ateatro 117.10 Il fascino discreto di un teatro calligrafico: Le dragon bleu di Robert Lepage In anteprima a Mulhouse con una intervista al regista di Anna Maria Monteverdi
LA FILATURE-Mulhouse: un modello produttivo/residenziale da imitare
Collocata al confine tra Germania e Svizzera nella regione dell’Alsazia, a una trentina di chilometri da Basilea, Mulhouse ospita all’interno della vecchia fabbrica di cotone l’enorme e suggestivo spazio polivalente della Filature. Nata tredici anni fa; oggi è diventata Scène Nationale ed è collocata in un distretto multilinguistico di grande interesse. Seguendo gli obiettivi sanciti per le Scène Nationale da André Malraux nel 1961, la Filature programma attività di alto livello nell’arco dell’intero anno: co-produzioni internazionali, residenze artistiche, stagione di prosa, danza e musica, un festival dedicato alla nuova scena internazionale di ricerca, laboratori di scrittura teatrale destinati anche ai non professionisti, incontri e presentazioni degli artisti in cartellone in collaborazione con l’Università dell’Alta Alsazia. E’ sede dell’orchestra sinfonica di Mulhouse e ospita l’Opera Nationale du Rhin.
La Filature a un primo impatto sembra più che un teatro una modernissima galleria d’arte con gigantesche vetrate da cui è possibile vedere il vicinissimo fiume Ell, un bar, una sala lettura; ma all’interno contiene un grande teatro da 1200 posti, una sala modulare da 360 posti, varie sale prove, una galleria espositiva e una mediateca specializzata in arti della scena. E’ attualmente diretta dal giovane e dinamico Joël Gunzburger, che in occasione della nostra visita ci racconta la vocazione del centro come luogo di incontro multidisciplinare e la sua volontà di creare uno spazio di sperimentazione teatrale anche tecnologico.
La selezione dei progetti per la residenza e per la co-produzione viene curata direttamente da Gunzburger, che ha una personale formazione da attore, e privilegia tematiche multiculturali tra danza, musica e prosa e proposte interdisciplinari (video installazioni, cine concerti) che possano essere ospitate all’interno del Festival TRANS(e) oltre che nel cartellone annuale. Per la danza quest’anno ha selezionato Anna Teresa De Keersmaeker, La La Human Steps, Michèle Noiret e, per i progetti multimediali, i danesi Hotel Pro Forma, Art Zoyd. Il legame con l’agenzia di artisti Epidemic di Richard Castelli è evidente dai nomi che vengono proposti.
Il budget globale per il 2006 ammontava a 5.403.000 euro, come si legge con molta trasparenza direttamente dal loro sito ufficiale. Gunzburger ci parla di un massimo di dieci tra residenze e coproduzioni l’anno, le cui esigenze vengono però interamente coperte dalla struttura ospitante che nel caso di coproduzione, segue da vicino le tournée degli artisti all’estero. Come ci precisa il direttore, la struttura non richiede comunque il debutto: non è importante che la compagnia venga per la premiére alla Filature, l’importante è che la produzione abbia buon esito all’esterno e autonomia. La direzione può anche mettere in campo progetti minori che uniscono artisti in residenza, come cinque microperformance a cui assistiamo prima dello spettacolo del molto atteso Robert Lepage. Il budget destinato alle residenze, ci spiega, dipende poi dai progetti stessi: si investe ciò che serve per la produzione. Per questa stagione gli artisti in residenza associati alla Filature sono stati Cécile Babiole, Georges Gagneré e Wajdi Mouawad, che hanno realizzato rispettivamente opere di danza e immagine 3D, cine-concerti (o live-cinema) e spettacoli multiculturali. In cartellone il teatro di Mulhouse spicca per la co-produzione diel nuovo lavoro tecnologico di Robert Lepage-Ex machina.
Robert Lepage e Le dragon bleu
ovvero Le voyage interminable
Ai suoi debutti in sordina in aree poco esposte alla comunicazione per attenuare l’attenzione possessiva dei media siamo ormai abituati così come siamo stati felicemente abituati al concetto tipicamente lepagiano che il lavoro teatrale si trasforma considerevolmente nel corso della sua lunga vita. Lepage si sa, si concede tutto il tempo che la creazione necessita per prendere forma, anche a costo e al rischio di portare in scena una cosa che appunto non è finita, permettendosi così la più grande trasgressione in tempi di produzione di serie, di catena di montaggio del teatro commerciale, di riproposte di repertori teatrali cadaverici. Il pubblico semplicemente sa e acconsente. L’esperienza da spettatore di uno spettacolo di Lepage è dunque prima di tutto quella di essere testimone oculare di una crescita, privilegiato osservatore di un evento prima dell’Evento, in attesa del compimento-concepimento che avverrà in tempi anche considerevolmente lontani dal debutto o dalla prima presentazione pubblica. La creazione come “viaggio interminabile” è una delle immagini preferite di Lepage: “Non si porta lo spettacolo verso una data destinazione, si lascia che sia lo spettacolo a condurci… Sono le metamorfosi effettuate sulla scena che permettono questo viaggio”. La trasformazione non indica immaturità o incompiutezza ma rientra nella natura stessa della rappresentazione teatrale: si continua a scrivere perché questa è “materia viva”, si interviene su un corpo vivo. Il lavoro presentato nelle prime fasi è certamente un enfant dice Lepage, con la vivacità e con l’insicurezza del fanciullo che prima o poi, dopo molti tentativi e fallimenti riuscirà a camminare con le proprie gambe; l’opera è per lungo tempo come un abbozzo ma con tutta la dignità artistica che questo ha rispetto alla pittura compiuta; del resto è proprio il Rinascimento epoca assai cara a Lepage ad avere messo in luce il valore del processo creativo dell’opera: il disegno, gli schizzi, i modelli, le sinopie. Così siamo consapevoli che ciò che abbiamo visto a Mulhouse non è altro che l’ombra pallida e tenue del lavoro che verrà ultimato a Londra nell’ottobre prossimo ma già contenente i temi portanti dello spettacolo: la storia con i relativi intrecci tra i personaggi, la macchina, lo spazio scenico e le tre cose legate insieme. Come sempre, non l’una senza l’altra.
Le dragon bleu: un sequel
Il dragone blu è una sorta di sequel teatrale: nel 1985 Lepage aveva inseguito le drammatiche vicende umane di alcune famiglie di immigrati cinesi nelle Chinatown canadesi in 75 anni nell’ormai storico La trilogia dei dragoni (recentemente riproposta); aveva accennato a una ramificazione di vite e di viaggi dall’Oriente all’Occidente e viceversa e aveva tinteggiato ritorni, memorie, abbandoni e dolori. Il tutto in un’aura scenica di luce e ombra, di pochi oggetti pregnanti di significati simbolici.
Il Dragone Blu, appena inaugurato nelle due cittadine francesi di Chalons en Champagne e di Mulhouse, è un focus su una delle numerose storie della Trilogia.
Pierre La Montaigne artista del Québec, decide di lasciare il proprio paese per andare in Cina e non ritornare mai più. Pierre lavora a una particolarissima forma d’arte, la calligrafia, e il suo soggiorno lo porta ad aprire una galleria d’arte a Shangai. Lasciato a questo punto della sua vicenda Lepage riapre oggi nel 2008 il capitolo che riguarda Pierre e pone un’attenzione speciale sulla sua vicenda personale vent’anni dopo gli eventi già narrati che il pubblico fedele alle “puntate” teatrali di Lepage conosce bene. E come in ogni spettacolo di Lepage la chiave di lettura viene svelata sin dall’inizio grazie al motivo costante del “personaggio-prologo” incarnato sempre dal protagonista stesso. Il tema portante è la calligrafia, con le simbologie e i numerosi significati correlati con quest’arte, i cui codici antichissimi evocano armonia compositiva.
La storia
Pierre La Montagne è in aeroporto ad attendere l’amica che arriva dal Québec, sua compagna all’Accademia di Belle Arti di Montréal, per adottare un bambino; la delusione per l’impresa che si rivelerà impossibile e il soggiorno troppo prolungato ne svelano la natura depressiva e la storia da alcolista. Innamorata da sempre di Pierre accetta la sua ospitalità nella casa-loculo nel cuore di Moganshan, Shangai. Conosce così la ragazza che frequenta l’atelier di Pierre e che si rivelerà essere anche la sua amante; Xiao Ling è una fotografa che ritocca digitalmente autoritratti scattati col telefonino o con macchina digitale per cogliere l’attimo e il sentimento che anima quell’attimo. Le tre storie apparentemente molto distanti sembrano combaciare nell’unico punto della solitudine e della crisi interiore: la ragazza è alla ricerca del mecenate che possa aiutarla a trovare una strada nel mondo dell’arte ma verrà segnata dal fallimento personale e artistico, Pierre soffre nel sogno non esaudito di un amore ricambiato, Marie è sola senza la compagnia di un figlio da amare.
Dopo vicende di riconoscimenti, di delusioni, di litigi e di abbandoni, Pierre si ritrova da solo espropriato dal Governo persino dell’atelier, Marie non rientrerà più in Québec per frequentare l’alta società e la giovane artista cinese rimasta incinta di un uomo che potrebbe anche essere Pierre, si abbandona a una vita da artista di strada, senza mezzi né amore con un bimbo che non accetta. L’incontro casuale tra la ragazza e Marie dentro una stazione diventata casa provvisoria, rimette di nuovo i tre di fronte al tema della responsabilità umana di fronte al dolore altrui. La spensieratezza della prima parte dello spettacolo, nel racconto dell’incontro di Pierre con la ragazza presso un laboratorio di tatuaggi, nella vicenda tragicomica della valigia persa in aeroporto e poi ritrovata trasudante miele, nella memoria iconografica coloratissima della Repubblica Popolare, si scontra con la crudezza della realtà tragica che viene descritta nella seconda parte. La nascita di un bambino, che sarebbe stata occasione di gioia per una delle due donne, è invece motivo di odio e desiderio di annullamento per l’altra; solo lo scambio affettuoso, il mutuo soccorso, il riconoscimento dell’altro come parte di noi stessi come si intuisce al fondo della storia, può servire ad evitare il tragico epilogo di tutte le vicende umane, quella di Pierre e la nostra. E può servire ad aprire una porta inattesa sull’avvenire.
Così la storia contiene clamorosamente tre possibili happy end: nel primo, il bimbo viene adottato da Marie di ritorno con Pierre in Canada, nel secondo rimane in Cina dalla madre con la sicurezza di un padre e di un sussidio, nel terzo viene affidato solo al padre in Cina mentre le due donne vanno in Canada. Lepage infatti lascia libera la scelta ovvero propone tre finali diversi, come in un videogame; a noi immaginare come la storia potrebbe davvero finire. Oppure forse è solo la giustificazione per un Dragon bleu parte seconda….
La macchina teatrale
Nelle ultime produzioni come one man show, Lepage aveva sviluppato un’originale organismo scenografico particolarmente flessibile e metamorfico atto anche a ospitare immagini video. Se in La face cachée de la lune la parete di fondo composta da svariati scomparti scorrevoli su binari poteva aprirsi e rivelare le parti interne, in Andersen Project si sperimentava addirittura lo sfondamento prospettico della parete grazie alla cavità rientrante contenente un sistema pneumatico e veniva usato persino lo spazio sottostante il proscenio per muovere e far comparire oggetti. Trattasi in ogni caso di sistemi per “forzare” i limiti dimensionali della scena e creare artificiali (o semplicemente teatrali…) illusioni di profondità e di volume attraverso trabocchetti di sapore antico.. ”Semplice, ingegnoso, altamente visivo”, così recita il libretto di sala. Mi sembra una sintesi efficace.
In Le dragon bleu troviamo una specie di “antologia” della macchina lepagiana, motivo per cui a prima vista non riusciamo a intravedere la mano dello stage designer Carl Fillon ma quella di un abile scenografo che ne imita evidentemente “la maniera”. Così vengono recuperati molti dei temi che hanno decretato la poetica trasformista di Lepage: la scena mobile tirata a mano, gli oggetti trasportati da invisibili servi di scena, la proiezione video frontale e retro sullo schermo con il personaggio incastonato in mezzo, pochi oggetti che si scompongono e si ricompongono alla vista diventando tutto quello che serve alla narrazione teatrale, scena avente diversi livelli di profondità, richiami a modalità cinematografiche (ralenti, flashback). La prima scena/sequenza offre poi una prima citazione da Le sept branches de la rivière Ota: schermi traslucidi a evocare le case giapponesi, pareti che si aprono, si sollevano e mostrano un interno di casa o una ferrovia, oppure, accolgono in proiezione paesaggi.
Magistrale l’inserimento dell’illusione di movimento e attraversamento di spazi lontani da parte di protagonisti in realtà fermi in scena: esilarante la scenetta della pedalata in bici mentre le immagini del paesaggio si muovono dietro i personaggi: sembra una citazione ironica del finale del Molière della Mnouchkine o di Caccia al ladro di Hitchcock. Impossibile elencare tutte le soluzioni che vogliono evocare un mondo di luoghi lontani in fondo ricostruibili da poche tracce: un aeroporto immaginato da una proiezione di orari dal tabellone, un tavolo per la dogana che scompare sotto il pavimento per ricomparire un attimo dopo come tavolo da bar, un vernissage rappresentato da alcune proiezioni di immagini…. Il principio è che tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione, c’è un sotto, un sopra, un ancora più sotto e un ancora più sopra, un davanti, un dentro e un dietro da gestire in diretta e contemporaneamente all’azione dell’attore in scena. Straordinaria l’interpretazione delle attrici (Marie Michaud e la giovane Xiao Ling, danzatrice) e naturalmente di Lepage, insolito e ironico avventore della cultura e della storia cinese, che si aggira dentro una macchina-involucro che contiene i dubbi esistenziali di ognuno di noi.
L’incontro con Lepage
Per incontrare Lepage faccio le dovute richieste al direttore, Joel Gunzburger, che si offre di accompagnarmi e di presentarmi alla compagnia; la produzione era già stata avvisata della presenza di una giornalista italiana e mi intrattengo con il manager europeo, Richard Castelli che dirige Epidemic nell’attesa di incontrare Lepage; come sempre accade Lepage arriva direttamente nella hall del teatro alla fine dello spettacolo, rompendo ogni formalità e approfitta dell’occasione per incontrare amici, pubblico, appassionati, addetti ai lavori e giovani artisti, tutti quanti indistintamente senza appuntamenti di sorta. Invitata al party alla fine dello spettacolo sono proprio Castelli e Gunzburger a introdurmi a Lepage che si ricorda del nostro incontro in Francia e in Canada e per riprendere un nostro vecchio discorso sulla sua straordinaria capacità di esprimersi in molte lingue (tra cui il cinese…) mi presento direttamente in italiano e Lepage di fronte allo stupore di tutti parla tranquillamente in un ottimo italiano. La conversazione intorno al buffet è informale, breve ma densa di notizie utilissime.
Mi parla del fatto che sta seguendo contemporaneamente due progetti, uno con molti artisti in scena e Le dragon bleu. Si riferisce nel primo caso a Lipsinch e alle difficoltà dovute alla gestione di molti interpreti in scena. Gli piace pensare che i due progetti abbiano anche due obiettivi diversi: uno con un respiro tematico più collettivo e l’altro Le dragon bleu più intimista. L’attrice è un’amica, Marie Michaud con cui aveva già condiviso l’esperienza di scrittura della Trilogia, un’attrice eclettica che ha un repertorio anche comico. La scena ha molti elementi in comune con i suoi precedenti spettacoli ma Lepage mi rivela che ha scelto un giovane scenografo Michel Gauthier che ha lavorato con lui per la prima volta proprio a questo allestimento.
Non è ancora soddisfatto dell’effetto, la macchina è ancora dura, difficile, molte cose non funzionano bene perché lo spettacolo, come dice, è ancora enfant. La scena ha tutte queste rientranze, profondità, trabocchetti: gli chiedo se ancora una volta, è il doppio/maschera del personaggio. Mi risponde che effettivamente tutti i personaqgi sono uno specchio dell’altro, hanno elementi comuni anche se apparentemente sono distanti e la scena è lo specchio per eccellenza perché lo specchio è un momento di consapevolezza, di confronto. La vicenda è particolarmente drammatica e porta all’interiorità del personaggio perché - mi spiega Lepage - voleva esplorare una condizione dell’anima.
Ma il suo teatro è calligrafico? Lepage mi risponde che è vero, riconosce nella calligrafia un elemento del suo teatro: nella calligrafia conta il gesto oltre alla scrittura, l’armonia e l’equilibrio del corpo, l’opera finale ma anche la mano che scrive. Come considerare in questo spettacolo il rapporto tra la macchina e l’artista? La condizione di equilibrio è quella ideale tra macchina e attore in scena, mi spiega, ma ancora per questo spettacolo si sente lontano dal risultato migliore. E mi dà appuntamento a Londra, ottobre 2008 per il debutto definitivo.
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