più basato sulla fruizione passiva, ma sulla partecipazione attiva dello spettatore, anche se all’interno di precisi sistemi di regole. L’obiettivo è di inventare e ridefinire ogni volta le diverse funzioni dei partecipanti all’evento teatrale.
E’ spesso un teatro “aumentato”, che alla comunicazione teatrale sovrappone un filtro tecnologico che lo arricchisce di significati, come le cuffie o il video. E’ anche un teatro che si concentra inevitabilmente sulle funzioni e su rapporti reciproci tra le diverse figure: non a caso usa spesso la maschera, un po’ per segnalare il proprio disinteresse all’interiorità, ai sentimenti e alla psicologia individuale, un po’ per differenziare gli attori dalla “gente”.
Anche l’interiorità – quella degli spettatori, quella del pubblico, quella della gente – pare diventata impossibile da penetrare o da decifrare: perché troppo complessa, perché troppo poco strutturata. Sembriamo tante scatole nere, in grado come i computer di fornire una risposta solo se ci viene dato uno stimolo: “se... allora...”.
Ma allora, come rimettere in circolo, come condividere e scambiare, almeno in arte, il contenuto della scatola nera dell’interiorità? Su questo crinale lavora Babilonia Teatri, guidato da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, che presenta a Santarcangelo 40 i risultati di un laboratorio con dieci “allievi” (scelti dopo che avevano risposto a un bando che chiedeva di postare un video su Youtube).
Babilonia Teatri alle Corderie.
This Is the End My Only Friend the End riprende il metodo di lavoro del gruppo veronese, e anche l’atteggiamento psicologico e la postura comunicativa: cogliere le storture del mondo e di collezionarle in forma di elenco, attraverso procedimenti di accumulazione e ironia; definire i propri sentimenti ed emozioni, a partire dalla rabbia e dall’indignazione, ma anche dall’insoddisfazione nei confronti prima di tutto di sé stessi, per poi oggettivarli – svuotati di ogni emotività e trasformati in invettiva, in proclama.
Voglio il mio boia
voglio affittarlo
prenotarlo
comprarlo ora
voglio che viaggi con me
sempre
fedele al mio fianco
voglio sia scritto nero su bianco
sono il tuo boia
sono il tuo boia
voglio il sigillo del notaio
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
voglio un colpo di pistola
uno solo
qui
in testa
in mezzo agli occhi
la chiamate vita
non la voglio
non voglio viverla
non voglio vederla
non voglio soffrirla
non mi interessa
poche parole chiare
non voglio una morte lenta
non pensate di fottermi
di aggirami
di incularmi
lo dico adesso
lo scrivo
pago
dovrete farlo
basta schiacciare il grilletto
voglio un'assicurazione sulla morte
sulla mia morte
un'assicurazione contro la morte lenta
voglio il mio boia
In This Is the End My Only Friend the End, a rendere apparentemente più dura la provocazione ma in realtà appiattendola, è la carcassa di una scrofa che piomba dal soffitto, sezionato a metà, e campeggia sulla scena durante tutta la seconda parte dello spettacolo. Ma la rabbia e l’ironia, e anche il rifiuto, quelli restano. E continua a sorprendere la capacità di prendere materiali dalla “vita vera” per trasformarli in spettacolo.
Per il teatro 2.0, il procedimento per mettere il relazione l’intimità e la socialità ricorda a volte quello dei social networks. “Che cosa stai pensando?”, la domanda numero uno di Facebook, spinge a condividere la propria interiorità, il contenuto della “scatola nera”, proietandolo nello spazio condiviso della rete. Il teatro 2.0 può mettere in gioco anche l’immagine pubblica dello spettatore (“Mettete la giacca arancione che distribuiscono a sinistra”) e soprattutto il corpo, attraverso il movimento e gesto (“Andate a sinistra”, “Alza il pugno”). Può lavorare su meccanismi di identificazione (la protagonista casuale di Super Night Shot, “una di noi”, esce dall’anonimato e diventa protagonista per una sera). Affiora spesso una prospettiva critica nei confronti della società dello spettacolo, di cui vengono messi a nudo e demistificati alcuni meccanismi. Ma sempre con una evidente venatura ironica, e autoironica.
Il teatro 2.0 pare offrire alle nostre identità autoreferenziali, pulviscolari, una cornice in cui sperimentare la possibilità di un agire collettivo. A volte dalle risposte individuali emerge una consapevolezza collettiva, “statistica” (così come Google estrae dai comportamenti di massa sul web un sapere – misurabile – di cui i singoli utenti della rete non sono consapevoli).
E spesso questi lavori s’interrogano sulla possibilità di una pratica politica o sfiorano tematiche civili, tenendo presente che l’esibizionismo di massa, nella società dello spettacolo, è un problema politico, così come lo è la membrana tra pubblico e privato e a gestione dello spazio comune. Ai dieci spettatori ciechi e ammassati in un gruppo cinto dal nastro adesivo, viene ironicamente chiesto: “Pensate ci sia libertà d’espressione in questo spettacolo?”
Wikikritik? La critica teatrale (e non solo) dopo Internet di Oliviero Ponte di Pino
Questo testo riprende l'intervento per l'incontro con Andrea Porcheddu, coordinato da Anna Maria Montevedi, su "Teatro tra critica e crisi" (Portovenere il 16 luglio 2010).
Se vuoi approfondire, consulta nella ate@tropedia la voce critica teatrale.
Trent'anni fa, se avessi avuto a disposizione libri come quello di Andrea Porcheddu e Roberta Ferraresi (Questo fantasma. Il critico a teatro, Titivillus, 16,00 €, più spostato sul versante teorico), o come quello di Massimo Marino (Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Carocci, 16,10 €, dall'impostazione più pratica, già recensito su www.ateatro.it da Anna Maria Monteverdi), sarei impazzito dalla felicità: avrei finalmente avuto in mano uno strumento di cui avvertivo la necessità, in grado di rendere la pratica critica un po’ più facile. Perché libri come questi regalano, a chi vuole avere uno sguardo consapevole sul teatro, una cassetta degli attrezzi ricca e articolata. Nei libri di Marino e Porcheddu-Ferraresi trovate infatti, già belli pronti, selezionati e organizzati in una cornice unitaria, molti degli strumenti critici necessari per “aprire” e leggere quelle entità affascinanti e misteriose che sono gli spettacoli teatrali. Più in generale, vi trovate una utile bussola per orientarvi nella mediasfera. Se avessi potuto usare libri come questi, non avrei avuto bisogno di assemblare faticosamente, attraverso mille letture a volte frammentarie a volte casuali, le nozioni e le competenze teoriche indispensabili per svolgere il mestiere del critico. Tenendo oltretutto presente che all'epoca la critica teatrale non aveva certo lo statuto e la storia della critica letteraria o della critica d'arte, le quali potevano contare su una ricca tradizione e una nutrita bibliografia: era dunque necessario adattare all'oggetto specifico (lo spettacolo dal vivo) attrezzi costruiti per scopi leggermente diversi (l'analisi di testi o di immagini).
La sistemazione di un sapere critico rispetto allo spettacolo dal vivo non è tuttavia l'unico cambiamento significativo. Trenta-trentacinque anni fa, quando ho iniziato a scrivere di teatro, le teorie e le scuole critiche si contrapponevano e si affrontavano in base agli “attrezzi” che utilizzavano e all'ideologia che li ispirava: per primi la psicoanalisi (con le sue propaggini junghiane e lacaniane), la semiotica e lo strutturalismo, il marxismo, ovvero le tre grandi scuole critiche dell'“era del sospetto” (che corrispondono alle tre grandi partizioni del libro di Porcheddu e Ferraresi: il soggetto, il segno, la società). Chi non si riconosceva in una di queste teorie, poteva risalire all'indietro, verso la critica storica e quella stilistica, o affidarsi alla chiave biografico-psicologica. Altri studiosi, più aggiornati, preferivano appoggiarsi alla riflessione situazionista sulla società dello spettacolo; oppure alla critica di genere, sull'onda del movimento femminista; e a quella “antropologica”, multiculturale, che ha messo in crisi la prospettiva eurocentrica, “occidentale”. Poi è stata la volta della teoria della ricezione e dell'economia della cultura, finché non è diventato di moda “il metodo dei metodi”, ovvero l'ermeneutica.
Ciascuna di queste scuole critiche era convinta di possedere gli strumenti sufficienti per “leggere” un'opera, per esaurire il suo universo di significati e per inserirla in un quadro coerente accanto alle altre opere (attraverso sistemi di classificazione e tassonomie) ed eventualmente anche in una prospettiva storica.
In Questo fantasma, i vari metodi critici vengono ampiamente illustrati e discussi, ma viene anche evidenziata, in un'ampia premessa, una situazione di crisi generalizzata della critica. Peggio ancora, e più in generale, Porcheddu e Ferraresi registrano con allarme un terzo cambiamento di scenario: lo svaporare dell'atteggiamento critico all'interno della società contemporanea. In quanto strumenti totalizzanti e totalitari, le diverse e contrapposte teorie critiche (e prima di loro le ideologie che le sottendevano) non hanno retto all'impatto del post-modernismo e del pensiero debole. Per lo meno, i vecchi schemi di lettura hanno smesso di funzionare come strumenti esclusivi di interpretazione dell'opera e in generale della realtà – mentre il decostruzionismo proiettava verso un'ermeneutica infinita (almeno potenzialmente) e una deriva del senso altrettanto interminabile.
Si è così aperto lo spazio per una moltiplicazione dei metodi critici, e dunque per un arricchimento della tavolozza critica e per il possibile intreccio dei colori. Tuttavia, paradossalmente, questo non ha prodotto un rafforzamento della funzione critica, al contrario. Nel momento in cui ha smesso di utilizzare un'unica leva e di sventolare la bandiera che lo rendeva identificabile e lo legittimava ideologicamente, per utilizzare una tavolozza più ricca e colorata, il critico ha perso autorevolezza.
La contromisura adottata dalla categoria per limitare l'impatto devastante del tramonto delle teorie e delle ideologie? Pigiare sul pedale della soggettività, ovvero affidarsi al gusto e alla sensibilità personali, uscendo se possibile dai gerghi specialistici degli esperti per assumere lo sguardo della gente comune, dello “spettatore qualunque”. Con un effetto, anche qui, alla lunga devastante. Se non esistono più metodi o regole “a prova di bomba”, se non è più indispensabile padroneggiare le tecniche assimilate con fatica e studio (visto che alla fin fine una chiave interpretativa vale l'altra e nessuna appare risolutiva o esaustiva), se è controproducente applicare le varie metodologie con il tedioso puntiglio dello specialista, qualunque soggettività equivale all'altra o a quella di chiunque altro. Il mio gusto vale il tuo, o quello del censore più spocchioso. Il ruolo del critico finisce così per svuotarsi ulteriormente di autorevolezza.
A un livello più profondo, questa trasformazione riflette, o forse innesca, un processo parallelo di indebolimento della funzione critica in generale, all'interno della società e della mediasfera. E finisce per contribuire inevitabilmente alla perdita di peso degli intellettuali, la categoria che del pensiero critico ha fatto la propria missione.
Internet radicalizza sotto vari aspetti questa tendenza allo svuotamento della funzione critica. La rete è animata da un'ideologia che potremmo definire “democrazia esasperata”, o “democrazia radicale”, che presuppone il rifiuto di ogni principio di autorità. E’ un atteggiamento che si manifesta in varie forme e di cui si ritrovano le tracce in alcune esperienze di enorme successo e utilità, come Google, Wikipedia e Anobii.
Un motore di ricerca come Google è fondato sul presupposto che tutte le nostre preferenze siano misurabili e che dunque si possano quantificare in maniera immediata e oggettiva. La valutazione dei contenuti dei siti opera a livello statistico, di massa, monitorando le azioni di un numero abbastanza elevato di individui. Nel motore di ricerca più utilizzato del mondo, il meccanismo che decreta il ranking è un sondaggio infinito (quanta gente visita la pagina), combinato a una peer review di massa (quanti link rimandano a quella pagina, e da qual siti). Più ampio è il campione, più affidabile sarà il risultato. Anche se l'algoritmo di Google è un segreto assai ben custodito, si può supporre che la sofisticata logica bayesiana che lo governa porti davvero ai vertici della visibilità i siti più frequentati e apprezzati dagli utenti. Tuttavia questo non significa necessariamente che quelli che compaiono per primi siano i contenuti migliori dal punto di vista della qualità e dell'affidabilità: il meccanismo è lo stesso che produce le hit parade discografiche e le classifiche dei best seller librari. Di fatto, nessuno a Google giudica il contento delle rete: il compito è affidato agli inconsapevoli navigatori, attraverso le loro decisioni. Nell'universo automatizzato di Google, i valori non si discutono, non si scelgono, non si integrano e non entrano in conflitto o in contraddizione: si misurano, si contano, e poi si inseriscono in una classifica (che a sua volta determina il prezzo delle inserzioni). Le crisi di coscienza e i drammi qui non hanno corso.
La semplice, generosa, magnifica utopia di Wikipedia parte dal presupposto che tutti noi possiamo contribuire a costruire, un bit di informazione dopo l'altro, un’enciclopedia comune, frutto della condivisione dei nostri saperi. Un costante processo di confronto e arricchimento permetterà di assemblare e mettere a disposizione di tutti una collezione di informazioni sempre più ampia e approfondita, e vagliato dalla collettività. Di più: quello di Wikipedia si presenta come un sapere aperto e trasparente. Anche il percorso di affinamento delle informazioni, che procede attraverso arricchimenti, precisazioni, correzioni, discussioni, è pubblico e trasparente. Questo però presuppone che, nell'arena della rete, la follia o la sciocchezza di qualunque utente abbia lo stesso valore del parere dell'esperto (o, in alternativa, che lo scemo e il folle – o il fanatico – vengano persuasi dalla razionalità e dalle competenze dei saggi). E’ vero che la stessa Wikipedia ha implementato un meccanismo di controllo e arbitrato redazionale, e tuttavia si tratta di un correttivo che contraddice il “buonismo” del progetto originario.
Anobii è un social network che raccoglie gli appassionati dei libri e della lettura. Chi si iscrive ad Anobii inserisce nella sua pagina i titoli e le copertine libri che possiede (“Il tuo scaffale”), recensisce e valuta quelli che ha letto e interagisce con gli altri anobiani. E’ infatti possibile visitare le librerie degli altri utenti: un algoritmo confronta all’istante i libri e gli autori presenti negli scaffali dei due anobiani, il “visitato” e il “visitatore”, oltre che i giudizi espressi dall'uno e dall'altro sui libri letti (da uno a cinque stelline), e poi valuta il loro grado di affinità (su una scala da uno a dieci). Il sistema (che raffina e sistematizza alcuni meccanismi già presenti su Amazon) riconosce gli utenti che hanno gusti simili ai nostri, ci consiglia diventare loro “vicini” o “amici”, creando delle microtribù, o dei target mirati che hanno la propensione ad acquistare prodotti analoghi. In questa prospettiva, il critico migliore è quello che ha i miei stessi gusti, quello più simile a me, che dunque può darmi i consigli più utili, perché gli piace quello che piace a me. Per i fan di Anobii, il critico non è dunque più quello che legge “dentro” le opere, e che contribuisce a formare i suoi lettori (il critico e l'intellettuale hanno una certa vocazione pedagogica): è piuttosto quello che mi indica i prodotti più adatti, quelli che mi piaceranno di più, quelli che non mi deluderanno perché conformi alle mie aspettative. Un aiuto certamente utile, nell'attuale alluvione di prodotti culturali, sempre più specifici e rivolti a pubblici di nicchia e dunque difficili da valutare e scegliere. Ma è anche un meccanismo che tende inevitabilmente a confermare la mia visione del mondo e dell'arte, a rafforzare le mie implicite certezze.
Quello che accade su Internet si intreccia con una tendenza che rientra anch'essa nel processo di democratizzazione, e che in un certo modo lo fonda. L'evoluzione è in atto da tempo. Una comunicazione quasi esclusivamente verbale, orale e scritta (quest'ultima pressoché confinata agli addetti ai lavori, alla società letteraria, agli “amatori”), ha lasciato spazio a una civiltà dove l'immagine ha un peso crescente, grazie anche ai rotocalchi e alla televisione. Il loro pubblico preferisce un contatto il più possibile diretto, personale, senza mediazioni, con le star. Allo stesso modo, la star preferisce rivolgersi direttamente ai suoi fan, piuttosto che attraverso un filtro critico. Sui mass media, da tempo, la recensione e il giudizio critico sono stati affiancati (e ormai quasi soppiantati) da una comunicazione non mediata: il servizio fotografico, l'intervista, la partecipazione al talk show. La simpatia personale pesa più della qualità dell’opera. Si vende il personaggio, che sia uomo o donna, giovane speranza o venerabile padre della patria, non quello che crea.
La star conserva il suo carisma, ma il contatto diretto spinge inevitabilmente verso un rapporto paritario e tende ad azzerare le gerarchie. Il filtro critico è stato sostituito dai meccanismi degli uffici stampa e delle pr, al posto della cassetta degli attrezzi ermeneutici ci sono truccatori e truccatrici, fotografi e direttori della fotografia. I “quindici minuti di celebrità” di Andy Warhol, ma anche i reality e i talk show, rientrano in questa logica.
Internet si presenta oggi come la piazza del continuo dibattito, il salotto telematico della discussione infinita, lo spazio sempre aperto al confronto dialettico. E’ il regno della trasparenza assoluta, la città di vetro dove non devono e non possono esistere segreti. E’ l'anima della metropoli globale, dove i telefonini e le telecamere di sorveglianza perennemente attive ci rendono localizzabili, rintracciabili e visibili sempre e ovunque, da chiunque. E’ il grande testo dove tutte le informazioni sono sempre ricercabili, rintracciabili e utilizzabili. E’ la scena senza quinte né camerini, dove il privato è già pubblico, dove l'interiorità deve essere condivisa in diretta, per farsi immediatamente comunicazione: “Che cosa stai pensando?”, ci chiedono ossessivamente i social networks.
Tuttavia dietro questa apparente limpidezza si intravvede, anche se a fatica, sempre più a fatica, un non detto, un rimosso. C’è un inconscio che affiora. C'è una struttura che sorregge la sovrastruttura.
L'alternativa è semplice e radicale. O pensiamo che la società sia retta da leggi oggettive, che non possiamo modificare, e dunque quello che accade è necessario e inevitabile, e dunque non possiamo far altro che cercare di capire queste leggi e adeguarci meglio che possiamo; oppure restiamo convinti che la soggettività - compresa la nostra - abbia ancora un valore, e che dunque dobbiamo esercitare il nostro giudizio, la nostra volontà, la nostra libertà. Dobbiamo distinguere e scegliere.
Alla democrazia oltranzista di Internet, si può avanzare un’altra obiezione, fin troppo facile. Il talento e il genio, per loro stessa natura, non sono democratici. C’è chi ha talento e chi non ce l'ha. E chi ha talento spesso tende a creare opere che non soddisfano il conformismo (almeno in quel momento), che scandalizzano e dividono, che non ottengono subito un consenso di massa. Oltretutto opere di questo genere portano con sé, nel loro stesso modo di essere e di porsi nei confronti del pubblico un’implicita dimensione critica: nei confronti delle altre opere e delle convenzioni che le sorreggono (e della tradizione), nei confronti del pubblico e del suo gusto, nei confronti dell'intera società.
Il critico deve lavorare su questa distanza: sulla fattura tra l'opera innovativa, e magari destabilizzante, e il gusto corrente, tra le posizioni consolidate, le convenzioni, i cliché, e chi li innova e li sovverte, o almeno li destabilizza. Il critico deve entrare in sintonia con queste dissonanze (l'ennesimo paradosso, la sintonia nella dissonanza...), per coglierle, comprendere e renderle esplicite. Una prospettiva di questo genere porta piuttosto lontano dalla logica del sondaggio e dai “consigli per gli acquisti”. Lavora sulle differenze, sui conflitti, sulle mutazioni, sugli incroci e le ibridazioni.
Le opere d’arte finiscono per innescare comportamenti di fatto antidemocratici anche nel pubblico. I prodotti culturali cambiano chi li consuma. Chi legge molto, chi ascolta molta musica, chi vede molte opere d'arte, chi assiste a molti spettacoli, affina progressivamente le proprie competenze e il proprio gusto (questo vale a maggior ragione per lo “spettatore professionista”, il critico). Il giudizio dello spettatore esperto tenderà dunque ad allontanarsi via via dal gusto dello spettatore “ingenuo” (o meglio, oggi, dello spettatore massicciamente diseducato da altre forme di comunicazione, fermo restando che esistono opere che parlano a diversi livelli, intercettando diverse fasce di pubblico). Alcune opere “epocali” portano a uno scatto nella consapevolezza di quelli che entrano in contatto con loro.
In questo scenario, mantenere vivo e vigile lo spirito critico diventa sempre più difficile. C’è, nelle pratiche di Internet appena evidenziate, una tendenza all’autoreferenzialità, al rispecchiamento, alla creazione di meccanismi circolari. Sono sistemi che tendono ad annullare quella distanza, quel passi indietro da cui nasce lo spirito critico - e da cui nasce, in fondo, anche il teatro, che è arte delle diversità.
Ma per coglierli è necessario un passo indietro, la creazione (la consapevolezza) di una differenza. La critica è, prima di tutto, questa distanza. La critica teatrale è differenza al quadrato, una differenza applicata a un'arte della differenza. Insomma, nell'era dell'azzeramento dello spirito critico, una doppia obsolescenza, una inattualità al quadrato. Peggio ancora, un libro come questo, che è di fatto critica della critica teatrale, è inattualità al cubo. E proprio per questo, ci dicono coloro che oggi riflettono sulla critica teatrale, è un anticorpo di cui abbiamo bisogno.
Un’estate di festival tra La Spezia e Massa Carrara Lunatica (MS) - Fino al cuore della rivolta (Fosdinovo, MS) - CastèArte (SP) di Anna Maria Monteverdi
Un soggiorno in Val Graveglia della Spezia mi ha portato a preferire, dalla seconda metà di luglio, alle rumorose feste cittadine, alcune manifestazioni teatrali e artistiche nella Valle del Vara e nei borghi della Lunigiana che qua segnalo.
Lunatica
Encomio speciale per Lunatica, ricchissimo appuntamento di teatro e musica ormai consolidato, itinerante nelle località tra Massa, Carrara e i castelli della Lunigiana: sotto la lungimirante direzione artistica di Marina Babboni e l’impegno della Provincia-Assessorato alla Cultura, il Festival Lunatica si aggiudica il premio della manifestazione estiva più popolare e più frequentata di tutta la zona tra Liguria e Toscana che pure vanta nel periodo estivo un ben ricco calendario.
Lunatica con i suoi 16 appuntamenti distribuiti in due settimane tra luglio e agosto non ha in effetti, concorrenti; del resto la formula della valorizzazione dei luoghi caratteristici attraverso l’arte e la cultura con un’organizzazione eccellente che prevedeva il trasporto in navetta del pubblico, ha permesso a molti - non solo villeggianti e stranieri di passaggio - di scoprire scorci di una bellezza unica, dal borgo medioevale di Filetto a quello di Ponticello (con uno spettacolo di Andrea Battistini) a Mulazzo, oppure di rivedere in notturna il magnifico anfiteatro romano di Luni (con Pippo Delbono) o il Castello Malaspina (con Kinkaleri). Il teatro (e la musica: con Simone Cristicchi, Baustelle, Dalla/De Gregori) ha aggiunto una poesia che li ha resi ancora più magici. Certamente la scelta originale degli artisti e la qualità delle proposte è stata fondamentale per la riuscita della manifestazione: plauso particolare per un artista che debuttato a Lunatica con un nuovo spettacolo che mi ha sinceramente colpito al cuore per la forza e l’intelligenza del progetto: Mario Perrotta che a Bagnone ha presentato I Cavalieri di Aristofane in prima nazionale.
Dopo una breve residenza - che già era stata realizzata proprio a Bagnone per precedenti spettacoli - il debutto in cui il Teatro dell’Argine, la compagnia del narratore civile dalla grande forza espressiva, propone una concertata presa in giro di un parlamento (quello italiano) giunto ormai al limite del ridicolo. E così, ricordando i tempi in cui nell’Antica Grecia laparrhesia era un valore perché rendeva anche il politico più in vista suscettibile di giuste critiche da parte del popolo sovrano davanti a cui doveva rispondere del proprio operato, Mario Perrotta complice Aristofane mette in scena le “macchiette” della politica dei giorni d’oggi, un’improbabile Carfagna in piume di struzzo, un Bersani segno della vecchia RealPolitik, e un immortale Cavaliere. Il tutto musicato e cantato dal vivo da Mario Arcari e dagli attori della compagnia come nell’avanspettacolo e col sottofondo (esilarante e tragico insieme) di un’Italietta da quiz, da salotto televisivo filogovernativo, da giornali del gossip, mentre tutt’intorno “c’è la crisi, non si campa più con ‘sta crisi” come recita il tormentone dello spettacolo, “il mantra italiota che ci libera tutti, l'oppio contemporaneo di un popolo mai diventato nazione. E allora saranno scintille tra contendenti, musica oscena per rime triviali, intermezzi pubblicitari, gran varietà, cavalieri e macellai, e martellanti insofferenze da condominio”. Prima nazionale: 4 settembre a Andria, Castel dei Mondi Festival.
Un momento di grazia e di bellezza poi, l’appuntamento con la poesia di Cesare Pavese con l’omaggio di Fabrizio Gifuni accompagnato dalle note del pianoforte di Cesare Picco; il pubblico ha riempito all’inverosimile il convento del Carmine di Cerignano a Fivizzano nonostante una serata di burrasca.
CASTE’ARTE
Il piccolo borgo di Casté nell’entroterra spezzino, nel comune di Riccò del Golfo, superato il passo della Foce, con 23 residenti (qualcuno di più in estate) completamente recuperato e restaurato grazie ai fondi della Unione Europea, è diventato quest’estate, teatro di una serie di iniziative molto particolari tra arte, teatro, video e musica. Un paesaggio superbo nella Valle del fiume Vara con vecchie case in pietra squadrata e calce, “piazoeti” (terrazzi rialzati per l’essiccamento dei prodotti), e un solo ristorante a gestione familiare da cui è difficile andarsene, una volta preso possesso della terrazza con vista sulla vallata ricca di castagneti.
Mia nonna mi raccontava che veniva qua per la veglia natalizia, bruciavano un ceppo d’olivo e mangiavano pane, rape, castagne e pomi dolci.
Mauro Manco che ha una magnifica casa a Casté di sotto, con la complicità di Roberto Bertonati ha messo in piedi dopo una prima timida edizione lo scorso anno, una manifestazione di ampio respiro -con budget praticamente a zero - che ci auguriamo diventi un vero punto di riferimento per gli amanti dell’arte “off”. Ma se le risorse scarseggiano le idee non “mancano”: Mauro Manco, fotografo di professione e creativo a 360° (pittore, grafico, arredatore e installatore di opere ambientali) ha chiamato vari artisti locali e nazionali che un po’ a titolo di amicizia e un po’ come appoggio alla manifestazione, si sono prestati a portare le loro opere in dialogo con la natura e con il paesaggio rurale. La gente del paese ha dato un contributo concreto, mettendo a disposizione attrezzi, materiali, casolari, aree di proprietà privata per renderle disponibili a una funzione pubblica, per amore dell’arte. Così un piccolo borgo viene illuminato, si arricchisce di colori, di quadri, di sculture appese, di oggetti insoliti; le pareti di pietra sono usate come schermi di proiezione e le sedie per gli avventori sono quelle prestate dalle case. Si ascolta, si parla, ci si conosce e alla fine il paese offre al pubblico, gradito ospite, da bere e da mangiare: si beve da una chicchera vino appena spillato e si mangia su testi focaccia al rosmarino cotta al forno e salsiccia cruda.
Cito tra gli altri Mauro Melis, artista davvero insolito che unisce la passione per la vela (famosa la sua navigazione in solitario nell’Atlantico e le sue macchine per andare a vela nel deserto) con le originali opere-macchine a vento realizzate con materiali di recupero ispirate agli apparati e ai progetti di Leonardo e alle sculture di Caldér. Le sue opere hanno preso respiro e vita ondeggiando nella parte alta del paese, nelle corti, nelle antiche scale del paese, dentro le cantine ancora ingombre di botti e damigiane, di stoppe e di sugheri e trasudanti profumo di vino in un’operazione di installazione ambientale progettata sin nei minimi dettagli da Manco con un approccio intelligente e colto che ha reso questa piccola manifestazione degna dei migliori Festival e Parchi d’arte contemporanea.
Spettacoli teatrali (compagnia degli Evasi), letture (Elena Colucci), conferenze un po’ particolari (Pop porn con Giovanna Maina a cura di Roberto Bertonati), musiche (Gigi Cifarelli), installazioni fotografiche (Gianluca Ghinolfi), disegni a fumetti (Simone Lucchesi) e scultoree (Alessio Manfredi) e proiezioni video e live sonori (con Stefano Tedesco e Manuel Bozzo) hanno avuto luogo all’interno della corte Paganini nel cuore di Casté, un vero teatro naturale dove non c’è bisogno di amplificazione, la luce è quella della luna, e dove il pubblico, come nei tempi antichi, si raccoglie a cerchio a sentire storie.
Fino al cuore della rivolta (Fosdinovo)
Non poteva che essere il Museo della Resistenza di Fosdinovo (Ms) il luogo naturale per questa manifestazione che come recita il ben azzeccato titolo, propone anche in questa sesta edizione, una serie di appuntamenti di cultura resistente agli schemi dominanti: Maurizio Maggiani, Stefano “Cisco” Bellotti, Coro delle Mondine di Novi, Ascanio Celestini, Apuamater, Alessio Lega, Suonatori Terra Terra, Poeti in Ottava Rima, Simone Cristicchi, Coro dei Minatori di Santa Fiora, Marco Rovelli, Teatro Cooperativa, E Zèzi Gruppo Operaio, Blanca Teatro, Canzoniere della Rivolta, Claudio Cormio, Paolo Ciarchi, Nuovo Canzoniere Bresciano, Sandra Boninelli, Paolo Pietrangeli. Moltissimi anche i momenti di approfondimento e riflessione con Angelo D’Orsi, Cesare Bermani, Gabriele Polo, Gianfranco Azzali “Micio”, Giovanni Contini, Paolo Pezzino, Adriana Dadà, Paolo De Simonis, Stefano Arrighetti. Blanca teatro presenta Iltimido con Antonio Bertusi. Regia di Virginia Martini. Progetto per una pedagogia della Resistenza, dedicato alla figura umana e professionale di Gianni Rodari.
Organizzazione della manifestazione a cura dell’associazione Archivi della Resistenza in collaborazione con Istituto Ernesto De Martino, Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Lega di Cutura di Piadena, Circolo Gianni Bosio, Fondazione Ignazio Buttitta, Associazione Italiana di Storia Orale, Istituto Pedagogico della Resistenza, Istituto Alcide Cervi, Contatto Radio-Popolare Network, ARCI Carrara-Lunigiana, ANPI di Massa-Carrara e La Spezia.
Il Museo quest’anno a giugno, ha compiuto 10 anni nel mese in cui è morto la mente ispiratrice e il principale promotore del Museo, il partigiano Paolini Ranieri, figura leggendaria della Resistenza, commissario politico della Brigata Garibaldi "Ugo Muccini”; membro dell’organizzazione clandestina del Partito Comunista, condannato al carcere, contribuì in modo determinante alla Liberazione di Sarzana, cittadina di cui è stato sindaco per 25 anni. Il Museo è stato progettato secondo modalità interattiva da Studio Azzurro e realizzato tra gli altri proprio dal nipote dell’ex partigiano, Paolo Ranieri oggi fondatore di N03! Ed è stato uno dei primi esempi italiani di musei interattivi, in seguito al quale si è generato un interesse sempre crescente nell’ambito delle amministrazioni, a progettare allestimenti museali multimediali. La memoria della Resistenza all’interno del Museo viene ben rappresentata dai volti, dalle parole, dai luoghi, dalle testimonianze, dalle vicende della Grande Storia insieme a quella quotidiana dei piccoli borghi contadini tra la Liguria e la Toscana. Un lavoro eccellente sul piano del rilievo storico, e pregnante sul piano dell’emozione che suscita. L’interattività rimanda ai gesti della memoria: quelli dello sfogliare un album di fotografie, o un giornale, quello di ascoltare i racconti degli anziani che avevano vissuto la guerra e avevano combattuto affinché fosse fondata la nostra Repubblica e la nostra Costituzione. Da qui la necessità di rinvigorire la memoria e tenerla viva e attuale portando al museo - che è decentrato come lo erano le colonie partigiane - giovani e giovanissimi per eventi da vivere collettivamente, per non dimenticare. Bravissimi gli organizzatori che uniscono la cultura del popolo al linguaggio dell’arte e del teatro civile, della musica impegnata e di “resistenza”, dandogli un senso qui e ora.
Il naufragio della speranza Jules Verne secondo Ariane Mnouchkine nel nuovo spettacolo del Théâtre du Soleil di Laura Caretti
Un’isola tra le tante dell’arcipelago all’estremo sud della Terra del Fuoco, il naufragio su quelle rive di una nave carica di emigranti e la nascita di una colonia ideale sotto la guida di un personaggio misterioso, fuggito alle costrizioni della civiltà e da allora dedito alla difesa della popolazione indigena. Poi, con la scoperta dell’oro, la disgregazione violenta di quella microsocietà pacifica: un’utopia mutata in distopia, ma non del tutto perduta e simbolicamente difesa dal baluardo di un faro acceso nel mare in tempesta. Questa, in sintesi, la storia narrata da Jules Verne nel suo romanzo, Les naufragés du “Jonathan” - edito postumo, dal figlio, nel 1909, ripubblicato ora nella sua veste originaria col titolo En Magellanie - un’avventura ai confini del mondo che nel protagonista misterioso adombra la figura leggendaria di Jean Orth, ovvero Johan d’Asburgo Lorena, erede del trono di Ungheria, uscito dalla scena politica dopo la morte del cugino Rodolfo a Mayerling, da allora dato per disperso in un naufragio e ritrovato, si dice, in Patagonia.
Di qui, da questa fonte narrativa lontana nel tempo, la compagnia del Théâtre du Soleil ha tratto spunto per una creazione collettiva - dal titolo emblematico, Les Naufragés du Fol Espoir - che, con straordinaria libertà d’invenzione, mette di fatto in scena speranze e naufragi della nostra storia. Ideato e diretto da Ariane Mnouchkine con un prodigioso ensemble di attori-autori, in parte coadiuvati nella scrittura drammaturgica da Hélène Cixous, lo spettacolo è il risultato di un intenso lavoro corale durato quasi un anno. “Siamo rimasti tutti sorpresi quando Ariane ci ha dato da leggere il romanzo di Jules Verne”, mi dice Duccio Bellugi-Vannuccini, l’attore toscano, mimo e ballerino, che da anni partecipa alla creazione degli spettacoli del Soleil. “Ariane stava in realtà pensando di fare uno Shakespeare, ma quel libro, trovato su una bancarella, aveva cambiato di colpo il suo progetto. Attraverso quell’avventura che parlava del tentativo di costruire una società ideale, di fondare cioè l’utopia, aveva capito che si poteva raccontare quello che non riusciva a dire con Shakespeare. E poi quella storia si poteva modellare… così sono iniziate le prove e le nostre proposte di scene e personaggi.”
Questo eccezionale modo di sceneggiare il romanzo e di comporre, soprattutto attraverso le improvvisazioni, il nuovo testo teatrale, ha messo così in atto un sorprendente processo di “rimodellamento” della storia e dell’immaginario del romanzo, mirabilmente proiettato, nella messinscena del Théâtre du Soleil, all’interno di una cornice realistica e metateatrale.
Il paesaggio remoto di Jules Verne, sferzato dal vento e da folate di neve, terra di rapina ma anche di salvezza e di utopia, è ricreato, infatti, nello spazio chiuso di una grande soffitta trasformata in “teatro di posa” da una troupe cinematografica dei primi decenni del Novecento.
Non siamo dunque in Patagonia, quando lo spettacolo, inizia, ma in Francia sulle rive della Marna in uno di quei locali, fuori Parigi, che il cinema ci ha fatto conoscere, dove si mangia e soprattutto si balla. Qui, nella guinguette “Au Fol Espoir” si sono rifugiati alcuni cineasti, venuti via dalla potente casa cinematografica Pathé per tener fede a un programma di film d’arte e di impegno sociale per un pubblico popolare. Naufraghi dunque anche loro di un mondo che sta puntando su forme sempre più commerciali di divertimento, sono stati accolti generosamente dal proprietario del locale Félix Courage. Possono così realizzare il loro progetto di trarre dal romanzo di Jules Verne un film che (nelle intenzioni del regista Jean LaPalette, di sua sorella Gabrielle e del loro amico Tommaso) metta in luce gli ideali socialisti di una nuova società a contrasto con la violenza della corsa all’oro e della conquista coloniale.
L’invenzione da parte della Compagnia del Théâtre du Soleil di questo alter ego cinematografico genera un gioco continuo, spesso anche ironico, di proiezioni di sé e del proprio modo di fare teatro, permette di creare un doppio registro di recitazione e un doppio piano temporale. E noi spettatori vediamo, sul palcoscenico della Cartoucherie trasformato nella soffitta del “Fol Espoir”, questa troupe al lavoro: assistiamo all’allestimento ‘a vista’ delle singole scene (una delle costanti del Soleil negli ultimi spettacoli), qui addirittura mostrate nel loro farsi: con gli scenografi che rapidissimi approntano le quinte, i tecnici che creano l’illusione del vento, del mare in tempesta e dei turbini di neve, la musica (una eccezionale colonna sonora composta da Jean-Jacques Lemaître) che suggerisce l’atmosfera spaziale ed emotiva, e con gli attori (un cast eterogeneo che accoglie anche camerieri e cuochi del “Fol Espoir”) che, nel momento in cui “si gira la manovella” entrano in azione, e non sono sempre fedeli alle indicazioni registiche di Jean LaPalette, costretto ad accettare i cambiamenti e le invenzioni della loro scrittura scenica.
Insomma nello spettacolo seguiamo le riprese di questo film che ci riporta indietro agli anni del cinema muto, in un arco di tempo preciso, scandito giorno per giorno tra il 28 giugno e il 31 luglio del 1914. Così mentre i “quadri” dell’avventura ottocentesca nei mari del Sud, raccontata da Jules Verne, si animano su quell’improvvisato set cinematografico, gli attori entrano ed escono dai loro ruoli, ritornano nel presente di quel momento cruciale per la storia d’Europa, compreso tra due eventi cruenti: l’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria e l’assassinio a Parigi del socialista Jean Jaurès, leader del movimento pacifista. Le notizie degli avvenimenti di quel mese, in cui, con lo scoppio della guerra, naufragano le speranze di creare una nuova “umanità” internazionale, arrivano nel chiuso della soffitta, portate dai giornali. La lettura dell “Humanité” e dell’“Homme Enchainé” suscita ora speranze, ora timori, provoca la discussione degli attori su come reagire: se andare fuori a combattere o se (come sostiene il regista Jean LaPalette) continuare a lottare con i mezzi della propria arte.
I due piani della finzione cinematografica e della realtà storica si intersecano in un rapido susseguirsi di contrasti e rispecchiamenti che costituiscono la parte più originale del tessuto drammaturgico dello spettacolo. Fin dall’inizio, infatti, la prima ripresa del film fa da antefatto alla biografia immaginaria di Jean Orth, ma svela, nello stesso tempo, l’azione cruenta di forze segrete decise a sopprimere ogni tentativo di cambiamento nella politica dell’Impero austro-ungarico. Si anticipano così, già alla fine dell’Ottocento, le tensioni che porteranno al futuro conflitto mondiale. Tutto inizia infatti a Meyerling, nel 1889. Una semplice quinta di legno suggerisce un interno e la balaustra di un balcone del casino di caccia degli Asburgo. Rodolfo e il cugino Johan si apprestano a dar voce, in un manifesto scritto, al loro sogno di un’Europa che affermi e consenta tutte le liberà di pensiero, di stampa, di religione, che dia educazione a tutti, che rinunci alla conquista coloniale, che si opponga al pangermanismo militare in nome di un’unione dei singoli stati. E’ una splendida sera carica di “folli speranze”, a cui segue improvviso, come il lampo di un’imminente tempesta, l’assassinio di Rodolfo e della sua amante, camuffato, da figure sinistre, in un suicidio amoroso.
E’ solo il primo episodio, ma ha già in sé il nucleo dinamico intorno a cui ruota tutto lo spettacolo, drammaticamente teso tra i due poli dell’utopia e della distopia. In quella fine dell’Ottocento che guarda con slancio verso il nuovo secolo, si scoprono così le radici del nostro tempo, eredi come siamo ancora oggi della energia propulsiva di quelle grandi speranze, ma anche dei pericoli del loro naufragio. E ha ragione Ariane Mnouchkine a dire che questa visione non è pessimista, ma cosciente degli ostacoli e dei venti contrari che i sogni, nel loro viaggio, devono affrontare perché possano realizzarsi. Quei sogni che, come diceva Martin Luther King, possono cambiare il mondo. Alla fine, la costruzione del faro che chiude lo spettacolo appartiene sì al romanzo di Jules Verne e all’ultimo “quadro” del film, ma è anche la luminosa metafora di una forza di resistenza, di una irriducibile fiducia che si possano salvare, nella tempesta, i naviganti della “folle speranza”.
Les Naufragés du Fol Espoir (Aurores)
Une création collective du Théâtre du Soleil, mi-écrite par Heléne Cixous sur une proposition d’Ariane Mnouchkine, librément inspirée d’un mystérieux roman posthume de Jules Verne.
Ideazione e regia di Ariane Mnouchkine, scenografia: Everest Canto de Monserrat e Serge Nicolai; colonna sonora composta da Jean-Jacques Lemaître; luci di Elsa Revol; costumi di Nathalie Thomas, Marie-Hélène Bouvet e Annie Tran.
Hanno inoltre collaborato alla messinscena : Eve Doe-Bruce ,Juliana Carneiro da Cunha, Astrid Grant, Maurice Durozier, Duccio Bellugi-Vannuccini, Serge Nicolai, Sebastien Brottet-Michel, Charles-Henri Bradier e molti altri attori e attrici della compagnia.
Interpreti in una molteplicità di ruoli:
Attrici: Eve Doe-Bruce, Juliana Carneiro da Cunha, Astrid Grant, Olivia Corsini, Paula Giusti,
Alice Millequant, Dominique Jambert, Pauline Poignand, Marjolaine Larranaga y Ausin,
Ana Amelia Dosse, Judit Jancso, Aline Borsari, Frédérique Voruz, Shaghayegh Beheshti
Attori: Maurice Durozier, Duccio Bellugi-Vannuccini, Serge Nicolaï, Sebastien Brottet-Michel, Sylvain Jailloux, Andreas Simma, Seear Kohi, Armand Sarybekyan, Vyayan Panikkaveettil,
Samir Abdul Jabbar Saed, Vincent Mangado, Sébastien Bonneau, Maiscence Bauduin,
Jean-Sébastien Merle, Seietsu Onochi
Nota: Lo spettacolo, andato in scena a Parigi alla Cartoucherie di Vincennes a gennaio 2010, ha chiuso le rappresentazioni il 10 giugno per riprenderle il 15 settembre fino al 31 dicembre 2010.
Il bando per la gestione del Teatro Studio di Scandicci Scadenza: 25 ottobre di Scandicci Cultura/Comune di Scandicci
Bando di gara. Procedura aperta per la concessione del Teatro Studio di Scandicci (FIRENZE) per la realizzazione di un progetto artistico per il triennio 2011/2013
Scandicci Cultura, l'Istituzione del Comune per la gestione dei servizi culturali di Scandicci, intende concedere la gestione artistico/gestionale del Teatro Studio al soggetto che presenterà la migliore offerta tecnico/economica sulla base di una serie di parametri di valutazione indicati dal disciplinare di gara. Il canone di concessione per il triennio 2011/13 (con possibilità di proroga/rinnovo per un ultreriore anno agli stessi patti e condizioni) è di € 60mila (iva esclusa). Per la realizzazione del progetto presentato dal soggetto risultato vincitore sarà assegnato un contributo annuo di € 130mila.
La scadenza per la presentazione delle domande di partecipazione è fissata alle ore 12 del 25 ottobre 2010.
Info: Tel. 055.7591 587/ 588 e documenti su e su .
Una comunità aperta per l’innovazione: B. Motion al Festival Operaestate di Bassano del Grappa (Vi) Incontro delle realtà della scena contemporanea (2 – 4 settembre 2010) di Filomena Spolaor
Da giovedì 2 a sabato 4 settembre, l’Operaestate Festival Veneto di Bassano del Grappa (VI) ha ospitato, all’interno della sezione B-Motion dedicata alle giovani compagnie del teatro e della danza, l’incontro nazionale delle realtà della scena contemporanea italiana.
Il convegno, a cui sono intervenuti oltre ottanta fra giornalisti, curatori teatrali e direttori di festival e spazi culturali è stata la tappa finale di un progetto nato dal convegno “Vietato parlare dell’aurora. Proposte concrete per il lavoro delle giovani compagnie italiane e dei teatri e festival che le programmano”, che si era tenuto a Sansepolcro nel luglio del 2009 nell’ambito del Kilowatt Festival, e sviluppato come un progetto di proposte concrete per il lavoro delle giovani compagnie italiane, e dei teatri e dei festival che le programmano. Un team di operatori italiani attivi sul territorio nazionale si è confrontato nel corso dell’anno per studiare la struttura su cui poggia il sistema culturale italiano, elaborando delle proposte concrete di riforma dello spettacolo dal vivo, in particolare riferito alla contemporaneità.
A Bassano del Grappa si sono trovati a discutere operatori teatrali di festival ormai consolidati, come M. Settembri di Fabbrica Europa Festival o S. Bottiroli del Festival di Santarcangelo, accanto a programmatori di teatri, spazi, residenze, rassegne e festival di tutta Italia (dal Piemonte, diversi gruppi milanesi come Le Moire, dal Friuli il CSS, dal Veneto organizzatori quali A. Varvarà di Questa nave di Marghera, L. Mangheras del Tib di Belluno, C. Palumbo di Echidna, il TAM di Padova, dalla Toscana E. Donatini del Metastasio di Prato, insieme a diverse realtà che operano a Roma, Livorno, Rimini, Napoli e Palermo). Ricci si è fatto promotore del percorso che da Sansepolcro ha portato a Bassano, ovvero alla stesura di un manifesto per un coordinamento delle realtà della scena contemporanea italiana. Questo documento è uno sguardo sul panorama nazionale, che ha visto nascere luoghi che non sono incubatori di eventi singoli, ma “nati per essere attraversati”, come sale cittadine, paesi di provincia, festival, rassegne, centri sociali, scuole, una costellazione di luoghi non esclusivamente teatrali.
L’idea di Sansepolcro di dare vita a una progettualità condivisa si è concretizzata nella fondazione di un coordinamento nazionale, in cui si possano riconoscere tutte le realtà della scena contemporanea che fanno programmazione teatrale e culturale. L’identità di questo organismo, come ha specificato Ricci, parte dalla consapevolezza che le nuove generazioni hanno in mano il cambiamento, e si devono creare un sistema flessibile e pluralista.
La riflessione di Bassano del Grappa ha coinvolto anche i critici, e l’anno prossimo si aprirà anche alle compagnie, in modo da strutturare un meccanismo nazionale. La rivendicazione di un sistema poetico e di un sistema politico con cui il team di operatori ha lavorato, oltre a lamentare la drammatica mancanza di risorse e le “cattive pratiche” che determina, ha riempito di nuove esperienze alcune delle tracce lasciate dalla definizione che quarant’anni fa si diede del “nuovo teatro”. Ricci ha ricordato che questa identità era nata nel 1967, in occasione del Convegno di Ivrea; dieci anni dopo a Casciana Terme si erano posti i fermenti per la creazione dei Teatri Stabili d’Innovazione; e nel 1987, in occasione del secondo Ivrea, G. Capitta, O. Ponte di Pino e G. Manzella, elaborarono un documento (“Ivrea 87. Realtà e utopie. Intorno al “nuovo teatro”) contro la trappola delle istituzioni corrotte, in cui si era ritrovata, vent’anni dopo, quella che era stata una spinta eversiva, strozzata nella programmazione e nella distribuzione, ancora monopolizzata dagli stabili.
Il Manifesto redatto a Bassano del Grappa contiene i principi identitari per un coordinamento delle realtà del contemporaneo, che sono, secondo Ricci, delle identità ibride, mischiate come compagnie in una stessa giungla. Il Manifesto si apre così:
“Siamo realtà che lavorano nella produzione e nella diffusione della scena contemporanea. Siamo le compagnie di produzione, le sale, i teatri, le residenze, i festival e le rassegne, diffusi e operativi su tutto il territorio nazionale. Siamo organismi ibridi e difformi tra loro per dimensioni ed espressioni poetiche, che hanno definito le proprie identità nelle pratiche di lavoro, con azioni spesso autonome, altre volte sviluppate in contatto con le istituzioni.”
Il Manifesto esamina le condizioni in cui è stata lasciata la scena contemporanea, di cui si è molto discusso in queste giornate: precariato, lavoro sommerso, volontariato. La creatività si pone come condizione della valorizzazione di esperienze produttive innovative e dinamiche, all’interno di un meccanismo che non può più essere bloccato dal sistema di finanziamento statale regolamentato dal Fus.
“Per attivare questo processo di rinnovamento, per un’evoluzione del sistema nazionale e dei sistemi locali del teatro, della danza e della performing art, nasce il Coordinamento delle realtà della scena contemporanea (C. Re.S.Co) che lavora affinché venga riconosciuto lo specifico di artisti e operatori che si occupano di contemporaneità.”
Ricci ha sottolineato che è necessario che il pubblico capisca che cosa significa contemporaneo, che lo riconosca attraverso l’assunzione di una responsabilità sociale. “C.Re.S.Co è rete e modalità d’azione, crea azioni condivise”, ha spiegato R. Nicolai, coordinatrice del progetto e direttrice artistica di Teatri di Vetro (Roma), esprimendo inoltre la necessità dell’appropriazione di spazi che siano il luogo di una conoscenza reciproca; questo, oltre a imporre una logica d’azione, dovrebbe essere favorito da politiche regionali che appoggino il teatro. L’esistenza di una solida aggregazione permette di attraversare tracce di lavoro, bozze di un sistema con gli enti locali, regionali, nazionali, internazionali, perché il cambiamento dovrebbe trasformare anche le realtà più costrette a fare i conti della politica, come al Sud. Significative le testimonianze di G. Cutino, direttore della compagnia M’Arte-Movimenti d’Arte di Palermo, che ha dolorosamente confessato che gli enti locali hanno tolto i finanziamenti a una rassegna di teatro contemporaneo da lui diretta ad Alcamo; e di L. Mattioli, direttore del festival Esterni a Terni, che ha denunciato la soppressione di uno spazio teatrale a causa dell’insediamento di una scuola di Intelligence. L’unione di intenti, ha precisato anche A. Ferraro di Attraversamenti Multipli di Roma, deve costruire la sua forza sul coordinamento nazionale, e deve determinare un riconoscimento da parte delle istituzioni come prodotto di modalità autoperative.
Nella seconda giornata del convegno sono intervenuti alcuni esperti di economia dello spettacolo, come D. D’Antonio (di Teatro Inverso di Brescia) e G. Berardino (coordinatore di Festival Voci di Fonte di Siena), per mettere a punto una proposta per l’aggiornamento del sistema dei finanziamenti sul territorio nazionale e su quelli regionali. Sul piano dei principi legislativi, negli ultimi anni si è andato modificando il quadro territoriale, a seguito di nuove leggi regionali in materia di spettacolo dal vivo, mentre il panorama nazionale (se si esclude l’emanazione di alcuni decreti e regolamenti ministeriali) attende, dopo l’elaborazione di diverse proposte di legge espresse dal Parlamento, la prima legge nazionale di sistema. Berardino ha inquadrato il tema finanziario parlando di un mercato regolamentato sul rapporto tra domanda (il pubblico) e l’offerta (i creatori) come base per ricompattare le risorse: il dilemma dell’offerta e del gradimento può essere attutito attraverso una democratizzazione del mercato, e l’aumento del pubblico è il solo fattore che può generare un aumento delle risorse nel settore. D’Antonio ha presentato uno studio sui lavoratori dello spettacolo in quattro regioni campione (Lombardia, Toscana, Lazio, Campania), utilizzando i documenti delle leggi-quadro regionali e le analisi del Fus, i dati Siae e quelli degli Osservatori; comparandoli con i dati dell’insieme delle regioni, emergono le disparità legislative e di spesa (in Toscana si spendono 7 milioni di euro per le attività performative, in Lombardia un milione). Secondo C.Re.S.Co., è necessario vigilare sulla trasparenza degli atti normativi emanati dagli Enti regionali, dove ci sono ancora ampi spazi di arbitrarietà. Vanno dunque regolati con iniziative legislative ispirate alla trasparenza le attività intraprese direttamente dalle Regioni e dai grandi Comuni, come il sostegno ai circuiti teatrali; ma anche i progetti di promozione gestiti dalle società partecipate, i cui parametri di accesso ai finanziamenti non sono chiaramente definiti, e le attività finanziate non sempre monitorate. In secondo luogo, è indispensabile rafforzate le attività degli Osservatori, che in alcune regioni non sono presenti.
Tendenze pericolose in atto sono, secondo i relatori, l’accorpamento degli assessorati alla cultura con altri assessorati e la gestione diretta da parte delle regioni dei propri partner dei progetti. L’accessibilità ai dati, ha notato D’Antonio, è un altro problema, perché la metà delle regioni italiane non pubblica i dati delle risorse destinate al settore dello spettacolo dal vivo, se non sulle gazzette ufficiali, e comunque in maniera disomogenea. Inoltre, sia sui versanti regionali sia su quello nazionale, è necessario individuare pratiche che affranchino il settore dello spettacolo dal vivo dalla consuetudine delle sovvenzioni basate sul contributo storico e a fondo perduto, e che introducano degli elementi di dinamicità: esistono di fatto barriere che impediscono l’entrata di nuovi possibili soggetti, anche se non si può pensare che iniziative qualificate non si vedano più garantita una base di finanziamento che permetta una progettazione di respiro almeno triennale. Berardino ha sostenuto con forza l’abbattimento delle rendite di posizione per rendere il mercato accessibile, e ha rivendicato la salvaguardia dei lavoratori attraverso il rafforzamento del sistema di valutazione. Alla domanda se esistano meccanismi che potrebbero sostenere l’intero settore, in maniera diffusa e capillare, ha suggerito di adottare forme di finanziamento indiretto, come la defiscalizzazione (come l’abbattimento delle aliquote Irpef o l’esenzione ai fini Iva), gli incentivi a fini previdenziali, la deducibilità di determinate spese proprie all’attività caratteristica dello spettacolo (trasporti, autostrade, noleggi, attività di service). Questo porterebbe a un abbattimento dei costi di produzione, che avrebbero sui bilanci delle imprese culturali lo stesso impatto di una sovvenzione, con la differenza che oltre a essere un’opportunità disponibile per tutti, l’entità del beneficio andrebbe a legarsi direttamente alla maggiore o minore capacità del soggetto di essere attivo/produttivo, senza affidarsi ai soli parametri delle giornate Enpals e dei borderò Siae, più o meno virtuali. La rigorosa attività di monitoraggio sui soggetti finanziati dovrebbe essere affidata a commissioni di esperti qualificati, con autonomia dalla politica.
Inoltre il rapporto tra pubblico e privato appare poco trasparente, anche perché negli ultimi vent’anni sono nate strutture private con obiettivi pubblici: si è dunque proposto di separare meglio il pubblico dal privato, e di studiare il sistema francese, strutturato in stabili composti da competenze professionali diversificate (c’è chi si occupa di nomine, chi si dedica alla scelta della drammaturgia – e vien da pensare a quell’anomalia italiana, per ricordare Meldolesi, costituita dal vuoto culturale di una figura come quella del dramaturg -, al settore della danza, eccetera) e alimentato da finanziamenti ministeriali, e il sistema inglese dell’Arts Council, strutturato in commissioni ministeriali regionali. Per far crescere la dinamicità di mercato, i soggetti privati non dovrebbero fare riferimento al Ministero, ma ad ambiti territoriali magari organizzati in macroaree (regionali o interregionali), che lavorano in concertazione con le Regioni. Alle realtà private più importanti e storicizzate si potrebbe riconoscere un finanziamento in base alla loro progettualità, con sostegno biennale, o meglio ancora triennale.
L’accesso alla progettualità biennale o triennale dovrebbe rimanere aperto anche a nuove realtà, che dimostrano di saper realizzare progetti innovativi. Chi e come dovrebbe assegnare tali contributi? Sarebbe auspicabile, si è detto, la formazione di comitati tecnico-artistici, caratterizzati dalla professionalità dei componenti e dalla qualificata pluralità di punti di vista presenti all’interno dei comitati (un economista, un tecnico, un critico, eccetera); le sedute di valutazione dovrebbero essere pubbliche; e le modalità di accesso ai finanziamenti e le verifiche dovrebbero essere trasparenti e sempre pubbliche; anche le linee strategiche locali (in corrispondenza a quelle nazionali) dovrebbero essere rese pubbliche e resare attive per la durata di 2-3 anni; il criterio di storicità non dovrebbe essere considerato determinante al fine della concessione del finanziamento legato alla progettualità, ma sarebbero da considerarsi essenziali gli obiettivi del progetto, nonché la coerenza e la sostenibilità, anche in rapporto alle dinamiche di sviluppo del territorio. Infine, la dinamicità del sistema dovrebbe essere garantita anche all’adeguamento delle nuove forme produttive messe in atto sia dalle compagnie sia dagli operatori.
I nuovi “agevolatori” delle produzioni, che il meccanismo esistente non è in grado di fotografare, sono i festival e le residenze di produzione. Sarebbe necessario adeguare i parametri di valutazione dei progetti, in campo sia nazionale sia regionale, entrambi legati alla distinzione in antichi generi (prosa, balletto…), in borderò e giornate lavorative. Per innescare la dinamicità del sistema sarebbe inoltre opportuno identificare una forma giuridica adeguata per le compagnie teatrali. Le compagnie (associazioni culturali e cooperative) possono essere riconosciute come imprese a patto che siano inquadrate in un modello specifico di “impresa culturale”, le cui caratteristiche e funzionalità sono ancora tutte da delineare con appositi studi di settore, ma che riconoscano almeno la natura lavorativa atipica e intermittente non solo dei dipendenti, ma anche delle imprese. Si è proposto un sistema costituito da pochi stabili pubblici (incaricati di incentivare la rete dei rapporti internazionali); e per il resto di operare con strutture che lavorino territorialmente. I festival diffusi e le residenze adempiono oggi funzioni che sarebbero quelle dei soggetti previsti dalla normativa; le produzioni oggi si sono fatte più complesse: non richiedono più un mese o più di tempo continuato, ma una settimana, e poi il lavoro si interrompe per un periodo variabile, e non ci sono leggi che riconoscono queste nuove modalità produttive.
Al centro della seconda giornata del convegno c’è stato il riconoscimento normativo della natura atipica del lavoratore dello spettacolo. La relazione su questa spina nel fianco è stata affidata a due consulenti della Fondazione Fitzcarraldo, U. Bacchella e L. Carnelli. La nuova struttura di C. Re.S.Co (Coordinamento delle realtà della scena contemporanea) ha infatti proposto alla Fondazione torinese di compiere uno studio scientifico sulla natura atipica e precaria dell’attività del lavoratore dello spettacolo dal vivo. Ricci ha spiegato che il convegno di Sansepolcro del luglio 2009 fissava tra gli obiettivi di un futuro Coordinamento delle realtà della scena contemporanea la difesa dei diritti dei lavoratori dello spettacolo e della loro dignità professionale. Durante i dodici mesi di lavoro che hanno portato alla definizione del programma di Bassano del Grappa, gli organizzatori si sono resi conto che nessuna tutela degli operatori dello spettacolo può prescindere da una definizione dei diversi profili di attori, danzatori, tecnici, organizzativi, amministrativi, eccetera, in modo da evidenziare modalità, tempi e condizioni di lavoro. È stato osservato che i dati forniti dall’ Enpals non sono attendibili, in quanto “le retribuzioni e giornate contributive dichiarate possono essere sovrastimate poiché alcune compagnie e alcuni gestori, che hanno fondi limitati, spesso pagano soltanto i contributi ai propri collaboratori, mentre la paga può essere un forfait inferiore a quello dichiarato; le retribuzioni e giornate contributive dichiarate possono essere sottostimate in quanto i dati Enpals non fanno emeregere un vasto insieme di lavoratori realmente occupati, ma pagati in nero, o non pagati”. Pertanto, in accordo con la Fondazione Fitzcarraldo, si sta sviluppando un questionario da sottoporre ad artisti e operatori culturali che condividono le finalità del C.Re.S.Co, in modo che questo sia diffuso tra i lavoratori, le imprese di produzione e i gestori di spazi e di festival, per raccogliere sul campo i dati dagli operatori che lavorano nel settore. Una volta elaborati i dati, si proporranno a referenti istituzionali (a partire dalle Commissioni Lavoro dei due rami del Parlamento), per supportare una richiesta concreta di presa in carico delle condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo, in vista di una complessiva riforma nazionale degli armonizzatori sociali.
Ugo Bacchella ha spiegato che la ricerca della Fondazione si pone come una “documentazione attraverso la costruzione di ponti”. Fiztcarraldo, ha precisato, è posta all’attenzione sia di pubblici che privati, ed è disposta a circoscrivere un panorama dello spettacolo dal vivo, tenendo presente che oggi in Italia il peso del teatro di ricerca è irrilevante, e che l’indifferenza istituzionale verso questo settore ripropone il problema del riconoscimento del teatro nell’istituzione pubblica. E’ necessario coinvolgere le organizzazioni sociali e non profit, e le Fondazioni di origine bancaria. Rilevante l’esperienza della Cariplo, che dopo aver dato contributi dal teatro istituzionale ha iniziato a sostenere il teatro indipendente e le residenze.
La ricerca (“Progetto di ricerca che studi il profilo del lavoratore dello spettacolo, con l’obiettivo di medio-termine di vederne riconosciute dal legislatore le specificità e le caratteristiche”) dovrebbe dunque definire i profili dei lavoratori dello spettacolo, facendone emergere modalità, tempi e condizioni di lavoro; evidenziare le peculiarità lavorative, contributive, previdenziali e assicurative dei diversi addetti allo spettacolo, rimarcando le peculiarità e differenze a seconda dei settori di impiego – cinema, musica, lirica, teatro, teatro di strada, danza, eccetera – ma anche la tipologia di mansioni – tecniche, artistiche, amministrative, organizzative, con attenzione all’ambito della contemporaneità; evidenziare gli indotti occupazionali dell’intero comparto. La ricerca vuole offrire un panorama completo e rappresentativo del settore dello spettacolo
Luisella Carnelli ha spiegato il metodo di indagine, basato su un campione di riferimento su imprese di produzione, organizzazione e distribuzione da una parte, e sul lavoratore dello spettacolo dall’altra, da intercettare attraverso un questionario on-line sulle modalità lavorative (lavoratori retribuiti a giornata o a carattere forfettario, collaborazione a progetto o “lavoratore volontario coatto” - tenendo presente anche i dati Enpals, dei lavoratori registrati e dei full time equivalent), specificando che l’impresa dello spettacolo coinvolge anche il settore del facchinaggio e gli elettricisti, e dunque intrecciare i dati anche delle società di service (che sono iscritti INPS possono avere partita IVA).
La giornata è proseguita con la discussione dei temi trattati in cinque tavoli di lavoro, ai quali hanno partecipato, oltre agli operatori culturali anche i critici (di diverse provenienze, come R. Rizzente della rivista “Hystrio”, ma anche numerosi critici di testate on-line). I gruppi si sono poi confrontati in seduta plenaria e hanno aderito ai contenuti del manifesto, ma è stata proprio la questione della funzione della critica ad accendere il dibattito. Alla fine, ha prevalso la posizione di Valeria Ottolenghi: non schierare i critici all’interno del coordinamento, ma in funzione di fiancheggiatori.
Nella terza giornata si è discusso dell’assunzione di responsabilità da parte dei programmatori e curatori della scena contemporanea italiana. D. Nubile, direttore di Campo Teatrale di Milano, ha espresso il timore dei programmatori teatrali di proporre uno spettacolo che non sia come il precedente, e le difficoltà di comunicazione e organizzazione di fronte agli spettacoli “di moda”. L’obiettivo è promuovere un maggior rispetto del lavoro delle compagnie, favorire la valorizzazione dei nuovi talenti e di sostenere un “patto tra generazioni”. L’etica su cui basare una piattaforma progettuale è un linguaggio portatore di pensiero, speranza, sogno. I principi da condividere riguardano la creazione di contesti di sviluppo della scena contemporanea, spazi aperti al rapporto con le comunità e le aree geografiche in cui si opera, in dialogo con il territorio e in relazione con la scena nazionale e internazionale; il pubblico come orizzonte necessario all’azione culturale (attraverso modalità di ascolto, proposta, coinvolgimento), e un’assunzione di responsabilità verso gli artisti che Tiziano Panici di Teatro Argot di Roma ha posto come un codice deontologico di una professione a servizio della società. Sono stati suggeriti semplici accorgimenti pratici,: modalità di rapporto trasparenti con le compagnie (per esempio indicando nella propria comunicazione il nome del responsabile della progettazione, per chiarezza nei tempi di invio del materiale in vista dell’accettazione della proposta); i responsabili della programmazione si impegnano ad aprire un confronto critico con le compagnie; i responsabili amministrativi si impegnano a riconoscere alle compagnie il rispetto del lavoro (le condizioni di ospitalità offerte, i cachet pattuiti); i responsabili delle produzioni delle strutture si impegnano a far si che le proprie produzioni non riempiano il cartellone in maniera invasiva, e a non alimentare una “politica dello scambio”. Si è sancita la salvaguardia (nel caso di finanziamenti pubblici) di una quota da destinare al budget artistico per attivare progetti di ospitalità e lavoro con compagnie; per favorire forme di collaborazione, co-produzione e relazione con altre realtà; il rischio di impresa; e altre proposte come la promozione a carico della struttura ospitante, l’Enpals a carico delle compagnie, la garanzia di un tecnico per il periodo di montaggio e smontaggio. A. Riitano di Eruzioni Festival di Napoli ha cercato di definire la struttura operativa di un coordinamento delle realtà del contemporaneo insieme a Elena Lamberti, organizzatrice teatrale e coordinatrice di C.Re.S.Co. Si è stabilito che il Coordinamento si costituisca come “Comitato di scopo” (da convocare una volta all’anno come Assemblea generale e almeno 4-5 volte all’anno come Consiglio direttivo), la dotazione di un fondo economico e l’elezione di un Presidente. Dopo una votazione per alzata di mano, la figura rappresentativa riconosciuta come Presidente di C.Re.S.Co è stata quella di Luca Ricci. Accanto a questi aspetti normativi, significativi sono stati gli interventi mirati a cercare di definire una poetica sociale del comitato. Fabio Biondi, direttore del Centro l’ Arboreto di Mondaino, ha legato l’operatività al percepirsi come comunità che si pone nuove sfide culturali, che difende le fragilità e che si nutre del dono reciproco. Rodolfo Sacchettini ha sottolineato le responsabilità culturale dell’operatore teatrale come mediatore, come sponda con le istituzioni e “di fronte a politici che scippano le parole prodotte dall’area”; la critica, ha sottolineato, non è più un punto di riferimento perché non parla con gli artisti, ma con gli operatori (e questo è stato anche il ruolo che lui ha svolto durante il Festival di Santarcangelo come coordinatore critico, attento alla relazione da costruire con il territorio). In questo tempo di mediatori, rimangono comunque rapporti di ascolto. Nel pomeriggio si è votato lo statuto del comitato, si sono definiti l’apertura di un sito web e il prossimo appuntamento di fine novembre.
Un'estetica dell'ambivalenza Masbedo dal video al teatro (e viceversa) di Anna Maria Monteverdi
Era il 2007 quando ho visto per la prima volta un lavoro video dei Masbedo; fu piuttosto spontaneo e credo, per nulla azzardato, l’accostamento a Bill Viola, il più grande video maker di tutti i tempi, colui che ha dato al video un’anima spirituale.
10 insects to feed
Era a Prato, al Museo d’arte contemporanea “Luigi Pecci” in occasione della mostra “Nessuna paura”; mi colpì molto la modalità e la dimensione della loro installazione dal titolo 10 insects to feed (la multivisione, con tre pannelli incorniciati a formare un trittico di gigantesche proporzioni), la perfezione tecnica (la qualità della fotografia, la luce, le campiture cromatiche degli abiti, la scelta cinematografica delle inquadrature e delle immagini), e non ultima, l’interpretazione degli attori basata un’improvvisazione fisica estrema a raccontare panico improvviso, soffocamento e delirio: in sostanza, mi colpì la forza complessiva dell’opera video nel suo insieme.
L’impressione fu quella di avere di fronte artisti che, pur giovanissimi come Jacopo Bedogni e Niccolò Massazza, avevano già trovato la corretta grammatica per un’arte video di grande valore e sviluppato una conseguente sintassi coerente e originale. I loro lavori sono caratterizzati proprio, sin dagli esordi, da una fase di pre-produzione studiata nei dettagli, articolata e complessa, che mette in campo ogni volta, un vero staff cinematografico di professionisti della scrittura e dell’immagine e che produce come risultato finale, video opere di grande rigore stilistico e formale. Il contenuto, sempre fortemente drammatico della trama video, non è mai realistico: tende a mostrare, evocandoli, luoghi dell’interiorità, affrontando immaginari mentali che partono sì dalla realtà ma per trasfigurarla. Da qui l’accostamento sempre meno azzardato a Bill Viola (che li allontana viceversa, dall’accusa di estetismo manieristico e conformista a loro rivolta) la cui arte mediale, su sua stessa ammissione, è volta a “oltrepassare una soglia, allontanarsi dal mondo fisico e entrare nel mondo metafisico” (Bill Viola, The Landscape within, Conferenza alla Scuola Normale Superiore, Pisa, 2001).
Le ambientazioni dei video dei Masbedo (Schegge d’incanto in fondo al dubbio, Teorema d’incompletezza, Glima) grondano potenti metafore esistenziali: le vette impervie e le cime innevate del Monte Bianco, le grandi profondità marine, il mare in tempesta della Francia del Nord, il paesaggio glaciale e vulcanico dell’Islanda non sono altro che potenti e drammatiche istantanee interiori, un veritiero e scomodo specchio dell’anima; dentro questo panorama desolato un uomo e una donna nella solitudine più sfrenata ma anche nella resistenza più accanita, sono intenti in quella lotta quotidiana nel “gran mare dell’essere” (come scriveva Giacomo Leopardi).
Un “esistenzialismo tecnologico” in cui Masbedo si riconoscono e coltivano una loro estetica fortemente connotata e riconoscibile. Testi importanti accompagnano i loro story board, scritti da Aldo Nove o ispirati alla filosofia di Houellebecq; ma sono più importanti i sottotesti, suggeriti dalle atmosfere cupe e avverse che avvolgono un lui e una lei imprigionati, in eterno, vicendevole conflitto che approda a un temporaneo stato di tregua, fisica e mentale. Come Amleti irrequieti, vaganti nel vuoto pneumatico di una condizione tragica, evocata nella sua abissalità da una camera iperbarica o da interminabili silenzi, vivono distillandosi l’ossigeno per una rinascita, o almeno, per una via di fuga.
Masbedo, Leopardi e gli altri
Le tematiche comuni alla quasi totalità dei video dei Masbedo (Teorema di incompletezza, Glima, Autopsia del tralala, Togliendo tempesta al mare, Person) sono il senso di vuoto, di disincanto e di precarietà esistenziale, l’incomunicabilità, l’isolamento volontario come rifugio ultimo, la custodia sisifica dei valori societari, l’arte che trattiene gli ultimi brandelli di umanità, la sterilità dei rapporti umani nel generale inaridimento e decadenza morale della società occidentale. Il bisogno di infinito.
Teorema di incompletezza
Nel video Teorema di incompletezza è assente, esattamente come nelle Operette morali di Leopardi, la figura umana: il paesaggio intorno quasi agli estremi confini della terra, è di una alterità spiazzante. La camera è pressoché fissa, registra con pochi cambi di inquadratura, ciò che ha davanti come se non ci fosse nessuno a comandarla; del resto non c’è neanche un vero soggetto ma solo un gioco tra un sorvegliante impersonale e forse automatico e un sorvegliato altrettanto inanimato (ricordando questo l’occhio della macchina elettronica di Der Riese di Michael Klier e il famoso video e relativa installazione di Michael Snow La Région Centrale creato con un dispositivo di ripresa automatico che registrò per 5 giorni in tutte le possibili angolazioni, il paesaggio montuoso del Québec). La scena è composta infatti da un’insolita “natura morta”: una tavola di legno con due sedie, apparecchiata con una serie di bottiglie e bicchieri vuoti che vengono frantumati da una pallottola sparata con grande conflagrazione in un paesaggio lavico sconfinato e lontano da ogni socialità. Quello che era un rassicurante paesaggio di oggetti della più pura quotidianità, fatto di contenitori trasparenti integri e lucidi, diventa un attimo dopo lo sparo dell’invisibile cecchino, un universo di vetri acuminati, taglienti mentre il rivolo d’acqua continua, testimone indifferente, a scorrere sotto la tavola. In Schegge d’incanto in fondo al dubbio un uomo e una donna sono intenti in una lotta di proporzioni titaniche: da una parte l’uomo si trascina faticosamente nella neve con un paracadute aperto e tenta ostinatamente di opporsi alla violenza elementale, dall’altra la donna si accinge a salvare suppellettili domestiche impregnate di riferimenti psicologici e simboli di sesso e di fede. Nuota a fatica nella marea fangosa dell’esistenza inumana che l’ha travolta, portando se stessa e i propri oggetti di affezione e memoria lontano, al riparo dalla civiltà, o tutto quello che ne rimane.
In entrambi i casi Masbedo usa un linguaggio figurato, fatto di pregnanti metafore visive (cioè, figure retoriche che sostituiscono un termine proprio con uno figurato): l’ordinario e lo straordinario convivono insieme. La deriva esistenziale dei video di Masbedo ha sempre un suo correlativo oggettivo in una natura matrigna che ha già dimenticato l’uomo.
Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio
Come nel quadro di Caspar David Friedrich Il mare di ghiaccio la cui ispirazione gli fu offerta dalle spedizioni al Polo Nord avvenute per nave nel 1819 e nel 1824 o nei quadri di Ruskin, qua si annulla il succedersi dei giorni e delle stagioni, tutto è eterno e quest'eternità è di ghiaccio; non si può non vedere nei video di Masbedo un riflesso del “pensiero poetante” di Leopardi (da una definizione di Benedetto Croce).
In Dialogo della Natura e di un Islandese o ne La ginestra la natura non è mai confortante. E’ nemica o almeno è ostile:
“(L’Islandese si rivolge alla Natura: A questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima della terra e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria… tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi)."
Valgono anche per Masbedo le parole di Asor Rosa sulla Ginestra di Leopardi:
"Leopardi esprime con estrema forza il valore morale di un comportamento che non s'illude di trovare a questa infelicità un risarcimento spirituale ma nella resistenza disillusa e pur fiera alle avversità della natura crede di assolvere al compito naturale assegnato alla ragione dell'uomo e su questa matura consapevolezza, senza speranza alcuna ma anche senza vigliaccheria, fonda il rapporto uomo-natura, che è ormai un rapporto antagonistico e agonistico, di lotta reciproca e senza cedimenti."
Indeepandance: o del meticciare linguaggi
E’ del 2008 il concerto video live Indeependance (Arena Civica di Milano) in cui Masbedo provano a mescolare in una dimensione da grande palco, formati e generi artistici in un potente e spettacolare live electronics. Un progetto pilota che voleva unire video live, teatro, poesia e musica grazie a collaborazioni con etichette e artisti internazionali (dalla Real World di Peter Gabriel a Bjork a Steward Copeland a Howie B) in un format a metà tra il palcoscenico dei concerti rock e le installazioni multimediali e in un coinvolgimento sensoriale potente e ipnotico: il pubblico era collocato al centro di una piattaforma da cui erano governati suoni e immagini live mentre il perimetro dell’arena era delimitato da quattro schermi avvolgenti di grandi dimensioni.
Masbedo con questo progetto incarna il concetto prettamente postmoderno esposto da Frederic Jameson di “saturazione estetica”, una saturazione totale e complessiva dello spazio culturale da parte dell’immagine, una permeazione dell’immagine nella vita sociale e quotidiana. Se Rosalind Krauss proponeva in Art in the age of the post modern condition (2005) di tracciare una riga definitiva per eliminare la parola medium “così da seppellirla come tanti altri rifiuti tossici della critica e procedere nel mondo della libertà lessicale”, recentemente Zygmunt Bauman in Modernità e ambivalenza individua nel concetto di “ambivalenza” che rompe la pratica del modello strutturale normativo, dell’ordine classificatorio delle categorie estetiche, uno dei temi chiave del postmoderno:
“La situazione si fa ambivalente se gli strumenti di strutturazione linguistica si rivelano inadeguati: o il caso in questione non appartiene a nessuna delle categorie individuate dalla linguistica, oppure si colloca in più classi contemporaneamente. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi è quello giusto ovvero se ne potrebbe applicare più di uno... L’ideale che la funzione nominatrice/classificatrice si sforza di raggiungere è una sorta di ampio archivio che contenga tutte le cartelle che contengono tutti gli oggetti che il mondo contiene: ogni cartella e ogni oggetto sono però confinati in un loro posto distinto. E’ l’impossibilità di realizzare un simile archivio che rende inevitabile l’ambivalenza…Classificare consiste negl atti di includere e escludere. Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno… L’ambivalenza è un effetto collaterale del lavoro di classificazione..Quella all’ambivalenza è una guerra suicida.” (1)
Masbedo si muovono proprio in un libero e ambivalente universo cross mediale e amano definire i loro interventi un “meticciare i linguaggi”, o creare “un’arte bicefala” poiché privilegiano allo specifico del medium, la libertà espressiva di un nuovo genere tecno artistico dal doppio codice genetico, affrancato dai vincoli e dalle convenzioni del singolo mezzo per espandersi tra territori diversi oltre al video: teatro, cinema e pittura. Un’arte intermediale, un’arte espansa. Come ricorda Bruno Di Marino citando le esperienze di Nam June Paik ma anche quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine nei cui concerti la componente sia visuale che multimediale “arricchiva notevolmente il loro immaginario musicale in direzione spettacolare” la musica il cinema, il video e la performance sono sempre stati strettamente collegati. (B. Di Marino, Interferenze dello sguardo. sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale, 2002).
E’ quindi un naturale territorio multidisciplinare quello in cui si muove il video sin dal suo esordio dalla metà degli anni Sessanta (dai protagonisti del movimento Fluxus a Paik a Cage), come ricorda Simonetta Cargioli “fecondo terreno per sperimentazioni di incroci attraversamenti e transizioni. In questo contesto di effervescenza creativa e sperimentale il medium video ha vissuto in perfetta promiscuità con le altre arti con le quali si intreccia, si mescola, si confronta, che ingloba, di cui prende a prestito qualche cosa provocandone alterazioni radicali. La performance, la danza, la poesia, il cinema, tra gli esempi numerosi, diventano altra cosa dopo il video o perlomeno, dopo averne assorbito il contatto” (S. Cargioli, Introduzione a Le arti del video, 2004).
Così Masbedo ripropongono in chiave attuale una modalità video dialogica e intermediale ampiamente sperimentata proprio dai pionieri dell’art vidéo. I loro video traggono ispirazione dalle pitture antiche (i loro personaggi assomigliano nelle pose e nei sembianti a figure mitologiche, ricordano pitture prerinascimentali o preraffaellite e sculture tardo romane) e assorbono credito vitale dall’improvvisazione teatrale degli attori privati di sceneggiatura e posti di fronte a canovacci con poche battute; la performatività di alcuni loro video è talmente evidente che lo sfociare nel teatro vero, fatto di palcoscenico come “arena degli attori” diventa (come lo è stato alla fine degli anni Ottanta per Studio Azzurro a coronamento della loro attività video artistica con Camera astratta) quasi una necessità o uno sconfinamento naturale.
Schegge d’incanto in fondo al dubbio è una videoinstallazione per due schermi sincronizzati diventata live set con musica dal vivo suonata da Lagash dei Marlene Kuntz per il Festival Invideo e per Aquaticus (Porto Venere).
Glima.
Il video Glima nato dall’esposizione di una proposizione base, sviluppata dagli attori senza indicazioni registiche dettagliate, è diventato performance video-corporea di enorme fisicità e di grande impatto (grazie anche alla musica live di Lagash e Gianni Moroccolo) in occasione del Festival di Dro nel luglio 2010.
Un uomo e una donna lottano legati da vincoli di lacci in pelle come un’appendice organica che rimanda a un rito di possessioni sadomasochistico e afflizioni autoindotte (intensa l’interpretazione di Erna Ómarsdóttir e Damir Todorovic come si vede dalle fotografie di Iris Stefansdottir); intorno a loro una terra vulcanica, l’Islanda, paese che sta subendo un processo di erosione millenario.
Il paesaggio non è estraneo, entra nella violenza perpetrata nei corpi dove alternativamente uno diventa carnefice e l’altro vittima; in questo rituale della coercizione sotto cui si può leggere la generale volontà a non integrarsi, a non piegarsi e a non sottomettersi alle regole del mondo e la generale riluttanza ad obbedire all’ordine sociale i protagonisti hanno abbandonato la civiltà ma non la disponibilità a combattere magari in nome di un’ipotetica causa comune che presuppone l’unirsi degli uomini in una catena umana a difesa del proprio patrimonio di valori.
La performance con due schermi e una pedana ad altezza del pubblico, prevedeva anche un’interazione degli attori con una webcam montata su un robot dalla forma aracnoide telecomandato che catturava i dettagli dei volti.
Pathei Mathos (Apprendo dalla sofferenza)
Il video Schegge d’incanto in fondo al dubbio è ricchissimo di riferimenti iconografici alla classicità e alla mitologia greca, e numerose sono anche le citazioni al codice di stile della pittura fiorentina trecentista rivolta alla concretezza dei contenuti umani delle immagini sacre (per la figura femminile la raffigurazione drammatica della Madonna in pietà o della Maddalena sotto la croce, per l’uomo l’immagine titanica del Prometeo incatenato: “ritto”, “insonne”, “temerario”).
La donna, novella Antigone, opponendosi all’omologazione del mondo, alla vita umiliata, compie un gesto impetuoso e solenne di ribellione: fugge e trascina dietro di sé gli oggetti che sono inseparabili dal suo corpo perché ne rappresentano la vita vissuta; infine, ferma immobile su un piedistallo in mezzo al mare, con gesti plastici e una torsione del corpo ricchi di pathos – come nella raffigurazione scultorea ellenistica del Galata morente – accende un fuoco come a chiedere aiuto.
Schegge d'incanto in fondo al dubbio.
In questo gesto plastico l’attrice evoca miti tragici e archetipi del femminile che raccontano come la vita umana, pur nelle difficoltà e nel dolore, lasci dietro di sé schegge di bellezza. Se l’uomo incarna il motivo dell’audacia di chi ha osato ribellarsi e andare oltre il limite estremo (“Io, invece, che avrei dovuto saper morire, per essere andato oltre la parte a me assegnata, vivrò una vita infelice”, Euripide, Alcesti) la donna mostra una maschera del dolore, un urlo muto che porta con sé tutto il lamento dell’esistere.
Il video trasmette proprio quel senso profondo e necessario di purificazione e metamorfosi dell’essere e quel bisogno di rivelazione da cui nasce la tragedia attica antica e che ci è stato trasmesso dalle pitture vascolari greche: “desistere dal ciclo prendere fiato dalle miserie” (frammento orfico da Proclo, cit. da G. Colli, La sapienza greca).
“Nello sperimentare il tragico a teatro, gli spettatori si trovano di fronte al colmo dell’orrore, a crisi di instabilità e a prove di resistenza, ovvero di fronte a esperienze che nessuno si augurerebbe mai di dover affrontare nella vita reale. Ma poi alla fine dello spettacolo, nessuno ne esce morto o traumatizzato. L’esperienza dell’abisso, il viaggio nell’instabilità a teatro sono vissuti – visti, ascoltati – in una forma che ha bellezza. La poesia, la danza, la musica, i costumi e le voci, l’armonia di suono e azione collaborano a rendere l’esperienza teatrale un momento da cui l’uomo può trarre non abbattimento e debolezza, ma energia. Quello che fanno questi splendidi vasi è di distillare bellezza dalla confusione di tutta questa nostra vita umana. Le pitture vascolari, le tragedie, i vasi e gli spettacoli interagiscono al fine di rinnovare nell’uomo la forza di resistere alla morsa delle tenebre.
(Oliver Taplin, Professore di Lingue e Letterature Classiche e Direttore dell'Archive of Performances of Greek and Roman Drama all'Università di Oxford, testo della conferenza tenuta all’Università di Catania, 18 gennaio 2010).
Distante un padre
Si chiama "Ponti per le culture costruendo pace" il forum delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro in cui hanno partecipato oltre 2000 operatori politici, leader e attivisti, fondazioni e giornalisti di tutto il mondo e in cui è stato presentato con successo il 28 maggio il film collettivo commissionato dall’ONU che ha visto tra i partecipanti anche Masbedo insieme con Tata Amaral, Robert Wilson, David Cronemberg e Fanny Ardant e che è stato girato interamente alla Spezia nelle aree della Marina Militare.
Masbedo hanno dato il loro contributo in forma di cortometraggio dal titolo Distante un padre con la sceneggiatura di Aldo Nove e musiche originali dei Marlene Kuntz.
Distante un padre
Masbedo hanno voluto declinare il tema comune per tutti i registi, la spiritualità, come la luce interiore che pervade in un momento di grande dolore, come verità rivelata, l'animo dei due protagonisti, un uomo e una donna. L'uomo è un palombaro e il buio della profondità è la sua dimensione; un senso di mancanza e di perdita legato alla morte della figlia che li vede da quel momento vivere in una sorta di simbiosi acquatica, viene colmato dal ricordo e dalla fiducia che "se non si vivrà la felicità, almeno se ne vedrà la luce", come recitano le prime frasi del testo di Aldo Nove scritto per l'occasione. La loro esistenza è accompagnata dalla consapevolezza del dolore e dell’estraneità assoluta col mondo; una sofferenza indicibile pervade i loro gesti quotidiani e li rende figure quasi ascetiche e mistiche, di un misticismo trascendente che svetta al di sopra del trambusto umano, nella speranza vivificante di una dimensione altra. Al culmine della sofferenza terrena, i protagonisti sembrano toccare la verità. Chi soffre risulta separato dal contesto del mondo perché il dolore ha provocato in lui un tipo di visione che non è di nessun altro. Come ricorda Salvatore Natoli, “la sofferenza è una recessione di comunicazione: il sofferente tende a una comunicazione di tipo estremo, o il silenzio o l’urlo, ed entrambe anche se in modo diverso, tendono alla morte”. Negli abissi del mare ovvero nella profondità del proprio spazio interiore, il vuoto prende la forma luminosa del ricordo e l’uomo vuole perdervisi dentro. L’abisso come amplificatore della coscienza, da dove comunicare empaticamente con la persona con cui condividiamo l’amore e il dolore, comunicare come il neonato fa con la propria madre, attraverso il cordone ombelicale. Ancora una volta la luce ci riporta ai video di Bill Viola, e rappresenta quella forza superiore che si manifesta agli uomini inaspettata e preannuncia il cambiamento.
Un video drammatico e intenso, con una speranza finale di rigenerazione che è la risposta agli interrogativi esistenziali dei protagonisti.
Il video è stato realizzato interamente alla Spezia (direttore di produzione: Anna Monteverdi) grazie all'aiuto fattivo della Marina Militare in ambienti davvero difficili e angusti come camere iperbariche e capsule per immersioni profonde custodite all’interno dell’Arsenale Militare.
Antichi e nuovi riti, tra antropologia e tecnologia La scrittura sulle immagini di TeatroCinema al Napoli Teatro Festival di Filomena Spolaor
En ese instántaneo cruce del tiempo y el espacio en que Filippo viaja mentalmente por las posibles existencias de los personajes, con el caótico desplaziamento que podría trazar una mariposa en vuelo, y con su tenue batir de alas que incide en los cursos de las vidas de cada uno de ellos.
In quell’istantaneo incrocio del tempo e dello spazio in cui Filippo viaggia con la mente per le possibili esistenze dei personaggi, con il caotico spostamento che potrebbe disegnare una farfalla in volo, e con il suo tenue battito d’ali che incide nei corsi della vita di ciascuno di essi.
El Hombre que daba de beber a las mariposas della compagnia cilena TeatroCinema ha debuttato alla fine di giugno all’interno del Napoli Teatro Festival (25, 26, 27 al Teatro San Ferdinando), co-prodotto dalla stessa direzione artistica della manifestazione con Scène National de Sète et du Bassin du Thau, il Centro Dramático Le Manège-Mons e il Festival Internazionale di Edimburgo. L’opera è la seconda parte di una trilogia concepita come una riflessione personale sulla nostra epoca e società, e iniziata con Sin sangre (Senza sangue, 2007), e la seconda co-produzione che la compagnia realizza con la Fondazione Teatro a Mil, FITAM di Santiago del Cile.
Nel 1987 Laura Pizarro e Juan Carlos Zagal fondarono insieme ad altri attori la compagnia La Troppa, costituendo un gruppo teatrale che si è sviluppato come un solido collettivo con importanti montaggi come El santo patrono, El rap del Quijote, Lobo, Salmón Vudú, Viaje al centro de la tierra, Pinocchio, Jesús Betz y Gemelos, con stagioni di successo in Cile e tournées attraverso paesi dell’ America, Europa, Asia. Nel 2006 hanno fondato la compagnia TeatroCinema, la cui caratteristica è l’innovazione del linguaggio generato nella composizione delle tecniche e delle forme narrative del teatro e del cinema.
Nell’ultimo istante della sua vita, Filippo sente la necessità di compiere un rito ancestrale che gli era stato trasmesso dall’ultimo sopravissuto di un antico popolo dimenticato: dare da bere alle farfalle che stavano uscendo dalla loro crisalide per orientarle nella loro migrazione. Nell’istante magico in cui la vita finisce e comincia allo stesso tempo, Filippo incontra per caso Juan, un direttore di cinema la cui fidanzata è costretta in un letto d’ospedale con un coma cerebrale. Inoltre lui lavora con Franco e Elisa, attori di traiettoria classica, con cui gira un film basato sul riferimento alla statua di un cavaliere e della sua dama, che rappresentano le basi della storia e della memoria di un amore epico. Si tratta di tre storie parallele e simultanee che gravitano intorno a un nucleo costituito dai pensieri che sorgono nella mente di un uomo che dava da bere alle farfalle. Questi universi paralleli si fondono in una edizione dal vivo della storia, utilizzando molteplici linguaggi narrativi. Si usano sfondi e composizioni digitali, filmati e animazioni 2D e 3D, che si mescolano con elementi tradizionali della messa in scena. Questa fusione consente allo spettatore di connettersi con la poesia visiva delle immagini.
Un “prologo in terra” viene espresso da quattro attori che si presentano tra alcuni alberi posizionati in scena, spossessati e disumanizzati dai frammenti anatomici che indossano, dettagli di un volto che fungono da addendi, quali un naso plastificato mezzo strappato e il calco di una maschera di cera tolta da un viso ermafrodita in attesa di sviluppo, embrione di una psicotecnica che invita la tecnologia a sviscerare stati di coscienza libera. Essi si dichiarano segni delle esperienze immersive e sobillano sull’avvento di uno spettacolo che li farà uscire da uno stato di coscienza limitata a un altro di libertà assoluta con i personaggi reali e fantastici delle tre storie. La compagnia si lancia all’avventura di esplorare il paradosso del tempo e dello spazio; l’istantaneità del racconto e del pensiero; la ricerca della felicità e dell’amore; il conflitto dentro il mondo interiore dei protagonisti e i mondi reali e tangibili che in questi si dissolvono. Filippo appare in scena indossando la veste bianca di uno stregone e cammina con leggerezza aerea sul palcoscenico, fermandosi tra due grandi schermi paralleli su cui sono proiettati video ad alta definizione, manipolati per mezzo di un processo di post-produzione digitale elaborato presso il Centro Rai di Napoli.
Il linguaggio con cui Filippo narra l’iniziazione a questo rito, interrogandosi sulla persistente esistenza della vita, unisce un’oralità e corporalità sapienziali alla grammatica virtuale delle infinite vite possibili create attraverso le variazioni ed estensioni figurative delle immagini video proiettate su i due schermi. Sullo sfondo si compongono paesaggi naturali della Land Art, come un deserto o il paradiso perduto di un lago circondato da larghe foglie verdi, poeticamente svuotandosi dei rapporti abituali di scala. Su questo virtual environment sono operate simultaneamente delle sovraimpressioni e proiezioni tridimensionali di Filippo, ripreso nell’atto di volare nel cielo inseguendo delle farfalle bianche, interagendo con i toni della natura, la cui luminosità cromatica è elaborata con effetti psichedelici, e originando fotogrammi in cui il corpo reale di Filippo si compone con quello dell’immagine, immergendosi in un insieme di percezioni visive e tattili, metafore di un viaggio nelle possibilità della mente, e svelando al pubblico la sottile distanza che separa l’atmosfera vissuta sopra una scala guardando le farfalle volare, dall’esotismo interiore vivisezionato dalla propria figura prospettata nello spazio del proprio sogno. Nella mimesi visuale di luoghi geografici (testi visivi) in cui sperimentare il proprio corredo grafico, la compagnia TeatroCinema ha concertato anche la sceneggiatura videotecnica relativa al racconto epico del cavaliere e della dama, narrato attraverso un video montato in sequenze di un setting d’animazione, un castello fantastico il cui sfondo è continuamente smembrato in tunnel infuocati, valli, cave, luoghi segreti. Interagendo attraverso di esso da apparati scenografici oggettivi come una finestra medioevale ad acute inferriate incastonata scenograficamente all’interno del flusso spiraliforme del castello animato nel video (da cui la dama lamentava con pena la lontananza del compagno in battaglia), Franco e Elisa, attori incaricati da Juan di interpretare in costumi d’epoca i personaggi del cavaliere e della dama dell’epica spagnola, hanno costruito un dialogo favolistico, mixando la recitazione melodrammatica a quella epica (risultato prodotto dall’intervento registico dello stesso Juan, che si inserisce nel plot per dare indicazioni di interpretazione, con la funzione sarcastica di spezzare l’illusione di realtà). Gli attori hanno incorporato la tecnologia applicata in modo istantaneo, cavalcando il drago di video-makers che hanno lavorato intervenendo sulle immagini in fase di post-produzione, attraverso flashback e flashforward, ellissi, pannelli, tagli diretti, vedute dello zenit, piani contrapposti, cambi improvvisi nell’asse della camera, per narrare in novanta minuti una storia di molti secoli e distante da quella contemporanea.
Si tratta di una rievocazione dell’epica spagnola, che nel periodo medioevale dell’invasione araba fu descritta dalle imprese del famoso hidalgo castigliano Rodrigo Diaz de Bivar, detto El Cid Campeador, alfiere della fede elevato a simbolo del nazionalismo spagnolo per aver strappato Valencia ai musulmani nel 1094, patriota fervente e spregiudicato mercenario, figura immortalata dai poemi ed opere letterarie (a partire da El Cantar de Mio Cid del XII secolo). La letteratura teatrale costituisce, per Teatro Cinema, una risorsa immaginativa e creativa che li ha condotti a interfacciare i corpi e gli sfondi digitali.
Alla narrazione fanta-scientifica della tradizione epica si è giustapposto il codice realistico tradotto nella storia di Juan, regista cinematografico la cui fattualità è attraversata dall’ambivalenza emotiva con cui assiste la moglie traumatizzata da un incidente in ospedale e dirige con spirito creativo le riprese del film con i due attori di taglio classico, Franco e Elisa. Il minimalismo scenografico del letto d’ospedale in cui è ricoverata la moglie, stravolge la densità della regia digitale virtuale delle altre due storie incorniciate dalle metamorfosi di pattern visivi, per concentrare un sentimento tutto umano nel ristretto percorso spaziale di una stanza, o le sensazioni comunicative della parola in uno studio cinematografico: una dialettica che ha rievocato lo stile di Lepage (in Lipsynch, presentato sempre al Napoli Teatro Festival,la voce è stata scarnificata nel suo congiungere significanti e significati all’interno del contesto postmoderno del rapporto tra teatro e cinema, labirinto frattale di citazioni in divenire). Le tre storie si sono intrecciate strutturando una temporalità multipla e una simultaneità di azioni, oltre le quali il video si è firmato come autore di una drammaturgia visuale nella sua qualità di dispositivo dell’erranza, calcolatore di una popolazione proliferante di luoghi, scrittura per immagini, delle immagini, sulle immagini.
TeatroCinema afferma l’unione del lavoro attoriale e drammatico con la prospettiva del compromesso con la poesia dell’azione, con la poesia delle immagini e con le storie che contengono significati profondi vincolati all’intensità della vita e dell’ essere, viaggi d’iniziazione che elevano i personaggi a livelli superiori di coscienza. La regia di quest’opera originale (non tratta da un libro preesistente) è firmata da un team di professionisti, composto da collaboratori con precise responsabilità nell’ambito dell’arte che definisce un video-maker: accanto agli autori della sceneggiatura, compaiono i responsabili del Diseño Integral (C. Mayorga, V. Meschi, L. Alcaide), della Dirección Multimedia (M. Petrovic), da cui si distingue l’Operador Multimedia (L. González), lo Story Board (A. Elizondo), il responsabile della Modelación Digital y Post Producción (Spondylus, E. González) e della Dirección de grabaciones (registrazione) en video (D. Tótoro, J. C. Zagal): la macchina tende al valore antropologico, vive di un’orchestrazione sintetica delle arti, con l’opera rinuncia all’idea di un’unica e omogenea modalità di rappresentazione (e di conoscenza), perseguendo in quell’avanguardistica operazione di rinnovamento tecnologico che ha caratterizzato la “riteatralizzazione” del Novecento teatrale “manipolando e frantumando il linguaggio e lo spazio-tempo del dramma secondo i punti di vista mutevoli della coscienza umana” (Anna Maria Monteverdi, Il laboratorio teatrale delle avanguardie, in A. Balzola – A.M. Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Garzanti, p. 74).
Il confronto tra dinamiche creative al festival Sguardi Un nuovo festival a Padova di Filomena Spolaor
Si è da poco concluso Sguardi, Festival del teatro contemporaneo veneto, numero zero, svoltosi a Padova dal 16 al 18 settembre e promosso dal PPTTV, il consorzio di Produttori Professionali Veneti che riunisce il Tam Teatromusica di Padova, il Tib Teatro di Belluno, il Teatro del Lemming di Rovigo, Pantakin di Venezia, il Teatro Scientifico di Verona, Viva Opera Circus di Vallese Oppeano (Verona) ed Ensemble Vicenza di Sovizzo (Vicenza).
Il direttore artistico del Festival Labros Mangheras ha voluto promuovere un confronto tra le realtà produttive del territorio veneto e gli operatori culturali, i critici, i teatri, gli artisti delle altre regioni italiane. La manifestazione si compone come una vetrina in cui è possibile vedere le produzioni per donare nuovi sguardi alle strutture teatrali della regione: una cultura che nasce da un tessuto in cui il teatro è espressione di tradizioni performative, ma è anche una realtà in movimento, come ha spiegato il coordinatore artistico del Festival Andrea Porcheddu, che ha coinvolto un comitato artistico per selezionare le diverse proposte. Il logo del Festival è un codice a barre da cui emergono in sovrimpressione due occhi: il codice rimanda alla molteplicità e alla pluralità delle linee in cui si è costituito un movimento che cerca il confronto con il territorio, esprimendo anche l’imprenditorialità delle compagnie, e fa da sfondo allo sguardo dello spettatore.
La Tempesta di Anagoor.
La manifestazione è sfaccettata per stili: una complexio oppositorum, come l’ha definita Porcheddu, che ha spaziato dal teatro dalla performance concettuale astratta di Silvia Costa al teatro rap dei Babilonia; dal teatro circo di Pantakin alla commedia dell’arte rivisitata in stile balcanico dalla Piccionaia; dal lavoro d’attore di VeneziaInscena al teatro di poesia di Vasco Mirandola, dalla regia critica di Daniela Nicosia al lavoro di teatro e carcere del Tam. Nella sezione “Prove di drammaturgia” si è data lettura di alcuni testi teatrali di autori veneti sia giovani sia affermati: dalla giovane Maria Conte a uno scrittore che ha incontrato il teatro come Tiziano Scarpa, passando per il teatro di parola di Paolo Puppa.
Nella prima giornata della kermesse si è esibito in matinée al Teatro Studio Juri Roverato, danzatore e docente di Danceability a bambini e adulti, che dal 2008 al 2009 ha lavorato con la Socìetas Raffaello Sanzio in Divina Commedia – Purgatorio. Con Sogno creativo la sua ricerca coreografica attraverso la disabilità si focalizza sul tema della Creazione, partendo dallo studio di vari miti di popoli diversi. La consapevolezza di esistere nasce da un rapporto stretto con la terra: è la base per comprendere con il proprio corpo le diverse spiegazioni religiose tramandate sulla nostra origine, per esperire faticosamente un cammino all’interno di una tradizione mitica, in cui testi sul Caos in greco, cirillico, latino, italiano, rivivono come geroglifici proiettati su un corpo segnato dal dolore.
Il secondo appuntamento ha coinvolto VeneziaInscena e Questa Nave: le due compagnie, nate negli anni Novanta e co-fondatrici nel 2007 dell’Accademia Teatrale Veneta, hanno prodotto Il ragazzo dell’ultimo banco di Juan Mayorga, per la regia di Adriano Iurissevich. Lo studio del personaggio è stato fondamentale per un testo di critica sociale, costruito sul rapporto tra un professore di letteratura e Claudio, liceale dell’“ultimo banco” molto portato per la scrittura, e su quello tra Claudio e il compagno di classe Massimiliano, che conduce una vita alto-borghese. Nei temi che gli vengono assegnati in classe, Claudio descrive le sue visite a casa dell’amico; i suoi scritti vengono letti dal professore insieme alla moglie (una spigliata e saggia gallerista d’arte, interpretata con accenti di introspezione psicologica da Francesca D’Este) e mettono in crisi le relazioni tra i diversi personaggi quando il giovane rivela la sua attrazione morbosa per la madre di Massimiliano. I due giovani attori (il volto squadrato di Giulio Canestrelli nella parte di Claudio e Alessio Bobbo come impavido deuteragonista) trasmettono verità di sentimenti a una messinscena di preciso realismo psicologico, nello spazio che si stende tra le aree contrapposte in cui sono collocati la scrivania della coppia e il soggiorno della famiglia di Massimiliano. Puntate sui volti dei personaggi, a rilevare il personale cerchio d’attenzione degli attori, le luci di Alessandro Scarpa danno forma al chiaroscuro del testo di Mayorga (premio Ubu 2007 come migliore autore straniero), maestro nel rivelare attraverso i dialoghi una condotta quotidiana divisa tra una linea esteriore che porta a imitare lo spirito sportivo e una linea interiore adagiata sui propri complessi sociali.
“La letteratura ci rende migliori”, afferma il professore nel testo di Mayorga: la frase pare trovare un’eco nel libero adattamento che la drammaturga e regista Ketti Grunchi della Piccionaia ha operato sul Cyrano de Bergerac. La compagnia, che ha sede a Vicenza, sviluppa i propri progetti, in particolare quelli rivolti alle giovani generazioni, in diversi teatri del Veneto, mantenendo costante il lavoro di artigianato artistico basato sul recupero di un teatro popolare. Nello spettacolo, il Cinema Teatro MPX è diventato il camerino di una compagnia di commedianti balcanici che porta in scena la commedia di Edmond de Rostand: quel teatrino, in cui si esibiscono cinque clown intercalando al testo mirabili gag, diventa un involucro in cui decantare la tragicomica poesia d’amore di Cyrano, interpretato da un giovane Mirco Artusi, che ha divertito il pubblico nel ridefinire gli attributi del suo naso, accerchiato in un meccanismo di divertenti giochi mimici dagli sketch corali degli altri attori. La colonna sonora ha sostenuto, attraverso sonorità bandistiche e canzoni, la compattezza dell’ensemble, sensibile alla creazione di partiture poetiche come nella scena del bacio tra Cristiano e Rossana, in equilibrio sopra una scala da imbianchino, e quella della guerra con il simbolico lancio di palle di gomma.
Nel gioco del “teatro nel teatro”, Cyrano dichiara di battersi per essere libero: un desiderio che emerge anche nel monologo Giulietta di Monica Ceccardi e Lorenzo Bassotto della Fondazione Aida di Verona. La compagnia è nata nella città scaligera nel 1983 dal 1996 è stata riconosciuta la sua funzione di stabile d’innovazione per ragazzi. Nel 2000 ha inaugurato un Centro di Scrittura Drammaturgica e il Festival della Fotografia di Spettacolo “Occhi di scena”: è inoltre partner italiano nel progetto internazionale “ReconArt Reconciliation through Art: Perceptions of Hijab”, co-finanziato dalla Commissione Europea all’interno del Programma di Cultura 2007-2013 “Crossing Borders-Connecting Cultures”. Giulietta di Federico Fellini è il soggetto in forma di monologo di quello che nel 1965 diventerà il film Giulietta degli spiriti. La regia intimista dello spettacolo, curata da Lorenzo Bassotto, usa materiali scenografici che diventano medium per le visioni della protagonista che parla con gli spiriti, avviluppata a una tenda bianca al centro del palcoscenico, che allude a un siparietto, allo sfondo metafisico del baule di specchi quadrilateri su cui è intrecciata una corda. Le luci si scoprono violente, e la Ceccardi le anima con maschere facciali da spettro risuscitato, bambina in un corpo di donna che scivola nell’ossessione quando scopre il tradimento del marito: è questa la causa dell’accendersi in lei delle voci attraverso cui si manifestano le sue paure e i suoi desideri. La melodia aspra della voce libera i nodi delle proprie visioni, compie il rito di una seduta spiritica, accogliendo in sé lo spirito luciferino del Casanova, per poi invocare la mortificazione della carne e dare corpo al simbolismo della sagoma di una gatta doppiata sulle quinte nere.
Tam Teatromusica e Annibale.
Il progetto di Tam Teatromusica, nato presso il carcere Due Palazzi di Padova, Annibale non l’ha mai fatto ruota intorno alla storia di un uomo che trentasette anni fa intraprese il viaggio da migrante verso l’Italia partendo da Cartagine. Farid Kessaci, insieme ad Andrea Pennacchi, ha raccontato l’impresa che, come Annibale, lo ha portato dall’Algeria alla Spagna, e poi attraverso le Alpi fin nella nostra penisola. Nel dialogo con Pennacchi, il narratore nordafricano, veicolo della drammaturgia di Maria Cinzia Zanellato, ha intrecciato la migrazione storica di uomini e animali dell’esercito di Annibale con la sua storia di migrante. Gli attori hanno agito su due scale praticabili appoggiate a terra ai due lati opposti del palcoscenico del Teatro delle Maddalene, mentre sullo sfondo era piantata una tenda bianca trasparente scomposta dall’alto in cilindri verticali, diaframma tra un esterno in cui proiettare il linguaggio visivo della notte e un interno di grammatiche comparate di due differenti lingue in cui sentirsi anime pacificate. I due interpreti costruiscono un dialogo fisico agganciando due storie che parlano di attraversamenti. Gli elefanti che hanno sostenuto le imprese di Annibale diventano gli extracomunitari di oggi che cercano lavoro in Italia.
In serata con Cirk l’arte circense della compagnia Pantakin ha ammaliato gli spettatori del Teatro Verdi, con il virtuosismo di cinque attori in pista che si sono esibiti in numeri acrobatici (come l’esercizio alla pertica cinese e quello della fune), giocoleria, clownerie, attraverso cui raccontare la storia di un piccolo circo alle prese con la scomparsa di Bombo, stella del circo di periferia.
La sezione Prove di drammaturgia si è inaugurata con la lettura da parte di quattro giovani attrici del testo Ikea Orario di Maria Conte, drammaturga trevigiana impegnata come assistente alla regia nella realizzazione di diversi spettacoli della prossima stagione del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli. Il testo trae ispirazione dai clienti che giornalmente frequentano il centro commerciale Ikea e si compone di dialoghi che scavano nella stratificazione sociale del labirinto domestico, in cui studenti parlano del professore e una figlia comunica alla madre la decisione di uscire di casa, utilizzando un linguaggio semplice e referente delle relazioni familiari e sociali.
Il secondo giorno, la Compagnia Teatro dei Vaganti di Verona ha presentato per un pubblico di ragazzi La storia di Iqbal, liberamente tratto dal romanzo di F. D’Adamo, storia di un bambino di cinque anni ceduto a un fabbricante di tappeti e poi liberato dal Fronte di Liberazione del lavoro minorile, ucciso nel 1995 da un proiettile mentre correva in bicicletta. La drammaturgia e la regia di questo spettacolo per bambini dagli otto ai dodici anni è stata curata da Giovanni Signori. Due attrici-narratrici (Mariella Soggia e Chiara Tietto) filano un grande telaio e muovono i passi intorno a delle panche rivestite di coperte colorate e illuminate dalle luci diffuse delle lanterne argentate sospese nel soffitto, smistando la lana e testimoniando la vicenda di quei bambini che non vanno a scuola e sono costretti a lavorare. Di una luminosità nostalgica i colori delle tinte aranciate degli abiti popolari delle attrici, che hanno utilizzato delle grandi maschere per interpretare i personaggi malvagi degli sfruttatori e un grande aquilone in legno per comunicare l’aiuto a denunciare la schiavitù minorile, tema che fa parte del progetto di Teatro Etico portato avanti dalla compagnia veronese dal 2000. La vetrina ha inoltre ospitato la compagnia Anagoor, nata a Castelfranco Veneto nel 2000, segnalata nel 2009 al Premio Scenario con Tempesta, opera ispirata al dipinto di Giorgione. In Rivelazione il pittore veneto è oggetto di sette meditazioni scritte dalla compagnia insieme alla drammaturga Laura Curino, e lette da un leggio da Paola Dallan e Marco Menegoni. Lo spettacolo prende la forma di lezione di storia dell’arte, su Giorgione e sulla Venezia del Quattrocento-Cinquecento, raccontando per frammenti i temi che costituiscono sette meditazioni sul pittore, collegati alla proiezione dei suoi dipinti su due schermi. Il reading è iniziato ricordando l’importanza della nebbia nel paesaggio e nella personalità di un artista che attraverso le sue opere fa riflettere sul silenzio, ragion d’essere che nutre la Pala; sulla natura umana pensata attraverso i ritratti; sul desiderio approfondito dalla compagnia come motivo iconografico di opere ricondotte tutte alla Venere dormiente; sulla giustizia su cui interrogarsi attraverso la proiezione di Giuditta; sulla fede interpretata attraverso I tre filosofi; sul diluvio raccontato senza le parole degli attori, semplicemente attraverso il quadro della Tempesta. L’esposizione orale si è nutrita delle suggestioni delle immagini proiettate sugli schermi, approfondite analiticamente anche dallo studio sulla messa a fuoco di particolari delle opere, con la sottolineatura sonora del rumore di un gessetto che scrive sulla lavagna, per concludersi, in questo monumento a Giorgione, a contemplare nel Fregio il valore del tempo, comparandolo ai fregi del modernismo, dai telefonini alle crivellature petrolifere.
Andata / Ritorno / Andata di Teatro Scientifico di Verona (struttura stabile di produzione teatrale nata nel 1969, il cui nucleo artistico negli ultimi anni ruota intorno alla famiglia d’arte dei Caserta, orientata verso la drammaturgia italiana contemporanea e la ricerca antropologica sul repertorio veneto) racconta la storia di Olga, emigrata dalla Moldavia all’Italia. La scrittura drammaturgica è firmata da Marco Ongaro, che ha composto e cantato dal vivo canzoni folkloriche interpolate per accompagnare la narrazione autobiografica rivissuta da Isabella Caserta. Il linguaggio nostalgico della regia di Walter Manfrè si mescola alla cronaca supportata anche da immagini video. L’atmosfera dell’Est Europa è evocata da una scena arredata da una scrivania e da un tavolo con del pane fresco. Olga iniziato parlando dell’equilibrio nella morfologia delle fiabe di Propp, per intrecciare i fili di un’esistenza che l’hanno portata dall’insegnamento come maestra in Moldavia (con documenti video e resoconti economici degli stipendi e dei prezzi alimentari della sua terra) - attraverso il ricordo di un rito come quello del funerale con cui ha celebrato da clandestina la morte di suo figlio - al lavoro di badante in Italia. E’ un monologo dai toni tragicomici, sostenuti da una partitura di azioni domestiche (la ricetta di preparazione di un dolce moldavo dopo aver disteso sul tavolo una tipica tovaglia) osservate al participio presente.
La comicità di Marta Dalla Via nasce dall’unione delle tecniche di maschera e clown con una drammaturgia in dialetto che descrive in brevi sketch gli abitanti del Veneto. I suoi personaggi monologano con vena polemica contro l’arrivo dei cinesi, si ritrovano a bere al bar ricordando l’incidente della sera prima, imbastiscono storielle sarcastiche contro il potere di chi a Treviso vieta i giardini agli uomini o sull’emigrato meridionale che impara il dialetto veneto. Come faceva Karl Valentin, Marta Dalla Via in frac e cilindro nero imita la vita del popolo, attraverso scenette in cui luoghi comuni come la costruzione dell’autostrada Valdastico eccitano la potenza trasgressiva di una voce tesa tra la crudeltà e l’umorismo. Sullo sfondo della scena vuota e sempre in penombra, un video mostra i giovani d’oggi alle prese con la moda dell’aperitivo o con la paura degli stupri.
Al Teatro delle Maddalene è andato in scena il nuovo spettacolo del Teatro del Lemming. Amleto, nella lettura del regista Massimo Munaro, è il testo che costituisce il dubbio fondante della modernità. Nello spettacolo, Amleto si scinde tra diversi attori, scambiando la propria identità anche con il pubblico coinvolto, fra follia recitata e follia vissuta. Alla spettacolarità del mondo contemporaneo, Amleto oppone un teatro che prenda in trappola la coscienza dello spettatore, coinvolto in una scrittura scenica che alterna il buio a punti di luce rossa, il bisbiglio delle candele all’urlo segreto dei giochi d’acqua, attraversato da una potente fisicità sensoriale che trasporta in un cantato shakespeariano la riflessione sul senso della comunità.
In serata al Teatro Verdi Daniela Nicosia, regista del Tib di Belluno, ha presentato Galileo, firmando testo e scena, un altissimo pannello circolare bianco diviso in liste da attraversare. La vita dello scienziato viene riletta accennando alla vicenda scientifica che lo condusse al processo, alla condanna e all’abiura.
Il Galileo rivisitato da Daniela Nicosia.
Sul palcoscenico il tavolo di studio di Galileo e un piccolo scanno, a significare, all’interno della scena connotata da un segno volutamente essenziale, la consistenza della materia di chi ha creato una rivoluzione storica. Solimano Pontarollo nel ruolo del protagonista e Piera Ardessi in quello della figlia e della governante, hanno creato un dialogo scenico in cui la sottigliezza del pensiero dell’invenzione scientifica (e la questione filosofica della libertà o della mala interpretazione delle parole che Brecht aveva sviscerato attraverso il suo dramma) è stata drammaturgicamente tradotta in un agire bipolare, scandito in intenzioni razionali quello di Galileo, romanticamente dettagliato quello della figlia, a confermare la poetica che percorre i diversi spettacoli della compagnia, intenta a perseguire un teatro dell’emozione attraverso un teatro di parola.
L’infinito di Tiziano Scarpa, romanziere premiato con lo Strega nel 2009, oltre che autore di testi per il teatro, parla di un ragazzo che nella notte che precede l’esame orale di maturità ripassa le poesie di Leopardi, personaggio che si materializza davanti ai suoi occhi, dicendo che ha fallito la fuga da Recanati e che sta tentando di evadere dal suo mondo attraverso la forza dello spirito. Di poetico umorismo il passaggio nel quale Leopardi parafrasa il suo idillio al ragazzo ventenne che tenta di spiegargli il mondo del progresso tecnologico in cui vive, definendo materialmente il rifugio in cui il poeta di Recanati aveva concepito la sua poesia come un “parco pubblico”.
Sabato 18 settembre Viva Opera Circus, compagnia diretta da Gianni Franceschini con una consolidata esperienza di teatro per bambini e ragazzi, ha riletto l’opera di Stevenson in L’isola del tesoro (in coproduzione con La Piccionaia-I Carrara), innestando anche come fonti le Storie di pirati di Defoe, ma anche Hawthorne, Conrad e Il corsaro nero di Salgari. Inquadrato in una scenografia pittoresca costituita da un telo fluorescente con arredi che immergevano lo sguardo all’interno di un fantastico veliero, Franceschini ha animato il pupazzo del vecchio pirata Long John Silver, raccontando delle sue avventure. L’interpretazione dell’attore si è sviluppata con l’azione performativa nell’uso di grandi burattini, che con quadri di colore e oggetti marinari hanno donato un tono picaresco ricco di pathos alla recitazione, anche attraverso espedienti di macchineria scenica come il mare ricreato nel palcoscenico del teatro, il suono degli spari e la figura di uno scheletro che ha voluto comunicare agli spettatori bambini il potere di iniziazione contenuto in una narrazione legata al rapporto memoria/radici.
Nell’ambiente raccolto del Teatro Studio si è poi esibita la compagnia Plumes dans la tête, nata nel 2007 dalla collaborazione tra l’attrice e performer Silvia Costa e il musicista e compositore Lorenzo Tomio. Tra sculture di gesso emerge Nathaly Sanchez, che si sveste lentamente dell’imbottitura plastica in cui è imbozzolata, abbandonando sul muro, come in alcune opere di Frida Kahlo, il suo busto e la maschera. La partitura della performer si svolge per immagini che, nel cercare oggetti da portare alla luce, la immobilizzano nell’atto di mostrare i suoi muscoli come un culturista. Su un lato del palcoscenico c’è un martelletto che rimanda al gesto di spaccare la materia, mentre lei cammina denudata con due blocchi quadrati ai piedi su una linea a raggi infrarossi proiettata sullo sfondo, per poi prendere una grande corona d’alloro e rivolgere lo sguardo verso ciò che la regista ha definito un percorso verso l’incorruttibilità e la perfezione. Sullo sfondo, appaiono scritte che descrivono le diverse parti del nostro scheletro, mentre l’attrice seziona un fossile, ne ricerca la luce nelle parti nascoste, per lasciare sorgere, come nel disegno sonoro elettronico di Tomio, il contenuto.
Nel pomeriggio Babilonia Teatri hanno riproposto il loro fortunato Pop star. Il disagio sociale della regione est è stato affrontato anche North b-East da Colectivo tbt e Carichi Sospesi, associazioni culturali padovane sostenute da Echidna. Marco Tizianel e Silvio Barbiero hanno costruito un ritmo individuale sui pensieri di due personaggi nello sfondo del paesaggio urbano veneto di capannoni e locali minimal lounge: sono uno studente fuori corso che si fa carico del costo della vita del mito nordestino e un bancario integrato ma cinico. Sfiorandosi, specchiandosi ai due lati opposti del palcoscenico e infine incontrandosi, interpretano un’alterità esistenziale sdoppiata tra alienazione e intellettualismo.
Vasco Mirandola ha recitato in diversi film con Carlo Mazzacurati e Gabriele Salvatores, ha pubblicato libri di poesie, collaborando con la compagnia di danza Sosta Palmizi, e da pochi anni fa percorsi di letture di romanzi e poesie nelle case e in ambientazioni particolari. E se fosse lieve parla dell’importanza della poesia vissuta attraverso la danza come una presa di coscienza della condizione umana. Insieme a Enrica Salvatori, danzatrice che ha lavorato con Caroline Carlson, Suzanne Linke, Raffaella Giordano e nel 1993 con Pina Bausch in Le Sacre du printemps, Mirandola ha costruito un dialogo danzato sul colore, sull’amore e sul dolore di alcune poesie, facendo camminare le parole tra disegni e sculture di Carlo Schiavon.
Ha debuttato in serata, sempre al Teatro delle Maddalene, in forma di lettura scenica, La Bancarotta o sia Mercante fallito, “commedia parte scritta e parte a soggetto, e ora cambiata, riformata e in più moderna forma ridotta” di Vitaliano Trevisan. Scrittore e drammaturgo, noto al pubblico dal 2002 per I quindicimila passi, i suoi testi teatrali sono stati messi in scena, tra gli altri, da Valter Malosti e Toni Servillo, e di recente ha pubblicato da Einaudi i due monologhi Oscillazioni e Solo RH, portato in scena a Roma da Roberto Herlitzka. A questa lettura, che debutterà in forma definitiva sulla scena nell’estate del prossimo anno, hanno dato voce lo stesso Trevisan, Giancarlo Previati, Mirco Artuso, Vasco Mirandola, Pino Costalunga, Riccardo Bocci e Valentina Brusaferro.
Trevisan in Bancarotta.
Nello scenario della Bancarotta di Goldoni, rappresentata al San Samuele nel carnevale del 1741, Trevisan ha ritrovato echi del nostro presente: è dunque partito dal testo per “usare le specifiche goldoniane come un programma di interfaccia per leggere il presente e innestarlo in quel passato”.
Personaggi cinici, abituati a spendere i soldi in affari e lussi ritraggono la società di un’inquinata metropoli del nord-est, parlando un dialetto acre come quello del Goldoni.
La conclusione di questa ricca vetrina è stata efficacemente consegnata allo spirito buffone di Paolo Puppa, ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo alla Facoltà di Lingue e Letterature dell’ Università di Venezia, drammaturgo e protagonista del monologo Il vecchio Stefano, un brano tratto da un copione dello stesso Puppa, Venire a Venezia, dove è intitolato Il geometra. Lo studioso è entrato in scena chiedendo se poteva concedersi di fumare in palcoscenico, per personificare nel presente scenico della vita il ruolo di un vecchio geometra, vedovo e in pensione, che sfoga l’ossessione nei confronti del figlio che, dalla camera accanto alla sua, gli disturba il sonno a causa dei suoi rumorosi amplessi. Puppa, attraverso questa voce, evoca l’incantesimo della vita quotidiana degli abitanti di Venezia, il loro rapporto con la casa e gli amori privati, per ricordare la sofferenza della vecchiaia come discriminazione sociale, che impone di convertirsi al “Bisogna vivere lontano dagli affetti”.
L’edizione zero del festival annuncia che è necessario incrociare gli sguardi per far crescere la cultura nel territorio perché “la vivacità di creatività teatrale è segno antropologico”, come ha detto Porcheddu, il quale ha invitato gli spettatori a un confronto tra dinamiche creative, a un’articolazione di linguaggi culturali con cui sfidare le derive superficiali.
Il Ministero sposta il termine di consegna delle domande da ottobre a gennaio La data fissata al 31 gennaio 2010 di Redazione ateatro
Il termine di consegna delle domande per la richiesta di sovvenzioni è stato spostato dal Ministero dello Spettacolo da ottobre a gennaio: un rinvio che riflette una generale incertezza sugli effetti e sulla applicazione della recente legge finanziaria, che da un lato dà qualche respiro alle compagnie, dall'altro creerà senz'altro ritardi e problemi: l'incertezza rende sempre più difficile impostare i programmi per il futuro.
E intanto si continua a discutere del reintegro del Fus e della nuova legge per il teatro, anche se l'attuale situazione politica impone altre priorità.
Un Soleil au Cinéma. I Film di Ariane Mnouchkine. Milano, 19 - 24 ottobre 2010 Cinema Gnomo, Milano 19-24 ottobre 2010 di Lodi Fim Festival
Un Soleil au Cinéma. I film di Ariane Mnouchkine
Per la prima volta in Italia retrospettiva integrale dei film di Ariane Mnouchkine.
Ariane Mnouchkine, regista di teatro e di cinema francese, è la prova di come il sogno utopistico di una sola persona possa trasformarsi in realtà concreta e vivente. Difatti, più di quarantacinque anni fa, il Théâtre du Soleil e qualche anno dopo la Cartoucherie sono stati fondati attraverso la difficile e coraggiosa ricerca di una “verità teatrale”. Il confronto, serrato e rigoroso, è stato con le tradizioni del passato – dalla tragedia greca alla Commedia dell’Arte, dalle opere di Shakespeare e Molière alle tecniche dei teatri orientali dalle maschere della tradizione Balinese al teatro Nō giapponese – il tutto teso al raggiungimento della creazione della “commedia del nostro tempo”. La Mnouchkine non dimentica però che il proprio magistero deve necessariamente ancorarsi a forti valori etici e politici che cortocircuitino le barriere culturali e religiose contemporanee al fine di esprimere le passioni, le paure e l’amore dei nostri contraddittori anni. Fin dall’inizio, Ariane Mnouchkine si è distinta nella necessità di espressione collettiva.I principi ispiratori sono nelle teorie teatrali di Jean Vilar, Bertold Brecht, e soprattutto di Antonin Artaud per “la centralità accordata all'attore e i riferimenti costanti ai teatri asiatici”. E il suo cinema crea e innesta in tale prospettiva, un “punto di vista” che non è la mera ripresa cinematografica, televisiva o video dello spettacolo, ma l’invenzione di un nuovo e imprevedibile originale. Agli inizi del 2011 la Mnouchkine girerà un film dal suo ultimo spettacolo “Les Naufragés du Fol Espoir”.
A cura di Fabio Francione
Una realizzazione Lodi Città Film Festival
Martedì 19
18:30Un soleil à Kaboul... ou plutôt deux
(2006, 75’, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Duccio Bellugi Vannuccini, Sergio Canto Sabido e Philippe Chevalier
21:00La nuit miraculeuse
(1989, 137’, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Ariane Mnouchkine, sceneggiatura Ariane Mnouchkine e Hélène Cixous, dialoghi Hélène Cixous, musica Jean-Jacques Lemêtre, fotografia Bernard Zitzermann, scenografia Guy-Claude François, pupazzi Erhard Stiefel, costumi Nathalie Thomas e Marie-Hélène Bouvet. Il film è stato commissionato dall’Assemblée Nationale pour le Bicentenaire de la Déclaration des Droits de l’Homme
Mercoledì 20
18:30Tambours sur la digue, sous forme de pièce ancienne pour marionnettes jouée par des acteurs(2002, 158’,v.o. francese, sott. tit. in inglese)
regia Ariane Mnouchkine, musica Jean-Jacques Lemêtre, fotografia Vincent Bataillon, Eric Darmon e Bernard Ziztermann, montaggio Catherine Vilpoux
21:30Théâtre du Soleil d’après La Ville parjure ou le réveil des Erinyes
(1999, 75’, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Catherine Vilpoux, fotografia Eric Darmon, soggetto da una pièce di Hélène Cixous, regia teatrale Ariane Mnouchkine, musica Jean-Jacques Lemêtre
Giovedì 21
18:30 Les Ephémères
(2009, 90’, Recueil 1, 1-7, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
uno spettacolo del Théâtre du Soleil su proposta di Ariane Mnouchkine, regia Bernard Zitzermann, musica Jean-Jacques Lemêtre
20:00Au Soleil même la nuit, scènes d’accouchement (D’après le spectacle Tartuffe mis en scène par Ariane Mnouchkine en 1995)
(1997, 180’,v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Eric Darmon e Catherine Vilpoux in collaborazione con Ariane Mnouchkine
Venerdì 22
16:30Entretien d’Ariane Mnouchkine avec François Duplat filmè par Bernard Zitzermann
(2004, 45’, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Catherine Vilpoux, assistente alla regia Charles-Henri Bradier, intervistatore François Duplat, riprese Bernard Zitzermann, fotografie Michèle Laurent
17:30Le Dernier Caravansérail (Odyssées)
(2006, 138’, Première partie. Le Fleuve Cruel, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
un film del Théâtre du Soleil, regia Ariane Mnouchkine, musica Jean-Jacques Lemêtre, luci Bernard Ziztermann, montaggio Catherine Vilpoux, scenografia Serge Nicolaï e Duccio Bellugi Vannuccini
20:001789
(1974, 146’, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
Film da uno spettacolo del Théâtre du Soleil regia Ariane Mnouchkine, fotografia Bernard Zitzermann
Sabato 23
16:00Les Ephémères
(2009, 86’, Recueil 1 (suite), 8-14, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
uno spettacolo del Théâtre du Soleil su proposta di Ariane Mnouchkine, regia Bernard Zitzermann, musica Jean-Jacques Lemêtre
17:30 Les Ephémères
(2009, 69’, Recueil 2, 15-21, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
film da uno spettacolo del Théâtre du Soleil su proposta di Ariane Mnouchkine, regia Bernard Zitzermann, musica Jean-Jacques Lemêtre
19:00 Le Dernier Caravansérail (Odyssées)
(2006, 132’, Deuxième partie. Origines et Destines, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
un film del Théâtre du Soleil, regia Ariane Mnouchkine, musica Jean-Jacques Lemêtre, luci Bernard Ziztermann, montaggio Catherine Vilpoux, scenografia Serge Nicolaï e Duccio Bellugi Vannuccini
21:30 Molière
(1978, 115’, Prèmiere Époque, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
sceneggiatura e regia Ariane Mnouchkine con il Théâtre du Soleil, scenografia Guy-Claude François, costumi Daniel Ogier, fotografia Bernard Zitzermann, musica originale René Clémencic, Dialoghi in italiano Cesare Garboli
Domenica 24
15:00 Un cercle de connaisseurs (film documentaire autour de la rencontre entre une classe de 6ème à Quimper et le Théâtre du Soleil)
(2010, 60’v.o. francese, sott. tit. in italiano)
regia Jeanne Dosse
16:00 Les Ephémères
(2009, 102’, Recueil 2 (suite), 22-29, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
Film da uno spettacolo del Théâtre du Soleil su proposta di Ariane Mnouchkine, regia Bernard Zitzermann, musica Jean-Jacques Lemêtre
18:00 Du théâtre au cinéma : Ariane Mnouchkine relate certaines étapes de la creation du film
(2002, 22’v.o. francese, sott. tit. in italiano)
ideazione e montaggio Catherine Vilpoux, commento Ariane Mnouchkine, suono Patrick Mauroy, riprese Manuel Irminger, Ariane Mnouchkine, Vincent Bataillon, Eric Darmon, Bernard Zitzermann
19:30 Ariane Mnouchkine, l’aventure du Théâtre du Soleil
(2009, 75’, v.o. francese, sott. tit. in inglese)
regia Catherine Vilpoux
21:30 Molière
(1978, 128’, Deuxième Époque, v.o. francese, sott. tit. in italiano)
sceneggiatura e regia Ariane Mnouchkine con il Théâtre du Soleil, scenografia Guy-Claude François, costumi Daniel Ogier, fotografia Bernard Zitzermann, musica originale René Clémencic, Dialoghi in italiano Cesare Garboli
Si ringrazia: Théâtre du Soleil, Franck Pedino, Barbara Bertini, Duccio Bellugi Vannuccini, Biblioteca della Cineteca di Bologna, Bel Air Media, Agat Film. Sottotitoli in Italiano a cura di Altera Cinema
Un ringraziamento speciale a Ariane Mnouchkine
Con il contributo della Fondazione Banca Popolare di Lodi
Assessore alla Cultura
Massimiliano Finazzer Flory
Direttore Centrale
Massimo Accarisi
Direttore del Settore Spettacolo
Antonio Calbi
Ufficio Cinema
Anna De Benedetto - Responsabile Cristina Bornaghi Manuela Sertori Marta Pirola www.comune.milano.it
Info: Cinema Gnomo, Via Lanzone 30/A (Vicolo Sant’Agostino) - 20123 Milano tel. 02.804 125
Come si raggiunge Cadorna M1, S.Ambrogio M2, Bus 94, 50, 58 - Tram 14, 2
Prezzi:Interoeuro 4,10; Ridottoeuro 2,60; Tessera associativa euro 2,60
Ultimi posti disponibili: Organizzatore dello Spettacolo dal Vivo iscrizioni prorogate al 1° novembre 2010 di Milano Teatro Scuola Paolo Grassi
Organizzatore dello Spettacolo dal Vivo
Progettare e gestire cultura
Durata: 2 anni
A chi si rivolge
Studenti e professionisti interessati al teatro, musica, danza, ed eventi culturali, con spiccate predisposizioni per la progettazione, la gestione e il coordinamento di progetti di spettacolo.
A cosa prepara
Il Corso prepara 'organizzatori dello spettacolo dal vivo', formando professionisti specializzati nei vari campi del settore e consapevoli del valore culturale di questa professione.
Descrizione
Sono tre i punti di forza di questo corso che è il primo corso di organizzazione teatrale fondato in Italia: la scelta dei docenti, professionisti dello spettacolo in grado di garantire uno stretto collegamento con il mondo del lavoro; gli allievi formati sul campo attraverso stage nelle principali istituzioni culturali pubbliche e private italiane; e la specificità della Scuola di riunire i corsi per la formazione delle varie professionalità dello spettacolo (attori, danzatori, registi, drammaturghi) e di promuovere progetti di spettacolo veri e propri, che permettono agli allievi “organizzatori” di lavorare a stretto contatto con le creazioni artistiche e di sperimentarne i risvolti organizzativi e promozionali.
Obiettivi
L’obiettivo del corso è dare consapevolezza delle politiche, delle pratiche e delle tecniche che conformano il sistema dello spettacolo dal vivo con approfondimenti specifici per i diversi settori (prosa musica danza).
Il lavoro laboratoriale e quello in aula è finalizzato a sviluppare capacità di progettazione, produzione, promozione e di coordinamento organizzativo di tutti i settori, artistici e tecnici.
Docenti
Tra i docenti del corso si annoverano i nomi di: Cecilia Balestra, Felice Cappa, Monica Colombini, Patrizia Cuoco, Lory Dall'Ombra, Mimma Gallina, Anna Guri, Serenella Hugony, Alessandra Maculan, Maria Maderna, Remo Melloni, Chicco Minonzio, Sergio Oliva, Ira Rubini, Lorenzo Scarpellini, Giovanni Soresi, Carlo Torresani, Alessandra Vinanti.
Molti sono i docenti ospiti, nell'accademico 2009/2010 appena terminato sono intervenuti: Anna Bandettini, Angela Fumarola, Fanny Bouquerel, Didi Gnocchi, Andrea Pignatti, Jordi Sellas Ferrés, Sabrina Peron, Antonio Valente.
Titolo rilasciato
Attestato di competenza (Formazione Permanente) rilasciato da Regione Lombardia.
La Scuola ha tuttavia presentato domanda per rilasciare titoli di laurea di primo e secondo livello Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM) e il corso è in attesa di diventare laurea magistrale di secondo livello.
Si legga 'il percorso verso l’AFAM':
http://www.scuolecivichemilano.it/on-line/teatro/Home/DIDATTICA/Corsi/articolo3001919.html
Destinatari del corso
Studenti che hanno superato la prova di ammissione:
Laureandi - Persone in possesso del titolo di laurea universitaria di primo livello o diploma equipollente.
Coloro che non possiedono il titolo di laurea potranno comunque partecipare alle ammissioni ed essere selezionati per la frequenza in qualità di uditori.
Iscrizioni agli esami d'ammissione direttamente online alla pagina
http://www.scuolecivichemilano.it/on-line/teatro/Home/DIDATTICA/Corsi/IndiceCorsi/corso74.1.html
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Per info
Milano Teatro Scuola Paolo Grassi - Fondazione Milano –– via Salasco 4, 20136 Milano
tel. +39.02.58.30.28.13
info_teatro@scmmi.it
www.fondazionemilano.eu
Pasolini e il teatro: convegno a Casarsa e Bologna 5-6 novembre e10-11 novembre di Centro Studi Pier Paolo Pasolini
Incontri, proiezioni, letture
Casarsa della Delizia (PN)
Centro Studi Pier Paolo Pasolini – Casa “Colussi” e Teatro Comunale
venerdì 5 – sabato 6 novembre 2010
Bologna, Auditorium DMS
mercoledì 10 – giovedì 11 novembre 2010
A 35 ANNI DALLA SCOMPARSA DI PIER PAOLO PASOLINI, IL TEATRO ITALIANO RIFLETTE SULLA DRAMMATURGIA E SULLA VOCAZIONE SCENICA DEL GRANDE POETA: UNA INCONFONDIBILE «LIBERTÀ DRAMMATURGICA NON COSTRETTA DA SCHEMI» (LUCA RONCONI)
“Il teatro che vi aspettate, anche come totale novità, non potrà mai essere il teatro che vi aspettate. Infatti, se vi aspettate un nuovo teatro, lo aspettate necessariamente nell’ambito delle idee che già avete; inoltre, una cosa che vi aspettate, in qualche modo c’è già (…) Oggi, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso. I destinatari del nuovo teatro non saranno né divertiti né scandalizzati dal nuovo teatro, perché essi, appartenendo ai gruppi avanzati della borghesia, sono in tutto pari all'autore dei testi”
Pier Paolo Pasolini
Manifesto per un nuovo Teatro
marzo 1968
“Pasolini non è un uomo di teatro [...] è un poeta che scrive testi teatrali”
intervista a Stanislas Nordey
in Pasolini Pier Paolo, Teatro, "I Meridiani"
Mondadori, Milano, 2001
CASARSA – A trentacinque anni dalla scomparsa di Pier Paolo Pasolini, i registi che hanno dato voce nel tempo al suo ‘nuovo’ «teatro di parola», portando in scena le tragedie borghesi nate in opposizione al «teatro della Chiacchiera e dell’Urlo», si incontrano venerdì 5 e sabato 6 novembre a Casarsa (Pordenone), in occasione di “Pasolini e il teatro”, il cartellone di incontri, tavole rotonde, proiezioni e spettacolo che troverà riferimento nel Centro Studi nato proprio nei luoghi di Pier Paolo Pasolini, e che ha sede nella storica abitazione della famiglia materna di Pasolini, casa Colussi. Due giorni che registreranno la partecipazione, fra gli altri, di Giorgio Pressburger, Andrea Adriatico, Massimo Castri, Roberta Nicolai, Antonio Syxty, Renato Palazzi, Italo Moscati, Oliviero Ponte di Pino, Paolo Puppa, e le testimonianze filmate di Armando Punzo, Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Un percorso che giungerà a conclusione a Bologna, in un’ideale staffetta pasoliniana, nelle giornate di mercoledì 10 e giovedì 11 novembre: negli spazi del Dams, per iniziativa del Fondo “Pier Paolo Pasolini” -Cineteca di Bologna sarà organizzato un convegno internazionale di studi recenti sul teatro pasoliniano.
“Pasolini e il teatro” è un progetto ideato da Angela Felice, direttore del Centro Studi Pasolini di Casarsa, e da Stefano Casi, docente al Dams di Bologna e autorevole studioso del teatro pasoliniano, ed è organizzato con il sostegno della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia – Assessorato alla Cultura, della Provincia di Pordenone, della Città di Casarsa e dell’Erdisu-Università degli Studi di Udine, insieme al patrocinio del Teatro Nuovo Giovani da Udine e della Civica Accademia “Nico Pepe” di Udine.
Pier Paolo Pasolini condensava nel suo Manifesto per un nuovo teatro, pubblicato nell’anno di svolta epocale del 1968, il progetto teorico che sta alla base del suo impegno per il teatro, e che il doppio appuntamento di Casarsa e Bologna intende sviluppare, con attenzione mirata alla drammaturgia e all’impegno teatrale pasoliniani. In genere il sospetto della letterarietà, del preponderante impianto concettuale e quindi della limitata praticabilità scenica grava sul corpus delle opere pasoliane scritte per il teatro. Un pregiudizio che, rispetto ai tanti canali espressivi del genio pasoliniano, ha portato talora ad attenuare quanto meno in ottica strettamente scenica il valore anche dei sei magnifici esempi di tragedie borghesi in versi - Calderon, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile e Affabulazione - concepiti durante la “ferita” della malattia che nel 1966 costrinse Pasolini ad un periodo di forzata immobilità fisica e di forsennata scrittura. La diffidenza nasce anche dal rigido carattere programmatico dello stesso “Manifesto”, con la sua radicale opposizione tra il teatro di parola, e di parola alta e “sublime”, e quello della Chiacchiera e dell’Urlo, cioè da un lato, della scena borghese e ufficiale e, dall’altro, di quella sperimentale e alternativa.
L’appuntamento “Pasolini e il teatro” si propone appunto di correggere in ottica teatrologica, queste chiavi di lettura e mettere in luce le sorprendenti fertilità dell’impervia scrittura teatrale pasoliniana, di pari dignità rispetto agli altri multiformi canali in cui ha trovato espressione il genio del grande poeta. Per il suo teatro si può parlare anzi di una lunga “vocazione”, che fiorì già dagli anni friulani, dove esso è assestato nel cuore di interessi e iniziative anche pratiche, e in seguito proseguì in un’incessante sperimentazione, tra arresti, improvvise accensioni, entusiasmi, ripensamenti, contaminazioni con il cinema, il cabaret e la musica. Per Pasolini il teatro è una sfida con se stesso e un riferimento necessario per poter entrare in contatto con la società tramite la forza eversiva e controcorrente della parola alta e difficile: un crocevia incandescente tra ossessioni autobiografiche e passione a suo modo pedagogica. E non per nulla, in virtù di queste vitali e intense pulsioni interne, dopo Pasolini alcuni grandi uomini di teatro ne hanno raccolto il carattere di rischio, valorizzandovi – sottolinea Ronconi- una inconfondibile «libertà drammaturgica non costretta da schemi». Da lì alcuni memorabili allestimenti, tra i più folgoranti e perturbanti della scena contemporanea.
Venerdì 5 e sabato 6 novembre, a Casarsa, fra il Centro Studi – casa Colussi e il Teatro Pier Paolo Pasolini, si parlerà innanzitutto dell’esperienza di grandi registi che hanno affrontato la parola teatrale di Pasolini: “Il mio Pasolini” titola appunto la tavola rotonda (ore 15) che vedrà protagonisti Andrea Adriatico, Massimo Castri, Roberta Nicolai, Giorgio Pressburger e Antonio Syxty, coordinati dai critici Renato Palazzi e Angela Felice, con videoproiezione delle testimonianze di Armando Punzo, Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Si proseguirà con la videoproiezione del “Mosaico Calderòn”, a cura dell'Archivio Pasolini di Bologna, commentato dal critico e saggista Italo Moscati, profondo conoscitore dell’opera pasoliniana nella particolare lettura che ne diede Ronconi.
E nell’evento dedicato al teatro di Pasolini non potevano mancare le locandine, i manifesti, i programmi di sala che hanno raccontato e illustrato storici spettacoli pasoliniani: il pubblico potrà scoprirli o ritrovarli nella mostra "Tracce di teatro" che sarà allestita a Casa “Colussi”, un percorso espositivo che schiuderà anche molte copertine di testi teatrali di Pasolini pubblicati all'estero, e che sarà realizzato anche in collaborazione con l’Ert Fvg, l’Accademia D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, per il coordinamento del suo direttore Lorenzo Salveti, Associazione Mittelfest, Nuovoteatronuovo-Napoli, Teatridithalia – Milano, Teatri di Vita-Bologna, Teatro Franco Parenti-Milano,Teatro Litta –Milano, Teatro Mercadante-Napoli, Teatro OutOff-Milano, Teatro Triangolo Scaleno-Roma e con il Teatro Mercadante di Napoli. Vernice venerdì 5 novembre alle 19.15.
Ai"Dialoghi friulani", per la prima volta proposti in lettura nella mise en espace affidata alle voci degli attori Francesca Ballico e Fabiano Fantini, per le musiche del chitarrista Denis Biason, sarà dedicata la serata teatrale di venerdì 5 novembre: sipario alle 20.30 al Teatro Pasolini, con introduzione di Maura Locantore, che ai “Dialoghi”, custoditi in autografo nell’Archivio del Centro Studi, ha dedicato i suoi studi recenti. Un appuntamento importante per conoscere gli incunabili della sensibilità teatrale di Pasolini, che in questi esercizi proto-drammaturgici databili tra il 1943 e il 1944 affidava al contraddittorio allegorico tra due dialoganti quel motivo del doppio che pervade tanta parte dell’opera pasoliniana e che rimanda a evidenti dialettiche drammaturgiche in bozzolo .
Infine, nella mattinata di sabato 6 novembre, inizio alle ore 9.45, una riflessione dedicata al “Teatro di Pasolini: utopia o concretezza?” arriverà con la tavola rotonda che prevede interventi di Stefano Casi, Renato Palazzi, Oliviero Ponte di Pino, Paolo Puppa e Giacomo Trevisan, con una comunicazione di Isadora Cordazzo, coordinati da Mario Brandolin.
Il convegno sarà concluso infine dal racconto di Nico Naldini, a testimonianza degli anni giovanili del cugino Pier Paolo, che particolarmente negli anni friulani maturò una precoce sensibilità allo scrivere e al fare teatro.
Nelle giornate di mercoledì 10 e giovedì 11 novembre, il Convegno internazionale di studi recenti sul teatro di Pasolini, per la cura di Stefano Casi e Gerardo Guccini, si svolgerà nelle sedi del Dams di Bologna: previsti interventi di Martina Banchetti, Andrea Biasi, Paola Bignami, Alessandro Cadoni, Stefano Casi, Barbara Castaldo, Marialaura Chiacchiararelli, Roberto Chiesi, Fabrizio Di Maio, Angela Felice, Anne Julie Fett, Silvia Giuliani, Gerardo Guccini, Paolo Lago, Gigi Livio, Davide Luglio, Lorenzo Mango, Massimo Marino, Amandine Melan, Daniele Micheluz, Laura Nascimben, Maria Rita Nepomuceno, Gian Luca Picconi, Irina Possamai, Stefania Rimini, Dario Tomasello, Giacomo Trevisan.
Nel corpo dell'attrice Maria Paiato è Erodiade nel monologo di Giovanni Testori di Fernando Marchiori
Maria Paiato è Erodiade (foto Pino Le Pera)
Per Giovanni Testori Erodiade è una battaglia che si combatte su quel terreno minato che è il corpo dell’attrice. Pensa alle figure di Francis Bacon, lo scrittore lombardo, quando riscrive il testo sulle misure attorali di Adriana Innocenti, nel 1984, scendendo in campo egli stesso come regista. Fugate le ombre di decadentismo secessionista che vedeva allungarsi sulla prima stesura risalente al 1967-’68, scritta per Valentina Cortese e mai portata in scena, ora Testori coglie in pieno la metafora del teatro che agita il sottotesto e ne assume tutte le conseguenze sceniche, rovesciando in primo piano la potente struttura metateatrale del suo lavoro. Così lo spettacolo simula una prova – quasi a dimostrare che «la prova è poi l’unico modo di far teatro», dirà l’autore, perfettamente in linea con le più sapienti sovversioni della ricerca novecentesca –, il bacile con la testa del Battista è sostituito dalla cavea da cui il pubblico viene continuamente chiamato in causa e il sacrificio diventa metafora dell’arte dell’attore, l’incarnazione essendo «una assoluta necessità per un teatro che voglia oggi esistere». Come e più di altre opere testoriane – l’autore la considerava drammaturgicamente la più violenta – Erodiade ha bisogno, in tutte le sue versioni, di una presenza scenica disposta a lasciarsi penetrare dalle convulsioni del testo e insieme capace di sostenere, nel corpo a corpo lascivo e dolente, lo sguardo presente dello spettatore e quello assente dell’autore, «l’indegno cane che va scrivendomi». Le interpreti dei lavori di Testori – da Pupella Maggio a Rosa Di Lucia, da Lilla Brignone a Adriana Asti, da Franca Valeri fino a Arianna Scommegna, recente Cleopatràs – ci ricordano sempre che non siamo fatti della sostanza dei sogni, ma di carni tormentate e anime perdute. Tuttavia Erodiade, su cui non a caso l’autore tornerà ancora una volta poco prima della morte, impone un investimento ulteriore nel superamento della finzione teatrale, perché «in teatro il dramma di Erodiade è anche il dramma dell’attrice che la recita», spiegava Testori. Lo sa bene Iaia Forte che l’anno scorso con Sandro Lombardi ha complicato ulteriormente le cose intrecciando Erodiade a Erodiàs, l’estrema e linguisticamente la più inventiva versione del lamento. Come già nel 1991 Raffaella Boscolo, con la regia di Antonio Syxty, l’Erodiade di Maria Paiato diretta da Pierpaolo Sepe muove invece dalla prima versione, matrice delle elaborazioni che ne seguirono, rispetto alle quali suona ancora “accettabile”, ovvero riconducibile a una convenzionalità rappresentativa poi radicalmente messa in questione. Scelta comprensibile in tempi di normalizzazione, e particolarmente adatta al debutto avvenuto all’interno del 63° ciclo di spettacoli classici del Teatro Olimpico di Vicenza. Asciugata e ripulita dei pur cruciali affondi metateatrali, ritenuti forse troppo ingombranti, la messinscena resta dunque quasi sempre tale e il monologo può concentrarsi sulla lotta impari e disperata tra la concubina di Erode e il Battista, attraverso il quale è Cristo stesso a essere tirato in ballo, un Cristo ancora lontano e già scandaloso. Erodiade ha lasciato il suo posto – il potere, la ricchezza – alla figlia Salomè in cambio della testa del Battista, che ha rifiutato il suo amore. All’integrità ostentata dal profeta lei oppone il disfacimento; al suo messaggio di salvezza celeste, la sciagura terrena; all’«incrocio sconcio e bastardo in cui il tuo Dio s’era fatto carne e sangue», un incrocio di umiliazione e offesa, «una corruzione che dilagasse nella reggia, una corruzione di carne senza legge e senza dèi». Maria Paiato regge e controbilancia con il suo fare diretto e sanguigno l’ornato testoriano già impegnativo nella prima versione. Sembra seguirlo con la partitura gestuale e trattenerlo con quella vocale. Per interrogare il nucleo della narrazione evangelica della cattura di Giovanni Battista da parte di Erode (Luca 3,19-20) e della sua decapitazione (Matteo 14, 3 sgg), Testori cerca infatti di spolparlo dagli strati sovrapposti dei modelli del realismo e del decadentismo (da Flaubert a Wilde a Mallarmé), e lo fa, paradossalmente, affondando le unghie della retorica amorosa, il barocco della sensualità mistica, della carnalità orante, dello sproloquio erotico di fronte all’oscenità di un dio «uscito anche lui dalle viscere inquiete e martoriate di una donna». L’attrice rodigina trova fin dalle prime battute una difficile medietà tra la radicalità del dettato testoriano e le necessità spettacolari di un allestimento destinato al pubblico dei grandi teatri, a cominciare da quelli che lo producono, lo Stabile del Veneto e l’Eliseo di Roma. I lunghi, calorosi applausi nelle serate del debutto vicentino al Teatro Olimpico hanno confermato che l’operazione in questo senso è andata a buon fine. Quel che colpisce è, ancora una volta, la potenza e la raffinatezza di un’attrice anomala nel nostro panorama, colta e popolare a un tempo, testoriana anche prima dell’incontro con Testori. Di fronte alla precisione del suo monologo, all’immediatezza con cui scioglie dei nodi interpretativi e drammaturgici di una complessità paralizzante, le scelte “modernizzanti” adottate per costumi, musiche e scene risultano tuttavia inutili orpelli. Perché i nodi sono qui il teatro interiore di un’interprete visitata da una grazia urlante, quella di un Anticristo assalito e abitato dal Cristo, e le scelte sono il lungo vestito da sera rosso e la pelliccia bianca, la musica rock e gli occhi pesantemente truccati di nero. I nodi sono il tormentato disvelarsi di un corpo-mente in scena e la natura stessa del teatro, le scelte sono i tacchi alti su un pavimento di vetro, le luci stroboscopiche e i guanti rossi per le mani insanguinate dal suicidio. Quando infine le luci si accendono sulle gradinate palladiane e l’attrice, scalza e scomposta, si avvicina agli spettatori, ci si ricorda per un momento di essere, di là dell’«immensa parete d’aria», parte in causa.
Maria Paiato è Erodiade (foto Pino Le Pera)
Declinando teatro Perché c'è crisi al Teatro San Martino di Roberto Latini
Roberto Latini, direttore artistico del Teatro San Martino a Bologns, qualche giorno fa ha lanciato un grido d'allarme. Avrebbe dovuto presentare la prossima stagione, invece ha detto: "Così non si può". Poi ha spiegato: "Non è solo un problema mia, è il sistema che si è inceppato. È il teatro che in Italia non può più funzionare".
Ecco alcuni spunti della sua riflessione.
Ringrazio per la disponibilità al confronto e per la nuova occasione. Ci tengo a precisare ulteriormente la posizione dalla quale scrivo che non è per la rivendicazione di una soluzione specifica dei problemi del Teatro San Martino, ma nell’esortazione di un ragionamento che possa includerci senza limitarsi a risolverci.
Ho annunciato la sospensione della programmazione 2010-2011 per motivi principalmente economici. Questa è però una conseguenza di qualcosa d’altro che è invece quanto mi piacerebbe potesse diventare l’argomento di discussione. Tutti i problemi di gestione della cultura sono legati ad un problema semplicemente culturale. Il Teatro San Martino è soltanto l’ultima conseguenza di questa politica. E la politica dovrebbe essere l’applicazione di un pensiero.
Non si possono pensare le istituzioni come un interlocutore assistenziale, né le istituzioni possono trovarsi a risolvere, questione per questione, tutti quelli che nel tempo potrebbero reclamare un’attenzione. Bisognerebbe smetterla di inventare, volta per volta, soluzioni provvisorie. Bisognerebbe capire che sono forse maturi i tempi perché un pensiero più grande possa diventare esempio per altri pensieri.
L’esperienza delle nostre ultime tre stagioni mi piacerebbe fosse considerata come patrimonio comune, come anche comune mi piacerebbe potesse essere il pensiero applicato alla gestione del patrimonio culturale. Ho cercato di spiegare che non vogliamo essere salvati con una qualche dose di miracolo. Siamo un gruppo di persone che in questi anni si è concentrato sulla buona riuscita di un progetto che si chiama “condivisione”. Il Teatro è di tutti, non di chi se lo può permettere. Contrariamente, si rischia il paradosso che trasforma i teatri in aziende private in cui gli spettatori diventano “i clienti”. Questo dovrebbe essere culturalmente inaccettabile e inaccettato.
Il sistema teatrale italiano è un malato in fase terminale, tenuto in vita con soluzioni quotidiane che non riescono a garantire niente più del riconoscimento della crisi
i>che è, per certi versi e in parecchie situazioni, l’alibi perfetto per l’indecisionismo e per il non-coraggio di cui questo paese riesce puntualmente a servirsi. O l’italia è un paese in cui la fuga dei cervelli c’è già stata, oppure c’è un’intelligenza inarrivabile che governa e insegna. In ambedue i casi, il disagio di questa condizione dovrebbe provare almeno una soluzione: la politica dovrebbe darsi gli strumenti per mettersi da parte. Dovrebbe la cultura tutta non correre mai alcun rischio dentro gli avvicendamenti politici. Se questo non succede a livello nazionale, un Comune come quello di Bologna potrebbe dare un segnale preciso e innovativo. Forse i tempi sono davvero maturi per un vero salto culturale. Forse potrebbe addirittura questo essere il regalo della crisi. Il Teatro San Martino può essere un’occasione sprecata come anche sprecata è stata quella del Teatro Duse.
Bisognerebbe smetterla di risolvere problemi. Bisognerebbe agire con nettezza e con coraggio un ripensamento generale. Non diventare complici di questo sistema che ha ammesso ormai da anni i suoi limiti fondamentali. Solo attraverso la potenza delle idee non distratte dalla convenienza e dai miraggi di qualsiasi stratagemma, sarà possibile un’evoluzione. La misura unica di una società è la sua capacità di leggersi e di scriversi. L’espressione di sé è il Teatro. Potremmo avere, tutti insieme, più rispetto per noi stessi.
La vocazione teatrale e le occasioni mancate di una attrice-Dramaturg Claudio Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia, Le Lettere di Oliviero Ponte di Pino
Per tutto quello che ha dato al teatro italiano, Marisa Fabbri merita senz'altro una biografia meticolosa e ricca - massiccia, verrebbe da dire, con le sue 574 pagine più il CD allegato - come quella che le ha dedicato Claudio Longhi, Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia, Le Lettere, 48,00 euro). E, per quel poco che il teatro italiano le ha restituito, un'attrice anomala come lei merita una biografia che sia anche problematica e spinga alla riflessione.
La presentazone del volume. 15 ottobre 2010, foyer del Teatro Argentina, Roma: Siro Ferrone, Edo Bellingieri, Massimo Popolizio.
Non è mai facile raccontare un attore: inutile ricamare sul fatto che la sua arte è effimera, eccetera eccetera. Il problema è come contornare l'ostacolo. Una delle strade possibili è di risalire con attenzione le tracce, e cercare di capire gli inizi, le scintille che hanno acceso una "vocazione teatrale". Insomma, cercare di capire, in questo caso, come ha fatto Marisa Fabbri a diventare Marisa Fabbri. Nella ricostruzione meticolosa di Claudio Longhi, sono pagine quasi romanzesche: la città in cui cresce Marisa è quella dei romanzi di Pratolini e Bilenchi. Ma curiosamente quello che ne viene fuori è un mondo quasi diviso a metà: da un lato, in quella Firenze a cavallo della guerra, c’è l'universo delle filodrammatiche, il teatro al livello più immediato (almeno in un ambiente popolare), ma in qualche modo ancora legato alla tradizione (compresi tecniche, virtù, vezzi e vizi) del grande attore all’italiana, con il piacere dell’esibizione e del travestimento, del rapporto con il pubblico. Dall'altro però, nella scuola di teatro intermittente che Marisa frequenta in via Laura (e di cui Longhi ha raccolto tutti gli indizi disponibili, a cominciare dal ritratto del suo nume tutelare, un avvocato generosamente innamorato dei libri e del teatro), c'è una ambizione culturale, di matrice soprattutto letteraria - la grande tradizione della letteratura italiana - che dà spessore e profondità al piacere del gioco teatrale, che è e deve essere anche fatto d’arte. Questo amore e rispetto per il testo sarà il fondamento su cui costruire il rapporto con due "registi-lettori" diversi per curiosità, sensibilità e metodo, ma entrambi d'eccezione come Strehler e Ronconi.
Massimo Popolizio (al tavolo con Edo Bellingieri e Claudio Longhi) ricorda: "Marisa mi diceva: 'Sì, Carmelo era davvero un gran signore. Pensa, un giorno mi ha detto: "Ronconi ti ha fatto brava. Io ti farò ricca!"'"
Su questo aspetto si innesca, con qualche ritardo, l'incontro con la regia e con i maestri: prima Strehler, appunto, ma anche Trionfo, e poi soprattutto Ronconi, che inseriscono in una diversa cornice le matrici che hanno formato quell’attrice in un percorso in sostanza da autodidatta curiosa e intelligente: le filodrammatiche e il teatro dialettale, la consapevolezza della qualità letteraria dei testi, una tensione etica prima ancora che politica, quella che ispira anche le sue scelte di carriera. Con questi registi, Marisa Fabbri inserisce le proprie variegate (e forse divergenti) qualità in una cornice unitaria che molto difficilmente avrebbe potuto costruire da sola. Ma al tempo stesso arricchisce l’esperienza dei suoi registi: esemplare il percorso di decostruzione e ricostruzione drammaturgica che porta alle strepitose Baccanti ronconiane a Prato, vero momento fondativo del “metodo” ronconiano.
Si coglie molto bene, da queste pagine quello che ha significato per gli attori - o forse per un certo tipo d'attore - l'incontro con il regista: l'elemento in grado di connettere il teatro e la letteratura drammatica, lo spettacolo e la parola, il piacere in fondo esibizionistico, edonistico, volatile, dell'attore e le altezze, la qualità, la perennità della pagina scritta. È una scoperta e una lezione alla quale molti attori “all'antica” hanno opposto in quegli stessi anni un rifiuto più o meno furibondo, in nome della loro tradizione e della loro arte; altri attori, meno "rocciosi", si sono adattati alla "dittatura del regista", da bravi esecutori, con un atteggiamento vagamente impiegatizio. Qualcuno, come Marisa, ha invece saputo trarne il meglio, con rigore e anche un grande lavoro - "mettendoci del suo", verrebbe da dire. (E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi. Quanto, di questa creatività d'attore, viene dall'esperienza personale, dal vissuto di ciascuno, per essere in qualche modo “sfruttato” dal regista? E questo connubio, non rischia di “prosciugare” il serbatoio esistenziale dell’attore? Ancora, quanto il "metodo" di un attore, man mano che si definisce, porta alla creazione di una maschera, prefissata e rigida, e quanto spazio resta alla variazione tra le varie incarnazioni?
Perché qui si arriva al nodo problematico: perché Marisa Fabbri non è diventata un’altra cosa? Perché è stata “solo” Marisa Fabbri? Una delle domande che Claudio Longhi pare implicitamente porsi, è perché mai Marisa Fabbri, pur avendone tutte le qualità e le capacità, non sa mai diventata un Carmelo Bene o un Leo De Berardinis. E’ una domanda che ispira soprattutto la seconda parte del libro, quella dedicata agli ultimi anni di Marisa, alla sua fase decisamente più "sperimentale".
Luigi Lo Cascio parla della voce di Marisa Fabbri.
Marisa Fabbri, pur essendo una grande interprete e una personalità creativa (oltre che carismatica), non ha mai voluto diventare un "attore-autore": non ha mai compiuto il passo che l'avrebbe portata oltre il teatro di regia (oppure, volendo giocare sul paradosso, non abbia mai voluto tornare all'indietro, verso una più moderna declinazione del "grande attore all'italiana", come paradossalmente hanno fatto, in chiave sperimentale e colta, Leo e Carmelo).
Le riposte che dà Claudio Longhi sono implicite e intrecciate tra loro. C'è un elemento generazionale, senz'altro. C'è di sicuro il fatto che per una donna era allora molto più difficile che per un maschio (e lo è ancora oggi). C'è forse la consapevolezza di un limite culturale (anche se si sono autoinvestiti della funzione di autore diversi attori senz'altro meno colti e intelligenti di Marisa). C’è come, ha notato Luigi Lo Cascio durante la presentazione del saggio al Teatro Argentina di Roma, i rispetto assoluto per il testo. E poi c'è forse - ma magari è una mia interpretazione maliziosa - anche una sorta di “nostalgia ideologica”, o forse e meglio c'è la necessità di una garanzia ideologica rispetto alla lettura del testo, che fa sì che la figura legittimante del regista resti necessaria, indispensabile.
Alla fine, quella che racconta Claudio Longhi è per un verso una storia molto bella: una grande persona, prima che una grande attrice e una vera artista. Una personalità generosa, coerente, che sapeva entusiasmarsi ed entusiasmava gli altri, i suoi colleghi e gli spettatori. È la storia di un’artista che costruisce e affina progressivamente la propria arte, con una serie di scelte professionali consapevoli, sapendo bene che in teatro - e in genere quando si tratta di arte e conoscenza - non si smette mai di imparare. La parabola di una artista di successo che, al vertice della carriera, sceglie di mettersi in gioco e rischiare, affidandosi a registi e drammaturghi più giovani.
Ma la carriera di Marisa Fabbri è anche - per usare un'espressione cara a Claudio Meldolesi, mentre Longhi cita Taviani, sulla "lancinante inadeguatezza" sull'inappartenenza al teatro del grande attore - la storia di una "occasione mancata": non solo e non tanto per alcune sue delusioni professionali, per così dire, ma per il fatto che la realtà teatrale italiana non ha permesso a Marisa di diventare qualcosa d'altro. Verso la fine della carriera, il nostro sgangherato sistema teatrale l'ha quasi spinta in quella direzione – per certi aspetti contro la sua natura più autentica, in condizioni oggettive sempre più difficili. Anche se poi quello stesso sistema culturale e prduttivo non le ha permesso di arrivare fino in fondo: come ha notato lo stesso Longhi alla fine della presentazione, con un ruolo più da attrice-Dramaturg che da attrice-autrice.
Frontiere, censimenti, storie Alcune note sul teatro civile in margine ai volumi di Simone Soriani, Letizia Bernazza, Daniele Biacchessi e Marco Baliani di Oliviero Ponte di Pino
In questi anni il “teatro civile” sta vivendo una notevole fortuna teatrale, videocinematografica e anche editoriale: sono sempre più numerosi i libri che in un modo o nell’altro sono collegati al teatro civile e ai narratori.
Ci sono in primo luogo i testi degli spettacoli, a cominciare dal Racconto del Vajont di Vacis e Paolini (Garzanti, Milano, 1997), magari collegati ai diari di bordo e ai giornali delle prove; e diversi narratori hanno tradito la scrittura teatrale per avventurarsi sul terreno della narrativa vera e propria (Marco Baliani, ma anche Ascanio Celestini).
Ci sono poi i saggi dedicati al teatro civile e ai suoi protagonisti: monografie che ricostruiscono la carriera di un singolo artista, ma anche tentativi di mappare un territorio in continua evoluzione. Negli ultimi mesi sono usciti per esempio Sulla scena del racconto di Simone Soriani (Zona, Civitella in Val di Chiana, 2009), dedicato ai “padri fondatori” (Marco Baliani, Laura Curino, Marco Paolini) e a tre attori-autori della generazione successiva (Ascanio Celestini, Davide Enia, Mario Perrotta); Frontiere di teatro civile di Letizia Bernazza (Editoria & Spettacolo, Riano, 2010), che si concentra, come suggerisce il titolo, su esperienze più radicali, soprattutto dal punto di vista dell’impegno politico, per approfondire i nuclei tematici e problematici del lavoro di Daniele Biacchessi, Roberta Biagiarelli, Elena Guerrini, Alessandro Langiu e Ulderico Pesce, o meglio il loro approccio alla scena e i temi dei loro monologhi; e ancora Teatro civile. Nei luoghi della narrazione e dell’inchiestadi Daniele Biacchessi (per la collana Verdenero, Edizioni Ambiente, Milano, 2010), che traccia una sorta di mappa “geopolitica” del nostro teatro civile, o meglio una mappa delle vicende che hanno ispirato in questi anni i narratori.
Il successo di una formula - sia al livello dell’offerta, e dunque sulla spinta della necessità artistica e della praticabilità economica, sia al livello dell’interesse del pubblico - porta inevitabilmente qualche problema. Sui rischi di una moda, e dell’invasione dei narratori, aveva del resto messo in guardia, già sull’onda dei primi successi di Marco Paolini, un osservatore attento come Goffredo Fofi. Malgrado l’avvertimento, il “genere” del teatro civile ha mantenuto un’insospettata vitalità: l’offerta, volendo ragionare in termini di marketing, si è ampliata anche grazie alla differenziazione di voci e stili, oltre che di temi e contenuti. L’Italia pare un serbatoio inesauribile di “storie maledette” e di “verità negate”, e di conseguenza anche di indignazione: una sfortuna per noi cittadini, una fortuna per satirici e narratori civili.
Di certo una delle molle che ha fatto scattare l’impegno di molti artisti è il citassimo “Io so i nomi (...) Ma non ho le prove” del celeberrino editoriale di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera”, Il romanzo delle stragi (14 novembre 1974, poi in Scritti corsari). In un certo senso, molti narratori si sono impegnati a cercare le prove, per indicare i responsabili, per fare i nomi.
Tuttavia proprio questa vitalità può nascondere qualche crepa. Se ne è accorto, per esempio, Marco Baliani. Nel raccontare la genesi di uno spettacolo manifesto come Kohlhaas (nel suo Ho cavalcato in groppa a una sedia, Titivillus, Corazzano, 2010), Baliani riflette su una esperienza che non è solo sua, e indica alcuni nodi problematici. Nota in primo luogo che l’attenzione ai contenuti - ovvero all’aspetto di denuncia rischia di far trascurare la qualità del lavoro di palcoscenico:
È il rischio che corre anche tanto teatro cosiddetto “civile”. Si presume che la grandezza etica del contenuto, il valore di memoria e testimonianza del passato prossimo o remoto, sopravanzi la ricerca di una forma narrativa. Il narratore crede che il solo fatto di aver portato in scena un tema coraggioso, una denuncia, una memoria storica altrimenti sepolta, un punto di vista politico, o altre simili tematiche a forte contenuto etico, lo autorizzi ad assumere una modalità narrativa sciatta, professorale, didattica, tribunizia. Così le narrazioni perdono necessità, sono prive di esperienze trasmettibili, informano ma non formano, magari indignano ma non inquietano. (p. 57)
La radicalizzazione politica ha vantaggi e svantaggi. Da un lato (con il suo coté implicitamente ricattatorio nei confronti dello spettatore: “Se non ti piace questo lavoro, vuol dire che stai dalla parte dei cattivi”) rischia di cadere nella trappola segnalata da Baliani. Dall’altro però può sospingere il narratore in una zona di rischio, in un’area di provocazione che può restituire necessità e forza al lavoro di palcoscenico: è proprio questo uno dei presupposti della ricognizione di Letizia Bernazza, che si interroga proprio sul percorso di alcuni “estremisti” del teatro.
Una seconda fonte di vitalità del teatro di narrazione risiede nella soggettività, nell’esperienza personale, nel vissuto di chi racconta. Risalendo storicamente all’indietro (non molto, diciamo agli ultimi anni del Novecento), il momento aurorale del teatro di narrazione ha una duplice matrice. Da un lato vengono messe a punto le forme della comunicazione, per esempio nel Kohlhaas di Baliani, “in groppa a una sedia”. Dall’altro, si delinea una prospettiva soggettiva, legata all’esperienza personale, al vissuto e alla sua memoria: inizia a definirsi negli Album di Marco Paolini e verrà successivamente rilanciata e ripresa in varie occasioni. Molto spesso, va aggiunto, i narratori sceglieranno di richiamarsi all’infanzia: una prospettiva che consente uno sguardo “altro”, più innocente e ingenuo rispetto a quello dell’adulto (vedi i racconti dei bombardamenti di Roma e Palermo secondo Celestini ed Enia); e a volte permette di riportare “all’epoca dei fatti” il narratore e dunque i suoi spettatori: sono bambini Paolini (o il suo alter ego narrativo) nel 1963 del Vajont, e anche Perrotta quando si immagina in viaggio con gli emigranti verso il Nord.
Incidentalmente, questa riflessione può aiutare a districare le sovrapposizioni e le intersezioni tra due generi come il “teatro di narrazione” e il “teatro civile”, che hanno quasi finito per coincidere, pur essendo di per sé assai diversi. La prima etichetta si riferisce infatti a una modalità di comunicazione, la seconda invece ai contenuti e al rapporto con la polis.
E tuttavia anche la deriva verso la soggettività comporta qualche rischio, che Baliani evidenzia impietosamente.
Il compiacimento. Quando accade è insopportabile. Può accadere per eccessiva sicurezza di sé, quando magari il narratore ha avuto successo e consensi, ma può anche accadere ad un narratore inesperto. Il narratore, per il solo fatto di sapere la storia che sta per narrare, scambia questo sapere per una forma di potere. Invece di essere posseduto dalla storia se ne crede il padrone. L’autorità del narrante, che deriva dall’umiltà con cui si mette al servizio del racconto, diviene autoritarismo.
(p. 138)
Un altro fronte di crisi colto da Baliani riguarda il tipo di racconto esplorato in genere dal teatro civile, le storie che compongono quella “controstoria d’Italia”, o quella storia “a macchia di leopardo”, che i narratori stanno, più o meno consapevolmente, componendo e raccontando. È una vicenda punteggiata di tragedie collettive, di verità negate, di tremende ingiustizie. Quella che viene portata all’attenzione della collettività è dunque una storia patria fatta di sconfitte e di sangue, di silenzi colpevoli, di misteri irrisolti, di scandali insabbiati. Ancora Marco Baliani:
Le nuove storie che hanno portato le destre al potere sfruttano la caduta di quelle grandi storie collettive che avevano uno sfondo epico e corale, si inseriscono nel vuoto improvviso di quei modelli narrativi, di colpo divenuti obsoleti. Le nuove storie mettono l’individuo al centro della narrazione, una individualità sgomitante e antisolidale, protetta solo da recinti e ghetti. Storie che nascono ribaltando il modello narrativo che quelle altre storie corali avevano generato. (p. 99)
Alla fine, viene da chiedersi, quale storia ci stiamo raccontando? È come sarà possibile trasformare l’oblio, il risentimento, l’indignazione, in una progettualità positiva?
Bunga Bunga: che cosa succederà (prima puntata) di Perfida de Perfidis
1. Stile Padre padrone (ma è fantascienza..)
I pastori sardi invitano SB per un bunga bunga a Villa Certosa.
(in alterativa, le operaie dell'Omsa a Arcore, gli operai Fiat a Termini Imerese, le Mammeterremoto alla cava di Terzigno... eccetera.Alla fine gli italiani gli fanno un bunga bunga elettorale).
2. Stile Pretty Woman
Silvio rilascia una dichiarazione: "Amo davvero Ruby e intendo sposarla". Lo fa, la installa a Villa Certosa e ricomincia la vita di sempre, finché Ruby non manda una lettera a "Repubblica": "Mio marito è un uomo malato..."
3. Stile George e Wallis
Silvio ama davvero Ruby, la sposa e abdica. Si trasferisce nella sua Villa di St. Lucia, arredata con gusto dalla coppia Fini-Tulliani. Tutti gli anni manda un regalo agli italiani: un libro sulla meravigliosa stora d'amore tra Giorgio d'Inghilterra e Wallis Simpson.
4. Stile Commedia dell’arte
Silvio-Pantalone è innamorato di Ruby-Colombina. Ma lei ama Pulcinlla-Vendola. I due giovani riescono a beffare il vecchio, ricco e lumacone, gi tolgono il bottino e vivono per sempre felici e contenti.
5. Stile Antonio e Cleopatra
Gianni Letta convince Mubarak che davvero Ruby è davero sua nipote. Silvio I e Ruby-Cleopatra si sposano, il matrimonio dinastico porta alla creazione del Sultanato d'Italia e d'Egitto. Sivio diventa Pascià d'Italia e d'Egitto e si converte all'Islam (così può avere tutte le mogli che vuole).
6. Stile I diavoli di Loudun
Silvio si pente e si fa suora. Fonda un ordine di clausura, trasforma le sue numerose ville in coventi. Nei conventi succede di tutto. Il Vaticano imbarazzato spiega che "E' il contesto."
(continua; e ti pace condvidi e diffondi)
Bando: Raccontami una bugia (il Laboratorio di drammaturgia attiva di Babyang) Scadenza: 26 ottobre di Babygang
I edizione
L’individuo è una menzogna che dice sempre la verità.
Cocteau
Tenuto da Carolina De La Calle Casanova
e incontri con Sarah Chiarcos, Matteo Lanfranchi, Wu Ming 1, Rosario Palazzolo e Aton Giulio Pandolfo, Paolo Rossi, Giampaolo Spinato e Mimmo Sorrentino.
Il Laboratorio è inserito nelle attività di PUL – Compagnie in Residenza, parte di Être un progetto di Fondazione Cariplo.
BANDO DI SELEZIONE
Il laboratorio di drammaturgia attiva – raccontami una bugia è una fucina viva che vuole approfondire le tecniche, i trucchi, i metodi, gli stili e i generi della scrittura scenica sia essa rivolta al teatro, alla danza o alla letteratura. Attraverso il meccanismo insito nell’uomo della bugia, la menzogna, l’inganno e l’invenzione, si lavorerà in maniera pratica e non soltanto teorica su progetti teatrali che i partecipanti porteranno al laboratorio.
Il laboratorio di drammaturgia non intende sostituire nessuna scuola esistente che già si occupa della disciplina, bensì essere una via alternativa di approfondimento sulla materia, soprattutto in maniera pratica e applicata al proprio lavoro.
1. CONDIZIONI DI SELEZIONE.
A. Il bando di selezione per il laboratorio di drammaturgia è rivolto a drammaturghi, scrittori, attori e registi che abbiano già frequentato una scuola o abbiano avuto una esperienza sul campo, per un massimo di 15 partecipanti.
B. I partecipanti dovranno presentare un progetto al quale stanno lavorando attualmente. I progetti possono essere una scrittura scenica, un romanzo, un testo teatrale, una sceneggiatura, un adattamento o riscrittura di un testo già esistente, un progetto di regia.
C. Ai partecipanti selezionati verrà comunicata una lista di libri che dovranno portare con sé al laboratorio.
D. La partecipazione è obbligatoria per tutte le singole lezioni che compongono il programma del laboratorio.
2. PERIODO.
Il laboratorio si terrà da novembre 2010 a marzo 2011 a Milano presso la sede della Compagnia BabyGang e lo Spazio MIL di Sesto San Giovanni (MI): 20 lezioni suddivise in 4 incontri mensili della durata di 4/5 ore ciascuno, comprensivi delle lezioni magistrali.
3. IL LABORATORIO.
A. Il laboratorio si articolerà in lezioni teoriche e pratiche, che analizzeranno il meccanismo della bugia attraverso i concetti base della drammaturgia. I progetti saranno la materia viva sulla quale applicare i concetti appresi lungo il corso. Condotto da Carolina De La Calle Casanova, il laboratorio sarà arricchito da incontri con diversi artisti di diversa natura che approfondiranno differenti metodi di scrittura.
B. INCONTRI SPECIALI – Il confronto con i bugiardi.
Gli incontri speciali saranno tenuti da Sarah Chiarcos, Matteo Lanfranchi, Wu Ming 1, Rosario Palazzolo, Paolo Rossi, Mimmo Sorrentino e Giampaolo Spinato. Attraverso queste lezioni i partecipanti verranno a contatto con diversi approcci e metodi di scrittura. Non c’è un unico metodo di scrittura. Non c’è una drammaturgia giusta o sbagliata. Uno degli obbiettivi del laboratorio è imparare a riconoscere i diversi canali con cui possiamo costruire un mondo fittizio ma reale e saperli applicare sui propri progetti o lavori. Imparare a “rubare” da chi ha già una lunga esperienza o sta iniziando a indagare sul proprio metodo è indispensabile per aprire nuovi orizzonti e distinguere tra cosa siamo portati a fare e cosa no, cosa ci piace e cosa no, quali sono le bugie che siamo in grado di raccontare e quali no.
C. I FALSI CORTI – il confronto con il pubblico.
Tra i progetti proposti da ogni partecipante ne saranno selezionati 3 che verranno presentati sotto forma di studio, lettura, messa in scena o incontro con il pubblico all’interno della stagione PUL – compagnie di residenza, progetto triennale di residenza multipla, in collaborazione con il Progetto Être di Fondazione Cariplo, che si svolgeràpresso lo Spazio MIL di Sesto San Giovanni (MI). L’apertura al pubblico diventa indispensabile come momento conclusivo di formazione e confronto comune dei progetti.
Nota:
I progetti che verranno presentati al pubblico saranno selezionati da Carolina De La Calle Casanova e i partecipanti del corso. L’unico criterio di valutazione per la selezione sarà quello di individuare tra i progetti quelli che sono stati in grado di trasformarsi durante il corso, includendo o adattando le tecniche, i trucchi e i metodi appresi. Non esiste un ulteriore criterio di valutazione per linguaggio o stile. I partecipanti dovranno seguire “l’allestimento” e la preparazione dei Falsi Corti dei propri compagni.
4. COSTI.
Il costo del laboratorio è di 80,00 € al mese (5,00 € l’ora), per un totale di 400,00 € + 30,00 € di iscrizione e tassa assicurativa.
Modalità e tempistiche di pagamento:
- Iscrizione: 30,00 € comprensivi di tassa assicurativa entro il 22 Novembre 2010.
- Rate mensili da 80,00 € (la prima rata entro il 22 Novembre e le successive entro il primo di ogni mese) o pagamento in un’unica soluzione dell’intero importo del corso entro il 26 Novembre 2010.
- E’ possibile effettuare il pagamento in contanti o a mezzo bonifico bancario sul conto corrente della Compagnia BabyGang.
5. MODALITA’ DI SELEZIONE.
I partecipanti interessati devono inviare il proprio curriculum vitae entro e non oltre il 29 ottobre 2010 all’indirizzo mail comunicazione@babygang.org, indicando NOME/COGNOME SELEZIONE CORSO DRAMMATURGIA 2010-2011.
I candidati selezionati tramite curriculum saranno convocati via mail per un colloquio che si terrà nei giorni 10 e 11 novembre 2010.
Entro il 15 Novembre verrà comunicata via mail la lista definitiva dei partecipanti selezionati al laboratorio.
Per maggiori informazioni:
www.carolinadelacallecasanova.wordpress.com
organizzazione@babygang.org
Là dove adesso ci sono i “corsari”… Arrevuoto Scampia-Napoli Una conversazione e-mail con Marco Martinelli di Mariacristina Bertacca
Il progetto Arrevuoto Scampia-Napoli ha avuto inizio nel 2005 da un input di Goffredo Fofi, che ha poi potuto concretizzare la propria idea grazie alla collaborazione con Roberta Carlotto (attuale direttore del Mercadante Teatro Stabile di Napoli). Fino al 2008 la direzione del progetto è stata affidata a Marco Martinelli (regista e drammaturgo del “Teatro delle Albe”), che – sulla scia della sua “non-scuola” (portata avanti nei licei ravennati) – ha avuto il coraggio e la passione di recarsi a Scampia e coordinare un centinaio di adolescenti sfrenati, provenienti dal liceo “Elsa Morante”, la scuola media “Carlo Levi” e il gruppo di ragazzini romeni “Chi rom… e chi no”.
Gli incontri laboratoriali, durante i quali i ragazzi scampiesi hanno avuto modo di conoscere ed appassionarsi al teatro, hanno dato vita a tre “movimenti” (termine con il quale vengono chiamate le tappe annuali del progetto, che continua ad esistere sotto altre direzioni), tre spettacoli, tratti da Aristofane, Jarry e Molière, nei cui testi i partecipanti al laboratorio hanno ritrovato rabbia, violenza e passione. Gli spettacoli che sono nati dai laboratori con Martinelli, e che hanno debuttato all’Auditorium di Scampia, sono stati Pace! (21 aprile 2006) da La pace di Aristofane, Ubu sotto tiro (31 marzo 2007) da Ubu re di Alfred Jarry, L’immaginario malato (19 aprile 2008) da L’avaro, Le intellettuali, La scuola delle mogli e Il medico per forza di Molière.
L’esperienza esaltante di Martinelli ha avviato il più ampio progetto “Punta Corsara”, cosicché l’Auditorium di Scampia si è trasformato in un vero e proprio teatro che ha già ospitato nomi di spicco quali Sandro Lombardi, Danio Manfredini, Armando Punzo, Arturo Cirillo, e molti altri. Ma soprattutto permette a giovani di talento di crearsi un mestiere artistico in qualità di attori, registi, drammaturghi, illuminotecnici…
Marco mi ha rilasciato questa intervista e-mail nel marzo 2010. Alcuni stralci di tale scambio “epistolare” telematico sono già apparsi in Mariacristina Bertacca, Un ritono al teatro necessario. Arrevuoto Ravenna-Scampia-Napoli, in «Atti&Sipari», numero 6, aprile 2010, pp. 32-35.
Il progetto Arrevuoto Scampia-Napoli ha suscitato molto interesse, anche mediatico (cosa rara quando si tratta di eventi teatrali); in molti lo hanno definito un vero e proprio “miracolo”. Riunire un centinaio di adolescenti scatenati – tu stesso hai affermato: «Più che una regia, fu per me un cavalcare la tempesta» –, dal background culturale e privato assai problematico, e riuscire a coordinarli, ad insegnare loro il rispetto per il compagno, il rigore per le battute da imparare, mi pare in effetti una grande conquista. Peraltro mi piace sottolineare che tutto ciò sia stato possibile non attraverso restrizioni, leggi, interventi duri, ma attraverso il saper ascoltare, l’arte, il teatro. Leggendo il bel libro Arrevuoto: Scampia/Napoli (a cura di Maurizio Braucci e Roberta Carlotto, Napoli-Roma, L’Ancora del Mediterraneo, 2009), mi hanno molto colpito le dichiarazioni dei ragazzi scampiesi, che hanno definito il teatro «uno strumento per dare forma ai sogni», una necessità per la loro vita. Mi piacerebbe molto capire che cosa sia per te il teatro necessario, che significato abbia. Ragazzi che conoscono la violenza nella sua accezione più negativa, per i quali non esistono né regole né limitazioni, ad un certo punto scoprono il teatro e non possono più farne a meno, perché si sentono liberi di essere loro stessi, e cioè “diversi”; sono affascinati dalle regole del “gioco” teatrale, in cui l’errore di uno rappresenta il fallimento di tutti, e da ciò nasce il rispetto del singolo per il bene della comunità…
Cara Mariacristina, risponderti a quest’ora di notte, nel pieno delle prove dell’Avaro, alla domanda riguardo alla necessità del teatro, mi fa pensare alla stanchezza. Alla benedetta stanchezza che avvolge il teatrante dopo una giornata di prove necessarie alla creazione. Dopo una settimana di prove necessarie alla creazione. Dopo mesi di prove necessarie alla creazione. Quella stanchezza è benedetta e necessaria, e contiene il segreto del perché la tua vita coincide con quel creare ininterrotto, cercando di non cedere alle sirene idiote del successo e del denaro. Le orecchie tappate come nell’Odissea, a sentire una musica dentro di te, cento volte più importante e necessaria dei lustrini del mondo. Quella stanchezza che anche nel furore di certe giornate a Scampia, quando niente sembrava andare per il verso giusto, mi faceva dire: benedetta questa stanchezza, benedetta questa giornata, benedetto lo stare qui, benedetto questo cercare senso insieme a questi piccoli, benedetto questo mondo insensato e maledetto.
L’esperienza di Scampia ha dimostrato anche quanto il teatro abbia bisogno di una forza scatenante, del dionisiaco che tutti circonda, sebbene per molti sia ancora dormiente… Ci vuole qualcuno che lo vada a risvegliare, che abbia il coraggio di farlo. Parlo di “coraggio” perché risvegliare il dionisiaco significa vivere nel dubbio, vivere alla giornata, vivere in modo “diverso”, insomma essere un F.P. morantiano. È molto più semplice avere certezze, uno status quo da mantenere a tutti i costi, privato di ogni imprevedibilità. E poi autoconvincersi che sia questa la felicità, ciò che davvero desideriamo.
Non lo so, cara Mariacristina. Per me sarebbe molto difficile autoconvincermi che quella sia la felicità. Non ci riuscivo da giovane, non ci riesco ora. Se ho fatto solo questo nella vita, è perché vivere in modo “diverso” rappresenta per me la normalità. Per me, per Ermanna, per i miei compagni delle “Albe”. Mi è capitato talvolta di desiderare un po’ più di soldi, un po’ più di successo, ma non sono mai state quelle le spinte di fondo del mio agire. Se lo fossero state, avrei cambiato compagni e direzione. E invece continuo in questa strada (oramai da trent’anni…), perché non c’è smacco o delusione che me la possano far abbandonare. Perché provare a conservare uno sguardo limpido che attraversi il male non ha prezzo. È impagabile. Non è vero che tutti gli uomini si possono comprare. Essere eretici, in questa dittatura del denaro che tutti ci avvolge, significa semplicemente questo: sapere, dentro di te, che non sei in vendita. Che i tuoi sogni non lo sono. Sapere che il tuo sognare continua a produrre opere, segni, linguaggi, relazioni differenti. In una parola: un mondo diverso dal mondo.
Il “teatro necessario” riemerge lavorando perlopiù nell’ambito del disagio psichico, fisico o sociale. Le convenzioni sociali della vita reale non accettano il “diverso”, mentre l’arte, il teatro in particolare, ha convenzioni che lo ammettono. Forse allora è per questo che il “diverso” si sente libero, e in questo sta la necessità del teatro per lui...
Guarda io penso, cara Mariacristina, che il teatro sia necessario quando è, fino in fondo, teatro. Visione che ti tocca, ti turba, ti costringe al pensiero, ti emoziona. Può esserlo lavorando ai margini dei territori coltivati, come abbiamo fatto noi a Scampia, come fa Punzo in carcere, come fanno altri amici e colleghi. Ma non sta meccanicamente lì il segreto della necessità. Si può lavorare in carcere e fare delle schifezze per nulla necessarie, così come si può lavorare partendo dalla propria condizione di piccolo borghese e fare opere altamente significative. Evitiamo le ideologie, anche quelle che nascono da buone intenzioni. I greci avevano un modo molto diretto per definire tutto ciò, si chiedevano: c’era Dioniso stasera sul palco? O c’era, o non c’era. Non stavano a farla lunga. Detto questo… è vero che Dioniso è il dio dei margini, e che ama in particolare non le pompe delle Istituzioni, ma i territori non coltivati…
C’è una cosa che mi preme molto: nel corso della nostra Storia, l’uomo ha più volte riscontrato quanto l’arte riesca a fare miracoli. L’arte permette all’individuo di emozionarsi, arrabbiarsi, piangere, sognare, in questo caso ha permesso a giovani sbandati di capire l’importanza del lavoro di squadra, dell’amicizia, del rispetto comune, del piacere di stare insieme. Nonostante queste prove di fronte alle quali ci troviamo giornalmente, perché pensi che chi si occupa di arte o chi fa arte sia spesso considerato cittadino di “Categoria B”? Gli artisti, quelli veri, non sempre hanno il riconoscimento che meritano, e sono spesso considerati poco utili alla società, rispetto ad altri. La vita è fatta di questioni pratiche, è vero, di burocrazia, di regole da seguire…, ma è fatta anche di sentimenti, emozioni, passioni, è fatta di un’anima, e l’individuo non può vivere senza anima…
Guardiamoci attorno. Viviamo in una dittatura dove contano solo due cose: il denaro e la fama. Due divinità che regolano il mondo. E che sono tra loro complici e gemelle, l’una nasce dall’altra e viceversa. Ma se il mondo è così, a noi che importa? Pensiamo, come dice quel manuale di perfetto “ateismo” che è il Vangelo, a far bella la nostra anima, a coltivarla come un fiore. Pensiamo a coltivare il giardino delle nostre relazioni, della nostra “piccola patria”, costituita dalle amicizie vicine e lontane, da chi sta nella nostra città e da chi sta in Africa o al di là del mare, e il cui lavoro è in sintonia con il nostro. Non ci considerano? Per forza, siamo il contrario di come ci vorrebbero, ovvero servi consenzienti. Non ci considerano? Ma noi non consideriamo loro e il loro mercato di schiavi.
Grazie ai tuoi spettacoli, noi spettatori del XXI secolo riusciamo a capire che cosa significasse il “coro” per gli antichi. Peraltro i testi classici di Aristofane, Jarry, Molière, attraversati da questi ragazzi riescono davvero a tornare vivi, riescono a farti ridere, a farti rivivere la condizione dello spettatore coevo di questi grandi autori. Riguardo ad Aristofane in particolare, mi piacerebbe sapere come i ragazzi vedono i personaggi dei suoi testi, come si rapportano con il tipo di comicità, ma anche con la violenza aristofanesca.
Non c’è stato bisogno di tante spiegazioni. Non ce n’era il tempo. Prendere La Pace, smontarla, riscriverla, ricostruirla, reinventarla dal di dentro, a partire dall’esperienza di ragazzi che mi raccontavano le sirene della polizia tutti i giorni sulla strada, dei morti bruciati nelle auto, degli elicotteri sul tetto di casa, del dolore di avere amici e parenti trucidati per sbaglio, a partire dai loro sogni e dai loro incubi: solo questo ho fatto. Aristofane era in mezzo a noi, felice che qualcuno si indignasse millenni dopo, così come si era indignato lui. Felice che del male e dell’orrore se ne ridesse, come ne rideva lui. Felice che qualcuno ancora sognasse di avere le ali, come sognava lui.
Il “teatro necessario” – per come lo intendo io – è il teatro delle origini, il teatro rituale, nato come momento di aggregazione, scambio di relazioni interpersonali, con intento religioso e catartico. Poi è diventato spettacolo, si è “codicizzato” – diciamo così – e in poco tempo ha perso del tutto la sua connotazione primordiale, entrando nei meccanismi economico-commerciali.
Sì. Ma perché torni quello delle origini, è sempre possibile. È ancora possibile, cara Mariacristina. Basta guardare gli occhi di un bambino. Lì dentro c’è tutto. Da lì parte il movimento che può rovesciare il mondo.
Però è anche vero che è necessario avere ottime guide, come te, e parlo in qualità di diretta fruitrice, perché io stessa ho frequentato tuoi laboratori: di volta in volta il mio desiderio di teatro è aumentato, al punto da non vedere l’ora di entrare in scena o, meglio, “fare teatro”, visto che la vera formazione, il vero raggiungimento del piacere e della libertà, è nel momento in cui si prepara la performance.
Davvero ero bravo? Allora vuol dire che eravate bravi voi, anche se non lo sapevate. La miglior guida è quella che si fa guidare. Dall’energia attorno, dal nuovo che ogni giorno porta con sé, dalla disposizione allo stupore e all’incanto.
Penso inoltre che sia molto bello il tentativo di recuperare culturalmente un quartiere come quello di Scampia, portarlo al centro dell’attenzione (anche mediatica) non più solo per la sua metà negativa, ma anche per tutto ciò che di bello può offrire, e cioè giovani pieni di energia e di desiderio, ai quali nessuno ha mai dato la possibilità di sfogarsi secondo i giusti canali. Il progetto “Punta Corsara” è davvero nobile, degno di stima e sostegno: il desiderio di avviare giovani capaci ad un mestiere, cercando di cogliere in ciascuno di loro le proprie potenzialità artistiche.
Ce ne vorrebbero mille di “Punta Corsara”, perché ovunque ci sono terreni da dissodare, fiori da far crescere, pianticelle e alberi che potrebbero alzare il loro sguardo al cielo. Ma le nostre mani non arrivano ovunque. Se penso però che a Scampia ora ci sono i “corsari”, là dove cinque anni fa c’era un Auditorium chiuso, sono felice. Occorre pazienza, e coraggio. La pazienza è davvero una grande forza, è la virtù capace di dare senso e continuità al nostro coltivare.
La nuova creatività tecnologica La Finlandia e l'arte digitale (1) di Anna Maria Monteverdi
Cronaca di una settimana finlandese: il convegno alla Sibelius Academy, le mostre e al Museo Kiasma di Helsinki e un dialogo con Marianne Decoster-Taivalkoski, media artist franco-finlandese e docente al Master in Sound and Media dell'University of Arts and Design di Helsinki.
Foto dal mio soggiorno, Sguardi su Helsinki.
Inizia con questo articolo un excursus sull'arte digitale in Finlandia_Suomi, il secondo Paese al mondo situato più a Nord, confinante con la Norvegia, con la Svezia e con la Russia, e la cui superficie sta per un quarto della sua estensione al di sopra del Circolo Polare Artico. Recentemente è la méta preferita di molti artisti e docenti anche italiani per le ideali condizioni di studio, di residenza e di produzione artistica.
Il Manifesto del Festival.
La Finlandia è ricercata anche per le molte strutture specializzate (vedi: CARTES -Center of Art and Technology EspooCartes flux) (tra gli altri citiamo: la Tampere University of Technology,- l'università finlandese con il più alto numero di exc e ricercatori di nazionalità straniera- la Aalto University, la Kuvataideakatemia, l'Università di Art e Design di Helsinki e il Jyvaskyla Polytechnic). La mobilità Erasmus di studenti e docenti di Accademie e Università verso questo Paese europeo sta aumentando sempre di più negli ultimi anni. Chissà se arriveremo mai al modello finlandese di Università pubblica a capitale statale dove gli studenti non devono pagare le tasse, hanno sussidi e dove si investe riccamente in ricerca.
E' possibile avere una panoramica della videoarte e della media art che viene realizzata in Finlandia consultando il date base on line ideato dall'associazione no profit AV-arkki nel 1989 per distribuire e dare visibilità ad oltre 170 artisti finlandesi. Si può vedere anche il sito di m-cult, un network di associazioni per la valorizzazione della media art finlandese.
J. SILOMAKI, Stories of alienation (Photo by Petri Virtanen).
Lo spunto per questi articoli sulla scena digitale finalndese è il convegno a cui ho partecipato come relatrice The embodiment of authority alla prestigiosa Sibelius Academy di Helsinki, struttura di alta formazione musicale. Al convegno che è durato 3 giorni, sono stati affrontati gli aspetti multisfaccettati di una nuova creatività musicale anche tecnologica: i temi chiave erano stati anticipati da alcuni emeriti professori legati sia all'etnografia musicale sia alla performance propriamente detta, quali Della Pollock dell'Università del North Carolina, il prof. Nicholas Cook del'Università di Cambridge e Allen Weiss dell'Università di New York.
C. SANDISON, installazione Language as a mirror of the world (Photo by Petri Virtanen).
Il punto di partenza era la cosiddetta “teoria della performance”, un ambito di studi prettamente angloamericano: la performance nell'accezione data dagli studi antropologici, etnografici e sociologici di Victor Turner e Richard Schechner, viene classificata non solo quale genere artistico, ma anche e soprattutto come momento di interazione personale e sociale; questo implica un'analisi della performance intesa come rete di relazioni complesse, socio-culturali e socio-comunicative. I conferenzieri erano 53 provenienti da tutto il mondo, da Svezia, Norvegia, Australia, Israele, Portogallo anche se la maggiore rappresentanza era oltre che dalla Finlandia, dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra. I relatori che parlavano degli aspetti intermediali della performance provenivano dal Canada e dagli States. Io e Gaia Varon, musicologa milanese giornalista Rai (realizza le dirette radiofoniche dalla Scala) eravamo le uniche italiane. Le conferenze vertevano sugli aspetti epistemologici relativi alla performance, sulle strategie di interazione e sul concetto di “Shifting and shared authority” (ossia, un principio di autorità che nella pratica della creatività performativa diventato sempre più mobile e condiviso) sia presso l'Auditorium dell'Accademia Sibelius che presso altre sale di musica cittadine, nonché sessioni parallele in 3 aule diverse che riguardavano focus e analisi di case study; nelle sessioni previste venivano inserite conferenze con dimostrazioni di lavoro artistico. In questa sessione era previsto il mio intervento che riguardava un esempio di performance interattiva. Sull'argomento e sulla digital performance ho appena terminato un libro per la FrancoAngeli, “Nuovi media, nuovo teatro”. On line il testo integrale della mia conferenza e gli abstract di tutti gli interventi.
Nei giorni finlandesi sono andata al Museo d'Arte contemporanea KIASMA, inaugurato nel 1998, un'architettura singolare di cinque piani nel cuore di Helsinki diretto da una donna, Pirkko Siitari -anche il sindaco di Helsinki è una donna-; all'interno viene dato ampio spazio di esposizione a giovani artisti finlandesi, e molte sono le sale dedicate ai nuovi linguaggi, videoarte e arte interattiva. Era in corso la mostra (con opere di Damien Hirst), tra scultura, fotografia digitale, videoarte e al secondo piano la mostra su arte contemporanea finlandese e svedese. E' previsto un fitto calendario di attività e di eventi, workshop con artisti, seminari di estetica, convegni internazionali, ma anche serate di puro intrattenimento. All'interno del museo c'è una sala teatrale, una mediateca, un ristorante e una caffetteria. E' anche sede del Pixelache – Festival of Electronic Arts & Subcultures (a proposito, la scadenza della prossima del Festival è l'8 novembre). Attualmente è in corso la mostra ARS FENNICA dove sono stati selezionati 5 artisti finlandesi a rappresentare la varietà delle forme d'arte contemporanea suomi. Tra queste l'installazione interattiva dell'artista scozzese, residente a Tampere, Charles Sandison in cui le parole proiettate sulle pareti e sul soffitto, scontrandosi, formano casuali e inconsapevoli poesie di luce.
Mi ha colpito nella mostra la serie fotografica digitale di Jari Silomaki, racconti urbani di alienazione e le foto pitture di Anna Ekmans ispirate a Caravaggio; poi di Carl Knif, una videodanza commissionata dal Festival di Helsinki e, video performance di Eeva-Mari Haikala. Infine una videoinstallazione molto originale composta da 9 brevi video disposti in un unico spazio dall'ironico titolo I love my job di Tellervo Kalleinen e Oliver Kochta-Kalleinen.
Foto dal video di Tellervo Kalleinen e Oliver Kochta-Kalleinen I love my job.
Sono 9 storie vere e paradossali di persone tra la Finlandia e la Svezia che hanno deciso di chiudere in modo definitivo con un lavoro distruttivo che avevano dovuto accettare per ragioni di sopravvivenza. La narrazione è ricca di humour, anche se dietro si nasconde una dura critica a un sistema lavorativo e sociale che evidentemente ha anche qualche pecca, qualche incrinatura! Il cuoco del prestigioso ristorante 5 stelle, l'attrice del teatro, la badante, l'operaio.
WHS-Kalle Hakkarainen: Speed Blindness (Photo: Petri Virtanen).
Al KIASMA THEATER è stato presentato in queste settimane l'ultimo lavoro del gruppo di teatro visuale WHS di Ville Walo e Kalle Hakkarainen, che usa tecnologie con sensori e videoproiezioni.
Marianne Decoster-Taivalkoski.
Durante il mio soggiorno ho conosciuto una persona veramente speciale, Marianne Decoster-Taivalkoski, giovane francese che vive e lavora a Helsinki; dopo gli studi in cinema, si è specializzata in Nuovi Media al MA-Medialab dell'Università di Art e Design di Helsinki dove attualmente insegna Sound and Media. Ha partecipato ad Ars Electronica e Interferenze-Naturalis Electronica edizione 2006.
Aquaticus, installazione sonora interattiva di Marianne Decoster-Taivalkoski.
Mi ha mostrato il suo primo lavoro di dal titolo Aquatic (2003): evidenti i richiami a David Rokeby e alla serie dei suoi (1983-1995) come è noto, l'opera di Rokeby, una delle più chiarificatrici della relazione tra spettatore e sistema informatico, è costituita da un dispositivo che collega una telecamera che registra i movimenti, un computer, un sintetizzatore e un sound system nel quale lo spettatore è invitato a improvvisare dei movimenti che il sistema trasforma in suoni in un ciclo continuo di stimoli e di risposte.Anche spinge l’utente a giocare con il sistema e a trovare un proprio equilibrio armonico, attraverso il coordinamento dei propri movimenti che generano suoni e musica in tempo reale. I movimenti associati al nuotare e all'immergersi catturati da una webcam nascosta, generano dunque, sonorità marine preregistrate: risacche, sciabordii, gorgoglii. Marianne Decoster ha usato il software VNS di David Rokeby per la cattura del movimento tramite un sensore ottico-video e Max Msp per regolare l'interazione tra i movimenti del corpo ed i suoni associati.
Una cabina per Medea Cara Medea di Antonio Tarantino, Teatri di Vita, Bologna, 22 luglio 2010 di Filomena Spolaor
Una cabina telefonica posizionata davanti a uno schermo bianco al centro del palcoscenico semibuio è il luogo in cui si dipana il filo interrotto di una conversazione. Sul rumore di una strada in sottofondo, da un fioco raggio di luce entra in penombra Medea, indossando un abito corto nero, i tacchi a spillo, la borsetta sulla spalla, con l’andatura di una spia in tempo della guerra fredda. Digita un numero e inizia a parlare in una lingua dell’Europa dell’est, con le spalle al pubblico e il primo piano del suo viso proiettato in video sullo schermo. Mette giù il telefono, si sposta verso il lato, si aggiusta il vestito e ritorna al ricevitore parlando un italiano risciacquato dalle megere caucasiche. Francesca Ballico, in un flusso impetuoso di parole lontane nel tempo che la voce carnale sembrava galoppare scuotendo il loro eco sulle doppie quinte laterali, agganciata al telefono della sua memoria emotiva, confessa a pezzi il dramma di una Medea che sviscera l’ assassinio dei suoi figli nella tragicommedia della vita coniugale. La sua sagoma felina agganciata al filo del telefono esprime l’ ira rammemorata e disturbata, alternando lingue balcaniche come il croato, l’albanese, il rumeno, affezionate a se stesse, a un italiano sghembo e alla lingua friulana, nel tentativo di riversare l’etica contenuta nel manuale d’amore della sua vita, lacerto di prestazioni sessuali. Il testo di Tarantino è il monologo di una madre assassina reclusa nella casa di lavoro a Venezia, deportata a causa degli eventi bellici nel campo di concentramento, ma arrivata l’ Armata Rossa non c’era più nessun sopravvissuto. I suoi occhi riesumati e ritmati dall’evanescente singolarità della sagoma felpata, cercavano tra gli abbagli della memoria le ragioni dell’aver ammazzato i figli, accusando il marito impiegato in un silurificio a Pola di averla tradita con un’altra Glauce. I periodi graffianti scambiano la donna straniera da soggetto a oggetto, delineando il carattere di una donna forte delle dinamiche interiori di cui è abitata, straniandosi, pur dopo le violenze subite, dal demone della passione, che l’ha portata, come nella colpa tragica della tragedia euripidea, a una dismisura; tra le sillabazioni di una sonorità tragica, il profilo dell’attrice gettava un’ombra sgraziata su quel Giasone accusato di opportunismo, e mascherato sarcasticamente da talento politico. L’attrice ha diretto il fraseggio venale di Tarantino con una perfezione sanguigna nelle pause, lasciando che il suo respiro sorseggiasse in quelle metafore poetiche che citano per esempio la repubblica artistica di Weimar nella dialettica compassionevole che fa dipendere l’amore dallo stato di democrazia o oligarchia sociale, per poi tornare ad accanirsi contro questo onnipresente Giasone, traditore su cui la Ballico imprime il peso delle rime che lo scannano come uno stonato. Confessando di aver dato fuoco ai bambini con la benzina, si rinchiude nel suo collo come un cigno nero, dondolando il ventre emarginato nella classicità o nell’attualità del feroce rapporto di coppia, sorpassando la moralità dell’eroina euripidea con un nichilismo mimico che la totalitaria civiltà delle relazioni prodotta dalla Grande Guerra macchia di un errore simile a un taccone nelle ruote di una bicicletta. Uno sguardo retrospettivo segnato da un sinuoso gioco registico delle luci, che non hanno mai oltrepassato il limite definito dall’ombra lunga di questa Cara Medea.
Pasolini, teatro (1985) di Antonio Porta
Il «teatro di parola» di Pier Paolo Pasolini, come egli stesso lo definì, nasce anche da un'ammirevole furia polemica, contro il teatro così come lo si praticava in Italia nella prima metà degli anni Sessanta. Tale polemica non può, oggi, essere occultata o giudicata «poco interessante», a meno che non si voglia rendere innocua e in offensiva la sua opera, che rimane invece fortemente attuale anche per la sua persistente carica aggressiva, sia politica sia letteraria.
A parte le primissime esperienze giovanili, in Friuli, in veste di demiurgo-regista, come ci ricorda Attilio Bertolucci, un precedente significativo delle sei «tragedie» (e la definizione è ancora di Pasolini) è la traduzione del Miles gloriosus di Plauto, con il titolo Il vantone, dell'inizio degli anni Sessanta, eseguita «su ordinazione». Nella breve e, come al solito, acuta e provocatoria nota introduttiva, Pasolini, nell'esporci i gravi problemi che l'impresa aveva comportato, comincia la sua polemica che chiamerò «di fondazione».
Qui, come in altre circostanze, è opportuno cedergli la parola. Ecco: «Per che palcoscenico, dunque, per che spettatori traducevo io? Dove potevo trovare una sede dotata di tanta assolutezza, di tanto valore istituzionale? Nel teatro dialettale, sì, ma il testo di Plauto non era dialettale. Del teatro corrente, ad alto livello, in lingua, mi faceva (e mi fa) orrore il birignao». Proprio su questo «birignao», su questa insofferenza dettata da un rifiuto quasi istintivo tornerà, e vedremo tra poco come.
Conviene, per un momento, continuare su Plauto ed esaminare la soluzione che trovò: «Beh, qualcosa di vagamente analogo al teatro di Plauto, di così sanguignamente plebeo (...) mi pareva di poterlo individuare forse soltanto nell'avanspettacolo (...) E a questo, è alla lingua dell'avanspettacolo che, dunque, pensavo - a sostituire il 'puro' parlato plautino. Ho cercato di mantenermi il più squisitamente possibile a quel livello. Anche il dialetto da me introdotto, integro o contaminato, ha quel sapore. Sa più di palcoscenico che di trivio. Anche la rIma, da me maspettatamente, credo, rIassunta, vuole avere quel tono basso, pirotecnico».
Ecco il gioco straordinario delle rime (che tornerà in altri luoghi teatrali) a tenere «squisitamente» alto il gioco di un dialetto reinventato per un avanspettacolo nobilitato da uno stile del tutto inusuale. Si ripresenta dunque qui, indirettamente, quella questione e ossessio¬ne dello stile che percorre come un filo conduttore tutto il suo lavoro, in tutti i campi, e che nel teatro si svilupperà in modi aperti e complessi, in parallelo col suo linguaggio cinematografico, nell'affrontare i problemi della particolare e intollerabile artificiosità della lingua italiana.
Aveva scritto su «Officina»: «Lo sperimentalismo stilistico, dunque, che non può non caratterizzarci, non ha nulla a che fare con lo sperimentalismo novecentesco - inane e aprioristica ricerca di novità collaudate - ma, persistendo in esso quel tanto di filologico, di scientifico o comunque cosciente, che la parallela ricerca 'non poetica' non può non apportare, esso presuppone una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura, nello spirito. La libertà di ricerca che esso richiede consiste soprattutto nella coscienza che lo stile in quanto istituto e oggetto di vocazione, non è un privilegio di classe: e che dunque, come ogni libertà, è senza fine dolorosa, incerta, senza garanzie, an¬gosciante».
Il corsivo è mio, ma avrei voluto anche sottolineare, e lo faccio subito, che lo stile per Pasolini non sarà mai un punto di arrivo, mai quello che ora da alcuni viene chiamato un «grande stile», ma sempre e ovunque sinonimo di ricerca.
Pasolini non fu neo-classico, né sognò un ritorno a quella «purezza» che fu definita «classica» solo da alcuni classicisti; pensò piuttosto alla riconquista di un assoluto della forma che ricomponesse, per mezzo di una fusione sincretica, storicamente fondata dall'uomo, in unità stilistica tutte le possibili stratificazioni dell'esperienza personale e sociale. Era così, per esempio, che leggeva l'architettura antica (come si può vedere nello stupendo breve film intitolato La forma della città, in cui Pasolini, intervistato, risponde esplorando, con la macchina da presa, la città di Orte).
Ma torniamo alla scrittura teatrale, così come l'ha puntualizzata Pasolini in un'intervista a Jean-Michel Gardair: «Nel '65 ho avuto l'unica malattia della mia vita: un'ulcera abbastanza grave, che mi ha tenuto a letto per un mese. Durante la prima convalescenza ho letto Platone ed è stato questo che mi ha spinto a desiderare di scrivere attraverso personaggi. Inoltre, in quel momento avevo esaurito una mia prima fase poetica e da tempo non scrivevo più poesie in versi. Siccome queste tragedie sono scritte in versi, probabilmente avevo bisogno di un pretesto, di interposte persone, cioè di personaggi per scrivere versi. Ho scritto queste sei tragedie in pochissimo tempo. Ho cominciato a scriverle nel '65 e praticamente le ho finite nel '65. Soltanto che non le ho finite. Non ho finito di limarle, correggerle, tutto quello che si fa su una prima stesura. Alcune sono interamente scritte, tranne qualche scena ancora da aggiungere. Nel frattempo sono diventate un po' meno attuali, ma allora le do come cose quasi postume».
Dunque a cose quasi fatte Pasolini stenderà il suo «Manifesto per un nuovo teatro», pubblicato su «Nuovi Argomenti». Ciò però non significa, naturalmente, che non sia stato pensato e previsto prima o durante la stesura delle tragedie, in una contemporaneità di scelte ideologiche, poetiche e stilistiche che è caratteristica tipica della letteratura di ricerca, come dimostra la citata nota alla traduzione di Plauto.
Ora, sono sostanzialmente due le preoccupazioni che nel «Manifesto» affronta e cerca di sciogliere: la lingua italiana e i linguaggi teatrali in atto, quasi come una conseguenza inevitabile, e il pubblico cui il suo nuovo teatro si rivolge. Il rifiuto dei precedenti linguaggi teatrali è duplice. Non sono più sopportabili ne i nipotini stanchi delle avanguardie rimaste vitali fino al declino del Living, e tanto meno il «birignao» per cui aveva già manifestato orrore. Questi rifiuti torneranno nella nota introduttiva (del 1975) a Bestia da stile; ciò che interessa di più, a questo punto, è delineare le soluzioni che Pasolini propone e che ha tentato di mettere in atto, sia pure in modi non sempre definitivi, nelle sei tragedie scritte (o abbozzate) in quei pochi mesi del '66.
Il «teatro di parola» deve opporsi al teatro della «chiacchiera» e del «birignao», come a quello puramente gestuale delle avanguardie, portando in scena il linguaggio della poesia; sarà dunque un teatro in versi, capace di recuperare quell'oralità che sta all'origine della poesia stessa. Oralità che va inserita nello spazio rituale del teatro che cessa così di essere teatro sostanzialmente barghese, sia in senso negativo (quello delle avanguardie, appunto) che «positivo», in quella inutile e leccata ripetitività che il teatro ufficiale si incarica di tenere in uno stato di vita apparente.
Scrive Aurelio Roncaglia nella preziosa nota al secondo volume del teatro pasoliniano: «Teatro dunque, ma anche - e nel senso più radicale - Poesia; propriamente Teatro di Poesia». E giustamente mette in rilievo altre dichiarazioni di Pasolini, citando un articolo che egli scrisse per il quotidiano milanese «Il Giorno»: «Questo nuovo tipo di teatro, che io chiamo 'teatro di parola' (dove il passaggio alla minuscola connota l'acquisita familiarità con l'idea) è un misto di poesia letta ad alta voce e di convenzione teatrale sia pure ridotta al minimo (...) 'Poesia orale', resa rituale dalla presenza fisica degli attori in un luogo deputato a tale rito».
Soltanto il linguaggio della poesia è in grado di risolvere il problema, apparentemente insolubile, dell'eccessiva artificiosità della lingua italiana (una delle cause principali del «birignao» del teatro), sommando due convenzioni, quella del verso e quella del luogo rituale. Il verso che ridiventa «orale» e il rito che si ripropone come evento socialmente rilevante. Su questo secondo punto si innesta il problema del pubblico cui Pasolini si rivolge. Ma prima di affrontarlo occorre rilevare quanto egli abbia anticipato i tempi nel riproporre pubblicamente la necessità di un ritorno alla poesia orale anche in funzione di un certo pubblico dal profilo ancora non ben decifrabile e sulla cui esistenza pochi erano disposti a scommettere.
Nel punto 15 del «Manifesto» Pasolini si chiede: «Sarà possibile una coincidenza, pratica, tra destinatari e spettacolo?». E risponde: «N oi crediamo che ormai in Italia i gruppi culturali avanzati della borghesia possano formare anche numericamente un pubblico, producendo quindi praticamente un proprio teatro: il teatro di Parola...». La sua convinzione è profonda e viene così accentuata: «a) il teatro di Parola è - come abbiamo visto - un teatro reso possibile, richiesto e fruito nella cerchia strettamente culturale dei gruppi avanzati di una borghesia»; b) esso rappresenta, di conseguenza, l'unica strada per la rinascita del teatro in una nazione in cui la borghesia è incapace di produrre un teatro che non sia provinciale e accademico, e la cui classe operaia è assolutamente estranea al problema...». È evidente che queste affermazioni hanno pure un forte significato politico, destinato per molto tempo ancora a essere nmosso.
L'utopia, o sarebbe meglio dire la visione di una possibile socialità dello stile, dal linguaggio della poesia al teatro di parola, rimane dunque il filo conduttore del lavoro di Pasolini. Ora sono in molti (o almeno più di allora) a condividere l'idea-progetto di una sociabilità della poesia e di una possibile forma nuova di comunicazione ad essa legata; quando egli cominciava a indicarne il tracciato questa proiezione rimase pressoché invisibile.
In nome di questa ricerca Pasolini rifiutò anche il «teatro del Gesto o dell'Urlo» che aveva il torto non tanto e non solo di rappresentare una semplice «conferma, pure rituale, delle convinzioni antiborghesi» dei suoi destinatari, come scrisse nel punto 14 del «Manifesto», ma soprattutto perché mancava di stile, o, quando lo raggiungeva, ritornava accademia, del Gesto o dell'Urlo.
Pasolini non fu neo-classico, ho accennato all'inizio, e bisogna ribadirlo, a questo punto, perche l'idea di una socializzazione dello stile può facilmente condurre al varo di uno stile egemone, il che significa, oggi, recuperare gli stili egemoni del passato, dunque ricorrere agli anacronismi, ai remake, al citazionismo, che si travestono come ricerca allo scopo di occultare il prezzo che si deve pagare alla reazione per occupare un mercato forse immaginario.
Pasolini rimase fedele a ciò che aveva scritto in «Officina» nell'articolo citato. Allora gioverà chiedersi in che modo il suo stile è andato via via mutando soprattutto per merito di quell'intuizione teatrale di recupero dell'oralità della poesia.
Fu costretto, muovendosi in questa direzione, a scrivere «non più in terzine», come dice in quella straordinaria poesia che s'intitola «Una disperata vitalità»!!, eminentemente teatrale, a cominciare dal suo spunto dialogico (intervistatrice-intervistato), e la cui data finale, il 1964, arriva quasi alle soglie di quell'anno di grazia, il 1966, in cui scrisse o abbozzò le sei tragedie. Mi pare inoltre opportuno ricordare che nel 1968 lesse questa poesia a Roma, al Teatro del Porcospino, di fronte a un pubblico tesissimo e partecipe (segnale che i tempi stavano già maturando in favore dello stile della poesia...).
L'opera di gran lunga più importante di tutto il percorso stilistico di Pasolini è l'ultima, la più incerta e sofferta delle sei tragedie, Bestia da stile, per me un capolavoro, a cominciare dal bellissimo titolo, che sintetizzava il suo «pensiero dominante». Stiamo attenti alle date che egli ci ha indicato nella breve nota introduttiva, che cercherò poi di interpretare anche in un punto di rimozione Dice: «Ho scritto quest'opera teatrale dal 1965 al 1974, attraverso continui rifacimenti, e quel che più importa, attraverso continui aggiornamenti: si tratta, infatti, di un'autobiografia (...). Nell'estate del 1974 ho deciso di smettere. Con gli aggiornamenti, ma non con i rifacimenti (per cui l'opera è rimasta ancora per più di un anno inedita: chiudendosi così il decennio 1965-1975). Nell'estate del 1974 ho scritto praticamente la lunga appendice. Che il lettore, se vuole, può però non leggere. L'opera finisce con le parole 'ebbro d'erba e di tenebre'». E il decennio verrà chiuso anche dalla sua morte.
Va notato che anche in questo caso Pasolini commette, mi pare, lo stesso errore di date dell'intervista a Gardair, che Roncaglia ha corretto: il '65, l'anno dell'ulcera, era invece il '66 (e si tratta dunque di un vero decennio). Ma preme di più rilevare questa sorta di ritrosia verso il monologo finale (che pure lesse personalmente al Liceo Palmieri di Lecce il 21 ottobre 1975); ritrosia e pudore provocati, a mio modo di vedere, dalla rimozione del nome di Pound, che pure a Lecce fece apertamente, così definendo il monologo: «una poesia che cita e, in un certo senso, rifà e mima i Cantos di Pound». Ricordo, tra l'altro, che Pasolini intervistò Pound a Venezia, per la tv italiana (e sarebbe importante ritrovare questa intervista, per molti versi emblematica, negli archivi della Rai).
Ritrosia e pudore, dicevo, credo non arbitrariamente, nei confronti del nome di Pound, perche la sua svolta stilistica era pure il frutto di un'attenta rilettura dei Cantos. «Una disperata vitalità» è già una poesia poundiana, nel senso che vi vengono sfruttate tutte le risorse di quel sincretismo stilistico che Pound aveva posto al centro della ricerca contemporanea. Quando leggiamo, in quella poe¬sia capitale, «Versi, versi, scrivo! versi! / (maledetta cretina, / versi che lei non capisce priva com'è / di cognizioni metriche! Versi!) / Versi non più in terzine! / Capisce? / Questo è quello che importa: non più in terzine! / Sono tornato tout court al magma! / Il Neo-capitalismo ha vinto, sono / sul marciapiede / come poeta, ah (singhiozzo) / e come cittadino (altro singhiozzo)», ebbene, credo non vi possano essere dubbi sui modi di una svolta precisa, qui sottolineata con ironia.
Un altro nome può sorprendere qui in Pasolini, quello di Lacan, che compare in uno dei 'cori' di Bestia da stile: «Parlare / la parola / (Lacan) è ormai la nostra prima nuova qualità». Posso supporre che Lacan sia arrivato a Pasolini tramite Andrea Zanzotto, ma è ora importante rilevare l'uso che ne fa, quale lezione positiva nella pronuncia della parola, fino a quell'eccesso di discorso che Stefano Agosti ha sottolineato di recente.
Lacan lo troviamo pure in questi versi: «Un'idea di stile: uno stilo! / Piantata nel cuore / fin dove vibrano le corde più segrete...», e ci fa tornare, seguendo la traccia dell'eccesso del discorso, a quella definizione di stile come meta raggiungibile per accumulo, di cui si è detto all'inizio, parlando della forma della città di Orte. Ecco l'importanza dei continui aggiornamenti e rifacimenti in Bestia da stile: la somma, e soprattutto l'interazione delle stratificazioni di un decennio, avevano come scopo il raggiungimento di quell'assoluto formale (come la splendida concrezione della città di Orte) cui da sempre tendeva, anche tentando, a volte senza riuscirci a volte riuscendoci, di uscire dalla semplice letteratura («che ha reso appunto i miei sentimenti piccoli e meschini», come è scritto nel «Frammento II: Parigi», p. 289 di Bestia da stile). Stratificazioni, accumuli: da questo punto di vista è stato giustamente osservato che tutta l'opera di Pasolini va considerata come un unicum, come una sola, interminabile opera.
Dopo avere sovrapposto al linguaggio poetico quello cinematografico, doveva riscoprire l'importanza del teatro di poesia, per sovrapporlo al linguaggio del corpo. Il procedimento è sempre più necessario: non vi è linguaggio che possa bastargli o che possa portarlo, da solo, fino alle proprie, estreme conseguenze stilistiche. Di qui quel senso di perdita che si ha in certe parti delle sue opere, come di voragini che si aprono incolmabili. Pensava di riempire quel vuoto che si lasciava alle spalle con un'opera successiva o con un altro linguaggio.
Bestia da stile è invece l'opera che riassume tutte le sue possibilità, un passaggio obbligato, come «Una disperata vitalità», e definitivo. Prendere o lasciare, non c'è scampo. In Bestia da stile, Jan, il doppio di Pasolini, così recita: «Voglio essere poeta e non distinguo questa decisione / dagli odori della cucina / nell'ora d'inverno che precede la cena / (e fa tanto male - un male per sempre inspiegabile - / al cuore di bambini) / (...) Non lo distinguo dal silenzio del granaio / delle camere sospese nelle notti in cui i figli / restano soli con tutto il cielo davanti»(p. 205).
Accettare la sfida del silenzio: ciò vale per tutti i poeti. Trovare una soluzione stilistica nell'eccesso, questa è la scommessa di Pasolini. E nel cumulo dell'eccesso, nel linguaggio stratificato della poesia, ci stanno la buona e la cattiva letteratura, il manierismo e il rifiuto della letteratura, l'iperletteratura, ci stanno le immagini del suo cinema, il corpo teatrale e il corpo nel teatro della vita, quando finzione e verità vengono a ultima coincidenza, in una morte più volte annunciata.
Pubblicato originariamente in "Alfabeta", n. 70, marzo 1985, pagina 6-7 e in “Il Progetto Infinito”, a cura di Giovanni Raboni, "Quaderni Pier Paolo Pasolini", Roma, 1991
L'autografo con varianti, si trova presso il Centro Apice.
Si ringrazia Rosemary Liedl Porta.
Un kolossal fatto in casa I demoni secondo Peter Stein di Fernando Marchiori
Con le ultime repliche a Pordenone e a Torino, è terminata la tournée dei Demòni di Peter Stein. I numeri sono quelli di un kolossal dall’annunciato “destino di monumentalità”: 12 ore di spettacolo, 26 attori in scena, 25 mila chilometri per raggiungere 8 città italiane e 5 internazionali, complessivamente 350 ore di rappresentazione.
Niente male, in effetti, per un lavoro “nato in casa”: la casa di Stein, com’è noto, nella campagna umbra, dove lo spettacolo è stato concepito e dove ha debuttato dopo la cancellazione, per voto unanime del consiglio d’amministrazione dello Stabile di Torino, dal cartellone dell’Astra (che pure ha finito per ospitare la tappa conclusiva della maratona teatrale). Le polemiche sul caso ben rappresentano la situazione teatrale italiana, tra accuse incrociate di inaffidabilità e di sprechi, di incapacità manageriale e di provincialismo.
Per evitare un aumento dei costi, che sarebbero lievitati a un milione di euro, lo Stabile sabaudo tagliò lo spettacolo dal cartellone ma dovette rispettare il contratto e continuare a pagare gli attori finendo per coprire buona parte della spesa (400 mila euro su circa 500) che portò, su proposta dello stesso direttore Mario Martone, alla messinscena nella residenza del regista. Il tutto in tempi di crisi nera per il settore, s’indignò qualcuno; un’occasione persa per forzare i limiti di un sistema stantio, rispondevano altri. Nell’Italia dei premi, le polemiche si sono ricomposte tra un riconoscimento all’allestimento (Premio Ubu come migliore spettacolo del 2009) e uno alla committenza (Martone ha difeso il suo operato ricevendo il Premio Aldo Trionfo per la precedente direzione del Teatro di Roma). Lo spettacolo – che alla fine sembra essere costato 750 mila euro, con l’intervento produttivo dello stesso Stein e del milanese Tieffeteatro – è stato dunque consegnato al pubblico già con l’aura del capolavoro: uno “spettacolo storico”, l’“evento dell’anno” come si legge nel libretto di sala e in ogni articolo giornalistico dedicato all’evento.
Mostrare la noia
In effetti, la presenza di alcuni grandi interpreti del teatro italiano, l’attento adattamento a cura dello stesso Stein, le coerenti scelte registiche fanno dei Demoni un’impresa straordinaria. Quanto al capolavoro, bisognerebbe intendersi. Per ambientare il complesso intreccio del romanzo di Dostoevskij, Stein ha scelto di intervenire con semplici elementi scenografici di carattere sineddotico (un tappeto per una sala, foglie secche sparse a terra per un esterno, un letto per una camera, eccetera), lasciando agli attori il compito di riempire lo spazio scenico semivuoto, “come un foglio di carta bianco su cui la parola degli attori si incide con forza”: difficile dire se le parole degli attori si incidano, certo però riempiono lo spazio, dato che non vi è mai un momento di silenzio, mai un’occasione di andare oltre il testo.
Le scene di Ferdinand Woegerbauer prevedono cambi a vista, veloci, essenziali, tecnici che spostano mobili, oggetti e praticabili. Gli stessi attori fanno ruotare una parete double face che introduce di volta in volta nella camera di Satov, dove la moglie tornerà per partorire il figlio di Stavogrin; nella casa della zoppa Mar’ja Timoféevna e del fratello ubriacone che la batte con la cinghia; nello studio in cui Kirillov si prepara al suicidio in lunghe notti insonni accanto al samovar. Per gran parte dello spettacolo le luci rimangono fisse, bianche. I costumi di Anna Maria Heinreich caratterizzano i personaggi principali con misurato realismo storico. Dal pianoforte a lato della scena giungono le note dal vivo di Arturo Annecchino, discreto contrappunto, talvolta didascalico, a una recitazione che a Stein piace definire cinematografica, internazionale, “alla russa”, contrapponendola a «quella italiana che è “melodica” e non trasmette del tutto il senso delle parole».
Di qui l’effetto monodico di alcune scene, che diventa monotono in altre, e che comunque non conosce slanci lirici né stridori grotteschi. Una medietà forse ispirata allo stile impostosi dallo stesso Dostoevskij, che nel taccuino dei Demoni scriveva: «Indispensabile mostrare che la noia è sempre presente». Noia in senso puramente leopardiano, che però nello spettacolo cova e fatica a venire alla luce.
Oltre il bene e il male
Attorno alla casa della generalessa Varvara Petrovna vedova Stavrogin (Maddalena Crippa) – dove Stepàn Verchovenskij (Elia Schilton) ex precettore del giovane Stavrogin (Ivan Alovisio) è rimasto “ospite” parassita, succube della donna e vanesio cultore dell’Idea socialista – ruota una serie di altri spazi animati da frammenti di storie e personaggi sempre inquieti, attraversati da differenti aneliti a un’impossibile libertà che si traducono in progetti di sovvertimento dell’ordine sociale e perfino naturale. Ma è l’enigmatica figura di Stavrogin a tirare i fili dei destini che s’incrociano solo per distruggersi. Ricomparso nella cittadina materna dopo avventure e scandali a San Pietroburgo e all’estero, il giovane è il motore immobile di aspirazioni ideali che degenerano in cieco fanatismo, di nefandezze e violenze gratuite, di spinte nichiliste e disperazioni esistenziali che sfociano in omicidi e suicidi. Getta il sasso e poi ritira il braccio per stare a guardare, perché non ha nessuno scopo, è oltre il bene e il male, e scatena negli altri con indifferenza la forza negativa di cui non sa che farsene.
È il più coerente sviluppo del Raskol’nikov di Delitto e castigo, come scrisse Luigi Pareyson. È incapace di vivere, prova piacere a umiliarsi, ma con orgoglio, eppure la sua perversità diabolica esercita un’attrazione che sembra emanare dallo sguardo. E infatti Alovisio plasma un personaggio agile, elegante, sempre a testa alta, con gli occhi scuri e penetranti. Tutti gli ripetono: «Voi avete avuto una parte così importante nella mia vita» e si lasciano plagiare. Porta al suicidio una ragazzina per la vergogna di esserglisi concessa; sposa quasi per ripicca nei confronti del mondo («mi venne l’idea di storpiare la mia vita nel modo più ripugnante possibile») Mar’ja, la sciancata che non ci sta più con la testa; lascia credere a Pëtr Verchovenskij di poter essere il leader di quella rivoluzione che il giovane vagheggia e che intanto porta all’assassinio di Satov, di cui però si assumerà la responsabilità l’ingegnere nichilista Kirillov, da tempo deciso al suicidio per dimostrare l’inesistenza di Dio e “dunque” la propria libertà.
Derive del moderno
Tra gli attori spicca la coppia Crippa-Schilton, dai dialoghi efficaci, pieni di vezzi francesi e sottili ironie, che vedono lei sostenere con piglio rigido i di lui svolazzanti ragionamenti e capricci. Quanto lei è severa e responsabile, tanto lui è puerile e labile. Con i suoi capelli lunghi e la barbetta bianca, le sue cravatte eleganti, le sue citazioni letterarie, Stepàn è l’evanescente profeta locale della Grande Idea, un sognatore con l’aria del sessantottino invecchiato, che spesso parla per non dire niente. «Voi parlavate, noi passeremo all’azione, vecchio», gli urla in faccia il figlio Pëtr, allungando così la visione premonitrice dello scrittore russo fino al nostro recente passato di utopie finite nel sangue, di disperate ribellioni generazionali, di demoni che hanno invasato il corpo sociale. Estrema conseguenza di una modernità materialista e nichilista che Dostoevskij aveva stigmatizzato anticipando di mezzo secolo la deriva stalinista della rivoluzione d’ottobre.
Il nervoso Pëtr Verchovenskij di Alessandro Averone, dalla voce sempre strozzata, lo Stavrogin di Alovisio e il Satov di Rosario Lisma sono personaggi costruiti con una intensità psicologica che qualche volta riesce a incarnarsi in modo non convenzionale. Forse il più riuscito, in questo senso, è il Kirillov di Fausto Russo Alesi, che nel suo febbricitante raccoglimento misura la stanza a passi lenti, quasi involontari, prima del “suicidio logico” cui lo conduce la sua mistica atea. Pia Lanciotti è una Mar’ja Timoféevna espressionista e claudicante, Franco Ravera un caricaturale capitano Lebjadkin. La bravura di Maria Grazia Mandruzzato è sacrificata nel ruolo secondario di Praskov’ia Ivànovna. Oltre che per la scenografia, pars pro toto poteva essere un buon criterio anche per sfoltire il resto degli attori, tanto più che le scene corali sono le meno riuscite (il comizio, l’assemblea, la festa) e di alcune dall’imbarazzante convenzionalità (tutte quelle con il governatore) non si sarebbe sentita la mancanza drammaturgica. In che cosa consista, infine, la dichiara revisione del rapporto con gli spettatori, non è chiaro. O bastano le pause brevi per andare al bagno e quelle più lunghe per pranzo e cena per rendere il pubblico “partecipe e non solo osservatore”? Perché per le rimanenti nove ore si resta seduti al proprio posto: davanti a una parete che nessun cambio di scena infrange. Ma forse ha ragione Peter Stein, forse proprio così «si fanno anche più familiari, più facili da riconoscere dentro di noi, quei demoni con cui Dostoevskij indicava le malattie di una generazione di cui siamo figli». Anche in senso teatrale.
Foto di Luca D'Agostino.
Dal paradiso dei suicidi Etgar Keret a Palazzo Ducale a Genova per Mediterranea di Anna Maria Monteverdi
Entusiasmante incontro con il giovane scrittore israeliano Etgar Keret a Palazzo Ducale a Genova all’interno del ricchissimo programma di Mediterraea, manifestazione di grande spessore ideata e curata da Luca Borzani, presidente della Fondazione Palazzo Ducale che prevede incontri, conferenze, mostre (imperdibile Meditazioni Mediterraneo di Studio Azzurro).
Etgar Keret, nato l’anno della guerra dei Sei giorni (1967), non è famoso come Amos Oz o David Grossmann, intellettuali la cui voce è ascoltata in tutto il mondo, ma i suoi libri sono popolarissimi in Israele e ora sono tradotti in molti paesi del mondo (in Italia da e/o). I suoi libri sono intrisi di vero humour nero sin dal titolo: Pizzeria kamikaze, Gaza blues, Papà è scappato col circo, La notte in cui morirono gli autobus. Le vicende travagliate di Israele sono il sottofondo silenzioso dentro cui si incorniciano le storie, paradossali, umoristiche e tragiche insieme.
Pizzeria kamikazeè diventato un fumetto e oggi è anche uno spettacolo teatrale per la regia di Giorgio Galione , produzione del Teatro dell’Archivolto di Genova.
Non so perché ma mi ero immaginata una specie di Stefano Benni made in Medio Oriente le cui short stories però hanno per argomento – direttamente o indirettamente - la Shoah o il conflitto arabo-israeliano all’epoca della seconda Intifada. Etgar Keret inizia a scrivere molto giovane, diciannovenne, mentre faceva il servizio di leva obbligatorio.
Di Israele dice ironicamente che forse non è
un posto sicuro al 100%, forse neanche il migliore dei luoghi dove vivere, però è sicuramente il posto migliore su cui scrivere, è il luogo che ti dà più spunti narrativi se sei uno scrittore, perché è un po’ come essere sempre dentro un reality show.
I suoi testi sono tutti narrati al presente, e il motivo viene così spiegato da Keret:
Il ruolo della narrativa in Israele non è altro che il tentativo che noi facciamo per esorcizzare le nostre paure, una sorta di impossibilità di trovare un senso di continuità con il passato, il problema cioè di non trovare il collegamento tra il presente e il passato, perché il passato è molto difficile, perché le nostre radici nonostante siano profonde, non ci appartengono più. C’è una sensazione di scollegamento dal passato anche da parte mia: ho 2 genitori sopravvissuti all’Olocausto, i miei nonni non li ho mai conosciuti, non ho mai visto la mia casa di famiglia, la nostra lingua delle origini è stata da sempre un tabù, non ho mai recitato poesie, o sentito canzoni che possono aver segnato la mia vita. La mia vita è stata contrassegnata dal marchio del presente e il mio accanirmi sul presente è come uno sforzo per sostituirmi al passato.
Keret non condivide la politica attuale del governo di Israele, è simpatizzante della sinistra ed è un pacifista convinto, ma non si considera né uno scrittore in esilio, né parte di una minoranza:
I miei sentimenti per la pace sono suffragati dalla maggior parte degli israeliani: è molto radicata nella gente la convinzione che si debba arrivare presto ad una soluzione di pace in tempi brevi.
Un bell’esempio di humour nero tipico della sua narrativa si ha in Gaza blues dove riesce a far sorridere persino sul tema tragico della Shoah: un bambino israeliano viene portato a visitare un campo di sterminio per ebrei polacchi, e gli rimane impresso quello che gli viene raccontato su ciò che i nazisti facevano con i corpi delle vittime. Quando torna a casa la madre gli fa trovare un paio di scarpe da calcio tedesche, Adidas, con la punta in pelle. Il bambino inizialmente non le vuole indossare perché pensa che la punta possa essere stata fatta con una parte del corpo del nonno; per questo, quando poi le indossa, fa attenzione a non colpire il pallone con la punta. Ma davanti a un passaggio decisivo, colpisce il pallone, fa un tiro perfetto proprio di punta e fa gol. Allora tornando a casa chiede a voce alta al nonno che ne pensava del gol. Il nonno ovviamente non risponde ma “dal modo in cui camminavo con le scarpe avevo capito che gli era piaciuto”.
La bella presentazione di Pietro Cheli che ha unito all’analisi dei libri, riferimenti politici attuali, dà ragione del valore di uno scrittore giovane ma che ha già trovato un suo stile e una forma letteraria molto personale. Forma letteraria che si esprime non tanto nei romanzi quanto in una efficace scrittura breve, addirittura brevissima: Keret a proposito di questo, dice scherzosamente che lui vorrebbe ogni volta provare a scrivere un romanzo intero ma poi dopo tre pagine i protagonisti dei suoi racconti muoiono e allora deve chiuderla lì!
Pizzeria Kamikaze parla di un giovane che si ritrova dopo che si è ammazzato, nel paradiso dei suicidi, un luogo che assomiglia molto a Francoforte, e trova lavoro in una pizzeria. Si innamora di una ragazza finita per sbaglio nel paradiso dei suicidi e per questo verrà prelevata da un angelo in incognito e rimandata sulla terra; frequenta un pub divertente, con gente che ha nel corpo segni tipici dei suicidi (ragazze con polsi tagliati, uomini con volti gonfi per l’annegamento); nel bar c’è pure Kurt Kobein, morto appunto suicida, che tutti evitano perché suona canzoni che nessuno vuole ascoltare. La pizzeria è piena di arabi suicidati, sono kamikaze a cui hanno promesso che nell’aldilà verranno ricompensati con vergini vogliose. Durante l’incontro Keret ha parlato di una “schizofrenia” che alberga nell’animo dei giovani israeliani, schizofrenia che lui stesso ha vissuto in prima persona e che è dovuta ad una vita scandita dalla presenza costante della guerra:
Penso che la guerra per me e per quelli come me che vivono nel Medio Oriente, produca la stessa sensazione che dà il freddo a quelli che vivono in Islanda. Diventa praticamente una parte importante della tua vita, quasi ti ci abitui, ma ovviamente non puoi rimanere cieco di fronte a una guerra che ti scoppia davanti; nella nostra vita la guerra arriva ad assumere i connotati di nuova normalità. I conflitti sono così per noi, quasi un modo per scandire il tempo che trascorre. Le mie storie le ho scritte quasi tutte quando facevo il servizio militare nell’esercito, la leva è obbligatoria. Ho avuto un’ infanzia e un’ adolescenza protetta. La tua realtà può essere quella normale in cui esiste uno stile di vita occidentale, tu studi, vai a teatro, poi devi lasciare tutto per andare nell’esercito e hai di fronte un mondo parallelo, completamente scollegato da tutto quello che ti è familiare, che conosci; c’è una specie di bipolarità che ti colpisce ed è una cosa che trovo abbastanza peculiare di Israele. Per esempio, il mio dentista è un vegano, manda il figlio a una scuola Montessori, è un sostenitore della sinistra liberal, ma per 20 giorni l’anno va a fare il riservista dell’esercito come tiratore scelto e nel suo patentino dell’esercito c’è scritto che ha ucciso 6 persone. Quindi c’è in Israele questo tipo di realtà dove un giorno ti ritrovi a uccidere e il giorno dopo ti rifiuti di mangiare le uova per non uccidere non solo la gallina ma persino il suo embrione. Io ho passato anni dentro questo vorticoso entrare e uscire da una realtà violenta a una realtà completamente normale e occidentale. Volevo raccontare nei miei libri proprio questa dicotomia. Io stesso essendo un simpatizzante della sinistra, quando ero in divisa eseguivo gli ordini, ma una volta tolta, andavo a dimostrare contro quelle stesse cose che facevamo o ci veniva ordinato di fare.
La scrittura è una specie di “terapia” per l’autore, per ricordare a se stesso chi è veramente.
Mi sono ritrovato nell’esercito dove se dici quello che pensi hai dei casini, dunque devi fare finta di non essere quello che sei. Ti ritrovi nell’esercito, tu sai di essere un individuo ma non puoi in alcun modo mostrare la tua individualità perché ciò fa attrito con tutto quello che c’è intorno: devi semplicemente essere assimilabile a tutti quelli che ti stanno vicino. Ho cominciato a scrivere quindi, proprio per ricordarmi quello che ero veramente, che non ero cioè quello che mi obbligavano a essere quando ero nell’esercito. Questo sforzo esistenziale si è riversato nella scrittura.
Pizzeria Kamikaze è suddiviso in tanti capitoli lunghi al massimo due pagine e mezzo. E se il suicidio, come ricorda Pietro Cheli, non è contemplabile nelle religioni monoteiste, in Pizzeria Kamikaze diventa una specie di metafora della vita in Israele:
Quando ero nella leva vedevo tutti i miei amici che come me avevano 22 anni, che si comportavano in modo strano: erano ragazzi che combattevano, vedevano morti, essi stessi morivano, ma c’era una dicotomia tra la loro vita violenta, l’essere esposti alla violenza della guerra e un desiderio che loro avevano di vita edonistica forse per esorcizzare la morte che era loro così familiare, e volevano esplorare il sesso, le donne, la droga, l’alcool, come se queste emozioni violente e intense li inducessero già, in fondo, a rinunciare alla vita. Queste emozioni intense, questo convivere con la morte, pian piano li uccideva. Così mi è venuta questa idea: il paradiso dei suicidi è una metafora della vita in Israele, mi sembrava rendesse bene questo concetto.
Tragediablog: un teatro politico? Alexis: i Motus rivistano l'Antigone di Oliviero Ponte di Pino
Con Alexis. Una tragedia greca il progetto Syrma Antigónes (“Sulle tracce di Antigone”) dei Motus approda a una nuova, appassionante tappa. Come nelle puntate precedenti (i “Contest”) il classico viene fatto conflagrare con la più lacerata contemporaneità, giocando in maniera assai convincente sulla complessità delle stratificazioni: oltre che classico-contemporaneo (e dunque passato-presente), soggettività-oggettività, teatro-video, realtà-finzione, live-registrato, immagine fissa-immagine in movimento, spettacolo-metaspettacolo, chiuso-aperto...
Il lavoro sulla tragedia di Sofocle ha per protagonista Silvia Calderoni, diventata ormai icona del gruppo. Il punto di partenza dello spettacolo, in una modalità di comunciazione che ricorda quella dei social networks, è in soggettiva: la ripresa con una videocamera di una gita in montagna commentata dalla stessa Calderoni. In questa prima sequenza, il richiamo alle capre che s’inerpicano sulle vette rimanda alla nascita della tragedia, il “canto del capro” secondo la discussa etimologia aristotelica.
Il proiettore che trasmette il video è sistemato su un carrellino a rotelle collegato a un computer: mosso a vista dall’attrice, proietta le sue immagini sulle pareti della scena e della sala, modellando così lo spazio. Nel corso dello spettacolo, verranno proiettati sullo sfondo della scena e sulle pareti della sala per spezzoni immagini e filmati di vario tipo. Molte sequenze sono preregistrate: alla soggettiva dell’ascensione, segue il diario di un viaggio dei Motus nella capitale greca, che è anche una sorta di inchiesta, per capire che cosa sia davvero successo nelle tragiche notti della rivolta del dicembre 2008, anche attraverso una serie di incontri con intellettuali (Nikos del Centro Libertario Nosotros, Stavros del gruppo musicale Deux ex machina) che riflettono sulle case profonde di una rivolta insieme gioiosa e disperata. L’esperienza personale cerca così di oggettivarsi, dapprima nel dialogo e nell’incontro, per poi costruire via via un sapere condiviso. Alexia (Alexandra Sarantopoulou, in scena con Vladimir Aleksic e Benno Steinegger), studentessa e danzatrice, dopo essere comparsa nelle immagini in cui racconta quello che ha fatto nei giorni e nelle notti fatali della rivolta, entra in scena, a dialogare con Silvia-Antigone: sono ricordi personali, ma anche la traduzione dei murales e dei tazebao che si leggono sui muri di Atene.
Accanto ad Antigone, l’altro protagonista dello spettacolo, quello che ispira il titolo, è Alexis Grigoropoulos, manifestante quindicenne freddato ad Atene da un poliziotto il 6 dicembre 2008, nel quartiere di Exarchia. A saldare l’accostamento tra l’eroina antica e il ragazzo appassionato di basket e di rock, una frase della madre di Alexis: “La cosa che mi ha fatto più male, è che i poliziotti, dopo avergli sparato, se ne sono andati”. In uno spettacolo-riflessione che si apre interrogandosi sulla necessità e sulla possibilità di riportare sulle scene il testo di Sofocle, ecco il corto circuito tra attualità e tragedia: un cadavere insepolto e una donna che pretende verità e giustizia (in Italia a chiedere verità e giustizia con forza e tenacia sono state in questi anni le madri di Carlo Giuliani e Federico Aldrovandi, e la sorella di Stefano Cucchi...).
Lo spazio scenico diventa allo stesso tempo la strada di Exarchia dove cade il corpo di Alexis e la piana davanti a Tebe dove Antigone rende pietà al cadavere del fratello.
Accanto alle immagini preregistrate (compresi alcuni spezzoni dei telegiornali dell’epoca) vengono proiettati alcuni “fermo immagine” scattati durante la rapresentazione, a cogliere alcuni momenti chiave: e un ambiguo fermo immagine fissato dalla fotocamera del pc sarà anche la visione conclusiva dello spettacolo.
Con questo mix di materiali multimediali di origine disparata, Alexis si configura come una sorta di blog teatrale, costruito per frammenti creati dal blogger e inserti “copia e incolla”. Tanto è vero che a un certo punto dello spettacolo, alcuni spettatori hanno la possibilità di passare dalla modalità “Mi piace” a quella “Condividi”: un attore compie un gesto – il gesto della rivolta – che ripete in sequenza più volte; gli si associano gli altri attori, ma poi anche gli spettatori vengono invitati a unirsi alla danza, diventando così una sorta di coro danzato.
Enrico Casagrande e Daniela Niccolò costruiscono con Alexis una riflessione sulla possibilità di fare politica oggi, e si fare dell’arte politica: insomma, teatro politico nel senso migliore del termine.
Politico è ovviamente lo spunto d'attualità: la crisi economica e le sue conseguenze, la violenza del potere, il disagio e la ribellione giovanili, i meccanismi dell'informazione; e la crisi "dea(d)mocracy", la "demo(rta)cazia". Politica è la lettura della tragedia di Sofocle da parte de Motus: lo scontro tra l'arrogante violenza del potere e i diritti del cittadino, tra le menzogne della ragion di stato e la sete di verità delle vittime innocenti. Ma politica è anche la scelta di cercare un linguaggio - un intreccio di linguaggi - in grado di mettere in corto circuito questi elementi con le moderne tecnologie della comunicazione e dell'espressione, per un loro uso non conformista. Ed è politico, dai tempi di Antigone a oggi, il "peso" che si dà al corpo - al corpo vivo di un ragazzo ribelle e al suo cadavere - in rapporto alle parole che lo descrivono e alle immagini che lo ritraggono. Oggi più che mai.
Foto di Valentina Bianchi.
Per una geografia del Teatro Civile Una mappa (work in progress) di Oliviero Ponte di Pino
I luoghi raccontati dagli spettacoli di teatro civile.
Per ulteriori informazioni sul Teatro Civile, vedi la ate@tropedia di www.ateatro.it all'indirizzo http://www.trax.it/olivieropdp/mostralemmario.asp
Il punto di partenza della mappa è il censimento di Daniele Biacchessi (in "Teatro Civile. Nei luoghi della narrazione e dell'inchiesta", Verdenero, Edizioni Ambiente, Città di Castello, 2010).
[la mappa è un work in progress, grazie per correzioni, aggiunte, suggerimenti]
[se volete inglobarla nelle vostre pagine, c'è un link e una linea di codice HTML]
Sciopero! Nessuno si salva da solo L'assemblea del 22 novembre alla Camera del Lavoro di Milano di Mimma Gallina
Non succede spesso che l’intero comparto della produzione culturale e dello spettacolo proclami uno sciopero generale e unitario: SLC-CGIL, FISTel-CISL e UILCOM-UIL, unite su posizioni molto dure e decise "contro i tagli previsti nella finanziaria 2011, contro l’immobilismo sulle necessarie riforme di sistema, per salvaguardare l’occupazione e per lo sviluppo dei settori”. I principali punti della ri-vendicazione che ha visto lunedì 22 i lavoratori astenersi dal lavoro e convergere in assemblee e ini-ziative aperte in tutta Italia, ma in particolare a Roma, Genova, Torino e Milano sono i seguenti:
• Approvazione delle leggi quadro di Sistema dei Settori dello Spettacolo dal vivo e Cineaudiovi-sivo, che portino a compimento titolarità e prerogative per l’intera filiera della Repubblica (Stato, Regioni, Province, Comuni ) e per la piena applicazione del titolo V della Costituzione e suo adeguato finanziamento;
• Approvazione della legge sulla tutela sociale dei lavoratori dello Spettacolo;
• Riportare il Fus 2011 almeno al livello del 2008, ossia circa 450 milioni di euro;
• La conferma del rifinanziamento per il prossimo triennio degli incentivi fiscali già esistenti ( Tax Shelter e il Tax Credit) e l’attivazione di analoghi provvedimenti anche per lo Spettacolo dal vivo
• Contro la delocalizzazione delle produzioni e per la strutturazione delle infrastrutture dell’Industria Cineaudiovisiva (teatri di posa etc..);
• La modifica del ddl cinema per riorganizzare risorse e incentivi volti a rilanciare l’intero Settore;
• I rinnovi dei contratti collettivi nazionali delle fondazioni lirico sinfoniche e dei teatri di prosa e della produzione cinematografica (troupe;)
• L’apertura di un tavolo Ministeriale per concordare la possibilità di accedere alla attivazione di tutti gli strumenti di protezione sociale ( a partire dalle figure artistiche) e politiche di riemersione per i settori della Produzione Culturale e dello Spettacolo volti a tutelare i lavoratori stabili e pre-cari del Settore.
• Un tavolo interministeriale che coinvolga il Ministero dei beni e attività culturali, dell’Economia, del Lavoro, e del Turismo e le Infrastrutture e attività produttive, nonché l’ANCI e la Conferenza Stato-Regioni, finalizzato a concretizzare quelle necessarie sinergie e semplificazioni ammini-strative fondamentali per la riorganizzazione del Sistema.
Presso la Camera del Lavoro di Milano, nella Sala Di Vittorio affollata di attori, tecnici, operatori di di-verse generazioni e degli studenti della Paolo Grassi e di altre scuole cittadine, hanno approfondito i temi dello sciopero i rappresentanti dei lavoratori (sindacalisti a fianco dei giovani orchestrali della Verdi e agli oscuri tecnici delle multisale cinematografiche), delle principali istituzioni dello spettacolo cittadine (il Piccolo con Escobar e La Scala con Lissner) e di alcuni teatri (con Shammah, Sarti, Gatti-ni), a fianco di personalità multiformi come Toni Servillo e Moni Ovadia. Presenti rappresentanti dell’AGIS che non sono però intervenuti. Sul fronte della politica, una battagliera On. De Biasi, e –prestato alla politica - il compositore Filippo del Corno che ha portato i saluti di Giuliano Pisapia, il vin-citore delle Primarie della sinistra, testimoniando il suo impegno orientato in particolare al rilancio cul-turale e sociale delle periferie.
Le introduzioni e gli interventi sul fronte sindacale (Albori, Conti, Rosati e Miceli) hanno offerto alcuni numeri di riferimento: l’occupazione e l’indotto del settore della cultura e dello spettacolo (550.000 fa-miglie), la sua incidenza sul PIL (2,8%), il calo previsto per il FUS dal 2010 al 2011 (-36%), le giornate lavorative perse, la delocalizzazione della produzione cinematografica (settore penalizzato anche dall’abolizione del tax credit e dalla carenza di infrastrutture). E’in atto, nel corso di tutta la ormai lunga storia dei governi di centro destra in questo paese (dal ’94 a oggi), un vero e proprio accanimento con-tro il settore, accanimento cui la crisi fornisce un ulteriore pretesto: più che mai questo ultimo governo Berlusconi si è dimostrato nemico della cultura, ostile alle aree e ai lavoratori del pensiero (scuola, ri-cerca, innovazione), punendoli con decurtazioni ben superiori alle medie annunciate e con la latitanza politico-legislativa. Fra gli obiettivi e le linee di intervento che si vogliono mettere in campo contro que-ste politiche (sopra elencate), sarà opportuno – come www.ateatro.it - tornare prossimamente sulla “legge sulla tutela dei lavoratori”, ovvero per l’applicazione degli ammortizzatori sociali e di altre forme di protezione anche al settore dello spettacolo. Si è del resto sottolineato come la difesa del lavoro e dei diritti dei lavoratori costituiscano una condizione irrinunciabile anche in un contesto di crisi e nono-stante l’opportunità di ampie revisioni della materia contrattuale.
L’assemblea, e tutti gli interventi, sono stati compatti contro l’ostilità irriducibile del ministro Tremonti e l’inconsistenza di Bondi, di cui più d’un intervento ha sollecitato le dimissioni, in un clima unitario (nes-suno si salva da solo) e di solidarietà fra lavoratori e organizzazioni.
Molto deciso in questa direzione l’intervento di Sergio Escobar, che ha richiamato l’art.9 della costitu-zione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il pa-esaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), una “seccatura” nella filosofia del governo, ha ricordato la parabola discendente del Fus - che ha riguardato se pure in misura minore anche i go-verni di centro sinistra - e oggi corrisponde, in valore reale, a un terzo di quello originario, e il significa-to che il fondo rivestiva alle origini (nel 1985): un patto fra stato e organizzazioni dello spettacolo, ri-sorse, regole, funzioni certe. Un patto tradito e incompreso, non solo per insensibilità, ma per un’ottusa irresponsabilità rispetto alle funzioni sociali, identitatarie, civili del teatro, ben prima che economiche e occupazionali e rispetto ai suoi tempi artistici e organizzativi, alle sue necessità operative. Ai 23 milioni di euro che la Francia assegna alla sola Comedie Française, corrispondono i 17 milioni riservati a tutto il teatro pubblico italiano. Ma il principale terreno in cui il “cinismo”, le “doppie verità” di Tremonti si scoprono è il rapporto equivoco fra pubblico privato: il richiamo a risorse private improbabili e tutt’altro che incentivate (che trova il punto di massima contraddizione nelle vicende delle fondazioni lirico sin-foniche) e la scelta di non dare una normative al settore, alimentando una sostanziale “a”legalità. Il ti-more di Escobar è che questi continui e crescenti attacchi gettino sabbia negli ingranaggi, minino pro-gressivamente e irrimediabilmente il sistema.
Il sovrintendente Lissner ha richiamato la relazione fra arte, cultura e libertà e difeso con forza il valore pubblico dello spettacolo: non c’è privato che si possa sostituire alla funzione pubblica nella difesa del patrimonio culturale, della libertà degli artisti (e della loro emancipazione dal mercato), dei diritti cultu-rali dei cittadini. La Scala, con il suo 60% di autofinanziamento (solo il 40% deriva dai diversi livelli dell’amministrazione pubblica), risulta in questo un modello virtuoso e – un dato che ha stupidto la platea - a fronte di 37 milioni di contributi paga allo stato 39 milioni di tasse (si suppone compresi i con-tributi previdenziali, nda).
Gli altri rappresentanti dei teatri hanno posto l’accento su alcuni valori di fondo del teatro: il valore in-sopprimibile della presenza umana, la fragilità e il carattere minoritario (Andrée Shammah), il ruolo “e-ducativo” e sociale nelle periferie (Renato Sarti).
Il tema dei giovani ha attraversato quasi tutti gli interventi, a cominicare da quello di Toni Servillo (fra i primi), che ha generosamente posto l’accento sulle professioni meno visibili, più precarie, quelle dietro le quinte dove più frequentemente operano i più giovani: nel cinema come nel teatro), e quelli degli stessi ragazzi: vessati gli orchestrali della Verdi (www.ateatro.it né ha già parlato e sembra incredibile un comportamento decisamente antisindacale da parte di un’istituzione così sostenuta a livello pubbli-co e privato), sottopagati i proiezionisti delle sale Multipex, preoccupati per il loro futuro gli studenti della Paolo Grassi, ma impegnati in un nuovo movimento trasversale fra le scuole cittadine “chi è di strada”.
Emilia de Biasi ha enumerato alcuni inimmaginabili comportamenti governativi (o vere e proprie nefan-dezze): dal fondo Letta che nella finanziaria contiene di tutto di più ma da cui risulta esclusa (azzerata) la cultura, alle “milleproroghe” cui si rimanda per possibili futuri tamponamenti dell’emorragia, agli inca-richi per Pompei e L’Aquila attribuiti alla moglie del direttore generale del Ministero (che sarebbe poi Salvo Nastasi: lei sarebbe la figlia di Minoli: ne ha parlato anche Travaglio ad Annozero). Ha in-fine – molto applaudita - riposto l’accento sulla necessità di operare per tutto il sistema: dal Pic-colo Teatro ai Piccoli Teatri.
Chi scrive ha ricordato gli altri fronti da non dimenticare: gli enti locali in primo luogo (“puniti” a loro vol-ta dai tagli dei trasferimenti, ma le cui scelte di spesa non sono ineluttabili), la incredibile gestione di ARCUS spa, infine il rischio che una concentrazione delle scarse risorse sulle istituzioni esistenti, e-scluda, e comprometta irrimediabilmente il futuro delle nuove organizzazioni.
Fra gli interventi conclusivi, si è preso la scena Moni Ovaia, come sempre esplosivo e provocatorio, ma con una proposta concreta (ripresa poi da Monica Gattini del Litta): raccogliere migliaia, milioni di dichiarazioni di spettatori (o inoltrare milioni di email), che più o meno dicano: “ho visto questo spetta-colo, vorrei poterne vedere altri”. E gli spettatori, si sa, solo elettori.
Le nomination per i Premi Ubu per il teatro 2010 - Trentatreesima edizione Appuntamento lunedì 13 dicembre, Piccolo Teatro Grassi di Ubulibri
I Premi Ubu stagione 2009/2010, promossi dall’annuario del teatro Il Patalogo, edito da Ubulibri, sono un’altra volta in vista del traguardo. Verranno consegnati per la trentatreesima volta a Milano, con il Contributo del Comune, in una serata aperta al pubblico, lunedì 13 dicembre, alle ore 18:00, presso il Piccolo Teatro Grassi di via Rovello 2. Presenterà Gioele Dix.
53 critici hanno preso parte alla votazione scritta, svoltasi in due tornate. Siamo già in grado di annunciare le nomination dei candidati ammessi, in base al punteggio ottenuto, alla rosa finale e all’ultimo ballottaggio:
1. Spettacolo dell’anno Finale di partita di Samuel Beckett (Massimo Castri, Ert-Emilia Romagna Teatro, Teatro di Roma, Fondazione Teatro Metastasio)
Scene da Romeo & Giuliettada William Shakespeare (Federico Tiezzi, Fondazione Teatro Metastasio - Stabile della Toscana)
Amleto da William Shakespeare (Maria Grazia Cipriani, Teatro del Carretto)
L’ingegner Gadda va alla guerra da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare (Giuseppe Bertolucci, esplor/azioni)
Roman e il suo cucciolodi Reinaldo Povod, ad. di Edoardo Erba (Alessandro Gassman, Teatro Stabile d’Abruzzo, Società per Attori, Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni)
2. Regia
Massimo Castri (Finale di partita di Samuel Beckett)
Armando Punzo (Alice nel Paese delle Meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà da Lewis Carroll)
Carmelo Rifici (Dettagli di Lars Norén)
3. Scenografia
Guido Buganza (Dettagli)
Andris Freibergs (Le signorine di Wilko)
Cikuska (La stanza)
4. Attore
Fabrizio Gifuni (L’ingegner Gadda va alla guerra)
Alessandro Gassman (Roman e il suo cucciolo)
Saverio La Ruina (La borto)
5. Attrice
Francesca Mazza (West e ciclo di O/Z)
Mariangela Melato (Il dolore)
Federica Fracassi (La corsia degli incurabili)
Arianna Scommegna (Cleopatràs)
6. Attore non protagonista
Francesco Colella (Dettagli e Il mercante di Venezia)
Arturo Cirillo (Otello)
Roberto Latini (L’uomo dal fiore in bocca e Scene da Romeo & Giulietta)
7. Attrice non protagonista
Melania Giglio (Dettagli)
Bruna Rossi (Il mercante di Venezia)
Ida Marinelli (Angels in America.Seconda parte: Perestroika)
8. Nuovo attore o attrice (under 30)
Giovanni Anzaldo
Marta Cuscunà
Eva Geatti
Camilla Semino Favro
9. Migliore novità italiana (o ricerca drammaturgica)
La borto di Saverio La Ruina
La casa di Ramallah di Antonio Tarantino
La malattia della famiglia M di Fausto Paravidino
10. Migliore novità straniera Bizarra di Rafael Spregelburd (Napoli Teatro Festival Italia e Teatro Bellini - Fondazione Teatro di Napoli)
Dettagli di Lars Norén (Piccolo Teatro di Milano)
Immanuel Kant di Thomas Bernhard (Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile delle Marche)
11. Migliore spettacolo straniero presentato in Italia
Lipsynch (Robert Lepage,Ex Machina e Théâtre Sans Frontières)
La casa di Bernarda Albadi Federico García Lorca (Lluís Pasqual, Teatre Nacional de Catalunia e Teatro Español de Madrid)
Shakespeares Sonnette di Robert Wilson e Rufus Wainwright (Berliner Ensemble)
12. Segnalazioni per premi speciali
- Punta Corsara, la scena dei ragazzi di Scampia alla riprova di un teatro di apprendimento vissuto assieme alle persone di un territorio difficile, che hanno potuto trovare nelle forme dell’esperienza artistica occasioni di vita ulteriore e strumenti di restauro morale. Un progetto coraggioso, capace di lavorare sul territorio con un respiro nazionale incrementando un ricambio generazionale, sia sul versante artistico che su quello tecnico e organizzativo, di cui il nostro paese ha davvero bisogno.
- Kilowatt Festival, attività di sguardi incrociati tra pubblico, artisti e critici in cui è nascosta la forza eversiva di un punto di vista davvero nuovo. Coinvolto in questa gara popolare un gruppo di spettatori ribattezzati “Visionari”, cittadini appassionati ma non esperti, che partecipano alla scelta degli spettacoli e insieme a critici vecchi e nuovissimi si impegnano nella ricerca di un teatro da pensare e costruire.
- Roberto Saviano, da “abusivo” del teatro si fa inatteso narrattore che coraggiosamente esce dal suo spazio di solitudine e conquista il pubblico con grazia e talento con il suo monologo La bellezza e l’inferno, mirabile j’accuse contro il cancro della mafia e i mali del mondo.
La cultura nutre e dà da mangiare Presidio a Milano il 7 dicembre di Camera del Lavoro Metropolitana di Milano e CGIL-SLC
Qui di seguito, il comunicato di convocazione del Presidio del 7 dicembre a Milano. L'iniziativa rientra nel quadro di una mobilitazione che interessarà numerose città italiane.
Cosa sarebbe il mondo senza Cultura, senza passioni?
La nostra risposta è: arido, povero, egoista, in una parola imbarbarito.
La Cultura nutre le menti dell'uomo, è alla base di ogni sviluppo umano: senza Cultura non c'è con-vivere.
La Cultura è un bene comune!
Così come una società ha bisogno di strade e di ponti, così ha bisogno di Cultura.
La musica sveglia il tempo, la Cultura sveglia le menti, toglie la solitudine.
La Cultura è una risorsa strategica!
Oltre 550.000 famiglie vivono di Cultura, oltre il 2,8% della forza lavoro italiana. La Cultura non è un costo bensì un investimento: ogni euro investito in Cultura ne produce sei in ricchezza per il Paese.
Il petrolio dell'Italia si chiama Cultura!
Lo stato Italiano investe in Cultura solo lo 0,23% del bilancio mentre questo settore produce il 2,7% del PIL. In tutta Europa i governi, che pure effettuano tagli, continuano ad investire in Cultura e Conoscenza intorno all’ 1,5% dei loro bilanci riconoscendo che questo settore svolge una funzione anticiclica contro la crisi. Contro i tagli del governo, che rischiano di portare il settore al disastro economico e all'impoverimento civile, affermiamo la nostra fame di Cultura!
per riaffermare la strategicità dell'investimento pubblico nella Cultura, per una riforma del settore
PRESIDIO A MILANO
Martedì 7 dicembre 2010
15:00 - 17:30
Piazza della Scala
La creatività è il motore della Storia.
Senza Lavoro e senza Cultura non c'è futuro.
SARANNO PRESENTI: lavoratori e Artisti del mondo della Cultura e dello spettacolo
di Milano e di altre città di Italia
C.re.s.co cresce La riunone di Castiglioncello di Davide D'Antonio per C.re.s.co
Si è tenuta a Castiglioncello la prima riunione di C.re.s.co dopo la sua fondazione al Festival di Bassano nello scorso settembre. Molti sono stati gli argomenti all’ordine del giorno ma in primis è stato necessario darsi un assetto associativo se pur leggero come da tutti invocato: è stata eletta Elena Lamberti come coordinatrice nazionale del C.Re.S.Co, Giovanni Zani amministratore, Davide D’Antonio coordinatore del focus sui sistemi di finanziamento, Camilla Toso responsabile della comunicazione e del web.
Oltre che impegnare tutti i Promotori a sentirsi rappresentativi del C.Re.S.Co., si è stabilito di nominare delle Antenne Terroriali, con lo scopo di essere coordinatori zonali del C.Re.S.Co. su specifiche macroaree del territorio nazionale, dando loro anche la responsabilità di intervenire a nome del C.Re.S.Co. nei contesti di emergenza che si creassero sul territorio (assemblee, petizioni, ecc).
Le Antenne Territoriali nominate all’unanimità dall’Assemblea sono:
Lombardia: Donato Nubile
Macroarea Triveneto: Antonino Varvarà
Emilia Romagna: Claudio Angelini
Toscana: Gianni Berardino e Dario Focardi
Macroarea Umbria-Marche: Lucio Mattioli
Macroarea Lazio-Abruzzo: Roberta Nicolai
Macroarea Campania-Molise: Agostino Riitano
Sicilia: Giuseppe Cutino
L’Area Piemontese, della Puglia e della Sardegna sono al momento scoperte e ci si è impegnati a trovare dei rappresentanti di queste aree da invitare alla prossima riunione.
L’assemblea ha poi deciso di dare vita a un nuovo focus tematico chiamato “Laboratorio di idee” con lo scopo di rilanciare nuove pensieri e progetti concreti che possano ampliare il raggio d’azione del C.Re.S.Co., al di là dei focus già attivi (finanziamenti, codice etico, tutela dei lavoratori dello spettacolo). Il Coordinatore di questo nuovo forum sarà scelto nel prossimo incontro di Direttivo.
Tra i lavori più impegnativi vi è stato l’esame della bozza di questionario proposta dalla Fondazione Fitzcarraldo e finalizzata alla realizzazione della ricerca che il C.Re.S.Co. ha commissionato a tale fondazione. Dopo un attento esame la si è sostanzialmente approvata lasciando comunque ai soci di poterla visionare ancora ed apportare ulteriori modifiche.
Si è fatta una presentazione delle prospettive di lavoro del progetto sul tavolo sistemi di finanziamento apportando alcune modifiche alla linea precedente, che vengono apprezzate e che verrano, però, ulteriormente approfondite nelle prossime sessioni di lavoro.
Si sono anche stabilite le modalità di adesione di nuovi promotori al C.Re.S.Co, condizionate o dalla presentazione di una lettera di adesione da parte di nuovi soggetti o attraverso la presentazione diretta da parte delle Antenne Territoriali che, nel formulare i loro inviti di adesione, si impegnano a lavorare in stretto contatto con il Presidente e la Coordinatrice nazionale. Edoardo Donatini ha dichiarato l’intenzione di organizzare a Prato, nell’ambito del festival “Contemporanea”, presso i locali del Teatro Metastasio, Teatro Stabile della Toscana, l’Assemblea nazionale del C.Re.S.Co. per il 2011, in una due giorni compresa tra il 16 e il 24 settembre 2011. Il Direttivo ha inoltre fissato i suoi prossimi incontri nei seguenti periodi:
fine febbraio – inizio marzo: a Brescia (ipotesi preferenziale), oppure Mondaino (Rn) o Terni
fine giugno – inizio luglio: a Napoli (ipotesi preferenziale), oppure Mondaino
I prossimi appuntamenti per Cresco saranno essenziali per definire una strategia precisa in rapporto alle analisi che sono state compiute e verranno portate a termine in questi mesi, per cui ci si augura di poter ospitare nell'associazione un numero sempre maggiore di operori che possano apportare con la loro esperienza un contibuto ai lavori.
I Premi Ubu per il Teatro Assegnati al Piccolo Teatro di Ubulibri
Spettacolo dell’anno ex aequo in ordine alfabetico: Finale di partita (regia di Massimo Castri, Ert-Emilia Romagna Teatro, Teatro di Roma, Fondazione Teatro Metastasio); L’ingegner Gadda va alla guerra(regia Giuseppe Bertolucci, Fabrizio Gifuni in collaborazione con Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti); Roman e il suo cucciolo (regia di Alessandro Gassman, Teatro Stabile d’Abruzzo, Società per Attori, Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni).
Miglior regia: Armando Punzo (Alice nel Paese delle Meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà da Lewis Carroll)
Miglior scenografia: Andris Freibergs (Le signorine di Wilko)
Miglior attore: Fabrizio Gifuni (L’ingegner Gadda va alla guerra)
Miglior attrice: Francesca Mazza (West e Progetto Ravenhill) Miglior attore non protagonista: Francesco Colella (Dettagli e Il mercante di Venezia)
Miglior attrice non protagonista: Ida Marinelli (Angels in America.Seconda parte: Perestroika)
Nuovo attore under 30: Giovanni Anzaldo Nuovo testo italiano o ricerca drammaturgica: La bortodi Saverio La Ruina Nuovo testo straniero ex aequo in ordine alfabetico: Bizarra di Rafael Spregelburd; Immanuel Kant di Thomas Bernhard Miglior spettacolo straniero presentato in Italia: Lipsynch di Robert Lepage(Ex Machina e Théâtre Sans Frontières)
Premi speciali:
• Punta Corsara, la scena dei ragazzi di Scampia alla riprova di un teatro di apprendimento vissuto assieme alle persone di un territorio difficile, che hanno potuto trovare nelle forme dell’esperienza artistica occasioni di vita ulteriore e strumenti di restauro morale. Un progetto coraggioso, capace di lavorare sul territorio con un respiro nazionale incrementando un ricambio generazionale, sia sul versante artistico che su quello tecnico e organizzativo, di cui il nostro paese ha davvero bisogno.
• Kilowatt Festival, attività di sguardi incrociati tra pubblico, artisti e critici in cui è nascosta la forza eversiva di un punto di vista davvero nuovo. Coinvolto in questa gara popolare un gruppo di spettatori ribattezzati “Visionari”, cittadini appassionati ma non esperti, che partecipano alla scelta degli spettacoli e insieme a critici vecchi e nuovissimi si impegnano nella ricerca di un teatro da pensare e costruire.
• Roberto Saviano, da “abusivo” del teatro si fa inatteso narrattore che coraggiosamente esce dal suo spazio di solitudine e conquista il pubblico con grazia e talento con il suo monologo La bellezza e l’inferno, mirabile j’accuse contro il cancro della mafia e i mali del mondo.
Dieci anni: ci aiutate a raccontarli? La molteplice natura di un sito web di Redazione ateatro
Nel gennaio 2011, www.ateatro.it compirà dieci anni. Ha attraversato (ormai) buona parte della storia della rete (sono solo dieci anni, in cui però sono successe tantissime cose), cercando di mantenere la propria identità e la propria qualità, cercando di interagire con la mutevole “ecologia del web”.
Per festeggiare i nostri primi dieci anni, di cui tracciamo qui sotto una breve cronologia (che racconta anche uno spicchio di storia della rete) ci piacerebbe raccogliere le vostre testimonianze: per cercare di raccontare, tutti insieme, redattori storici e collaboratori saltuari, ma anche frequentatori più o meno assidui, la storia di un sito; per cercare di capire che cosa ha significato per voi, all’interno dell’universo labirintico della rete, un sito dedicato alla cultura e all’economia del teatro. E magari per aiutarci a capire che cosa potremmo fare meglio (tenendo presente le nostre poche forze..).
Insomma, scrivete a info@ateatro.it, oppure postate sulla nostra pagina Facebook.
Dieci anni di www.ateatro.it (molto in breve)
1. In principio era il blog (alla fine degli anni ’90, la parola ancora non si usava). www.olivieropdp.it è un archivio personale di testi, frutto di oltre vent’anni di attività culturale, digitalizzati e riversati online (in pagine html statiche), poi via via arricchito di nuovi materiali d’attualità.
2. Ma era anche un indirizzo e-mail. Quando Mario Martone viene costretto a dimettersi dalla direzione del Teatro di Roma, alla fine del 2000, molti (teatranti, critici, semplici spettatori...), non trovando altri spazi in cui esprimersi, iniziano a mandare messaggi a olivieropdp@libero.it: vengono pubblicati sul blog, dando spazio e visibilità al dibattito. Si raccoglie così una piccola comunità, con interessi da condividere pubblicamente.
3. All’inizio del 2001, nasce la rivista, o meglio la webzine: www.ateatro.it (a cura di Oliviero Ponte di Pino in collaborazione con Anna Maria Monteverdi, che cura anche la sezione “Teatro e nuovi media”). Il numero 0 e il numero 1 vengono firmati interamente da Oliviero Ponte di Pino, nel numero 2 vengono pubblicati solo testi di collaboratori. Nel corso degli anni, nasce e si consolida una redazione, che fino al 2009 pubblica oltre 120 numeri con cadenza (circa) mensile.
4. In parallelo, nasce la newsletter che informa gli iscritti alla mailing list su varie iniziative: per esempio, l’uscita di un nuovo numero o un incontro pubblico.
5. Nel 2002 si apre il forum (evoluzione dei vecchi newsgroup), dove la comunità di www.ateatro.it informa e si informa, discute e polemizza.
6. Negli anni, vengono pubblicati centinaia di testi: si crea così un archivio digitale, inserito in un database che viene reso consultabile e ricercabile online (con pagine html dinamiche). Attualmente l’archivio contiene tutti gli articoli pubblicati (quasi 2000).
7. L’attività online riverbera nel mondo “reale”: www.ateatro.it diventa una officina di progettazione culturale, in grado di ideare, organizzare e promuovere iniziative come l’incontro-convegno Le Buone Pratiche del Teatro (a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino), che dal 2004 raccoglie ogni anno diverse centinaia di partecipanti. La settima edizione, “Risorgimento!”, si terrà il 26 febbraio 2011 a Torino.
8. Alcune delle informazioni contenute nel database, catalogate con tag tematici, vengono organizzate e presentate in forma di enciclopedia: la atea@tropedia, assai utilizzata dagli studenti, conta ormai centinaia di voci dedicate ai maestri e ai grandi temi della scena contemporanea.
9. La rete è in costante trasformazione. L’avvento dei social networks erode lo spazio di blog e forum. Nel 2009-2010 si chiude il forum di www.ateatro.it e vengono aperti un gruppo e una pagina su Facebook, che in pochi mesi supera i mille iscritti.
10. Nell’ottobre 2010 la Consulta Universitaria del Teatro stabilisce che i saggi pubblicati su www.ateatro.it vadano presi in considerazione quando si tratta di valutare i futuri candidati ai concorsi universitari.
11. ??? (ma certo qualcosa inventeremo...)
Organizzare Teatro a Livello Internazionale Master di approfodimento alla Paolo Grassi di Redazione ateatro
Corsi "Open"
Seminari di approfondimento sull'Organizzazione dello Spettacolo
rivolti a studenti, laureati e professionisti del settore
anno accademico 2010/2011
Organizzare Teatro a Livello Internazionale
"I Festival"
master di approfondimento
a cura di Mimma Gallina e Alessandra Vinanti
dal 4 febbraio al 5 marzo 2011
(venerdì 9,30/18,30 e sabato 10,30/19,30)
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Per il teatro è sempre più importante e strategico pensare e progettare a livello internazionale. Da alcuni anni la Scuola Paolo Grassi propone percorsi di approfondimento orientati a queste tematiche: l'argomento di quest'anno è l'organizzazione dei festival.
I diversi modelli e missioni, la progettazione artistica, la programmazione, le coproduzioni, le problematiche tecniche e amministrative verranno analizzate dal punto di vista sia teorico che pratico, anche attraverso testimonianze e simulazioni, con professionisti italiani e stranieri.
A chi si rivolge
Studenti e professionisti interessati all'ideazione, la strutturazione, la gestione e il coordinamento di eventi teatrali a livello internazionale.
Requisiti d'ammissione
Conoscenza base della lingua inglese; invio lettera motivazionale (che descriva in breve le ragioni e gli obiettivi della partecipazione al corso) e CV (breve, non europeo) all'indirizzo email g.cantalini@fondazionemilano.eu
Posti ad esaurimento
Chiusura iscrizioni 20/01/2011
Iscrizioni e ulteriori informazioni direttamente online alla pagina
http://www.scuolecivichemilano.it/on-line/teatro/Home/DIDATTICA/Corsi/IndiceCorsi/corso300.1.html
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Save the date!
dal 18 marzo al 30 aprile (weekend)
ORGANIZZAZIONE DELLA MUSICA POP-ROCK
a cura di Chicco Minonzio
dal 6 al 7 maggio
SMARKETING
BREVE CORSO DI SOPRAVVIVENZA OVVERO PROMUOVERE LO SPETTACOLO IN TEMPO DI CRISI
a cura di Marco Geronimi Stoll
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Per info
Roberta Paparella
r.paparella@fondazionemilano.eu
Giorgina Cantalini
g.cantalini@fondazionemilano.eu
Milano Teatro Scuola Paolo Grassi - Fondazione Milano –– via Salasco 4, Milano –– tel. 02.58.30.28.13
info_teatro@scmmi.it
www.fondazionemilano.eu
Immaginazione contro Emarginazione ATTENZIONE! RINVIATO AL 2011 I Teatri della Diversità a Urbino il 18 e 19 dicembre di Teatri delle Diversità
ATTENZIONE! RINVIATO AL 2011
Immaginazione contro Emarginazione
XI edizione del Convegno su “I Teatri delle diversità” dedicata a Emilio Pozzi
Undicesimo anno per il Convegno “I teatri delle diversità”. Il 18 e il 19 dicembre ad Urbania (PU) si incontreranno docenti, registi, poeti, musicisti, attori e gli operatori che lavorano nel sociale per fare il punto, per scambiarsi idee e informazioni, per gettare le basi di nuovi progetti e iniziative artistiche e sociali.
Dopo il successo dell’iniziativa del 2009 quando erano presenti a Cartoceto 20 delle 32 significative esperienze censite dal volume Recito, dunque so(g)no. Teatro e carcere 2009 a cura di Emilio Pozzi e Vito Minoia, è stato subito chiaro che occorreva approfondire l’argomento e concedere spazio al desiderio, in nuce, di organizzare un Coordinamento Nazionale delle esperienze di Teatro e Carcere.
Tutti invitati, dunque gli operatori ospiti nel 2009 che provenivano da Case Circondariali, Istituti di pena per Minorenni, Case di Reclusione, Ospedali Psichiatrici Giudiziari, di Milano, Reggio Emilia, Torino, Pesaro, Padova, Venezia, Bari, Roma, Ferrara, Montelupo Fiorentino, Aversa, Porto Azzurro, Arezzo, Saluzzo, Modena, Napoli, Charleville/Mezieres (Francia). Altre richieste di partecipazione sono pervenute nel frattempo da tutto il territorio nazionale anche grazie ad un incontro preliminare organizzato a Milano il 7 novembre scorso nell’ambito dell’Edge Festival dal Centro Europeo Teatro e Carcere diretto da Donatella Massimilla. A Urbania, tra i numerosi argomenti attinenti il pianeta carcere, per la prima volta si rifletterà sull’ universo penitenziario femminile che il teatro può esaltare nella sua diversità. Coordinerà la relativa tavola rotonda Laura Mariani, docente di Storia dell’attore al DAMS di Bologna. Intervengono, Donatella Massimilla (CETeC Milano), Claudia Palombi (Maniphesta Teatro di Napoli), Vania Pucci (Giallo Mare Minimal Teatro di Empoli), Maria Sandrelli e Riccardo Vannuccini (Artestudio di Roma), Barbara Attanasio e Silvia Bartoli (Compagnia Lo Spacco, Pesaro).
Nell’ambito del progetto Le visioni del cambiamento organizzato dal Teatro Aenigma, Centro universitario di produzione e ricerca sui rapporti tra teatro e disagio all’Ateneo di Urbino, sarà inoltre possibile assistere ad alcune rappresentazioni teatrali, tutte al Teatro Bramante di Urbania, e partecipare ad un seminario-evento teorico dal titolo Scala e sentiero, cercando il paradiso, dove il poeta e drammaturgo Giuliano Scabia riattraverserà i suoi anni di apprendistato all’Università di Bologna presentando per la prima volta pubblicamente i suoi Quaderni di drammaturgia con la collaborazione di Gianfranco Anzini, documentarista di Rai Educational. L’evento sarà dedicato alla memoria di Claudio Meldolesi e di Luigi Squarzina del comitato scientifico della rivista e con un particolare ricordo del direttore responsabile Emilio Pozzi, tutti recentemente scomparsi.
Nella serata di sabato 18 alle 21.30 al Teatro Bramante, il Centro Europeo Teatro e Carcere presenterà Princese. Diario di bordo. Memorie di teatro e carcere sezione femminile dedicato ad Alda Merini. Alle 18.00 di domenica Luciano Sampaoli, regista e compositore presenterà la suite teatrale Donne in catene con l’attrice Lucia Pagliardini e il pianista Alex Ugolini. La serata continua alle 20.30 con Teatri di Resilienza. Rigenerazione culturale e resistenza per una decrescita serena, azioni teatrali e testimonianze sui temi della globalizzazione, dello sviluppo e dell’ambiente con le compagnie Stalker Teatro (Torino), Extra Vagantis (Imola), Diesis Teatrango (Arezzo), Neon (Catania), FuorixCaso (Cuneo); la serata- spettacolo inaugura una nuova rete teatrale indipendente promossa da sei compagnie teatrali di cinque regioni diverse (per le Marche il Teatro Aenigma). Teorico del movimento di “Decrescita felice” è l’economista francese Serge Latouche, che, non potendo essere presente, ha rilasciato, in esclusiva per il convegno a Nicola Dentamaro e Francesca Zanini del Teatro Origine (Bari), una video intervista nella quale illustra i principi alla base della sua idea per far fronte alla crisi che attanaglia il nostro Pianeta.
Argomenti delle diverse tavole rotonde che intrecciano il teatro ai luoghi della società saranno, oltre al carcere, quello della scuola sul quale interverranno Loredana Perissinotto, Presidente di AGITA (Associazione per la promozione e la ricerca della cultura teatrale nella scuola e nel sociale) Ivana Conte, Giorgio Testa, Sara Ferrari, Salvatore Guadagnuolo, Guglielmo Pinna, curatori del video Teatri di comunità. Persone culture e luoghi da un progetto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e l’Unesco. Saranno presentati anche i volumi Dialogo sul trasferimento del burattino in educazione di Mariano Dolci e Dramatopedia di Claudio Facchinelli.
L’intero Convegno, coordinato da Vito Minoia, docente di teatro di Animazione alla Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Urbino, è dedicato a Emilio Pozzi docente di Storia del teatro e dello spettacolo all’Università di Urbino. In tanti, personaggi di spicco e non della cultura teatrale italiana, si alterneranno nel ricordare la figura del grande giornalista dello spettacolo quale è stato il Professor Pozzi. Da Gianfranco de Bosio, presidente dell’Istituto Internazionale per l’Opera e la Poesia dell’UNESCO, a Gianni Tibaldi, già rappresentante per l’Italia all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dallo scrittore Claudio Facchinelli al giornalista economista Vieri Poggiali. Molti anche i colleghi dell’Università di Urbino presenti come la Professoressa Lella Mazzoli, direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione a Urbino e Luciano Sampaoli Compositore e Docente di Storia della musica che si riuniranno intorno alla signora Luciana Invernizzi Pozzi per la presentazione in anteprima del volume postumo Quando non c’erano i gossip (Emilio Pozzi, Edizioni Greco& Greco, Milano, 2011) “un libro” come testimonia Vito Minoia suo allievo e amico, “che è un modo di viaggiare con l’autore, nella sua memoria personale e in quella collettiva alla maniera che gli era solita: attraverso una divertente aneddotica. L’intento dichiarato è quello di raccontare tutti quei piccoli fatti raccolti nel corso di un’intera vita e di una carriera perché non vadano perdu¬ti... poi il libro è cresciuto fino a diventare quasi un’antologia di storie accadute a persone e personaggi di cui Emilio Pozzi è stato spesso testimone diretto...vi si può leggere anche la storia di cosa volesse dire essere giornalisti negli anni ruggenti di questa professione. Per chi ha avuto la fortuna di incontrare Emilio, il libro rappresenta un modo per prolungare ancora un po’ il piacere della compagnia di un amico che non c’è più”.
In apertura della due giorni, alla presenza del Presidente del Consiglio Regionale Vittoriano Solazzi e della dirigente dell’Assessorato alla Cultura Regionale, Ivana Iachetti, sarà presentato il volume I Teatri delle diversità a Cartoceto, Quaderno n. 97 della Collana pubblicata dal Consiglio Regionale delle Marche, a cura di Vito Minoia, postfazione di Emilio Pozzi.
Un caloroso ringraziamento va alla città di Urbania, che con il sindaco Giuseppe Lucarini e l’assessore alla cultura Alice Lombardelli, sono stati molto accoglienti nell’ospitare l’iniziativa nella località marchigiana, con la quale il Professor Pozzi aveva avuto modo di attuare significative collaborazioni.
L’evento ha visto la Compartecipazione di: Città di Urbania, Regione Marche – Giunta regionale - Assessorato ai Beni e attività culturali, Ministero dei Beni ed attività culturali – Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo, Ministero della Giustizia-Direzione Casa Circondariale di Pesaro, ERSU di Urbino; il Patrocinio di: Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, Presidenza del Consiglio Regionale delle Marche, Provincia di Pesaro e Urbino, Città di Urbino, Comunità Montana dell’Alto e Medio Metauro; si ringraziano per la collaborazione: Edge Festival Milano, Cooperativa Sociale Labirinto Pesaro, Santori Pianoforti Fano, Arti Grafiche Stibu Urbania.
Per informazioni sulle modalità di iscrizione al Convegno www.teatroaenigma.it e.mail aenigma@uniurb.it tel./fax 0721 893035. I biglietti per gli spettacoli saranno in vendita al botteghino la sera stessa.
IMMAGINAZIONE CONTRO EMARGINAZIONE
Undicesima edizione del Convegno Internazionale di Studi su
“I Teatri delle diversità”
ATTENZIONE! RINVIATO AL 2011
organizzato da
TEATRO AENIGMA- Centro Universitario Internazionale
di Produzione e Ricerca sui rapporti tra Teatro e Disagio
all’ Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
e Rivista europea “TEATRI DELLE DIVERSITÀ”
grazie all’ospitalità della Città di Urbania
programma
SABATO 18 DICEMBRE
Sala Volponi
ore 10.30 - Saluti istituzionali e apertura ufficiale dei lavori
coordinano Giuseppe Lucarini, Sindaco, e Alice Lombardelli Assessore alla cultura, città di Urbania
Intervengono Vittoriano Solazzi, Presidente del Consiglio Regionale delle Marche, Ivana Iachetti,
coordinatrice del settore Spettacolo, Assessorato ai Beni e alle Attività Culturali della Regione Marche
ore 11.00 EMILIO POZZI, maestro di giornalismo e di vita
Intervento di Gianfranco de Bosio, presidente dell’Istituto Internazionale per l’Opera e Poesia dell’UNESCO, a nome del Comitato Scientifico della pubblicazione.
Ricordano il direttore della Rivista Europea “TEATRI DELLE DIVERSITÀ”, scomparso il 22 aprile 2010 a Milano, anche Gianni Tibaldi, Claudio Facchinelli, Paolo Garofalo, Gualtiero De Santi
I TEATRI DELLE DIVERSITA’, Atti dai primi dieci convegni svolti a Cartoceto dal 2000 al 2009
Presentazione del volume numero 97 della Collana dei Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche
a cura di Vito Minoia, con postfazione di Emilio Pozzi
ore 12.30 pausa pranzo
ore 14.30 visita guidata al centro storico della città di Urbania
Sala Volponi
ore 15.30
Il Teatro negli Istituti di pena femminili
Tavola Rotonda
Coordina Laura Mariani, docente in Storia dell’attore (DAMS – Università di Bologna).
Interverranno: Giorgia Palombi (Compagnia Maniphesta Teatro – Pozzuoli); Vania Pucci (Compagnia Giallo Mare Minimal Teatro – Empoli); Donatella Massimilla (Centro Europeo Teatro e Carcere – Milano), Maria Sandrelli e Riccardo Vannuccini (Artestudio - Roma). Anche due brevi testimonianze di Barbara Attanasio e Silvia Bartoli (Compagnia Lo Spacco – Pesaro)
ore 17.00
Per un Coordinamento Nazionale delle esperienze di Teatro e Carcere
Incontro costituente
Hanno manifestato il proprio interesse al progetto oltre 30 esperienze teatrali provenienti dall’intero territorio nazionale. Una prima iniziativa della rivista ha raccolto una documentazioni significative nel volume “Recito, dunque so(g)no. Teatro e carcere 2009” (Edizioni Nuove Catarsi, Urbino 2009)
ore 20.15 pausa cena
Teatro Bramante
ore 21.30
Princese
spettacolo del Centro Europeo Teatro e Carcere (Milano)
regia di Donatella Massimilla
nell’ambito del Festival “Le Visioni del Cambiamento”
DOMENICA 19 DICEMBRE
Sala Volponi
Ore 9.00- Incontro-evento per il Convegno di Urbania
Scala e sentiero cercando il Paradiso
Gli anni di apprendistato di Giuliano Scabia dentro l’Università di Bologna
con Giuliano Scabia, poeta e drammaturgo
accompagnato dal collaboratore Gianfranco Anzini, regista e documentarista
ore 13.00 pausa pranzo
Sala Volponi
ore 14.15
Teatri di comunità. Persone culture luoghi
(Progetto PACI Mibac e Unesco) un video a cura di AGITA
(Associazione per la promozione e la ricerca della cultura teatrale nella scuola e nel sociale)
Presentazione con i curatori: Loredana Perissinotto, Ivana Conte, Sara Ferrari, Salvatore Guadagnuolo, Guglielmo Pinna, Giorgio Testa
ore 16.00
Due testi sul rapporto tra Teatro e Scuola
Alla presenza degli autori Mariano Dolci e Claudio Facchinelli, presentazione dei volumi Dialogo sul trasferimento del burattino in educazione (Edizioni Nuove Catarsi, Urbino, 2009) e Dramatopedia (Edizioni Corsare, Perugia, 2010). Coordina Loredana Perissinotto
ore 16.30
Quando non c’erano i gossip
Presentazione in anteprima dell’ultimo libro di Emilio Pozzi (Edizioni Greco & Greco, Milano, 2011)
Interventi programmati di Luciana Invernizzi Pozzi, Vieri Poggiali, Isacco Locarno.
Ricorderanno Emilio Pozzi, inoltre: Gastone Mosci, Loretta del Tutto, Peter Kammerer, Graziella Galvani, Giorgio Tabanelli, Alessandro Di Caro, Feliciano Paoli, Anna Maria Leonardi, Bernardo Valli, Lella Mazzoli per il Dipartimento di Scienze della Comunicazione dell’Università di Urbino
Teatro Bramante
ore 18.00
Donne in catene
Suite teatrale in quattro movimenti di Luciano Sampaoli
Con Lucia Pagliardini (attrice) e Alex Ugolini (pianista). Regia di Luciano Sampaoli
nell’ambito del Festival “Le Visioni del Cambiamento”
ore 20.00 pausa cena
Teatro Bramante
ore 20.30
Teatri di Resilienza
Rigenerazione culturale e Resistenza per una Decrescita serena
Una serata di azioni teatrali e testimonianze
con Compagnia FuorixCaso (Cuneo), Stalker Teatro (Torino), Associazione Extra Vagantis (Imola), Teatro Aenigma (Urbino), Diesis Teatrango (Bucine/Arezzo), Associazione Neon (Catania), promotori e primi sottoscrittori del documento “Teatri di Resilienza”. Nel corso della serata sarà proiettato, alla presenza degli autori, il filmato
Serge Latouche un Cavaliere di Pacevideointervista di Francesca Zanini e Nicola Dentamaro
nell’ambito del Festival “Le Visioni del Cambiamento”
Programma della serata:
20.30 Gabbie, performance del Gruppo ExtraVagantis (Imola)
20.50 Intervento di Franco Biagioni della Compagnia FuorixCaso (Cuneo)
21.00 Serge Latouche un Cavaliere di Pace video intervista (esclusiva per il Festival) all’economista francese Serge Latouche di Francesca Zanini e Nicola Dentamaro
21.15 Il piccolo sentiero della decrescita, raccontato attraverso le parole di un maestro del pensiero, intervento di Nicola Dentamaro del Teatro Origine (Bari)
21.30 Storie al tramonto, performance della Compagnia Diesis Teatrango (Arezzo)
22.00 La Parola Restituita, video di Maria Celeste Taliani sullo spettacolo omonimo dedicato a Franco Basaglia il 17 marzo 2009 al Teatro della Fortuna di Fano. Teatro Aenigma (Urbino), Associazione Liberamente (Fano), Servizi di Sollievo della Provincia di Pesaro e Urbino nell’ambito della Salute mentale
22.20 Intervento di Piero Ristagno, poeta e regista dell’Associazione Neon (Catania)
22.30 Tra il viola e l’arancione, performance della Compagnia Stalker Teatro (Torino)
Cura e coordinamento dei lavori del Convegno
Vito Minoia, docente a contratto di Teatro di Animazione
Facoltà di Scienze della Formazione dell’ Università degli studi di Urbino “Carlo Bo”
informazioni e iscrizioni al convegno
Teatro Aenigma: www.teatroaenigma.it - e.mail aenigma@uniurb.it tel./fax 0721 893035
Sul sito www.teatroaenigma.it è pubblicato l’elenco, con i relativi costi,
delle strutture ricettive convenzionate con il convegno
costo unico di ingresso agli spettacoli € 8,00
ridotto 5,00 (partecipanti al convegno, under 25, over 65)
Compartecipazione di
Città di Urbania
Regione Marche – Giunta regionale - Assessorato ai Beni e attività culturali
Ministero dei Beni ed attività culturali – Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo
Ministero della Giustizia-Direzione Casa Circondariale di Pesaro
ERSU di Urbino
Patrocinio di
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
Associazione Nazionale dei Critici di Teatro
Presidenza del Consiglio Regionale delle Marche
Provincia di Pesaro e Urbino
Città di Urbino
Comunità Montana dell’Alto e Medio Metauro
Collaborazione di
Edge Festival Milano
Cooperativa Sociale Labirinto Pesaro
Santori Pianoforti Fano
Arti Grafiche Stibu Urbania
Lorisystem Urbino
Dieci anni: la Consulta Universitaria per il Teatro promuove www.ateatro.it Un importante riconoscimento per la rivista e il sito di Redazione ateatro
Per cominciare una buona notizia. Buona per noi, che da dieci anni facciamo www.ateatro.it, e forse anche per voi, che leggete la rivista e frequentate il sito.
La Consulta Universitaria del Teatro, dopo una votazione che ha interessato i 30 professori ordinari di materie connesse al teatro nelle università italiane, resa pubblica con una notizia pubblicata sul sito della CUT, ha deciso che, all’interno delle 30 riviste di settore accreditate nel nostro paese, www.ateatro.it fa parte delle 9 riviste della fascia B. Dunque i testi pubblicati sul nostro sito avranno un peso assai significativo nella valutazione dei titoli dei candidati ai prossimi concorsi universitari.
E’ un riconoscimento importante per una rivista che è nata e cresciuta fuori dall’ambito accademico. E perprima cosa ringraziamo di cuore tutti coloro che ci hanno dato fiducia. Perché questa valutazione riconosce la serietà e il valore culturale e scientifico del nostro lavoro, in questi anni. Da un altro punto di vista, questo riconoscimento potremmo considerarlo una sorta di atto dovuto: da anni www.ateatro.it è citato nel testo, nelle note e nella bibliografia di numerosi volumi e tesi universitarie e di dottorato (per non parlare dei numerosi plagi “copia e incolla”). E ci piace pensare che a interessare (e forse a formare) molti giovani studiosi sia stato anche il nostro “metodo critico”.
Certamente www.ateatro.it, oltre al rigore scientifico e alla valorizzazione della cultura del teatro, ha sempre avuto anche altri obiettivi, più legati all’attualità. Perché www.ateatro.it è anche un organo di informazione, che diffonde notizie relative a quello che accade oggi dentro e intorno ai teatri. Ed è anche una rivista militante, impegnata nel dibattito corrente, che negli ultimi anni ha preso diverse posizioni polemiche (tra l’altro, la webzine è nata anche dalla mobilitazione e dal dibattito sulle dimissioni di Mario Martone dalla direzione del Teatro di Roma).
Ci pare interessante sottolineare anche un altro elemento. Fin dalle origini, www.ateatro.it è sempre stato anche uno spazio aperto alla sperimentazione, in particolare rispetto al medium che utilizza, ovvero la rete. www.ateatro.it è stata una delle prime riviste di teatro online (non solo in Italia), ha cercato di mantenere alto il livello critico e la qualità dei testi, e ha svolto di fatto una funzione di “alfabetizzazione informatica” tra teatranti e studiosi di teatro. Oggi è diventato fin troppo facile fare “nuova critica”, puntando magari sulla multimedialità: basta accendere il telefonino e lasciar parlare un “artista” e postare il tutto su internet. Per noi le cose non sono mai state così semplici, banali. Il nuovo medium ci interessa anche per il plus-valore conoscitivo e comunicativo che ci può offrire e che proviamo ad esplorare. Un solo esempio: con l’Atlante per un Teatro Civile in Italia (ora nella homepage del sito) ci siamo chiesti se è possibile utilizzare Google Maps come strumento critico.
Il nuovo status di www.ateatro.it, oltre a darci grande soddisfazione, ci impone anche nuove responsabilità, partendo anche dalla riflessione sulle riviste universitarie su carta e in rete curata da Ines Aliverti proprio per la CUT. Certamente potrebbe essere utile, in questa ottica, distinguere gl tudi e gli aprofondimenti dagli spazi riservati all’informazione e alla polemica sull’attualità. E vedremo come sarà possibile rendere evdente questa differenza, senza rinunciare alle specificità del nostro percorso.
In ogni caso, possiamo solo assicurare che il nostro impegno e il nostro rigore non potranno che aumentare (e magari un giorno, chissà, arriveremo in serie A).
Il cielo di pietra Mi chiamo Rachel Corrie con Cristina Spina di Clara Gebbia
Il monologo messo in scena da Cristina Spina e Alessandro Fabrizi non può dirci esattamente chi sia stata Rachel Corrie.
Può solo farci intuire chi sarebbe stata se non fosse assurdamente morta a 23 anni.
Rachel Corrie era una ventenne di Olympia, Stato di Washington, U.S.A., che ha commesso il fatale errore di prestare la propria opera come attivista pacifista dell'ISM - International Solidarity Movement a Gaza.
Il testo dello spettacolo è tratto dalla corrispondenza tra Rachel e i genitori durante la permanenza a Gaza e dai suoi diari precedenti alla partenza, che Rachel scriveva sin da piccolissima, rivelandoci un talento vulcanico di scrittrice.
Cristina Spina, insieme ad Alessando Fabrizi affronta la verità di queste parole con una recitazione e una regia che tendono ad una “non teatralità”, ad un “dire” il testo che confonde il teatro con la vita, quasi non “recitando”, ma “testimoniando”, in una dialettica continua tra attrice e personaggio.
Questo produce in chi guarda la piéce la sensazione che Rachel sarremmo potuti essere tutti, o qualcuno dei nostri figli. Ci si chiede incessantemente che cosa avremmo fatto, noi, se ci fossimo trovati nella sua stessa situazione o al posto dei genitori di Rachel: saremmo stati orgogliosi di una figlia diversa da tutti gli altri giovani “spoliticizzati e consumisti” (per citare la prefazione di Alan Rickman e Katherine Viner, curatori del testo), o avremmo preferito una figlia “fashion victim”?
La lezione di Rachel apparentemente è amara: la consapevolezza, in questo mondo, si paga con il prezzo più caro: la vita.
Ma questo è solo uno dei corto circuiti che le riflessioni di Rachel innescano sul piano etico.
Lo spettacolo si apre con Rachel/Cristina che sbirciando tra i suoi diari, rivela già la sua passione per la scrittura, la sua carica vitale e la sua inquietudine. Rachel dice di avere un “fuoco nella pancia” che a volte può anche essere doloroso, ma spesso a stemperare il dolore arriva la sua saggezza ironica e tagliente. A proposito delle sue storie d'amore, per esempio, che non sembrano andare per il meglio e che a quell'età sono causa di grandi sofferenze ci dice: “a cinque anni ho scoperto i maschi, il che mi ha reso la vita un po' più difficile. Solo un po', e molto più interessante”.
Frammenti di identità vitalissima, di vivacità intellettuale, di ironia come visione del mondo che sapientemente Cristina Spina dosa, restituendoci la complessità della personalità di questa brillante ventenne, che si affaccia alla vita con vorace curiosità: “ E' da un po' che sento questo bisogno di andare da qualche parte per conoscere chi si trova all'altro estremo di tutte quelle tasse con cui viene finanziato l'esercito americano” - scrive prima di partire per Gaza. Come dice Naomi Klein nella prefazione al testo “Corrie andò a Gaza per opporsi alle azioni del suo Governo. Come cittadina americana, Corrie credeva di avere una speciale responsabilità nel difendere i palestinesi contro le armi di costruzione statunitense, acquistate grazie all'appoggio degli Stati Uniti a Israele.”
La rendeva sicura l'idea che i soldati Israeliani non avrebbero sparato su una ragazza cittadina americana, che si trovava lì per compiere azioni di non violenza. A questo proposito, ancora la Klein dice: “Se i kamikaze suicidi trasformavano il proprio corpo in un'arma di morte, Corrie trasformava il suo nel contrario: un'arma di vita”.
E' commovente, e anche vagamente profetico, quello che Rachel, scrive nel suo diario delle medie: “Una delle regole della classe elementare 'Tutti devono sentirsi al sicuro'. E' la regola migliore alla quale riesco a pensare”.
E' divertente, quando scrive liste su liste, di quello che vorrei fare “da grande” (contemplando anche la possibilità 'Uomo Ragno' o 'rapinatrice di banche') di “persone che avrei voluto conoscere ma sono morte”citando Salvador Dalì, Karl Jung, Martin Luther King, John Fitzgerald Kennedy....
Se è vero, come dice Luce Irigaray, che “la differerenza è il problema che la nostra epoca ha da pensare”, è stato un viaggio in Russia a “risvegliare” la coscienza di Rachel, se mai si fosse assopita: “(...) ho visto un altro paese per la prima volta. (...) era fatiscente, sporca, distrutta e meravigliosa. Mi sono guardata indietro, attraverso l'Oceano Pacifico, e da quella distanza alcune cose qui, a Olympia, Washington, Stati Uniti, mi sono sembrate un po' strane e sconcertanti. Ero sveglia per la prima volta, con gli occhi sgranati e un ghigno sulla faccia. (...) Ero finalmente sveglia, ora e sempre”.
Nel corso dello spettacolo questo e molto altro viene fuori: tra i frammenti di lettere si dipana il dialogo di Rachel con la madre. Il tono comincia a mutare quando, srotolando sul palco un'enorme cartina della Palestina, Rachel/Cristina si accinge ad abitarla: nelle lettere di Rachel, sempre più tese, non c'è spazio per l'ironia, i genitori si mostrano sempre più ansiosi pur cercando di non interferire con l'attività di Rachel. Anche se Rachel/Cristina sembra quasi essere a tratti sopraffatta dalla paura, qualcosa dentro di lei le fa ritenere giusto andare avanti nella sua missione di pace: la voglia di consapevolezza, di conoscenza. Scrive alla madre: “Mi dispiace spaventarti. Ma io voglio scrivere e voglio vedere. E di cosa potrei scrivere se rimanessi solo dentro la casa di bambola, nel mondo fiorito in cui sono cresciuta?... Io ti voglio bene ma sto crescendo e mi espando fuori da quello che tu mi hai dato. Lasciami sconfiggere i miei mostri.”
Rachel/Cristina comincia a mostrare un inconscio alterato, la notte la sensazione di pericolo si fa quasi insopportabile, ma non tanto da indurla ad andar via. “Dormito in tenda. Uno sparo attraversa la tenda. Comincio a fumare”.
Ma le parole, fino ad allora vere e proprie compagne di vita di Rachel, sembrano non esserle più sufficienti: “Sono in Palestina da due settimane e un'ora, e ancora ho pochissime parole per descrivere quello che vedo. (...)Niente avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione qui. E' semplicemente inimmaginabile se non la vedi. E anche a quel punto la tua esperienza non coincide con la realtà (...): io ho i soldi per comprare l'acqua mentre l'esercito distrugge i pozzi, e posso scegliere di andarmene. A me è permesso vedere il mare”.
Il cielo è di pietra, nello spettacolo di Cristina Spina, con la bella ed efficace istallazione di Paola Gandolfi, dove al posto delle nuvole mutevoli a testimoniare lo scorrere del tempo ci sono sassi, immobili come lo è la morte, che non lascia più spazio a nessun divenire.
E' un'opinione comune, per chi vede lo spettacolo o legge le sue lettere, che Rachel Corrie, se fosse vissuta, sarebbe diventata una scrittrice. Il fidanzato di Rachel Corrie, poco prima di togliersi la vita all'età di 24 anni, faceva questa riflessione: “La persona che conoscevo è stata ridotta a un nome su una lista.... Tutto ciò che era, ogni idea geniale, ogni progetto artistico dal lei realizzato non contano più. Lei è diventata la sua morte”.
E' proprio perché Rachel Corrie non venga ricordata soltanto per la sua morte, o non venga inghiottita dal silenzio, che questo è uno spettacolo prezioso, una testimonianza che con grande dolcezza traccia un ritratto di Rachel, restituendoci, a dispetto delle nuvole di pietra, una realtà in divenire: Rachel come pura potenza, immensa possibilità.
Alla fine dello spettacolo, quando Cristina Spina dà l'annuncio della morte della giovane, si avverte l'angoscia opprimente per l'insensatezza di tutte le guerre, ma rimane forte l'intensità, l'umanità di Rachel. Penso a lei e comincio a scrivere mentalmente il suo nome nella mia prima lista di “persone che avrei voluto conoscere ma sono morte...”.
Tratto dagli scritti di Rachel Corrie a cura di Alan Rickman e Katharine Viner
traduzione di Monica Capuani e Marta Gilmore
Produzione di Alessandro Lendvai per Suite srl
in collaborazione con PAV
Progetto di e con Cristina Spina
regia Alessandro Fabrizi e Cristina Spina
Scena Paola Gandolfi
Musiche originali Riccardo Giagni
Vocal coach Susan Main
Disegno luci Hossein Taheri
Magnifico cabaret Il debutto (con successo) de I Cavalieri di Mario Perrotta e del Teatro dell’Argine di Anna Maria Monteverdi
I Cavalieri, liberamente ispirato ad Aristofane, allestito dal Teatro dell’Argine di Mario Perrotta per due settimane in prima nazionale a Bologna, è uno spettacolo davvero esilarante, ricco, generoso, folle, sfrontato; una fotografia mostruosa e ahimè, fin troppo realistica delle facce inalterabili degli uomini illustri (o dei sopravissuti come avrebbe detto Canetti) che la politica italiana ci serve quotidianamente su tutti i format possibili e in tutte le salse. Certamente lo spettacolo visto a pochi giorni dal voto parlamentare sulla fiducia al governo, assume altri connotati: sarà possibile oggi, dopo il 14 dicembre (che suona un po’ come l’ecatombe dell’11 settembre), precipitare in un precipizio ancora più profondo? E una volta toccato il fondo di questa economia malata e militarizzata, che succederà alla classe lavoratrice, allo studente, alla famiglia monoreddito, all’artista, al teatrante? Gli rimane la TV.
Un cabaret alla Brecht questi Cavalieri, un cabaret nero, assai incattivito (anche per noi..) contro la politica-spettacolo, contro questo governo, qua messo alla berlina con le sue maschere grottesche e i suoi clown di regime (la Carfagna, Vespa), contro l’Innominabile, ovvero il Signor Dappertutto, insomma, Lui (non quel LUI di appesa memoria, ma il cavaliere, l’Uomo-Stato), con i suoi vizi che sono un problema per il Paese; ma per par condicio, ce n’è anche per l’opposizione che oppone all’Uomo vecchio l’Uomo nuovo: Bersani; ed ecco in scena un becero salsicciaio che viene sconfitto al primo duello televisivo da chi meglio di lui sa rovistare le interiora altrui. Tra calembour, avanspettacolo e richiami a Nino Taranto e a Gabriella Ferri sapientemente resi in canto e in musica dagli attori tutti, ecco in mostra il teatrino della politica: su palchetti incorniciati da ferro tubi da edilizia, questi esseri spregevoli, feroci e arroganti si mostrano nella loro maschera sordida che neppure la morte, che continua a fare il suo mestiere, riuscirà a scalfire. L’onestà è da tempo estinta dentro il Parlamento e parole come giusto, equo, legittimo sono state sostituite con compravendita illecita, prezzo, ricatto.
Ma l’attacco in scena viene poi generalizzato a tutte le illegalità possibili nel nostro Belpaese, a chi rubacchia, a chi non paga le tasse a chi prende i soldi in nero, a chi si lamenta del vicino, dell’extracomunitario, delle leggi ad personam, delle mafie ma alla fine, in fondo in fondo, è lui stesso un truffatore, un meschino, un guerrafondaio. Lo scontento è più che altro un mugugno senza argomenti e non si manifesta in azioni di protesta da parte di protagonisti o comparse di questa misera commedia umana. Il rumore di fondo infatti, non è quello della rivolta sociale o dei manifestanti in piazza per una ridistribuzione delle ricchezze, non ci sono barricate e nessun assalto è previsto (almeno per ora..) al Palazzo d’inverno. Gli inni corali, i canti, le musiche ritmate non sono segnale di ribellismo: sono solo i jingle della Tv.
Ed è su questa linea del riso tragico (e del riso farmaco) che lo spettacolo si articola sapientemente per raccontare qualche dura verità che va a colpire nel segno: del resto, come nota giustamente Bachtin, “il riso ha un profondo significato di visione del mondo, è una delle forme più importanti con cui si esprime la verità del mondo nel suo insieme, sulla storia, sull’uomo; è un punto di vista particolare e universale sul mondo che percepisce la realtà in modo diverso, ma non per questo meno importante (anzi forse più importante), di quello serio”.
Complice un Aristofane rovistato e scorretto, I Cavalieri imbastisce rutilante musica in diretta, gag continue, canti e un collage di testi demenziali ispirati a eventi che sembrano provenire da Marte ma che sono rubati “dalla vita in diretta” del Parlamento italiano o da una puntata di “Porca a porca” (la versione surreale del talk show vespiano). L’assuefazione a queste maschere terrifiche non ci permette più di vederle nella loro spregevolezza e arroganza: potere dei media. Ci rimane il teatro che appunto, come nell’ottimo spettacolo di Mario Perrotta, ci fa piantare gli occhi in faccia alla vita.
Di fronte al disastro qualcuno si indigna, e sciopera: le donne, ecco le Lisistrate di oggi a dimostrare in piazza e a voler obbligare gli uomini a fare leggi giuste ed eque, pena l’astinenza sessuale per i mariti. Ma persino le guerrigliere cadono di fronte alla lusinga della carne. Così l’inno di riscossa si risolve in una capitolazione sotto le lenzuola. Ogni speranza è vana: siamo tutti schiavi senza possibilità di riscatto: “Chi è Stato è stato e chi è Stato non è, chi c’è c’è, e chi non c’è non c’è” (CCCP).
Foto di Luigi Burroni.
Il contagio del teatro La scomparsa di Sisto Dalla Palma di Oliviero Ponte di Pino
Sisto Dalla Palma, scomparso ieri a 79 anni, è stato, certo, un uomo di potere. E nella prassi – sempre ispirata a un’idea alta della politica, vista come fattiva e continua ricerca punto d’equilibrio e ricomposizione delle fratture e dei conflitti nella società – sapeva avvalersi anche delle astuzie democristiane (non a caso aveva avuto responsabilità di rilievo come responsabile culturale della DC).
Ma prima e più che un uomo di potere, è stato un uomo di cultura. Un uomo per il quale la decisione politica – senza voler entrare nel campo delle convinzioni personali più profonde – era sempre la conseguenza di precise analisi e scelte intellettuali.
Di più. Il Professore (perché tutti lo chiamavao così, anche se per molti aspetti era assai poco accademico) come uomo di cultura non si è limitato allo studio, all’accademia, all’astrazione delle idee e delle opere, ma ha voluto sporcarsi le mani, agire nel vivo della società. La cultura contemporanea – e in particolare un’arte come il teatro, con la sua proiezione e il suo radicamento civile – è stata per lui in primo luogo uno strumento di conoscenza, ovvero una sonda nel corpo sociale e nelle sue frammentazioni. Contemporaneamente, attraverso le opere degli artisti, l’arte e la cultura sono state strumento per lui d’azione e di trasformazione della società.
Sapeva, per antica sapienza, che informazione, scienza, ideologia e politica non possono bastare. Sapeva che c’è dell’altro, nelle collettività di uomini e donne, e questo “altro” dobbiamo cercarlo, trovarlo, custodirlo, proteggerlo, farlo crescere... Semmai indirizzandolo, come un cavallo da domare, o meglio come una pianta a cui dare una forma in modo che diventi più facile coglierne i frutti: anche se non sempre l’opera del giardiniere-domatore riesce secondo il suo desiderio.
Era fin troppo facile far risalire alle sue radici di cattolico impegnato in politica certe sue chiusure o cautele, e anche la polemica (che quasi fu guerriglia interna), sul Piccolo Teatro (soprattutto quando ne fu vicepresidente, dal ’72 a ‘75), contro quello che per lui era il simbolo di una cultura social-comunista con tentazioni di egemonia; forse in questo c’era anche l’implicito tentativo di risarcire in qualche modo il suo maestro Mario Apollonio, per quanto accadde all’epoca della fondazione del Piccolo.
Dal magistero di Apollonio (di cui ha ereditato la cattedra di storia del teatro all’Università Cattolica) probabilmente discende anche l’intuizione che il coro – elemento costitutivo dell’evento teatrale – può e deve in qualche modo aprirsi al pubblico, fin quasi a confondersi con esso. Per lui e per il Crt (l’organismo teatrale da lui fondato nel 1974, che di fatto costituisce la sua grande opera), più che una intuizione astratta, questa fu un’indicazione programmatica: l’impulso a superare ogni volta in maniera diversa la barriera che separa la scena e dalla platea, ma anche il confine che divide il teatro dalla società.
Pure la reinvenzione della festa di piazza, con il nuovo carnevale di Venezia che aveva rilanciato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta con la Biennale (di cui era stato segretario generale dal ’79 all’83), ha profonde radici nella tradizione cattolica (anche se spesso le feste cattoliche avevano cercato di annettere e “addomesticare” quelle pagane...). La festa rimanda ovviamente alla tradizione popolare, e si proietta sulla città nel senso più vivo del termine: è una forma di interazione insieme rituale e politica, nella quale diventa possibile misura l’energia del corpo sociale – ed eventualmente riaccenderla o incanalarla. Il rilancio del Carnevale di Venezia è non a caso quasi contemporaneo a un’altra grande invenzione di guerriglia social-culturale: l’Estate Romana di Renato Nicolini. Che poi il carnevale veneziano sia rapidamente degenerato (contro ogni sua intenzione) in un gigantesco reality show di massa, è un altro discorso.
Il teatro dunque non come fine in sé, ma il teatro come mezzo, come attrezzo, e dunque come insieme di tecniche che possono essere utilizzate anche fuori dall’aspetto spettacolare, in varie forme di animazione sociale.
Ancora, l’attenzione all’aspetto rituale del teatro rimanda – oltre che alla nascita della tragedia – a una attenzione alle origini che in ambito cristiano significa spesso ritorno al Vangelo e al suo messaggio “originario” (e su questo versante negli anni Sessanta l’incontro con Grotowski, con il suo pensiero e con i suoi spettacoli ha radicalmente spostato i termini della questione).
Per lui le avanguardie non erano solo e tanto la punta avanzata del nuovo, lo stendardo del progresso, ovvero l’ennesima espressione di forme di ingegneria politico-ideologico-culturale che gli “avanguardisti” del Novecento hanno preteso di imporre agli altri il loro modello. Nella forma del “gruppo teatrale”, hanno piuttosto rappresentato nel suo impegno uno “stato nascente”, l’origine di qualcosa che sta per fiorire, energie primordiali e pulsionali (i corpi, ma anche le idee e i sentimenti...) a cui è necessario dare un linguaggio e una forma. All’interno del corpo sociale, l’attività dei gruppi diventa il sintomo di differenze che – attraverso il teatro – stanno diventando soggetti, e dunque devono essere conosciuti e riconosciuti per essere ricondotti all’unità del corpo politico, alla sua dialettica interna, alla politica. Insomma, siamo lontani dall’orizzonte nazional-popolare caro alla sinistra tradizionale, così come dal puro consumo di prodotti culturali: ci troviamo di certo molto più vicini all’incandescenza dei movimenti giovanili e all’emergere dei nuovi media.
Era questa la molla di una curiosità non episodica, di un interesse che ha portato dagli anni Settanta al Crt, sia nel Salone di via Dini sia nel Teatro dell’Arte sia nella sala di via Poliziano, molti dei più grandi nomi della ricerca internazionale e buona parte della la neo-avanguardia made in Italy (con rapporti di collaborazione più o meno burrascosi e duraturi). E’ un settore, quello del nuovo teatro, che il Professore ha protetto con ostinazione, da democristiano illuminato, meglio di molta sinistra.
Ma forse i due maestri ai quali si doveva sentire più vicino restano i due grandissimi teatranti polacchi della seconda metà del Novecento: Jerzy Grotowski, già citato, il maestro (anche) del “teatro delle fonti”; e Tadeusz Kantor, in grado di coniugare avanguardia e memoria, ritualità e comunicazione.
Sempre con la consapevolezza (e l’orgoglio) che il teatro non è solo spettacolo, show-(business), ma è anche un oggetto degno di pensiero: un pensiero del corpo e dello sguardo, prima ancora che della parola, un pensiero che dunque si intreccia e interagisce nelle sue forme più alte e necessarie con la filosofia, con la politica, con il sacro.
Dietro alla sua attività c’era certamente la volontà di difendere posizioni consolidate, ma c’era anche e sopratttto la tentazione del nuovo e il desiderio di conoscere e interpretare il diverso. Chi lo incontrava, era costretto a confrontarsi con un pensiero teatrale (e non solo) statificato e complesso: per far fronte a questa potenza di fuoco culturale era dunque ecessario fare ricorso a tutte le proprie armi culturali (chi ne aveva), ma anche alla pancia, all’isinto, alla sensibilità, per resistere e per sormontare l’ostacolo. Per tutto questo, anche nella polemica e nello scontro, lo scambio era formativo. Obbligava a pensare e a crescere. E magari costringeva a imboccare altri sentieri, lontano da quelli che avrebbe indicato lui. Ma proprio questo è il metodo, spesso doloroso, per trovare a propria identità. Era per questo che ha potuto trasmettere a molti il “contagio” del teatro.
Oggi, in una stagione più superficiale e cinica, è diventato molto difficile trovare un intellettuale come lui: qualcuno con cui scontrarsi, prima o poi, e però qualcuno a cui, allo stesso tempo e proprio per questo, essere grati.
Del diluvio e di altre sopravvivenze. Teatro di viaggio Prima della partenza. Appunti sul progetto di Pietro Floridia
Il Teatro dell’Argine da anni lavora con migranti che arrivano da ogni parte del mondo.
Molti arrivano dal Marocco. Molti dall’Africa subsahariana.
Senegalesi, ivoriani, camerunensi, nigeriani, congolesi.
Molti sono richiedenti asilo politico o rifugiati politici.
Alcuni non sono più in Italia.
Non hanno ottenuto lo status di rifugiato
oppure sono stati rimandati indietro.
Dove sono adesso?
Ripercorreremo a ritroso le tappe che hanno fatto per arrivare fino a qua.
Toccheremo molte delle città da cui sono partiti.
Incontreremo gli amici, i fratelli, le sorelle rimaste.
Forse ritroveremo anche qualcuno di loro, di quelli costretti a tornare.
E così partiamo.
Io (regista pieno di libri) e il Gabo (scenografo dalle mani geniali)
in macchina (Land Rover scassata) da San Lazzaro (dove ha casa il Teatro dell’Argine)
verso Dioll Kadd (villaggio del Senegal dove ha casa Mandiaye)
attraverso Marocco Sahara occidentale Mauritania
sulle rotte dei migranti partiti dall’Africa verso l’Italia
sulle tracce dei respinti o dei tornati.
Non faremo reportage giornalistici
non faremo turismo solidale
non faremo i cooperanti
e nemmeno faremo gli avventurieri da rally.
Non siamo capaci di fare nessuna di queste cose.
Faremo quello che sappiamo fare.
Faremo teatro.
Con le decine di persone che incontreremo lungo il cammino,
nei centri sociali di Tangeri e di Casablanca,
insieme a gruppi che si occupano di bambini di strada o di migranti subsahariani a Rabat
con compagnie professionali a Marrakesh
con gli amici, i fratelli, le sorelle dei nostri attori marocchini partiti da Foum Zguid,
Infine, varcato il Sahara occidentale, varcata la Mauritania
con i giovani attori della compagnia di Dioll Kadd.
Costruiremo insieme storie, dialoghi, scene, testimonianze
Testimonianze di partenze. Di ritorni. Di non ritorni.
Testimonianze di buchi lasciati da chi è partito.
Testimonianze di sogni. Sogni ingannatori, sogni ingannati,
sogni perfetti in quanto sogni, sogni lucidati ogni mattina,
sogni che costano la vita, sogni che valgono la vita.
Questo tenteremo di raccontare e di far raccontare.
Il progetto si chiama “Del diluvio e di altre sopravvivenze”
Abbraccia quattro continenti. Sudamerica, Africa, Europa e Medio Oriente
Si chiama così perché - così ci è parso dai nostri passati viaggi -
sembra che il modello Occidentale stia sommergendo tutto.
Ovunque piove occidente. Ovunque scompaiono mondi.
Come non mai, in questi anni, stanno scomparendo le differenze.
(Il mio primo viaggio in Palestina risale a dieci anni fa.
L’ultimo a due. Poco tempo eppure i cambiamenti sono stati enormi)
Acqua dall’alto, acqua dal basso, acqua che entra ovunque,
fuori, nelle vie delle città, nelle vetrine, nelle Tv, nelle mode, nelle merci
e dentro, nelle famiglie, dentro, nelle teste, come una infiltrazione
che goccia dopo goccia, riempie la testa, la allaga, fino a che tutto
il dentro e il fuori alla fine si somigliano: ovunque la stessa roba: acqua d’occidente.
E il teatro?
Mi piace pensare che il teatro possa farsi arca.
A patto che sia in grado di accogliere al suo interno diversità a rischio di scomparsa.
(cosa che accade sempre più raramente, è notorio che nei teatri piova dentro.)
Mi piace pensare la Land Rover come una piccola arca
Mi piace pensare che si riempirà di storie.
Di voci. Di disegni. Di oggetti. Di compagni di viaggio.
Non solo diversi, ma anzi contrastanti, addirittura inconciliabili gli uni con gli altri.
Come erano le tigri con le gazzelle imbarcate nell’arca.
(Avrà avuto un bel da fare Noè per evitare che gli uni sbranassero gli altri.
Per evitare che impazzissero di paura. Che si massacrassero fuggendo)
L’arca non è un luogo di armonia. Dove le differenze si appianano.
L’arca è una stalla dove ognuno urla il suo verso distinto.
Dove non può che regnare il conflitto
Dove fianco a fianco si trovano gli inconciliabili.
Il topo col gatto. La zebra e la iena. La formica e il formichiere.
Indomabili, inassimilabili ad una visione unica (l’arca è il contrario del branco o del gregge)
Costretti alla vicinanza perché là fuori li inghiottirebbe il diluvio
(quello sì sommergendo tutto, tutto rende uguale)
Il teatro (vedi la sua stagione più alta, quella della tragedia greca)
è il luogo, la forma di organizzazione del pensiero
che più può accogliere al suo interno ospiti inconciliabili, conflitti tra visioni irriducibili.
Nessuna teoria unificante. Nessun demiurgo che sintetizza e concilia.
I conti non devono tornare.
Deve uscire dall’arca l’agnello
sopravvissuto al leone, non che ama il leone.
E ambedue sopravvissuti al diluvio
Rimanendo agnello. Rimanendo leone.
Non mutandosi in pesci
soltanto perché
c’è acqua dappertutto.
Lo spettacolo italiano nell’era Marchionne (1) Dal Mercadante al San Carlo: dopo quello di De Rosa, il licenziamento di Segalini di Oliviero Ponte di Pino e Mimma Gallina
Lo spettacolo italiano si sta avvicinando al naufragio? Speriamo di no, ma dopo il taglio del FUS gli scricchiolii aumentano e si moltiplicano i segni di nervosismo. E cominciano ad avvertirsi gli effetti concreti dello scioglimento dell’ETI: a Bologna, in dicembre, si è celebrata la chiusura del Duse. Era un teatro di ospitalità, ma garantiva il passaggio in città a una quindicina di compagnie ogni anno.
Da Palermo il Biondo grida “al lupo” (ma davvero il Regno di Carriglio è sull’orlo del tracollo?). A Genova, dopo la gravissima crisi e il salvataggio del Carlo Felice, anche lo Stabile sembra in difficoltà, così come altri teatri cittadini. Il rischio è che per salvare la nave ammiraglia che imbarca acqua qualcuno decida di sacrificare i pesci piccoli: le compagnie, i teatri, i festival che negli anni hanno faticosamente sottratto il monopolio al teatro storicamente più solido d’Italia, una solidità costruita in cinquant’anni da Ivo Chiesa (e della situazione del teatro in Liguria si parlerà il 13 gennaio prossimo a Palazzo Ducale).
Perché di certo c’è chi pensa, non solo a Genova, che la soluzione sia inevitabile: concentrare le risorse sui grandi carrozzoni pubblici e tagliare il resto. Ma questa non è certo la strada giusta: solo modelli di gestione più sostenibili possono suggerire soluzioni (anche artistiche) più “sostenibili”, anche dal punto di vista dell’ecologia complessiva del teatro e della cultura.
Ma in queste settimane la capitale della crisi teatrale è senz’altro Napoli: da lì continuano ad arrivare notizie inquietanti ed emblematiche.
Cosa sta succedendo alle istituzioni teatrali napoletane?
www.ateatro.it, sulla sua pagina Facebook, ha segnalato "in diretta" diverse notizie, commenti e lettera aperte sul licenziamento del direttore del Teatro Mercadante Andrea De Rosa, sostituito da Luca De Fusco, con motivi pretestuosi e ingiustificabili (o, perlomeno, fino a oggi non è stato possibile individuare alcuna motivazione credibile).
Era passato un po’ inosservato il licenziamento, a settembre, di Nino D’Angelo dalla direzione del Teatro Trianon, il teatro pubblico della sceneggiata napoletana: uno spazio anomalo, che fondava la sua popolarità su quella del suo direttore.
Non sembra invece precipitare la situazione di Napoli Italia Festival, alle cui criticità aveva accennato pubblicamente il direttore Renato Quaglia, ritirando il Premio Ubu per lo spettacolo di Robert Lepage ospitato dal festival napoletano.
Ma intanto dal fronte della lirica arriva un nuovo segnale inquietante: un altro fulminate licenziamento illustre, quello di Sergio Segalini (già al festival della Valle d’Itria e alla Fenice), dal glorioso Teatro San Carlo, dove è sovrintendente Rosanna Purchia (dopo trentacinque anni al Piccolo Teatro) e commissario straordinario Salvo Nastasi (il capo di gabinetto del ministro Sandro Bondi).
www.ateatro.it segue solo marginalmente i problemi della lirica: la gestione delle Fondazioni lirico-sinfoniche è davvero troppo complessa per essere commentata da non specialisti. Tuttavia il metodo, le coincidenze e le implicazioni politico-amministrative suggeriscono qualche considerazione.
La notizia
Sei mesi fa, a giugno, l’annuncio formale dell’incarico: “Doppia nomina al San Carlo: da luglio si cambiano i vertici della Fondazione. Il musicologo Segalini sarà direttore artistico”, scriveva “Il Giornale del Mezzogiorno”. Poi la stagione è stata progettata e comunicata, e i primi spettacoli sono andati in scena.
Tra Natale e Capodanno, il duo Nastasi-Purchia interrompe il rapporto con Segalini, inviandogli una lettera di licenziamento: la scelta del mezzo e del modo dipenderebbe dal fatto che Segalini non sarebbe stato reperibile telefonicamente; secondo l’interessato proprio la mancata reperibilità (“Avevo perso il telefonino”) sarebbe all’origine del provvedimento.
I giornali, dopo la “fuga di notizie”, hanno dato la parola ai vertici del teatro. Varo giornali hanno ripreso la dichiarazione del commissario straordinario del San Carlo Salvo Nastasi: «Pur confermando la qualità artistica del maestro Segalini, scelto proprio per il suo curriculum, la sua collaborazione con il nostro teatro non si può dire sia stato un matrimonio felice. Le continue assenze in momenti strategici nella vita della Fondazione e il determinarsi di difficoltà nella gestione dei cast e dei rapporti con gli artisti, i direttori d’orchestra e le maestranze tutte mi ha portato alla decisione di risolvere una collaborazione che non si basava più sui criteri necessari di fiducia e garanzia di un prodotto all’altezza della storia del San Carlo. Purtroppo le scelte operate dal maestro Segalini hanno costretto il teatro a protestare molti artisti: sette situazioni in pochi mesi e molte in via di attuazione, tutte risolte brillantemente dal sovrintendente Purchia. Questi i motivi che mi hanno portato alla decisione di concludere il rapporto con il maestro, a cui auguro comunque un futuro più sereno e professionalmente più felice di quello passato al San Carlo».
Sul “Corriere della Sera” del 6 gennaio, Paolo Isotta difende il maestro Segalini, ed è ironico e duro sulle sorti del teatro napoletano: “L’immagine pubblica di Segalini ne riceve un colpo gravissimo. Ma ancora maggiore ne riceve quella del San Carlo. Così rotolando verso un abisso senza fondo...”.
Il maestro annuncia azioni legali ma spera anche in una ricomposizione. I toni però sembrano molto duri: Purchia precisa (sempre sul “Corriere”) che in effetti Segalini non è mai stato “direttore artistico”, ma solo “consulente artistico”, come nella tradizione del teatro. Quindi non è stato licenziato e se intende fare causa, sappia che finora lei non ne ha perso una.
Non sappiamo quanto Segalini fosse fannullone o inefficiente e in quali forme il suo contratto, tipo co.co.pro. o altre varianti del precariato, potesse essere rescisso unilateralmente senza preavviso. E non sappiamo neppure (né ci interessa sapere) se Segalini sia di destra o di sinistra. Di certo, è un’altra brutta storia: metodi poco eleganti e un brutto inizio per il quinto mandato come commissario straordinario (dal 2007) di Super-Salvo.
Chi fa cosa nelle Fondazioni lirico-sinfoniche e al San Carlo
Rosanna Purchia sembra quasi vantarsi di non aver avuto un “direttore artistico”, ma solo un “consulente”, nonché della breve durata (quasi una tradizione) di questo incarico.
Ma una Fondazione lirico-sinfonica può fare a meno di un direttore artistico? E’ un problema formale, che però ha ricadute programmatico-progettuali. Stando alla normativa storica (la legge 800 del 1967), il binomio sovrintendente/direttore rifletteva nella lirica quello Grassi-Strehler della prosa: l’impostazione sopravvive nella normativa successiva, compresa quella in vigore, il Dlgs 367 del 1996 che ha portato alla trasformazione degli Enti lirici in Fondazioni lirico-sinfoniche.
Art. 13. - Sovrintendente
1. Il sovrintendente:
a) tiene i libri e le scritture contabili di cui all’art. 16;
b) predispone il bilancio d’esercizio, nonché, di concerto con il direttore artistico, i programmi di attività artistica da sottoporre alla deliberazione del consiglio di amministrazione;
c) dirige e coordina in autonomia, nel rispetto dei programmi approvati e del vincolo di bilancio, l’attività di produzione artistica della fondazione e le attività connesse e strumentali;
d) nomina e revoca, sentito il consiglio di amministrazione, il direttore artistico o musicale, individuandolo tra i musicisti o tra i musicologi più rinomati e di comprovata competenza teatrale;
e) partecipa alle riunioni del consiglio di amministrazione, come disposto dall’art. 12, comma 7.
2. Il sovrintendente è scelto tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza nel settore dell’organizzazione musicale e della gestione di enti consimili; può nominare collaboratori della cui attività risponde direttamente.
3. Il sovrintendente cessa dalla carica unitamente al consiglio di amministrazione che lo ha nominato e può essere riconfermato. Il consiglio di amministrazione può revocare il sovrintendente, con deliberazione presa a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo per gravi motivi.
4. Il direttore artistico o musicale cessa dal suo incarico insieme al sovrintendente, e può essere riconfermato.
Anche il recente decreto Bondi, che raccomanda indirizzi imprenditoriali, non ha toccato il ruolo del direttore artistico. Insomma, la direzione artistica non è un optional (anche se di certo è strettamente dipendente dalla sovrintendenza, e dovrebbe esserlo anche con riferimento alla durata dell’incarico). Logica vuole che un direttore artistico sia a maggior ragione indispensabile per garantire qualità alle scelte “manageriali” economicamente efficaci che i tempi richiedono (almeno quanto la presenza manageriale è necessaria a garantire la fattibilità delle scelte artistiche).
Lo sanno anche a Napoli e infatti preparano la nomina del successore (che forse esiste già in pectore). Secondo “Il Giornale del Mezzogiorno”, “Luciano Schifone, consigliere regionale del Pdl con delega allo spettacolo, lascia intendere che una alternativa già c’è. «È fin troppo evidente - dice - che il licenziamento di Segalini non può assolutamente essere dipeso dalla sua irreperibilità nei giorni di Natale. Può essere soltanto la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso». E fiducioso conclude: «Sono certo che questa vicenda porterà presto alla nomina di un nuovo direttore di comprovata e consolidata esperienza nel settore della direzione artistica, che abbia alle spalle una carriera prestigiosa, che sappia instaurare con le maestranze e gli artisti impegnati nell’attività del massimo teatro partenopeo un rapporto di collaborazione che sappia consolidare il lustro conquistato dal San Carlo in quasi tre secoli di vita»".
Per quanto riguarda il Commissario straordinario la normativa (Art. 21. del Dlgs 367 del 1996 - Amministrazione straordinaria) prevede che l’autorità di Governo possa disporre lo scioglimento del consiglio di amministrazione della fondazione in caso di gravi irregolarità o di violazioni delle disposizioni legislative, o di perdita superiore al 30 per cento del patrimonio per due esercizi consecutivi. La legge prevede anche che “con il decreto di scioglimento vengono nominati uno o più commissari straordinari, viene determinata la durata del loro incarico, comunque non superiore a sei mesi, nonché il compenso loro spettante. I commissari straordinari esercitano tutti i poteri del consiglio di amministrazione”.
Sul sito del San Carlo non si trova lo Statuto, ma sono in bella evidenza le nomine di Nastasi (che non percepisce compensi): quattro, appunto, la quinta è di questi giorni. Si va verso il quinto anno.
Prosa/lirica: il modello Napoli
Per gli stabili pubblici una volta si invocava il modello tedesco: scegliere un direttore sulla base di personalità/esperienza/progetto, lasciarlo lavorare (in modo che possa realizzare il suo programma e svolgere il suo mandato), verificando (presidenti e CDA) la correttezza della gestione amministrativa e del personale, e alla fine confermarlo o meno.
Il vecchio decreto Tognoli sui Teatri Pubblici (del 1990), con la figura del direttore unico, si collocava su questa linea. Almeno in teoria. Più controverso resta il profilo dei direttori. La normativa oggi è più equivoca, ma gli statuti sono ancora ispirati - quasi tutti - a quel provvedimento.
Ad Andrea De Rosa invece (e non è certo il primo caso del genere) non è stato dato il tempo di lavorare, di realizzare il suo programma. A Segalini neppure.
Dalle vicende napoletane (e non solo) è possibile cogliere alcuni problemi e un modus operandi che accomunano prosa e lirica.
La crisi come pretesto: i problemi economici determinati dalla crisi, la riduzione dei finanziamenti pubblici e i problemi di bilancio favoriscono gli equivoci nell’interpretazione dei ruoli e l’arbitrio nella gestione dei rapporti di lavoro: non solo in ambito esecutivo, ma anche ai massimi livelli. Per gli organi politico-direttivi dei teatri, la crisi diventa il pretesto per fare quello che vogliono, o per imporre quello che considerano il minore dei mali possibili, o che viene loro ordinato (De Fusco sostituisce De Rosa perché sarebbe più bravo a trovare risorse!).
Il primato della (cattiva) politica: negli ultimi due anni, Napoli ha visto cambiare di segno le amministrazioni regionale e provinciale ed è da tempo in campagna elettorale per il Comune: il Mercadante si è adeguato per tempo, solo un consigliere d’amministrazione si è dissociato dai diktat del centro-destra (romano e campano); dell’imposizione (trovare un posto a De Fusco a tutti i costi, dopo la conclusione del suo mandato allo Stabile del Veneto) era al corrente tutto il teatro italiano.
Ma per fortuna che Salvo c’è: questo modo di fare politica in ambito culturale (ovvero interferire nelle istituzioni culturali) non è certo nuovo, anzi. Tuttavia prospera in assenza (totale) di governo, con riferimento non solo all’inconsistenza del ministro Bondi, ma anche a causa dell’assenza di linee guida, di motivazioni che non siano i tagli, di prospettive per i beni e le attività culturali. In questo scenario da crisi di regime, è normale (e qualcuno aggiunge “per fortuna”) che la burocrazia prenda il potere (la burocrazia “buona” e necessaria non dovrebbe essere potere, ma “servizio”, il motore che fa funzionare lo Stato). E questa burocrazia, al MIBAC, è lui, Super-Salvo, l’efficiente funzionario dalle competenze tecniche illimitate.
E’ un potere destinato ad allargarsi. Basta pensare al ruolo che avrà la direzione generale del MIBAC nei prossimi necessari e inevitabili riassestamenti contributivi dopo la drammatica contrazione del FUS: è ovvio che un taglio di queste dimensioni annunciate non può più corrispondere una ricaduta equivalente per tutti i soggetti, come sostiene anche l’AGIS. Sarà poi necessario decidere se, dove e come intervenire in caso di eventuali default: operare il salvataggio o rimettere in circolo le risorse, assegnandole a soggetti più solidi? C’è poi da auspicare che a sostegno del settore subentrino fondi extra Fus: la loro gestione rischia però di essere ampiamente arbitraria.
Salvo Nastasi si è distinto in questi anni per l’efficienza con cui ha ricoperto incarichi assai delicati: proprio le sue qualità gli hanno meritato incarichi sempre nuovi. Tuttavia è facile intuire che una eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un unico funzionario, in una situazione di perenne emergenza (vea o presunta), abbia diverse controindicazioni.
Torniamo a Napoli
Per il Mercadante c’è da scommettere - in misura compatibile con i tagli del FUS - che recupererà l’handicap storico rispetto agli altri stabili che caratterizza i contributi statali. Quanto al San Carlo, si è adeguato dal 2007: da allora la sua gestione è nelle mani del Ministero (condizione che avrebbe dovuto durare al massimo un anno).
Ci sarebbe almeno da chiedersi se sia corretto che il direttore generale del MIBAC, da cui dipende l’assegnazione dei contributi, sia anche commissario straordinario di una FLS (Napoli è l’ultima, quella cui è più affezionato, ma prima c’era stato il Comunale di Firenze): finanziatore e finanziato, controllore e controllato si identificano. Sul piano della forma, probabilmente siamo nell’ambito della correttezza: è una scelta ammissibile e addirittura virtuosa, visto che Nastasi come commissario straordinario non percepisce alcun compenso e che nessuno meglio di lui dovrebbe poter sovrintendere con efficacia alla correttezza della gestione. Forse però riusciremo davvero a capire le ambiguità di una posizione del genere solo quando riacquisteremo un pizzico di sensibilità alle regole, al conflitto di interessi e alla divisione dei poteri.
Questioni di metodo
In fondo, dicono alcuni, che male c’è?
In fondo, il teatro italiano è lottizzato da sempre, se ne approfittano a destra e a sinistra.
In fondo, sono carrozzoni costosi e pressoché inutili: meglio chiuderli.
In fondo, sono tutti uguali: pseudo-artisti alla ricerca di una poltrona e dell’affermazione del loro piccolo ego a spese del contribuente.
In fondo...
Ma l’invidia e il qualunquismo non sono mai la soluzione. Nemmeno il “tanto peggio tanto meglio” o il “muoia Sansone con tutti i Filistei” che affiorano con crescente insistenza nella squallido panorama italiano.
L’accelerazione di questi mesi è molto grave e inquietante. Perché il modo, la forma, sono anche sostanza. Un sistema culturale gestito in questo modo - sotto il costante ricatto economico, con l’arroganza dei capetti e l’invadenza dei politici, dove l’arbitrio sostituisce una corretta analisi di obiettivi e i risultati - è destinato a isterilirsi sempre più rapidamente.
Se il fare (o meglio, il “fare in tutta fretta”) serve solo a far occupare le poltrone dagli amici o dagli amici degl amici, la politica diventa solo un meccanismo di autoconservazione della Casta, e il trampolino di lancio per l'ennesima cricca.
Seguendo il “metodo Napoli”, con la scusa dell'emergenza la gravissima crisi del sistema culturale italiano verrà gestita in maniera del tutto discrezionale e autoritaria, sulla base di affiliazioni opache a potentati più o meno trasparenti.
Per questo è importante denunciare le “cattive pratiche dell’arroganza”.
(continua. Non sappiamo come continuerà, ma purtroppo continua di sicuro...)
Dieci anni: 161 articoli per 10 anni per 167 cm di altezza (senza contare i tacchi) di Anna Maria Monteverdi
Ebbene si. Dieci anni! Alla fine ci siamo arrivati a questo ragguardevole traguardo. Ne sono felice e anche un po’ orgogliosa: dieci anni sono una vita infinita per un webmagazine. Anche una memoria (digitale) infinita.
Ho partecipato al progetto www.ateatro.it sin da subito, me ne aveva parlato Oliviero nell’ottobre del 2000 e mi aveva coinvolto. Oliviero era convinto che il futuro della critica teatrale dovesse essere nella rete, nella infinita capacità di internet di creare contesti partecipati e informazioni accessibili nell’immediatezza e condivisibili. Senza limitazioni di spazio e di censure più o meno autoindotte.
Altre riviste teatrali nate sotto gli auspici della rete non sono più online già da tempo. La mortalità dei siti in questo senso è un fenomeno naturale, dopo quattro-cinque anni al massimo le riviste chiudono, magari perché i finanziamenti non arrivano più o gli sponsor chiudono i rubinetti. Noi non avevamo risorse di altro genere che non fossimo noi stessi, con le nostre idee, con la nostra passione per il teatro e con la nostra abilità anche informatica: dunque la spravvivenza in questo caso era dovuta anche alla nostra tenacia di voler essere indipendenti e di mantenerci “fuori formato”: di non essere cioè legati a schemi giornalistici, a uscite settimanali, a doveri istituzionali, a redazionali pagati. Liberi di scrivere ma anche liberi di non scrivere. Noi eravamo la rivista. Questo ci ha salvato.
Ci ha aiutato anche il fatto che la comunità teatrale abbia riconosciuto l’autorità di Oliviero: la rivista ha avuto suito successo e a sua volta si è immediatamente messa a disposizione per offrire materiali, contributi, suggerimenti. Così se all’inizio Oliviero era da solo, dopo pochissimo tempo la redazione, seppur virtuale, era già una grande famiglia. E gli iscritti alla mailing list diventavano sempre più numerosi, svariate migliaia di persone, occorreva una notte intera per inviarla a tutti.
Ben presto www.ateatro.it divenne il punto di riferimento per chi voleva approfondire, conoscere, studiare, riflettere sul teatro contemporaneo. I nostri numeri, soprattutto quelli monografici, erano visitati da un numero altissimo di persone, come risultava dalle applicazioni statistiche. Dalla ateatropedia è possibile consultare ricercando per regista o autore, tutti i pezzi indicizzati; in pochi anni abbiamo messo a disposizione un’enciclopedia amplissima, sempre disponibile e sempre aggiornata, utile strumento per tesi, studi, articoli, saggi. La rivista universitaria “Teatro e Storia” ha sancito ufficialmente l’importanza del nostro webmagazine con uno speciale “dossier ateatro” nel n. 25 del 2004.
All’epoca della nascita della webzine, nel gennaio 2001, abitavo a Lucca, ero dottoranda in Forme della rappresentazione teatrale e audiovisiva all’Università di Pisa (tutor Fernando Mastropasqua) e avevo in mente, per il mio progetto di ricerca, di partire per il Canada per conoscere Robert Lepage, studiare i materiali depositati presso gli archivi del suo quartier generale a Québec City, andare al Festival di Montréal e assistere alla fase progettuale del suo ultimo lavoro. Pensai che forse questo sarebbe stato anche un buon argomento per la nuova rivista che aveva in mente Oliviero: la descrizione del metodo di lavoro di un regista ancora poco conosciuto in Italia ma che già tutto il mondo applaudiva e incoronava come l’erede di Robert Wilson e del teatro-immagine.
A parte un breve articolo già pubblicato su una fanzine cartacea dedicato all’Orfeo dei Motus, il mio primo vero pezzo per ateatro fu dedicato proprio a Robert Lepage, un autore che mi avrebbe portato molta fortuna e a cui ho dedicato gran parte dei miei studi. Scrivere per una tesi di dottorato e scrivere per una rivista, per giunta online (con le complicazioni legate alla grafica, alla formattazione eccetera), non è ovviamente la stessa cosa. Dunque cercai di trovare il mio “stile ateatro” (stile che col tempo è cambiato: si è asciugato ed è diventato molto più sintetico e più in linea con il concetto di webness), anche prevedendo l’impostazione a schermo (testo+immagine) dei miei pezzi. In genere ho sempre privilegiato l’aspetto descrittivo “caldo”, quello che mi portava a scegliere una sola immagine e da lì srotolare la trama e l’ordito dell’intero spettacolo.
Sono stata fortunata perché l’imprinting con il teatro di Lepage in Canada fu proprio con un vero spettacolo-manifesto di cui ho data ampia documentazione su www.ateatro.it: La face cachée de la lune, da lui diretto e interpretato. La mia grande e insperata fortuna fu quella di avere avuto la possibilità di farmi spiegare da lui stesso nella mia lunga residenza canadese, il processo creativo, l’idea, e la modalità di realizzazione. Imparai quanto sia importante assistere alle fasi di creazione di un'opera, e imparai anche quanto questo cambi la prospettiva critica. Così nel corso di un’intervista nel dietro le quinte dello spettacolo dove fui ammessa come unica esterna alla compagnia, Lepage in un gesto di amitié mi svelò i suoi segreti.
Se Lepage fu il primo artista a cui mi dedicai con una fedeltà quasi maniacale per ateatro, altri artisti tecnologici seguirono e furono inclusi in una sezione specifica da me diretta, dal nome Teatro e Nuovi Media (TNM); tra tutti ricordo i pezzi sul teatro tecnologico di William Kentridge, di Marianne Weems e del Big Art Group oltre che su Motus, Santasangre, Fortebraccio Teatro-Roberto Latini, Masbedo... Diversi pezzi erano legati a eventi particolari: il volume monografico di Roberto Paci Dalò-Giardini Pensili, la retrospettiva di Riccione TTV dedicata a Giacomo Verde, l’antologica di Invideo per Michele Sambin e poi la mostra del trentennale del Tam Teatromusica. Ho sempre cercato di privilegiare oltre alla descrizione dello spettacolo, il dialogo diretto con l’artista: per www.ateatro.it ho intervistato Marcel.lì Antunez Roca (fondatore della Fura dels Baus), l’hacker artist Jaromil e Steve Kurtz del Critical Art Ensemble: quelle interviste hanno fatto il giro dei siti mondiali di acktivism. Ora molte delle interviste pubblicate su www.ateatro.it sono inserite nel volume Nuovi Media Nuovo Teatro che esce proprio in occasione del decennale, per la casa editrice FrancoAngeli. Questo è il mio personale regalo alla redazione e a chi l’ha fondata.
Ma per www.ateatro.ot pubblicai anche diversi pezzi non espressamente dedicati ad artisti tecnologici: resoconti da rassegne e festival teatrali, incontri con registi, recensioni.... Io e Oliviero componemmo nel 2005 con grande passione, lo speciale dossier sul Living Theatre dedicato al venticinquesimo anniversario della morte di Julian Beck. Per l’occasione Cathy Marchant, l’Ismene dell’Antigone livinghiana ci regalò un pensiero e delle fotografie inedite, e molti componenti del gruppo, compreso lo stesso Hanon Reznikov, vollero dare un contributo.
Anche per il “compleanno” di Beckett abbiamo voluto organizzare un numero monografico con moltissimi pezzi inediti e così è stato anche per il teatro di figura con contributi molto apprezzati di docenti universitari come Fernando Mastropasqua e Concetta D'Angeli.
Di seguito i titoli con link agli articoli a mia firma, dai più recenti al numero “uno”. Rivederli in questa lunga lista mi fa un certo effetto, ammetto.
Buona lettura (digitale)! E (ovviamente) buon spettacolo!
Gli articoli di Anna Maria Monteverdi su www.ateatro.it
127.57Dal paradiso dei suicidi Etgar Keret a Palazzo Ducale a Genova per Mediterranea di Anna Maria Monteverdi
119.61La scena teatrale tecnologica catalana Intervista a Konic thtr e Marcel.lì Antunez Roca (con una nota di Carles Canellas-Rocamora teatre) di Anna Maria Monteverdi
115.14Per un teatro politico tecnologico Konic thr e il nuovo spettacolo NOU I_D con un’intervista inedita a Rosa Sanchez e Alain Baumann di Anna Maria Monteverdi
104.30William Kentridge: la magia dell’ombra Omaggio al grande artista sudafricano nella collana d’arte Supercontemporanea di Electa di Anna Maria Monteverdi
99.20Beckett 100: Video Beckett Installazioni, opere video, cortometraggi, animazioni e videoscenografie ispirate a Samuel Beckett di Anna Maria Monteverdi
99.9Tradizioni ed errori al TTV In risposta a Fabio Bruschi di Anna Maria Monteverdi e Oliviero Ponte di Pino
86.52Arte contemporanea allo scoperto J. Fabre, The Shelter (For the Grave of the Unknown Computer); O. Mocellin e N. Pellegrini, Le cose non sono quelle che sembrano di Anna Maria Monteverdi
Dieci anni: ateatro ovvero della libertà Pensando con affetto ad ateatro di Clara Gebbia
Ho sempre seguito le sorti di www.ateatro.it con grandissimo interesse, partecipandovi saltuariamente (una dozzina gli articoli scritti, non di più), seguendo qualche edizione delle Buone Pratiche, ma sono stata una lettrice molto più assidua.
Per me www.ateatro.it ha avuto un duplice ruolo: quello di fonte inesauribile di materiali, bibliografie, spunti per affrontare articoli, tesi, dottorato.
E quello, ancora più importante, di permettermi, come è nella mia natura, di giocare diversi ruoli nella gioiosa e dolorosa esperienza lavorativa teatrale.
Che cosa ho fatto nel teatro in questa decina d'anni o poco più?
Allieva attrice, allieva regista, regista, assistente alla regia, aiuto regia, impiegata/organizzatrice, impiegata/passacarte, organizzatrice free-lance, imprenditrice (con i confini da adottare quando questo concetto viene applicato al teatro e alla mia piccola associazione, Teatro Iaia), studiosa pagata dall'università ma anche gratis a casa, co-regista, correttrice di bozze e altri lavori che non hanno nomi precisi, ma sempre con un unico denominatore comune: il teatro.
Le ho fatte davvero tutte, nel mio percorso apparentemente scombinato.
Ma è così strano che ci sia una persona che vive nel teatro, che pensa il teatro, che nel teatro trova i mezzi per sopravvivere economicamente, in ruoli non sempre affini al suo percorso (per usare un eufemismo), che passa da un ruolo artistico ad uno impiegatizio, da braccio a mente, da mente a braccio, e poi per fortuna di nuovo il contrario...?
E ateatro è servito, nei momenti di lavoro più neri, quando ero solo braccio e non importava che avessi una mente, a ricordarmi che avevo ancora voglia di scrivere e sapere di teatro, di incontrare gente di teatro, di vedere spettacoli...
Credo sia una situazione che vivono molti di quelli che lavorano nella cultura, per questo mi permetto di scrivere questa piccola testimonianza.
Grazie in primo luogo ad Oliviero, ad Annamaria, a Mimma e a tutti gli altri per la possibilità di esercitare il pensiero, la critica, la trasversalità dei ruoli, in un parola la libertà.
I testi di Clara Gebbia su ateatro
127.71Il cielo di pietra Mi chiamo Rachel Corrie con Cristina Spina di Clara Gebbia
Le vergini giurate, ovvero come e perché diventare uomini Al Teatro della Cooperativa di Milano di Livia Grossi
Carissimi per una volta sono io a invitarvi!
Vi aspetto al Teatro della Cooperativa con Diventare uomo, un reading tratto da un reportage che ho realizzato in Albania sulle vergini giurate. Donne che hanno deciso di diventare uomini per ottenere diritti ereditari e dignità sociale. Io sarò perfino in scena (aiuto!) nei panni di me stessa, ovvero della giornalista che ha realizzato il reportage e l'intervista a Paskha, una donna di sessantasei anni che a ventotto anni ha deciso di diventare un uomo.
Voci di donne di oggi, che sembrano non appartenere al nostro mondo anche se abitano dietro casa nostra, figure femminili
che fanno riflettere: “Qual è la differenza tra loro e noi, donne emancipate dal femminismo? Certo,qui i diritti ereditari non sono un problema, ma sul fronte ruoli e dignità, se non siamo madri, sorelle, o
spose (di dio o di un uomo), quali abiti possiamo indossare per poter >
essere rispettate e amate?”
Sul palco, per mia e vostra fortuna, ci sono due attrici vere: Lucia Vasini e Emanuela Villagrossi, al pianoforte Gaetano Liguori e sullo schermo le meravigliose foto di Alex Majoli, reporter della Magnum. Il tutto dura meno di un’ora (ingresso 16 euro, riduzioni con il coupon del “Vivimilano” del “Corriere della Sera”).
Vi allego la scaletta cosi vi fate un'idea e potete far girare la voce!
Abbiamo bisogno di pubblico perché siamo a incasso, e proponendo un argomento non semplicissimo in un teatro un po’ decentrato rischiamo tantissimo!!!
SCALETTA DELLA SERATA
L'idea è di passare dall'immaginario al reale. La realtà è rappresentata dalla giornalista Livia Grossi, silenzioso testimone che, al suo tavolo, prende appunti mentre i ricordi riaffiorano alla sua mente: racconti verbali, musicali e fotografici che al suo fianco prendono corpo.
La prima parte dà voce attraverso la lettura scenica di Lucia Vasini e Emanuela Villagrossi ad alcune pagine del romanzo di Laura Facchi “Il megafono di Dio" e della sceneggiatura, “La neve rossa”, tratta dal romanzo stesso, di Laura Facchi e Maria Arena. Una storia inventata ma verosimile sulla vita di una di queste vergini giurate.
Segue il video con le foto di donne-uomo scattate da Alex Majoli,
accompagnate dalle musiche composte ed eseguite al pianoforte da Gaetano Liguori. Sullo schermo, in alternanza con le foto, le risposte scritte di alcune donne albanesi interpellate oggi sulla differenza tra uomo e donna nel loro paese.
La realtà irrompe con il reportage: l’intervista di Livia Grossi realizzata nel 2005 a Pashka (qui, in abiti maschili, Emanuela Villagrossi).
Un cappello introduttivo letto dalla giornalista introduce il dialogo-
intervista, segue un botta e risposta duro e spiazzante. Chiude un
breve epilogo in cui si riflette sull’identità femminile nel nostro
paese.
Su "Hystrio" 1_2011 il dossier Teatro e nuovi media a cura di Roberto Rizzente in collaborazione con Oliviero Ponte di Pino Il sommario di Hystrio
Che impatto hanno avuto i nuovi media sul teatro? Con l’avvento del web, dei cellulari, di YouTube e dei social network, le frontiere della comunicazione si sono dilatate a dismisura. Il complesso di opportunità che i teatranti hanno oggi a disposizione non è paragonabile a quello di qualche anno fa. Ma fino a che punto si misura la svolta? Quanto ha saputo cogliere il teatro delle nuove modalità interattive offerte dalla tecnologia, in termini di visibilità, di conservazione della memoria e di rinnovamento del linguaggio? E i vecchi media, radio, dvd e televisione, sono tramontati per sempre o hanno ancora da dire la loro?
Il salto mortale del teatro di Oliviero Ponte di Pino
La storia del rapporto tra il teatro e la tecnologia è, prima di tutto, la storia di un conflitto che muove da lontano.
Più volte contrastata, la tecnologia torna sotto forma di nuovo linguaggio, reinventandosi come modello di manipolazione della realtà e ancorando a sé tutte le fasi vitali di un evento spettacolare, dall’ideazione alla drammaturgia e messa in scena, fino alla promozione, l’informazione, l’archiviazione. Tanto che il teatro, oggi, non può più farne a meno. Con il rischio di smarrire la propria identità o, viceversa, di alterare le strutture più riposte del linguaggio mediatico.
Filumena Marturano in tv: buona la prima! di Sandro Avanzo
Schermo teatrale e schermo deteatralizzato di Andrea Balzola
La storia del teatro in televisione in Italia è, prima di tutto, storia di una mancanza: dagli anni Ottanta ai giorni nostri il teatro viene bandito dai palinsesti, compresso in pillole o relegato in improbabili fasce notturne. A dispetto della qualità artistica delle proposte, il gradimento del pubblico e le inedite possibilità offerte dal digitale.
Art’e, per un teatro d'arte europeo di Erica Magris
Studio Azzurro: arte, digitalità e società di Renzo Francabandera
L’interattività è, secondo Paolo Rosa, la frontiera nuova del teatro. Fondata sul senso del limite e della differenza, essa ingloba un modo nuovo di fare teatro, aperto al pubblico e alla collettività.
Radiocronaca live del teatro che cambia di Oliviero Ponte di Pino
Dal 1929, la radio ha accompagnato l’evoluzione del teatro in prosa in Italia. Con alti e bassi: ce ne parla Bruno Gambarotta, ascoltatore appassionato e voce radiofonica di eccezione.
«Madamina, il catalogo è questo»: Microcinema e l'opera di Roberto Rizzente
I migliori dvd della nostra vita di Sandro Avanzo
Nonostante la concorrenza di Facebook e YouTube, non conosce crisi il mercato del dvd in Italia. Merito, forse, della qualità dei prodotti e della capacità di mutare pelle, intercettando l’innovazione tecnologica, dal Blu-Ray al 3D.
La web tv del Piccolo Teatro
Colpo di click sulla scena contemporanea
di Renzo Francabandera
Il teatro sul web tra presente, passato e futuro di Oliviero Ponte di Pino, Paola Abenavoli, Roberto Rizzente
L’avvento del web ha mutato i fragili equilibri del teatro contemporaneo. Riproponendo all’attenzione modelli vecchi legati alla comunicazione, e tentando al tempo stesso di esplorare nuove vie in direzione della multimedialità e dell’interattività, la rete ha esasperato una dialettica interna al teatro, tesa tra l’aspirazione al successo e il bisogno di comunità.
La molteplice natura di un sito web: l'esperienza di ateatro di Oliviero Ponte di Pino
Buon compleanno, dramma.it! di Marcello Isidori
La memoria digitale: croce e delizia della scena di Stefano Locatelli
Nonostante i passi da gigante fatti dal nostro Paese nel campo dell’archiviazione digitale, rimangono irrisolte alcune questioni, dalla convergenza tra le istituzioni alla conservazione dei database.
Carta vs web: quale futuro per la critica? di Diego Vincenti
Aggiornamenti in tempo reale, contributi video, tenuta nel tempo, consenso di un pubblico giovane: il proliferare di blog, webzine e riviste on-line sembra aver soppiantato definitivamente la critica sui giornali. Ma cosa si nasconde sotto la superficie?
Il sapore live del teatro: a tu per tu con le "redazioni intermittenti" di Roberto Rizzente
A che serve Facebook? Il teatro e il branding di Roberto Canziani
Facebook risulta formidabile nel consolidare l’immagine degli artisti. Esistono convergenze tra teatro e il più diffuso , e invasivo, fra i social network? Non sul piano creativo, probabilmente.
Cinguettare via web: il fenomeno Twitter di Roberto Rizzente
YouTube, crociere digitali oltre l'oceano del web di Sergio Lo Gatto
Frequentato da milioni di professionisti e appassionati in tutto il mondo, You Tube è un database infinito dello scibile in materia teatrale. Cui mancano però un criterio e una gerarchia che demarchino cosa è teatro e cosa no.
Giulietta è una macchina teatrale di Fabrizio Caleffi
La nuova campagna Alfa della Fiat è solo l’ultimo dei tanti spot ispirati al teatro. Sta al teatro, di rimbalzo, cogliere il trend, prendendo a prestito il linguaggio della pubblicità. Alla faccia dell’etica.
Le nuove frontiere della drammaturgia di Pier Giorgio Nosari
Duplice è l’impatto che i nuovi media hanno sulla scrittura teatrale: se da un lato il telefonino, la chat e i social network intervengono a modificare gli equilibri tra i personaggi e l’ambiente, dall’altro le nuove tecnologie contribuiscono a destrutturare il testo, aprendolo a un ventaglio pressoché infinito di segnali esterni, ancora in parte da esplorare.
Per un teatro tecnologico internazionale di Anna Maria Monteverdi
L’utilizzo in scena, sempre più invasivo, delle nuove tecnologie e dei nuovi media ha ampliato a dismisura i confini del teatro. Arte, cinema, musica, danza, teatro, fotografia, televisione, web e 3d interagiscono liberamente, approdando a una dimensione nuova, mutante e scevra da ogni gerarchia, il cui dato caratterizzante è l’ambivalenza.
Play my phone di Renzo Francabandera
Innovativo agli esordi, l’sms sembra aver fatto il suo tempo. A seguito dell’innovazione tecnologica, nuovi, più interattivi scenari si aprono per il teatro applicato alla fonia mobile. Di cui la realtà aumentata è solo l’inizio.
RomaEuropaWebFactory: una fabbrica di talenti per il web di Simone Nebbia
LE CITTA' Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie