BP2011 MATERIALI Segnali di Risorgimento? Una riflessione sulla dignità dei teatranti di Mino Bertoldo, fondatore e direttore artistico e organizzativo del Teatro Out Off di Milano
BP2011@Torino Dalla Lituania all’Africa Con una intervista a Marius Ivaškevičius in margine a Madagaskaras e alle sue utopie tragicomiche di Stefano Moretti
Il fotoromanzo del Risorgimento del teatro (secondo atto) La settima edizione delle Buone Pratiche a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di Paola Maria Di Martino, Silvia Limone, Sara Giurissa, Alessandra Di Nunno, Laura Pecci
Il fotoromanzo del Risorgimento del teatro (primo atto) La settima edizione delle Buone Pratiche a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di Paola Maria Di Martino, Silvia Limone, Sara Giurissa, Alessandra Di Nunno, Laura Pecci
BP2011@Torino RISORGIMENTO! Le Buone Pratiche del teatro 2011 (avant programme) di Redazione ateatro
www.ateatro.it presenta
Le Buone Pratiche del teatro 2011
Settima edizione
RISORGIMENTO!
a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
Sabato 26 febbraio 2011, ore 9.30-18.30
Teatro Cavallerizza Reale, via Verdi 9, Torino
(si ringrazia per l’ospitalità il Teatro Stabile di Torino)
Nel nostro paese il teatro, e in genere il mondo dello spettacolo, stanno attraversando un momento assai difficile.
La costante, progressiva riduzione del sostegno pubblico alla cultura, con la riduzione del FUS e i tagli ai bilanci degli enti locali, ha portato a un drammatico punto di non ritorno: il sistema è ormai al collasso, e dunque è necessario - o meglio inevitabile - invertire la rotta.
In secondo luogo, proprio a partire da queste difficoltà che spingono al cambiamento, riteniamo utile riflettere sull’identità del teatro italiano - o dei teatri italiani - in una fase delicatissima di transizione.
Con una "parola d'ordine" come “Risorgimento!”, mentre si celebra il 150° anniversario dell'unità d'Italia, la scelta di Torino come sede dell'incontro era pressoché obbligata, anche perché in questo momento la situazione teatrale piemontese, con le sue luci e le sue ombre, offre numerosi spunti di riflessione.
www.ateatro.it presenta
Le Buone Pratiche del teatro 2011
Settima edizione
RISORGIMENTO!
a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
Sabato 26 febbraio 2011, Teatro Cavallerizza Reale, Torino
si ringrazia per l’ospitalità il Teatro Stabile di Torino
Risorgimento!
Le Buone Pratiche del teatro
Avant-programme
09.00-09.30
Registrazione
09.30-09.40
Saluti e benvenuto
Evelina Christillin (Presidente, Teatro Stabile di Torino)
09.40-09.50
Introduzione. Le Buone Pratiche del Risorgimento!
Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
09.40-10.10
Locale, nazionale, globale: il teatro e l’identità italiana
Coordina Oliviero Ponte di Pino
Guido Davico Bonino Una drammaturgia nazionale? Una nazionale della drammaturgia?
Sergio Escobar (Direttore, Piccolo Teatro di Milano) Teatro e cittadinanza
Mario Martone (Direttore, Teatro Stabile di Torino) Allarme autocensura!
10.10-10.30
Lo stato delle cose
Ugo Bacchella (Fondazione Fitzcarraldo) Bollettino per i naviganti: ultima edizione
Alessandro Riceci (ZeroPuntoTre) Insorgere per risorgere. Pratiche di resistenza, diritti e nuovo welfare, modelli di sistema
10.30-10.45
Intermezzo a sorpresa
con la partecipazione straordinaria di Bruno Gambarotta
10.45-12.10
Il caso Torino e il sistema Piemonte Coordina Mimma Gallina
1. Le politiche per la cultura Fiorenzo Alfieri (Ass. Cultura, Comune di Torino)
Ugo Perone (Ass. Cultura, Provincia di Torino)
Luca Cassiani (presidente V Commissione, Comune di Torino)
2. Che cosa sta succedendo? Giordano Amato Dieci anni di residenze
Graziano Melano Torino capitale del teatro ragazzi?
Luciano Nattino L'evoluzione delle residenze: un caso
Beppe Rosso La genesi del Sistema Teatro Torino e i suoi possibili sviluppi
Gabriele Vacis Il canto per Torino
12.10-13.20
Da Torino all’Europa: parliamo di Festival
coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
Partecipano
Sergio Ariotti (Festival delle Colline Torinesi)
Alessandra Belledi e Lisa Gilardino (Tre per uno: la rete dei festival di Parma)
Silvia Bottiroli (Festival di Santarcangelo)
Natalia Casorati (Mosaico)
Gigi Cristoforetti (Torinodanza)
Andrea Nanni (Armunia)
Beppe Navello (Fondazione Teatro Piemonte Europa)
Velia Papa (Inteatro)
PAUSA PRANZO
14.30-14.45
Laura Mariani Un Risorgimento teatrale
14.45-15.30
Il migliore dei bandipossibili
a cura di Giovanna Marinelli
Alessandra Narcisi e Sabrina Gilio I bandi per il teatro: una ricerca per le Buone Pratiche
Matteo Pessione (Fondazione CRT) Le fondazioni bancarie e i bandi: l'esperienza della Fondazione CRT Paolo De Santis (Tecnologia Filosofica) e Marco Maria Linzi (Teatro della Contraddizione) I bandi, pro e contro
15.30-15.40
Intermezzo. Il burlesque come Buona Pratica dell'autofinanziamento?
starring Federica Fracassi
15.40-17.15
Le Buone Pratiche della crisi
Costi di produzione in crescita, finanziamenti tagliati, investitori latitanti, critica marginalizzata, pubblico disorientato: come reagire?
Coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino.
Commenta Giulio Stumpo
Marco Geronimi Stoll Introduzione: lo smarketing applicato al teatro
Angelo Berlangeri (Ass.Cultura, Regione Liguria) Verso un circuito teatrale ligure
Raimondo Arcolai Nuove pratiche distributive nel settore della danza
Daniele Biacchessi Un business model per il teatro civile
Elena Cometti La rete dei teatri di Resilienza
Claudia Cannella Per una carta dei diritti e dei doveri del critico
Valeria Ottolenghi Un premio alla critica?
Renato Palazzi e Flavio Ambrosino La scena critica: Goethe schiatta!
Claudia Allasia Artisti per casa, giardino e cortile
Alessio Bergamo Postop
Renato Cuocolo15.000 spettatori in un appartamento
Claudia Di Giacomo e Roberta Scaglione Diagonale artistica: dieci anni di PAV
Elena Guerrini Il teatro al tempo dei GAS (Gruppi di Acquisto Solidale)
17.15-18.25
Dibattito
18.25-18.30
Conclusioni
Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
COME ARRIVARE ALLE BUONE PRATICHE
Da Porta Susa tram n. 13 e bus n. 56 - fermata via Po angolo via Rossini
Da Porta Nuova Bus n. 61 - fermata via Accademia Albertina ang. via Po (ma volendo a piedi sono 10 minuti)
Parcheggi
Valdo Fusi, Parcheggio Vittorio (Pza Vittorio), parcheggio San Carlo (P.za San Carlo)
NUTRIRSI ALLE BUONE PRATICHE?
Pranzo al CIRCOLO nel Cortile della Cavallerizza
(posti limitati)
Piatto "tris” con pasta, secondo, contorno, acqua, vino, caffè €. 12,00
(da pagare al banchetto della reception)
MODALITA’ DI ISCRIZIONE
Le Buone Pratiche del teatro è una iniziativa libera, indipendente e gratuita.
Per partecipare è sufficiente iscriversi, inviando una mail a
info@ateatro.it
specificando le generalità e la professione, e se possibile accludendo un breve curriculum.
BP2011@Torino Come sta il teatro italiano? Per scoprirlo bisogna andare alle Buone Pratiche di Reazione ateatro
26 febbraio 2011
Cavallerizza Reale, Torino
Il teatro italiano, messo in ginocchio dai drammatici tagli alla cultura (la riduzione del Fondo Unico per lo Spettacolo ma anche i vincoli alla spesa degli enti locali), sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia. Ma al di là dei comprensibili lamenti e delle giuste recriminazioni, i teatranti italiani si stanno rimboccando le maniche per cercare soluzioni inventive e lanciare nuovi progetti: innovazioni creative e sostenibili, sia dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista dell’ecologia della cultura, che possano contribuire a superare le attuali difficoltà. Sono “Le Buone Pratiche del Teatro” e se ne parla il 26 febbraio prossimo a Torino.
L’iniziativa, indetta dal sito www.ateatro.it (che a gennaio ha festeggiato il decimo compleanno) e curata da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, si terrà a Torino, alla Cavallerizza Reale (via Verdi 9, Torino) il prossimo 26 febbraio, ospitata dal Teatro Stabile.
Dalle 9.30 alle 18.00, sarà una giornata ricchissima di interventi, idee, proposte.
Hanno già confermato la loro partecipazione, tra gli altri, Fiorenzo Alfieri (Ass. Cultura Comune di Torino), Sergio Ariotti, Antonio Attisani, Ugo Bacchella, Claudia Cannella, Luca Cassiani (presidente V Commissione Comune di Torino), Patrizia Coletta, Gigi Cristoforetti, Guido Davico Bonino, On. Emilia Di Biasi, Sergio Escobar, Federica Fracassi, Marco Geronimi Stoll, Isabella Lagattolla, Laura Mariani, Giovanna Marinelli, Mario Martone, Fernando Mastropasqua, Graziano Melano, Luciano Nattino, Beppe Navello, Renato Palazzi, Velia Papa, Ugo Perone (Ass. Cultura Provincia di Torino), Matteo Pessione, Andrea Rebaglio, Giulio Stumpo, Gabriele Vacis...
Parteciperanno dunque alla giornata di studio numerosissimi teatranti, ma anche politici, amministratori, critici e giornalisti, studiosi di teatro, rappresentanti di fondazioni bancarie. L’‘interesse e la vivacità dell’iniziativa è confermata dalla presenza fin dalla prima edizione di decine di giovani teatranti e di molti studenti.
Ormai le Buone Pratiche, giunte alla settima edizione, sono di fatto diventate gli “stati generali” del nostro teatro: uno spazio autonomo e indipendente, in cui ritrovarsi a scadenza annuale per fare il punto della situazione (con dati e analisi), per presentare idee e progetti innovativi, per creare reti.
La parola d’ordine di questa settima edizione è “Risorgimento!”: in primo luogo per ricordare, nel 150° anniversario dell’Unità, il ruolo del teatro nel processo di unificazione della penisola e nella creazione di un’identità nazionale; in secondo luogo perché quello che stiamo vivendo è un punto di non ritorno, un vicolo cieco dal quale è necessario risollevarsi con uno scatto dell’immaginazione e della volontà.
La scelta di Torino come sede di questa edizione delle “Buone Pratiche del Teatro” (dopo le tappe di Milano, Mira, Napoli e Bologna) è determinata anche dall’interesse che suscitano in questo momento il “caso Torino” (una città che ha puntato molto sulla cultura) e in genere il sistema teatrale piemontese, con le sue luci e le sue ombre.
La giornata inizierà con la sezione dedicata a Teatro e identità, in un fase in cui i termini “locale”, “nazionale” e “globale” assumono nuovi significati; la seconda parte della mattinata sarà dedicata all’approfondimento sulla situazione di Torino e del Piemonte.
Nel pomeriggio, verranno presentate le Buone Pratiche vere e proprie, con quattro sezioni:
1. Il migliore dei bandi possibili (a cura di Giovanna Marinelli).
2. Le strategie di finanziamento e autofinanziamento tra pubblico, privato e mercato.
3. Fare rete, a livello organizzativo e produttivo ma anche a livello di movimenti.
4. Il rapporto con lo spettatore tra critica, marketing e smarketing.
Media partner www.studio28.tv che documenterà la giornata con anticipazioni, registrazione della giornate, servizi e commenti.
info
La partecipazione alla giornata è gratuita, ma è necessario iscriversi inviando una mail a info@ateatro.it.
Ulteriori informazioni e aggiornamenti sul sito http://www.ateatro.it (dove è consultabile anche il ricco database delle precedenti edizioni delle Buone Pratiche del teatro), sulla pagina Facebook di ateatro e sul sito del Teatro Stabile di Torino.
BP2011@Torino Un Risorgimento dello spettacolo Il 26 febbraio 2011 le Buone Pratiche del teatro a Torino ospiti del Teatro Stabile di Redazione ateatro
La settima edizione delle Buone Pratiche del teatro, a cura del sito ateatro (http://www.ateatro.it), si svolgerà a Torino sabato 26 febbraio, alla Cavallerizza Reale, e sarà ospitata dal Teatro Stabile di Torino.
Gli "stati generali" del teatro italiano
L'incontro, che nelle scorse sei edizioni ha toccato Milano, Mira (Ve), Napoli e Bologna, offre l'occasione per una riflessione complessiva sulla situazione dello spettacolo dal vivo nel nostro paese e sulle sue prospettive, con dati, inchieste, analisi, riflessioni. Particolare attenzione viene da sempre dedicata ai giovani e al ricambio generazionale.
L'iniziativa, libera, indipendente e autofinanziata (o meglio "zerofinanziata"), ha goduto di un crescente successo, fino ad assumere la funzione di "stati generali del teatro italiano".
Ogni anno alle Buone Pratiche si incontrano e si confrontano diverse centinaia di teatranti, attivi sia sul versante creativo (attori, registi, drammaturghi) sia su quello organizzativo, ma anche parlamentari, amministratori locali, funzionari pubblici, professori e studenti presso università, master e scuole di teatro...
Che cosa sono le Buone Pratiche
L'idea di partenza dei curatori dell'iniziativa, Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, è molto semplice: individuare, nella pratica dei teatranti italiani, sempre pronti a lamentarsi ma anche assai creativi, una serie di pratiche, progetti e iniziative sul versante della produzione, dell'organizzazione, del finanziamento, della comunicazione, che avessero ottenuto risultati positivi e che potessero essere replicate da altri, o allargate in un'ottica di collaborazione e sinergia.
Il programma della giornata
La parola d'ordine di questa settima edizione è Risorgimento! Allude al 150° anniversario dell'unificazione, che si celebra nel 2011, ma anche alle gravissime difficoltà di un settore che i progressivi tagli stanno sospingendo verso il tracollo: dunque è indispensabile un rilancio, un risorgimeto, appunto.
La giornata del 26 febbraio 2011, dalle 9.30 alle 18.00, sarà articolata in tre momenti principali.
Una prima sezione sarà dedicata al rapporto tra teatro e identità: un’identità ormai stratificata e complessa, insieme globale, nazionale e locale.
Ampio spazio verrà poi dedicato alla situazione del teatro a Torino e in Piemonte, in un momento cruciale.
Nel pomeriggio verranno presentate le Buone Pratiche vere e proprie (che vengono pubblicate in abstract sul sito). La prima sezione, a cura di Giovanna Marinelli, proverà a definire, attraverso una serie di esempi, "Il migliore dei bandi possibili". Le altre saranno dedicate rispettivamente a:
- le strategie di finanziamento e autofinanziamento tra pubblico, privato e mercato;
- fare rete, a livello organizzativo e produttivo ma anche a livello di movimenti;
- il rapporto con lo spettatore tra "critica, marketing e smarketing".
In una giornata che sarà ricchissima di voci, idee, analisi e progetti, un unico vincolo: gli interventi devono durare dieci munti al massimo, le Buone pratiche devono essere illustrate in meno di sette minuti. A scandire il tempo, una batteria di segnatempo da cucina.
Per chi vuole partecipare
L'iniziativa è gratuita. Per partecipare ai lavori è sufficiente iscriversi inviando una mail a info@ateatro.it.
Ulteriori informazioni e aggiornamenti sul sito http://www.ateatro.it (dove è consultabile anche il ricco database delle precedenti edizioni delle Buone Pratiche del teatro), sulla pagina Facebook di ateatro (http://www.facebook.com/ateatro) e sul sito del Teatro Stabile di Torino (http://www.teatrostabiletorino.it).
BP2011@Torino Come sta il teatro italiano? Per scoprirlo devi venire alle Buone Pratiche del teatro Il 26 febbraio 2011 a Torino di Reazione ateatro
Il teatro italiano, messo in ginocchio dai drammatici tagli alla cultura (la riduzione del Fondo Unico per lo Spettacolo ma anche i vincoli alla spesa degli enti locali), sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia. Ma al di là dei comprensibili lamenti e delle giuste recriminazioni, i teatranti italiani si stanno rimboccando le maniche per cercare soluzioni inventive e lanciare nuovi progetti: innovazioni creative e sostenibili, sia dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista dell’ecologia della cultura, che possano contribuire a superare le attuali difficoltà. Sono “Le Buone Pratiche del Teatro” e se ne parla il 26 febbraio prossimo a Torino.
L’iniziativa, indetta dal sito www.ateatro.it (che a gennaio ha festeggiato il decimo compleanno) e curata da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, si terrà a Torino, alla Cavallerizza Reale (via Verdi 9, Torino) il prossimo 26 febbraio, ospitata dal Teatro Stabile.
Dalle 9.30 alle 18.00, sarà una giornata ricchissima di interventi, idee, proposte.
Hanno già confermato la loro partecipazione, tra gli altri, Fiorenzo Alfieri (Ass. Cultura Comune di Torino), Sergio Ariotti, Antonio Attisani, Ugo Bacchella, Claudia Cannella, Luca Cassiani (presidente V Commissione Comune di Torino), Evelina Christillin, Patrizia Coletta, Gigi Cristoforetti, Guido Davico Bonino, On. Emilia Di Biasi, Sergio Escobar, Federica Fracassi, Marco Geronimi, Isabella Lagattolla, Laura Mariani, Giovanna Marinelli, Mario Martone, Fernando Mastropasqua, Graziano Melano, Luciano Nattino, Beppe Navello, Renato Palazzi, Velia Papa, Ugo Perone (Ass. Cultura Provincia di Torino), Matteo Pessione, Andrea Rebaglio, Giulio Stumpo, Gabriele Vacis...
Parteciperanno dunque alla giornata di studio numerosissimi teatranti, ma anche politici, amministratori, critici e giornalisti, studiosi di teatro, rappresentanti di fondazioni bancarie. L’‘interesse e la vivacità dell’iniziativa è confermata dalla presenza fin dalla prima edizione di decine di giovani teatranti e di molti studenti.
Ormai le Buone Pratiche, giunte alla settima edizione, sono di fatto diventate gli “stati generali” del nostro teatro: uno spazio autonomo e indipendente, in cui ritrovarsi a scadenza annuale per fare il punto della situazione (con dati e analisi), per presentare idee e progetti innovativi, per creare reti.
La parola d’ordine di questa settima edizione è “Risorgimento!”: in primo luogo per ricordare, nel 150° anniversario dell’Unità, il ruolo del teatro nel processo di unificazione della penisola e nella creazione di un’identità nazionale; in secondo luogo perché quello che stiamo vivendo è un punto di non ritorno, un vicolo cieco dal quale è necessario risollevarsi con uno scatto dell’immaginazione e della volontà.
La scelta di Torino come sede di questa edizione delle “Buone Pratiche del Teatro” (dopo le tappe di Milano, Mira, Napoli e Bologna) è determinata anche dall’interesse che suscitano in questo momento il “caso Torino” (una città che ha puntato molto sulla cultura) e in genere il sistema teatrale piemontese, con le sue luci e le sue ombre.
La giornata inizierà con la sezione dedicata a Teatro e identità, in un fase in cui i termini “locale”, “nazionale” e “globale” assumono nuovi significati; la seconda parte della mattinata sarà dedicata all’approfondimento sulla situazione di Torino e del Piemonte.
Nel pomeriggio, verranno presentate le Buone Pratiche vere e proprie, con quattro sezioni:
1. Il migliore dei bandi possibili (a cura di Giovanna Marinelli).
2. Le strategie di finanziamento e autofinanziamento tra pubblico, privato e mercato.
3. Fare rete, a livello organizzativo e produttivo ma anche a livello di movimenti.
4. Il rapporto con lo spettatore tra critica, marketing e smarketing.
Media partner dell’iniziativa è www.studio28.tv che documenterà la giornata con anticipazioni, registrazione della giornate, servizi e commenti.
La partecipazione alla giornata è gratuita, ma è necessario iscriversi inviando una mail a info@ateatro.it.
Ulteriori informazioni e aggiornamenti sul sito http://www.ateatro.it (dove è consultabile anche il ricco database delle precedenti edizioni delle Buone Pratiche del teatro), sulla pagina Facebook di ateatro (http://www.facebook.com/ateatro) e sul sito del Teatro Stabile di Torino (http://www.teatrostabiletorino.it).
BP2011@Torino Come faccio a presentare la nostra Buona Pratica del teatro? Istruzioni per l'uso in vista dell’incontro del 26 febbraio di Redazione ateatro
I criteri in base ai quali operiamo la selezione si riferiscono:
a) al concetto stesso di Buona Pratica;
b) ai temi individuati per la giornata del 26 febbraio (perché non possiamo parlare di tutto!).
Che cosa è una Buona Pratica?
Per Buona Pratica (da ora in poi BP) si intende, nella letteratura sull’argomento, tutto ciò che all'interno di un determinato contesto consente il raggiungimento di un risultato atteso, misurato nella sua efficienza e nella sua efficacia, può quindi essere assunto come modello ed generalizzato e applicato ad altri contesti.
Questa definizione può valere per la sanità, l’ambiente, la pubblica amministrazione, la formazione, l'agricoltura, il turismo... e anche il teatro.
Tra gli elementi chiave che identificano una BP ci sono dunque:
- la riproducibilità;
- la sostenibilità, sia dal punto di vista finanziario sia nell'ottica dell'"ecologia" dell'ambiente teatrale;
- etica.
La metodologia delle BP prevede diverse fasi:
- analisi dei bisogni e individuazione degli obiettivi;
- definizione della metodologia;
- trasferimento del know how ed eventuale creazione di rete o di reti;
- monitoraggio e divulgazione dei risultati.
Insomma, presentare una BP non vuol dire “Quando sono stato bravo a realizzare questo e quest’altro” (o semplicemente “Quanto sono stato bravo a resistere, resistere, resistere!”).
Presentare una BP significa raccontare un obiettivo concreto che vi siete posti (e perché); come avete fatto a raggiungerlo e con quale metodologia qualcun altro può riprodurre questa esperienza in un diverso contesto.
I temi individuati
Sono quelli indicati su www.ateatro.it in dicembre.
Ricordiamo che dopo una mattina dedicata alla riflessione sui temi di "teatro e identità" e sulla "situazione del teatro a Torino e in Piemonte", nel pomeriggio le BP vere e proprie si articoleranno in quattro sezioni, incenrate su questi temi:
1. Il migliore dei bandi possibili (a cura di Giovanna Marinelli).
2. Le strategie di finanziamento e autofinanziamento tra pubblico, privato e mercato.
3. Fare rete, a livello organizzativo e produttivo ma anche a livello di movimenti.
4. Il rapporto con lo spettatore tra critica, marketing e smarketing.
Come presentare una Buona Pratica
Vi invitiamo a preparare una breve scheda (una-due cartelle, 2000-4000 battute), impostata secondo lo schema sopra indicato, individuando l'ambito tematico e di inviarla entro il 25 gennaio info@ateatro.it (indicate il titolo della BP nell'oggetto).
Tutte le schede verranno pubblicate sul sito (insomma, anche quelle che non verranno presentate il 26) e dunque farano parte dela database delle BP.
www.ateatro.it individuerà in tempo utile le BP che verrann presenate e discusse il 26 febbraio. Ricordiamo che la presentazione live della BP non dovrà durare più di 7 minuti (secondo l’implacabile legge del peperone!)
Ricordiamo infine che
- l'iniziativa è gratuita (oltre che zerofinanziata).
- per partecipare ai lavori è sufficiente iscriversi inviando una mail a info@ateatro.it
- ulteriori informazioni e aggiornamenti sul sito http://www.ateatro.it (dove è consultabile anche il ricco database delle precedenti edizioni delle Buone Pratiche del teatro), sulla pagina Facebook di ateatro (http://www.facebook.com/ateatro) e sul sito del Teatro Stabile di Torino (http://www.teatrostabiletorino.it).
BP2011 MATERIALI Dieci anni di www.ateatro.it Alcune considerazioni di Oliviero Ponte di Pino
www.ateatro.it è nato dieci anni fa da una frustrazione e dalla percezione di un’opportunità.
La frustrazione. A partire dagli anni Ottanta, sui mass media il teatro, o meglio la cultura dello spettacolo, è stato marginalizzato, relegato in spazi sempre più piccoli; nel contempo le riviste (non solo quelle di teatro) incontravano difficoltà distributive sempre maggiori.
L’opportunità. Negli anni Novanta ha iniziato a svilupparsi la rete, in Italia con qualche ritardo.
Nel 1999 avevo aperto un sito personale, www.olivieropdp.it, dove pubblicavo testi sul nuovo teatro (e su altro): quello che avevo scritto negli ultimi vent’anni e quello che via via scrivevo. Questo “proto-blog” si rivolgeva al pubblico generico degli appassionati di teatro (con informazioni, critica e approfondimenti), ma anche agli addetti ai lavori (con un spazi di approfondimento ed excursus storici) e ai giovani (all’epoca non c’era quasi bibliografia sul nuovo teatro italiano).
Dopo un anno, ho cercato di federare altri siti affini al mio, per creare un mini-portale italiano dedicato al nuovo teatro, ma senza fortuna. Un’altra frustrazione...
Verso la fine del 2000, Mario Martone fu costretto a dare le dimissioni dalla direzione del Teatro di Roma: appena iniziai raccontare la vicenda sul mio sito, cominciarono ad arrivarmi decine di mail di commento e riflessione, che ho subito pubblicato. Insomma, c’era vita su internet...
Ho deciso che andare avanti da solo alla lunga sarebbe diventato noioso, e ho cercato di immaginare come. Poche settimane dopo, il 14 gennaio del 2001 (un giorno prima che andasse online Wikipedia, come ho scoperto di recente), ho messo online in numero zero della webzine ateatro. Ho scritto tutto da solo anche ateatro1, invece in ateatro2 non ho scritto una riga perché hanno iniziato ad arrivarmi contributi. In pochi mesi si è strutturato un nucleo di collaboratori, che è diventato un gruppo di amici e una redazione: li ringrazio tutti (l’elenco è lungo), ma devo citare Annamaria Monteverdi, la studiosa italiana più autorevole del rapporto tra scena e tecnologie, che mi ha affiancato nella cura della rivista, facendosi anche carico della pionieristica sezione “Teatro & nuovi media”.
L’intuizione da cui è nato www.ateatro.it era banale: un sito dedicato al teatro e in particolare al nuovo teatro, con testi in italiano (ai tempi la rete era pressoché solo in inglese) e all’inizio senza immagini (evitando insomma di cedere alla pseudoretorica del web), che esplorasse forme inedite per la critica teatrale (qualche tempo fa ci siamo chiesti: “E’ possibile usare Google maps per fare critica e cultura del teatro?” La risposta è online...). In una prima fase, abbiamo svolto anche una funzione di alfabetizzazione: vent’anni fa i teatranti non sapevano quasi che esistesse il web e tendevano a diffidavare delle nuove tecnologie.
Tra il 2001 e il 2007 la webzine ha prodotto 115 numeri, in pratica uno ogni quindici-venticinque giorni, con periodicità elastica anche a seconda di quello che accadeva. Abbiamo cercato di pubblicare una rivista rigorosa, con testi di alto livello ma sempre leggibili. Al tempo stesso www.ateatro.it è fin dalla fondazione una rivista militante, con precise posizioni sul fronte sia estetico sia politico-istituzionale. Il sito è dunque caratterizzato da una costante attenzione all’attualità, tanto è vero che pubblica anche una rubrica di pettegolezzi e indiscrezioni, firmata dall’adorabile Perfida de’ Perfidis. Per quanto riguarda il metodo critico, privilegiamo, rispetto alle singole opere, il percorso degli artisti che amiamo e che ci interessano. Abbiamo realizzato diversi numeri monografici di grande impegno e impatto: il mito, la narrazione, Shakespeare, Beckett, Julian Beck, Marisa Fabbri, l’expanded theatre... Nel corso di questi anni, abbiamo ospitato testi inediti per l’Italia o interviste di artisti e critici come Eugenio Barba, Béatrice Picon-Vallin, Marcel.lí Antuñez-Roca, Robert Lepage, Gary Bracket...
In parallelo, il sito ha seguito l’evoluzione parallela del web, dalla sua preistoria nel vecchi millennio - per così dire – fino a oggi, arricchendosi di nuove funzionalità e sezioni. Per cominciare, abbiamo attivato una mailing list e una newsletter. Poco dopo è nato il forum, assai frequentato e spesso “infiammato”. Le pagine del sito da statiche sono diventate dinamiche, con un database gestito da un software freeware in asp. Via via che uscivano i numeri della webzine, in questo database si è sedimentato un archivio, che abbiamo reso interamente ricercabile: attualmente sono disponibili circa 2000 tra saggi, interviste, articoli, notizie, inchieste.. Nel corso di questi anni, ci siamo posti costantemente il problema dell’organizzazione e dell’accessibilità delle informazioni. Quando la massa di materiale è diventata eccessiva per orientarsi, abbiamo pensato a uno strumento più immediato, una sorta di enciclopedia. Dunque abbiamo “taggato” i record del database, per dar forma alla ate@tropedia, che conta ormai diverse centinaia di voci dedicate soprattutto grandi creatori della scena contemporanea, ma con approfondimenti di carattere generale e incursioni nella storia: per esempio le riviste teatrali, il teatro civile, il comico e il tragico.
Nel 2009, con l’esplosione dei social network, abbiamo creato un gruppo e una pagina su Facebook, dove abbiamo in pratica “traslocato” il vecchio forum, che era diventato troppo faticoso da gestire, a causa di spam, hacking, trolls, e i conseguenti rischi di querele. Ci siamo liberati di alcuni inquilini molesti, ma per altri aspetti è stato un impoverimento. I social network, con la logica del “Mi piace” e dei tweet, hanno abbassato la qualità dell’interazione in rete. Ma è stato anche un passo inevitabile: www.ateatro.it cerca di seguire e “testare” l’evoluzione della rete, sia dal punto di vista del modello di comunicazione e interazione, sia da punto di vista dello sviluppo degli strumenti software.
Ho programmato da solo l’intera struttura del sito, fin dalla prima homepage in html, riga di codice dopo riga di codice, utilizzando alcuni freeware. Questa scelta autarchica ha diverse motivazioni. La prima è totalmente personale: programmare è un esercizio zen che mi rilassa, e quando qualcosa funziona mi arriva un lampo di felicità... Ma la scelta di programmare “in casa” ha ovviamente anche altre ragioni. In primo luogo, quando è nato www.ateatro.it si pensava che la rete fosse (e dovesse restare) uno spazio democratico ed egualitario, dove costruire modelli di comunicazione alternativi, al di fuori degli oligopoli della comunicazione. Il look “artigianale” del sito è un vezzo, ma vuole anche essere un segno che rimanda a quegli ideali. In secondo luogo, la “autoprogrammazione” consente di mantenere un controllo totale sui contenuti dal punto di vista del diritto d’autore (i contenuti di qualità sono secondo noi il principale asset di www.ateatro.it), e soprattutto di mantenere il sito molto flessibile e sempre adattabile: una struttura modulare che può adeguarsi rapidamente a nuove esigenze, in base alle richieste di chi lo frequenta, all’evoluzione della rete, alle nostre intuizioni, in un esperimento che ormai va avanti da dieci anni.
Dietro questa autarchia ingegneristica c’è anche, ovviamente, una giustificazione economica: così www.ateatro.it ha in pratica costo zero. Questo ci ha permesso di mantenere il bilancio in pareggio: ZICZ, cioè zero incassi, ma anche costo zero! Al momento, purtroppo, per un sito del genere il ZICZ è purtroppo l’unico business model sostenibile. Ovviamente un’economia di questo genere pone grossi limiti, anche rispetto alla concorrenza di siti che hanno ricchi sponsor: non siamo in grado di pagare i collaboratori (come moltissime altre strutture del genere, su carta e sul web), le nostre strutture software sono primitive (ma spero efficaci), e dunque non possiamo crescere più di tanto. Ma questo non è per noi un vero handicap. Non abbiamo mai pensato di dover coprire “tutto il teatro”, installando una rete di collaboratori nelle varie città d’Italia: quello che ci interessava e ci interessa è proporre un metodo di lavoro, una serie di modelli comunicativi e interpretativi, un certo modo di leggere gli spettacoli e il percorso di compagnie e gruppi, un preciso sguardo sulla realtà teatrale italiana e internazionale e in generale sulla politica culturale nel nostro paese. Ma senza avere ambizioni di completezza.
Il problema della sostenibilità economica di un’informazione indipendente e di qualità in rete non riguarda solo www.ateatro.it: interessa anche le più prestigiose testate cartacee, a cominciare dai maggiori quotidiani. Si calcola che per ogni dollaro di pubblicità perso in questi anni da giornali e riviste su carta, la rete permetta agli editori di recuperare solo 2 centesimi (fermo restando che produttori di hardware e software, le varie telecom e gli aggregatori tipo Google diventano miliardari). In prospettiva, il fatto che i produttori (e gli editori) di contenuti lavorino gratis (o quasi) costituisce un grave rischio per la democrazia: le uniche alternative sono il sostegno pubblico, o in alternativa la dipendenza totale da inserzionisti pubblicitari o da mecenati.
Collegato a questo c’è un altro rimpianto – più sofferto, visto che incide sulla “vocazione pedagogica” del sito. Con una struttura del genere è molto difficile far crescere collaboratori giovani: è un processo che richiede tempo ed energie, che purtroppo non riusciamo ad avere.
Malgrado queste ombre, che mi pare corretto segnalare, dopo dieci anni le note positive sono molto più numerose. www.ateatro.it attira da anni un flusso di navigatori costante, dell’ordine dei 10.000 visitatori unici al mese (più i contatti su Facebook). Al di là dei numeri, che sono ovviamente quell di una testata di nicchia, c’è l’autorevolezza di www.ateatro.it: il sito viene regolarmente consultato dagli “amici”, ma anche dai “nemici”, attivi nel teatro, per la tempestività delle informazioni e la qualità dei contenuti.
La riprova più clamorosa è il successo delle “Buone Pratiche del teatro”, un’iniziativa che giunge quest’anno alla settima edizione (a Torino il 26 febbraio 2011, ospitata dal Teatro Stabile). Le Buone Pratiche riflettono l’attenzione costante all’economia e alla politica della cultura: un filone seguito anche grazie a Mimma Gallina, la massima esperta di organizzazione teatrale italiana, che è con Annamaria Monteverdi la seconda “colonna” del sito. Ogni anno le “Buone Pratiche del teatro” raccolgono centinaia di partecipanti (teatranti di tutti i filoni e delle varie generazioni, ma anche uomini politici, amministratori, giornalisti, studiosi e studenti di teatro...) e sono ormai diventate gli “stati generali del teatro italiano”: un’iniziativa che può funzionare solo se chi la organizza viene considerato indipendente e garantisce libertà al dibattito.
Un’altra conferma dell’autorevolezza della webzine, che ci ha dato grande soddisfazione, è arrivata dalla Consulta Universitaria del Teatro, che raccoglie i docenti della materia: nelle sue linee guida ha inserito www.ateatro.it tra le riviste da tenere in alta considerazione per valutare i candidati ai concorsi universitari. Del resto, i testi pubblicati da www.ateatro.it sono spesso utilizzati in corsi e master universitari e vengono regolarmente citati in volumi e saggi sul teatro contemporaneo, oltre che in numerose tesi universitarie e di dottorato
Sono alcuni indizi, ai quali aggiungerei la pubblicazione del volume Il meglio di ateatro 2001-2003 (a cura di Oliviero Ponte di Pino e Annamaria Monteverdi, il Principe Costante, 2003): nel loro insieme, dimostrano che la rivista non è confinata nel virtuale della rete, ma ha un impatto sul mondo “reale”.
Per il futuro, si tratta di resistere, insistere e migliorare. Continuare a fare quello che abbiamo fatto finora, restando fedeli ai nostri principi, alle nostre ispirazioni, ma reinventandoci ogni volta in base a quello che accade “nel mondo” e “nella rete”. Grande attenzione al nuovo, con particolare sensibilità all’impatto delle nuove tecnologie, ma con la consapevolezza del passato, dalla storia e dall’essenza profonda del teatro, a cominciare della “tradizione del nuovo” delle avanguardie del Novecento. Un altro punto di forza, e un elemento da approfondire, è la natura “molteplice” di www.ateatro.it: che è un sito web e una rivista, naturalmente, e dunque una fonte di contenuti e informazioni (a volte anche di scoop); ma è anche una comunità partecipata; un archivio e una banca dati sempre disponibile; un’officina in grado di elaborare, progettare e realizzare iniziative culturali e spettacolari.
Il collo di bottiglia resta sempre il business model. Abbiamo spesso discusso se dare al nostro progetto una struttura più ambiziosa, anche dal punto di vista finanziario, per recuperare qualche briciola di pubblicità o di finanziamento pubblico o attrarre impronabili sponsor. Alla fine – e mi assumo la responsabilità della scelta – abbiamo preferito restare “leggeri”. Il rischio sarebbe stato quello di impiantare una struttura che ha costi di gestione che assorbirebbero in pratica tutte le risorse che riusciremmo a raccogliere, rendendoci in qualche misura ricattabili. La nostra testarda povertà, se ha diversi evidenti svantaggi, finora ci ha garantito la massima indipendenza da poteri, caste e cricche: è un’indipendenza riconoscibile e riconosciuta, che alcuni di noi pagano magari a livello delle carriere personali, ma che fa parte del nostro dna.
In un paese come l’Italia questa libertà è un lusso che non ha prezzo e che cerchiamo di preservare.
BP2011 MATERIALI Basta sperperare denaro pubblico in cultura e spettacolo! O no? In anterpima l'intervento per "Euterpe" di Oliviero Ponte di Pino
Alcune ragioni per dare (e per non dare) soldi pubblici al teatro e alla cultura
Perché mai il potere pubblico deve finanziare la cultura e in particolare il teatro?
In passato è accaduto per diverse ragioni, che spesso si sono intrecciate, sovrapposte e magari contraddette.
1. Il potente di turno promuove e finanzia lo spettacolo per rendere visibile il proprio potere e glorificare la propria magnificenza, oltre che per trasmettere messaggi al popolo. Il consenso si costruisce anche con i circenses: lo sapevano gli imperatori romani, lo sanno gli assessori alla cultura di tutti i capoluoghi di provincia italiani. Questo “teatro di stato” è un'arte di propaganda necessaria a tutti i regimi. Con un’avvertenza: almeno dagli anni Trenta, i dittatori hanno capito che è più efficace concentrare le energie verso forme d’arte più efficaci a livello di massa (radio, cinema, tv...). Anche se poi sarebbe troppo pericoloso abbandonare il pubblico ai lazzi dei teatranti: ma per tenere il settore sotto controllo basta un calibrato meccanismo di sovvenzioni e censure.
2. Il governo può decidere di sovvenzionare il teatro così come sostiene altri settori economici in difficoltà, salvaguardando posti di lavoro e quote di pil. Di fatto è quello che è accaduto negli anni Venti, quando il cinema ha iniziato a sottrarre pubblico (e dunque incassi) allo spettacolo dal vivo. In Italia le prime sovvenzioni statali al teatro sono arrivate sotto il fascismo per due ordini di motivi: evitare il tracollo di un settore in crisi, e tenerlo sotto ricatto e condizionarlo attraverso la leva del finanziamento.
3. Una collettività può utilizzare la scena teatrale per costruire e preservare un’identità collettiva. E’ uno dei compiti dei teatri nazionali, che perpetuano la tradizione e il “canone” teatrale di una nazione, o al limite di una regione o di una città, o di una comunità etnica o linguistica. È un teatro che si rivolge a quella società nel suo insieme, considerandola un corpo unico che trasmettere a e cui trasmettere valori, e che in questi valori si riconosce e dunque li vuole trasmettere e tramandare. E’ dunque necessario finanziare il teatro per renderlo accessibile a tutti, anche alla fasce più disagiate, offrendo a ogni cittadino l’opportunità di godere di quei prodotti culturali. E’ il “teatro d’arte per tutti” e come “servizio sociale”, secondo gli ideali da cui sono nati nel secondo dopoguerra gli stabili in Italia. Non ha senso imporlo come “teatro dell’obbligo”, perché non è un servizio che i cittadini sono di fatto “obbligati” a utilizzare (come la scuola, la sanità o la nettezza urbana): tuttavia la collettività nel suo insieme può decidere che ogni cittadino merita la libertà d’accesso – o un accesso facilitato – a questo servizio. Il rischio è che di creare un “teatro museo” dove il canone e la tradizione si ritrovano imbalsamati (per certi aspetti, i teatri lirici – con il loro interesse quasi ossessivo per il repertorio del melodramma Ottocentesco, vanno in questa direzione).
4. Fin dalla dimensione del gioco infantile, l’esperienza della finzione e della maschera fa parte della costruzione dell’identità di ciascuno di noi e del nostro rapporto con la realtà. Da qui l’importanza del teatro per ragazzi, dentro e fuori dalle scuole: l’iniziazione alla visione teatrale, in una situazione più strutturata delle improvvisazioni ludiche dei bambini, ci rende più consapevoli di noi stessi e degli altri.
5. Lavorando con la maschera e con i meccanismi della finzione, sul rapporto tra l’io dell’interprete e il personaggio in scena, tra l‘essere e l’apparire, il teatro può diventare strumento di costruzione dell’identità (individuale e di gruppo) e di inclusione sociale. A questa funzione si riferiscono la pratica teatrale nelle scuole e nelle università (non gli spettacoli “per ragazzi”, ma gli spettacoli “dei ragazzi”), le diverse forme di teatro-terapia, la vasta area dell’animazione e del “teatro della differenza”, che però si caratterizza anche per il suo potenziale impatto sull’intero corpo sociale.
6. Da sempre il teatro fa parte dell'orizzonte della città europea. E’ un ingrediente essenziale della vita democratica della polis. La sala teatrale è il luogo in cui si raccoglie, e anzi si crea ogni sera, una provvisoria micro-comunità. Può dare spazio al dissenso e a dibattito in cui affonda le radici e trova linfa vitale la discussione politica. E’ dunque il luogo in cui la collettività si rispecchia, anche nelle contraddizioni più profonde (che siano di ordine politico, religioso, etico): il teatro nell’antica Grecia era anche questo. Ancora oggi, solo il teatro può assolvere a questo compito, perché è un luogo in cui si incontrano essere umani di carne e sangue, in scena e in platea, e non attraverso una mediazione tecnologica, che sfrutta invece simulacri di luce o fantasmi elettronici.
Ma nessuna società è un blocco monolitico: una comunità è fatta di differenze, fratture e dunque conflitti, espliciti e inespressi. Una collettività può utilizzare il teatro come una sonda per dar corpo, voce e volto alla diverse identità e micro-comunità che la compongono. Questo teatro non si rivolge dunque all'intero corpo sociale, ma può interessare frange più o meno marginali, per inserirle nel contesto complessivo del "discorso sociale". Attraverso pratiche come quelle del “teatro della differenza”, l'attività teatrale diventa così strumento di socializzazione per fasce di cittadini in qualche modo “svantaggiate” e dunque emarginate (carcerati, portatori di handicap o persone con disturbi psichici, immigrati....). E’ una scena della differenza, ma anche una scena dell’inclusione. Sul lungo periodo, l’ovvio rischio è di appiattire le differenze che l’hanno generato (anche se è di fatto impossibile immaginare una società totalmente omologata e omogenea: altre differenza continueranno dunque ad affermarsi).
7. Il teatro, e in genere le arti, danno forma a esperienze d’avanguardia: esperienze di confine nella sensibilità, nel linguaggio, nelle diverse dinamiche sociali, nelle frizioni generazionali, nelle forme espressive, nell’uso creativo delle nuove tecnologie, ma anche nei consumi. Queste esperienze rientrano dunque nel settore più ampio della Ricerca & Sviluppo, che va sostenuto. Permettono inoltre di rendere visibili e dunque di cogliere e incanalare linee di tendenza emergenti. Qui, due rischi: le microcomunità possono diventare autoreferenziali e chiudersi su sé stesse e sul proprio linguaggio; oppure possono semplicemente rivelarsi target per nuovi consumi.
8. Il teatro (e la cultura in generale) producono un indotto significativo, che può avere importanti ricadute economiche. Infiniti eventi ravvivano le località turistiche. L’offerta di spettacoli fa parte dell’appeal turistico di molte metropoli, da New York a Londra, da Parigi a Berlino, senza dimenticare la Scala e il Piccolo Teatro a Milano. Si calcola che, se ben investito, un euro speso per sostenere la cultura possa generare un indotto di ben sette euro di pil, con un significativo effetto moltiplicatore. E’ la logica che ha portato a creare molte manifestazioni estive: all’origine festival teatrali, poi la formula è stata ripresa e allargata ad altre forme, dalla letteratura alla filosofia...
Quattro motivi che spiegano perché dare soldi pubblici ai teatranti è inutile o addirittura dannoso
Se le ragioni per il cui il potere pubblico, più o meno democratico, ha scelto di sostenere il teatro e lo spettacolo in generale, sono anche numerose le motivazioni che possono spingere verso la scelta contraria: smettere di sperperare denaro pubblico in cultura e spettacolo, quando ci sono cose molto più urgenti e importanti da fare. L’elenco è banale: scuole, ospedali o case, la cassa integrazione nei momenti di crisi...
1. Un primo ordine di ragioni riguarda la “frivolezza” dello spettacolo, rispetto a un’economia considerata più “vera”, “concreta”, fatta di prodotti tangibili, con un preciso “valore d’uso” e non di prodotti immateriali, opere evanescenti ed effimere come uno spettacolo. E’ una posizione che potrebbe essere condensata nell’infelice frase attribuita al ministro Tremonti (che l’ha peraltro smentita): “Con la cultura non si mangia”, soprattutto quando la crisi morde. Ma è possibile pesare la frivolezza del teatro anche rispetto a settori della cultura considerati più “alti” e meno effimeri, e dunque prioritari, come biblioteche, archivi e musei.
2. Un secondo ordine di motivi discende invece dall'ideologia “mercatista” che ha dominato gli ultimi decenni. Su questa base, a regolare l’economia dovrebbe essere unicamente l’accordo tra chi vende e chi compra. L’intervento di denaro pubblico distorce inevitabilmente i meccanismi della concorrenza, favorendo alcuni prodotti (sovvenzionati, o maggiormente sovvenzionati) rispetto ad altri. La discrezionalità dei meccanismi di assegnazione crea inevitabilmente microcaste di parassiti, favoriti per ragioni politiche (appartenenza e fedeltà) o clientelari.
3. Un terzo ordine di motivi, collegato a questo ma più profondo, riguarda il rapporto ambiguo tra il potere e gli artisti. Se gli artisti, come i giornalisti, hanno come valore supremo la propria libertà, come è possibile conciliare questa necessità di autonomia con la dipendenza dal potere e dalla benevolenza dei potenti, che sia il feroce dittatore di turno o il bonario e colto assessore alla cultura? In altri termini, chi sostiene questa posizione ritiene che non sia possibile sciogliere il dilemma tra “sovvenzione e sovversione” (per citare il titolo del saggio di Rainer Rochlitz, Subversion et subvention. Art contemporain et argumentation esthétique, Gallimard, Parigi, 1994). Di fatto, come suggerisce anche Marc Fumaroli (Lo Stato culturale. Una religione moderna, Adelphi, Milano 1993), qualunque arte sovvenzionata dallo Stato è arte di regime, o rischia di esserlo.
4. Un quarto ordine di ragioni parte dalla constatazione che ormai il teatro (come forse la letteratura) è obsoleto rispetto all’evoluzione della mediasfera e della cultura, e dunque estraneo ai bisogni delle nuove generazioni. E’ la posizione espressa da Alessandro Baricco nella sua riflessione sui “barbari”: inutile sperperare denaro pubblico in carrozzoni come gli enti lirici e i teatri stabili, che hanno un pubblico anziano e destinato all’estinzione. Se proprio riteniamo necessario trasmettere un bagaglio culturale, un repertorio di valori, meglio concentrarsi su forme espressive e comunicative più adatte agli utenti di Playstation e iPad.
A cosa è servito, a cosa serve, a cosa può servire il teatro pubblico?
Un primo fatto: è mancata in questi anni una seria riflessione sul ruolo e sulla funzione del teatro pubblico, da parte degli operatori. Ci si è accontentati da un lato di definizioni programmatiche vecchie di decenni; dall’altro si è proceduto pragmaticamente con aggiustamenti che di fatto recepivano un allargamento della definizione e delle funzioni del teatro (e dunque ridefinivano il suo ruolo di servizio sociale).
Oggi, a riguardarle nel loro insieme, molte delle ragioni che spingono a finanziare il teatro e la cultura paiono obsolete, così come quelle che spingerebbero a non finanziarli. L’ondata liberista degli anni Ottanta e Novanta aveva drasticamente ridotto il peso dello Stato nell’economia, e la credibilità dell’intervento pubblico. Tuttavia la recente crisi economica ha messo in crisi anche quell’ideologia. Nell’attuale emergenza, l’intuizione keynesiana, che cercava di conciliare in una prospettiva di sviluppo lo Stato e il mercato, la politica, il capitale e il lavoro, ha perso la sua forza propulsiva. Insomma, i modelli che ci arrivano dal passato oggi sembrano inutili.
Ma forse proprio in questa crisi radicale sta il motivo principale per cui, oggi più che mai, pare necessario sostenere il teatro e la cultura in generale. Chi governa le sorti del nostro paese, e del mondo, ha orizzonti temporali estremamente ristretti. I politici pensano al massimo alle prossime elezioni (“Se non mi faccio rieleggere, come potrò realizzare il mio meraviglioso programma?”). I manager delle multinazionali hanno contratti triennali, e devono presentare relazioni di bilancio ogni tre mesi. I signori della moda inventano una nuova collezione due volte all’anno. I grandi successi del cinema e dell’editoria, che hanno richiesto agli artisti e ai produttori anni di lavoro, si decidono nel primo week end, quando si fanno i mega-incassi.
La cultura deve avere orizzonti temporali più ampi. Guarda al passato ma prova anche a guardare al futuro. Segue le proprie leggi interne, spesso imperscrutabili, e tuttavia mantiene un rapporto intimo, inestricabile con la realtà umana: la realtà di chi crea e la realtà di chi si confronta con i prodotti di questa creazione e ne gode.
La cultura inventa sogni e desideri, ma anche anticorpi. Diffonde senso critico. Insegna a fare un passo indietro, rispetto a sé e rispetto alla realtà che ci circonda. Ci spinge a guardare lontano. Il teatro è l’arte sociale che ci costringe a guardarci dentro, e insieme a guardare un po’ più lontano. In avanti o all’indietro. Sempre mettendo in gioco il corpo dell’attore e quello dello spettatore, nell’immediatezza di un “qui e ora” che solo il teatro può dare.
BP2011@Torino La sagra del peperone Le vedettes delle Buone Pratiche in anteprima esclusiva di Redazione ateatro
Il successo delle Buone Pratiche ha molti segreti. E molte vedettes. Una tra le più simpatiche è senz'altro il peperone, che ci accompagna dalla prima edizione.
Alle Buone Pratiche gli interventi devono essere chiari e sinetici. Alla chiarezza ci pensano gli oratori, ma per la sintesi cerchamo di aiutarli. Diciamo che devono bastare dieci minuti per le relazioni e sette minuti per la presentazione delle Buone Pratiche. Al massimo. Chi riesce a dire tutto quello che dire ancora più rapidamente, è davvero bravo.
Insomma, il peperone e i suoi fratelli danno il ritmo. Sono segnatempo da cucina più o meno gloriosi (uno arriva dal MoMA di New York, un altro da un rigattiere di piazzale Cuoco), e accompagnano giornate molto fitte e intense. Secondo dopo secondo, si arriva al fatidico scampanellio: caro relatore, hai fatto il tuo tempo, dice il peperone. Se ci hai convinto, bene. E in ogni caso, dopo lo squillo, avanti un altro. Non è un caso che il peperone e i suoi alter ego siano spesso al centro di gustose gag.
Insomma, sono diventate vere star. Sono loro le veline delle Buone Pratiche. Così abbiamo deciso di regalarvi in preview una piccola sfilata di peperoni & Co., prima dell'apertura del sipario. Davanti ad alcuni sipari storici di grande bellezza.
Insomma, ci vediamo a Torino. Anche con il peperone...
BP2011@Torino Il migliore dei bandi possibili La sessione speciale delle Buone Pratiche di Giovanna Marinelli
Il migliore dei bandi possibili
La gara ad evidenza pubblica è oggi lo strumento più utilizzato per l’affidamento di strutture culturali al fine di garantire trasparenza nelle scelte e pari opportunità ai potenziali interessati. Spesso questo strumento che opera su progetti creativi si rivela inadeguato. Perché ? Esiste “ il migliore dei bandi possibili”?
Torno, 25 febbraio 2011
In questi ultimi anni ,anche nel mondo del teatro così informale e marginale, hanno preso piede due parole provenienti da territori molto più formali, burocratici e strutturati: concorrenza e bandi.
I due termini sono effettivamente connessi tra loro. I bandi sono vissuti come garanzia di libera concorrenza, una difesa delle pari opportunità, una bandiera dell’impresa di spettacolo privata , una buona pratica di trasparenza contro clientele e nepotismi. L’opzione di affidare direttamente a strutture pubbliche o interamente partecipate da enti pubblici la gestione di spazi e /o attività di spettacolo , una pratica legittima sul piano amministrativo, è ormai considerata – con qualche ragione - come un modo per aggirare i vincoli e/o le lungaggini delle gare ad evidenza pubblica e per immettere finti giocatori nel mercato culturale, sempre più ristretto e in affanno .
Indubbiamente anche questo è un segnale del generale clima di sfiducia verso le pubbliche istituzioni, vissute ormai con sospetto rispetto alle scelte e criticate sul piano del rigore economico e dell’efficienza. Da un ruolo fortemente condizionante e dominante nel passato, l’intervento pubblico ha subito in questi ultimi anni un consistente ridimensionamento , che oggi sembra configurarsi sia come vero e proprio disimpegno sia come inadeguatezza (progettuale e tecnica)rispetto alla rapida evoluzione della società. L’effetto più vistoso- e che abbiamo tutti sotto gli occhi- è la perdita da parte della pubblica amministrazione, e più in generale della politica, delle funzioni strategiche identificabili nella cultura, funzioni di grande importanza per la collettività.
Se è vero che una politica pubblica rappresenta una serie di azioni sviluppate da una istituzione pubblica per il raggiungimento di un interesse collettivo oppure una serie di azioni che abbiano come impatto un qualche cambiamento nella società o nei cittadini, inutile dire quanto l’affidamento diretto di spazi e /o di attività a strutture pubbliche sia coerente quando risponde a obiettivi di rilevanza sociale e sostiene percorsi culturali innovativi, quando si colloca in una strategia culturale articolata e complessa che tiene conto di tutte le forze in campo e mira ad un equilibrio complessivo nel superiore interesse del cittadino; quanto invece questa pratica sia deplorevole se è solo una scorciatoia amministrativa o un vero e proprio escamotage per favorire alcuni o anche per calcolo elettorale: insomma, la responsabilità nel bene e nel male come sempre non è nello strumento, ma in chi lo utilizza e soprattutto per quale fine. Non è lo strumento bando che garantisce la libera concorrenza, ma la strategia che lo motiva e il rigore che lo applica.
Per affrontare un futuro dinamico e in rapida evoluzione, la prima preoccupazione non può che essere quella di capire a fondo la realtà alla quale ci si rivolge e riuscire a capitalizzarne la conoscenza. Ma questo non vale solo per le amministrazioni, ma anche per gli operatori cui spesso difetta aggiornamento e consapevolezza. Proprio gli operatori infatti dovrebbero vigilare sulla “qualità” dei bandi non chiedendo “soglie” basse o “paletti” flessibili, ma chiarezza di obiettivi e strumenti operativi ed economici adeguati cui rispondere con creatività.
“Dobbiamo occuparci del futuro: è il posto dove passeremo più tempo”, dicevano gli studenti di Berkeley
Il tema della concorrenza in ambito culturale va poi analizzato con un’ attenzione particolare alle caratteristiche del mercato culturale, che si muove in un ambito di beni immateriali, non riproducibili , non seriali, in cui il valore creativo è la vera unità di misura. La presenza dell’operatore pubblico nel mercato sembra motivato proprio da vari tipi di “ fallimenti “ del mercato culturale che hanno reso necessario l’intervento pubblico. Il fallimento è dovuto alle caratteristiche del bene servizio scambiato: opinabile e difficile il giudizio a priori sulla bontà del prodotto e impossibile effettuare confronti sulla qualità . Ricordiamo , inoltre,che hanno un ruolo non secondario in questo ambito anche quelle che gli esperti chiamano le ”esternalità economiche positive“, cioè i benefici prodotti dalle attività artistiche che non sono colti dal mercato. (A:Turrini)
In altre parole la contrapposizione tra un modello “liberista” di politica culturale e un modello “interventista” è semplicistica e non può che condurre a risultati modesti sul piano delle scelte politiche e di impresa. Come sempre la realtà è più complessa e articolate e ha bisogno di risposte multidirezionali, fortemente consapevoli e competenti da parte della pubblica amministrazione così come da parte degli operatori
Queste sono solo alcune considerazioni che qui ho voluto ricordare per sottolineare quanto sia articolato e in evoluzione il quadro strategico e quanto sia anomalo il mercato di cui parliamo, anche al fine di evitare di caricare i bandi di aspettative impossibili per quello che è, e rimane, uno strumento e non una panacea. Ma uno strumento importante se preparato accuratamente, applicato con intelligenza e monitorato con rigore.
Ed eccoci ai bandi. Indubbiamente l’accurata ricerca condotta da Alessadra Narcisi e Sabrina Gilio, che ringrazio per l’impegno, ci offre molti spunti di riflessione e costituisce una preziosa fonte di informazione anche per chi in futuro dovrà operare attraverso dei bandi.
Abbiamo già detto che i bandi son uno modalità operativa di garanzia per l’amministrazione/istituzione che li emana tanto quanto per chi concorrerà, ma a noi qui interessa capire e confrontarci sulla loro efficacia. Non crediamo infatti che il migliore dei bandi possibili sia quello che più tutela amministrazione/istituzione, né che lo sia quello che non si fa carico dei risultati e tendo solo a distribuire risorse.
Non crediamo dunque ai bandi fotocopia (e la ricerca ci dice che sono la maggioranza). Non ci piacciono i bandi al massimo ribasso perché non pertinenti ad una attività intellettuale, che non si può misurare con i consueti parametri di mercato . Non ci piacciono i bandi che hanno come unico obiettivo la conservazione dello status quo, perché non garantiscono innovazione e crescita culturale oltre alle pari opportunità. Non ci piacciono, dunque, i bandi in cui l’istituzione non si mette in gioco.
Sono, quelli sopra ricordati, casi estremi, ma praticati spesso, e, mi permetto di dire, in mala fede da parte delle pubbliche amministrazioni, non senza la complicità di quegli operatori(tanti!) che in parametri rassicuranti (anzianità, affidabilità amministrativa, ecc.) trovano garanzia di stabilità senza sforzi di rinnovamento e rilancio .
Poiché dobbiamo essere costruttivi, di seguito, vi sottoponiamo alcune sintetiche osservazioni che potrebbero contribuire a realizzare non certamente il migliore dei bandi possibili, ma contribuire alla realizzazione di uno strumento efficace di ricerca della soluzione più funzionale al raggiungimento di un obiettivo di politica culturale meditato e necessario.
In proposito, desidero sottolineare l’importanza di avere funzionari consapevoli e preparati non solo sul piano tecnico-amministrativo, ma anche su quello relazionale.
Il Prima (di stendere il bando)
La valutazione che si effettua prima della stesura del bando è fondamentale e si deve concentrare sulla rilevanza degli obiettivi e sulla coerenza tra l’analisi del contesto e il tipo di attività messa in gara. Lo scopo è quello di acquisire elementi sull’impatto che si aspetta e una base decisionale motivata rispetto al percorso migliore cui attenersi, relativamente, per esempio, al raggiungimento del target desiderato o all’utilizzo efficiente delle risorse.
In merito ecco alcuni punti
• Disporre di una analisi storica e economico-statistica del territorio e dell’ambito culturale nel quale il bando verrà ad operare
• Chiarire gli obiettivi politici e culturali che si intendono raggiungere
• Fare un confronto con gli stakeholder e con gli operatori potenzialmente interessati o coinvolti
• Individuare un personale amministrativo competente e sensibile non solo sul piano strettamente giuridico
Il bando (la stesura)
E’ questa una fase delicata e complessa, che solo un’adeguata preparazione – il “prima” di cui parlavamo – può agevolare. Ecco alcuni elementi che ritengo determinanti:
• Individuare un tempo congruo rispetto agli obiettivi prefissati per la realizzazione del progetto e fissare degli stadi di avanzamento
• Definire dei parametri di valutazione pertinenti agli obiettivi: per esempio l’entità delle garanzie economiche andrà commisurata alla esigenza o meno di aprire a giovani formazioni
• Fornire una griglia efficace all’interno della quale si dovrà collocare il progetto, agevolando per esempio le aggregazioni tra soggetti che utilizzano linguaggi diversi, la mobilità tra realtà similari nello stesso territorio, l’integrazione con settori limitrofi (sociale,educativo,didattico, ecc), la cooperazione tra territori e soggetti
• Tenere presente che innovazione e creatività hanno bisogno di affiancamento e tutoraggio , soprattutto per agevolare il percorso amministrativo
• Fornire schemi precisi per la rendicontazione che non deve essere solo economica, ma anche di impatto ( costumer, rilevazioni statistiche,interviste, ecc)
• Esigere piani di comunicazione adeguati agli obiettivi e al target di riferimento
• Curare gli aspetti di monitoraggio e di valutazione periodica dell’efficacia del lavoro svolto dal vincitore del bando, individuando con cura gli strumenti più efficaci sia quantitativi che qualitativi
• Comporre una commissione in cui la conoscenza del territorio sia pari a quella tecnico-giuridica
• Richiedere che la valutazione della commissione sia motivata
• Dare visibilità anche ai progetti non vincitori pubblicandone una sintesi con la valutazione della commissione
La Pubblicazione
• Definire un tempo di risposta adeguato alla complessità del bando
• Pianificare una vera promozione e publicizzazione del bando
• Curare che gli uffici siano preparati a dare risposte chiare e non contraddittorie a quanti chiederanno delucidazioni
Credo possa essere utile anche un incontro pubblico di presentazione del bando per condividere domande e risposte
Il Dopo (aggiudicazione)
Il lavoro dell’Istituzione/Amministrazione possiamo dire che cominci una volta che il bando è aggiudicato. Non solo per controllare il rispetto degli impegni assunti dal vincitore, ma soprattutto per affiancarlo nella realizzazione, per agevolarla, per condividerla. Quindi andranno programmate delle valutazioni periodiche durante le quali deve essere chiaro che lo spirito non è poliziesco, ma collaborativo e costruttivo
Il mancato raggiungimento degli obiettivi è responsabilità tanto del vincitore che di chi lo ha scelto e anche una denuncia di inadempienza deve essere motivata e circostanziata.
A questo punto forse possiamo rispondere alla domanda: qual è il migliore dei bandi possibili?
Il migliore dei bandi possibili è quello che meglio risponde alle esigenze di crescita culturale di un territorio.
“Uno dei maggiori guai dell’umanità non consiste nell’imperfezione dei mezzi, ma nella confusione dei fini” (Albert Einstein)
BP2011 MATERIALI Risorgimento teatrale Testimonianze ottocentesche di Laura Mariani
Risorgimento teatrale: testimonianze ottocentesche
Claudio Meldolesi, Gustavo Modena eil 1848 degli attori
Per Modena salire sul palcoscenico voleva dire andare contro il teatro esistente, che non era più in grado di eccitare “il sangue dell’artista”, di accendere “quella febbre del cuore e della fantasia” per il cui tramite “l’uomo strappa il bello ed il sublime alle volte del cielo”. Questo andare contro per strappare il bello era il punto d’origine della sfasatura modeniana, in senso sia rivoluzionario sia artistico. Nel primo senso perché l’atto sovversivo era per Modena un prodotto dell’”immaginazione”; nel secondo, perché l’atto artistico doveva consistere ogni volta in una performance di commozione e di sudore. Come si sarebbe potuto trascinare il pubblico dei grandi spazi teatrali, senza un atteggiamento di lotta? A questo risultato si poteva giungere, però, se l’attore era in possesso di un disegno drammaturgico suo, che costituisse il suo livello di narrazione, e se per esso la rappresentazione del testo si apriva e s’intrecciava con altre rappresentazioni (in termini di poetica, Modena era per un teatro di unificazioni delle arti, comprese la lirica e la danza). Niente aggiunte esornative, piuttosto si trattava di qualificazioni: l’attore agiva più di quanto il personaggio letterario richiedesse, e così facendo, rappresentando Delavigne o Dall’Ongaro, innestava emozioni provate al contatto di Shakespeare, di Dante, di Schiller, di Rossini, di Mazzini; mentre rappresentando Alfieri, era portato a iniettarvi il realismo recitativo di Vestri o un qualcosa dei suoi dialoghi politici. Il sudore era l’emblema di questo teatro tenuto sempre sotto sforzo; e dappertutto Modena metteva un seme di caratterizzazione popolare. “Genio femmina”, pur sapendo di comunicare davvero solo con una minoranza, non rinunciò a recitare per la folla. Non poteva non essere così, dato che egli voleva creare momenti di teatro-popolo e di teatro-nazione mentre di per sé il teatro restava un tempio del vecchio potere. […]
Gli attori, specie gli attori italiani, non furono mai dei semplici cittadini; se all’appello risorgimentale risposero in massa, è ipotizzabile che essi dessero vita a una loro storia partecipando alla storia nazionale. E poiché il teatro italiano successivo al 1848 non fu lo stesso di prima, è ragionevole che quella storia si svolgesse nelle forme di una piccola, ma non per questo meno incisiva, sovversione.
In una fase siffatta, in cui si configuravano le questioni sociali della modernità mentre gli scontri politici muovevano più le classi alte delle basse, la comunità degli attori si trovò in una posizione naturalmente sovversiva. In termini sociologici gli attori erano degli emarginati, in quanto nomadi, ricattati dal sistema teatrale, ignorati dalla cultura letteraria, privi di mezzi produttivi loro propri; reietti, sì, e tuttavia in contatto con la vita di tutti, in quanto persone di dominio pubblico specializzate a soddisfare le curiosità e i sentimenti collettivi: ossia essi erano in debito con la società e, al contempo, non erano condannati alla rassegnazione, come le masse dominate dall’indigenza e ancora lontane dalla rivoluzione industriale. Forse per questo credettero alla “primavera dei popoli”, mossi dal desiderio che la condizione teatrale potesse finalmente emanciparsi. Facciamo un esempio.
La Ristori riuscì a sposare il marchese Giuliano Capranica del Grillo prevalendo sull’ostile sgomento dei suoceri. Fu una lotta durissima, che l’attrice dovette affrontare anche da ragazza madre e da scritturata inadempiente e che finì felicemente contro ogni previsione. Il ’48 teatrale, tempo di ricongiunzione del teatro e della società, fu annunciato da questo caso sensazionale quanto dalla furia rivoluzionaria di Modena. Quindi il nuovo tempo degli attori decollò mentre tutt’intorno prendeva a dilagare il moderatismo politico. La stessa Ristori trasse dallo spirito sovversivo del 1848 la forza per non abbandonare il teatro, come la sua nuova condizione sociale avrebbe richiesto. C’è da pensare che, senza la spinta quarantottesca, la storia non avrebbe conosciuto “l’attrice-regina” bensì una marchesa preoccupata di cancellare le tracce del suo passato irregolare.
Questo decollo della soggettività del teatro, in parte conflittuale con la vicenda politica nazionale, segnala che la cultura degli attori aveva finalmente trovato una sua posizione distintiva, improntata alle idee del romanticismo: intendendo il riferimento in senso critico sociale.
[Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2010 (sesta edizione)]
GUSTAVO MODENA (1803-1861)
" Milano, 1848. Ah! Quale notte sublime quella dal 4 al 5 [agosto]! Uomini, donne, fanciulli a migliaia intenti a disfare il selciato e a portare i selci al piano superiore della case, la classe media offrendo a gara i mobili pesanti, tavole e cassettoni per le barricate."
“Va’ affiggere sulla mia porta un cartellone: qui s’insegna portamenti, fisionomie, rettoriche e scappavia ad uso di nuovi governatori, intendenti, consiglieri ecc. per le provincie immatricolate, connesse e da connettere. Ho tanto letto e biscicato Goldoni, Molière , Shakespeare, Gregorio Leti, la Bibbia, l’Alcorano e Scribe: ho tanto fatto da governatore, da principe, da Re di tutti i segnati, che in quindici lezioni, se il democratico iniziato non è proprio ciuco, bietolo, tufo, lo metto all’onore del mondo e gli trasfondo la psicologia della sua carica in tutto il suo essere e nelle movenze e nello spiro. Ma già costoro si crederanno nati colla fiammella in testa come i dodici apostoli.”
I Dialoghi satirici. “L’Inferno di Modena, ‘Mistero faceto-lagrimoso’, ovvero Il falò e le frittelle, ha per sommo officiante Camillo cuoco (Cavour), validamente affiancato dagli scolari Beltramino, Cassandrino, Faggiolino, Calandrello, Cotichino, Baciccio, Giacometto, Moscabianca, Miracolo (nomi che richiamano senza difficoltà alla memoria i diavoli dei canti XXI e XXII dell’Inferno), e dalla Drammatica (Beatrice). […] Cavour, il ‘Machiavello delle frittelle’ fa preparare coi libri della storia d’Italia il grande falò: Dante, Cattaneo, Mazzini., Muratori, tutti sono dati alle fiamme (nei dialoghi di Voltaire erano i gesuiti a bruciare i libri, qui sono i ‘cavalieri pedestri’, i professori). Solo le incomprensibili Poesie e prose angeliche della canonichessa Terenzia Manà dei Quercioli (Terenzio Mamiani della Rovere) scampano alle fiamme: serviranno per essere studiate a memoria dagli scolari. Cento scolari gridano al levarsi della fiamma fra razzi e girelle. Risplende un gran carciofo luminoso, è l’Italia carciofolata di Cavour. Ai suoi piedi solo Esopo (‘della città Giustizia, vicolo Verità, portone Libertà, n. 20 rosso’) non esulta, e con lui due scolari educati allo studio di Mazzini e Cattaneo.”
"Il mio teatraccio è in piazza: la canaglia ne fa il suo jus!... eh no! cosa dico – non è in piazza – il mio teatro è negli spazi oltre la luna: là dove son tanti altri miei sogni,,, Oh sogni miei!... I venti vi sieno leggeri!!"
"Io sono un Genio-femmina: scaravento le mie idee come grani di spelto sulle ali dei venti; se germogliano, bene; se no, la terra non le meritava. I lampi abbarbagliano; ed io lampeggio, non accendo candele; tant pis per chi ha la vista debole… e per chi è cocciuto.”
[Claudio Meldolesi, Profilo di Gustavo Modena. Teatro e rivoluzione democratica, Bulzoni, Roma 1971; e Negli spazi oltre la luna. Stramberie di Gustavo Modena, libretto di sala dello spettacolo, Bologna 1983]
ADELAIDE RISTORI (1822-1906)
1848, “Viva l’Italia! In breve i nostri labbri lo pronunzieranno uniti questo grido animatore ed insieme piangeremo di gioja al racconto della sconfitta tedesca”.
1859, Parigi. “Noi siamo nell’estasi per la sorprendente vittoria ottenuta dalle nostre e dalle armi alleate [a Montebello e Palestro]. Dovunque tu vedi bandiere franco-italiche il popolo è pazzo dalla gioja. I giornali non sono letti, ma divorati. Finito il pranzo, ci trangugiamo la Patrie, le Courier de Paris. Finita la colazione, il Moniteur e le Siècle…”
Bruxelles. “Si è tedeschi in tutto e gettano, a pieni vasi, acqua ghiacciata sui vulcani delle nostre fantasie.”
Amsterdam. “Il pubblico proruppe in grida entusiaste di ‘Viva la Ristori Viva l’Italia Viva Verdi’. L’attrice rispose con ‘ Viva l’Olanda mentre l’orchestra suonava l’inno nazionale”.
1860, Utrecht. “Trovò una deputazione di studenti in abito nero, cravatta bianca, coccarda italiana alla bottoniera, che alla testa di un numero incredibile di gente l’attendeva all’imbarcadero. Altra folla, al suo passaggio, gettava i cappelli in aria, facendole largo come ad una regina. Preceduta dalla banda militare in uniforme e dall’ufficialità a cavallo e seguita da una moltitudine di persone, che aumentava di minuto in minuto e gridava sempre ’Wiva la Ristori, W l’Italia’, con gli abitanti che uscivano dalle finestre e dalle botteghe sventolando i fazzoletti. La sera la sua recita con Maria Stuarda fu bellissima per gli applausi e i fiori. La Ristori trovò stupenda la vignetta con Vittorio Emanuele che cercava di calzare uno stivale e non riuscendovi diceva ‘bisogna che mi sbarazzi di questi intoppi’. Svuotandolo ne usciva il Papa, il Re di Napoli e l’Imperatore d’Austria.”
!861, San Pietroburgo. “Nella triplice qualità d’italiana, di donna e d’artista, favorita dai pubblici e dalle Corti, lei si era permessa di spiegare al Ministro degli esteri, Aleksandr Gorciakov, al quale l’aveva indirizzata Cavour, le ragioni per cui gli austriaci dovevano essere cacciati dalla sua Patria. Dal loro dialogo:
GORCIAKOV – Io amo molto l’Italia.
RISTORI – Se l’ama molto, perché non lo dice apertamente mandando all’aria la diplomazia? Forse che l’Austria, agli occhi suoi, ha maggiori titoli del mio paese ad essere trattata con riguardi dalla Russia?
GORCIAKOV – Ma le ripeto che l’Italia non potrà mai essere Nazione perché da secoli e secoli fu divisa e suddivisa ed il carattere italiano non si piega tanto facilmente come un altro, e vive solo di turbolenze.
RISTORI – E quali meriti superiori al nostro ha il suo paese in faccia a Dio e agli uomini, per essere creato Nazione e noi no? Al contrario Dio ha benedetta la nostra terra rendendola più bella di tutte, ricca di tesori d’ogni genere… d’intelligenze straordinarie.
GORCIAKOV – Ma non potrà mai cacciare né l’Austria né il Papa, dunque il Conte di Cavour si contenti di quello che ha.
RISTORI – Vorrei un po’ vedere Lei ed il suo paese se a qualcuno dei padroni di questi stati limitrofi saltasse lo schiribizzo d’entrare in casa loro, mettendoli prepotentemente alla porta. Sarebbero animati da quel famoso spirito di rassegnazione che tanto ci decantano e del quale vorrebbero fossimo animati?”
“Io concepii l’ardito pensiero di mettere piede nel teatro francese per dimostrare la più viva riconoscenza alla Francia sì simpatica al mio nome e sì generosa verso la nostra Italia, e per provare che, nelle regioni dell’Arte, non debbono esserci più né Alpi né Pirenei.”
!861. “La morte del Conte di Cavour ci ha piombati nel più grande dolore! E siamo incapaci di concepire un’idea! Dio! Che disgrazia tremenda! Noi metteremo il lutto come amici di quel grand’uomo e come parte di quella famiglia ch’egli, da padre, ha redenta formandola nazione. Questa sera abbiamo sospesa la recita pel dolore che io provo, e per dovere verso di quel sommo che non è più.”
[Teresa Viziano, Evviva Adelaide Ristori Evviva l’Italia Evviva Verdi (1858-1861), La conchiglia di santiago, San Miniato (Pisa) 2010]
TOMMASO SALVINI (1829-1915)
Repubblica Romana, 1849. “Io ed altri giovani artisti, non fummo degli ultimi ad arruolarci, e in poco tempo si formarono due battaglioni di volontari sotto il comando del colonnello Masi, che immantinente ci affidò la difesa delle mura ai Giardini del Papa, tra porta Cavalleggieri e porta Angelica[…]. Per sette giorni e sette notti non ci smontarono da quel posto, e il nostro letto era la nuda terra. Come Dio volle fumo surrogati da altri militi; ma ci venne imposta la costruzione delle barricate a Porta del Popolo. Io ebbi l’ordine di dirigerne due, che furono giudicate degne d’encomio. […] I Francesi dopo lo smacco del 30 aprile [battaglia alla porta di san Pancrazio], vollero la rivincita; ed avendo constatato che le nostre palle non erano di burro, e che gli Italiani si battevano, cosa da loro non mai creduta, decretarono una nuova spedizione di 34.000 uomini, con tutti gli apparecchi d’un assedio”.
“S’approssimava lo scioglimento del glorioso dramma. Le strade coperte e le piattaforme ordinate dal capo del Genio, Le Vaillant, erano compiute: i cannoni d’assedio appostati, e le granate piovevano su Roma metodicamente ogni 5 minuti di giorno e di notte, ma i repubblicani non vollero né arrendersi, né capitolare. Era una eroica protesta più che una difesa. Tutti sapevano che contro forze sì preponderanti, Roma non avrebbe potuto resistere, ma tutti seppero, che in Italia v’erano dei cuori generosi che si ribellavano al giogo del dispotismo e della tirannide. I Francesi, dopo aver praticate sette breccie nelle mura, per impossessarsi delle alture, le occuparono di notte e a tradimento, non senza trovare una pertinace ed eroica resistenza. Cadde la Repubblica Romana ma non i repubblicani.”
“Sì, giunsi a Roma; ma qual Roma? Ritrovai una Roma tetra, deserta, lugubre; nella cui tinta fosca preponderava il color rosso dei calzoni Francesi, ed il color nero della tonaca dei preti. I pochi cittadini che incontravo per via portavano sul volto i segni di una mestizia da stringere il cuore.”
“I colori verdi, bianchi e rossi proibiti, non che proibiti il giallo ed il nero, il giallo ed il bianco; sui fiori che si portavano in scena non dovevano spiccare i colori sunnominati; e se per combinazione una attrice aveva l’abito bianco e verde, un’altra vestita di rosso non le si poteva avvicinare. Le trasgressioni non erano soltanto punite con ammonizioni, ma con qualche giorno d’arresto, e con l’ammenda d’una somma che variava a norma della più o meno grave inosservanza. Ben mi ricordo che una sera, nella Sposa sagace del Goldoni, rappresentando io la parte del Capitano, per avere l’uniforme turchina, con le mostreggiature rosse e la gala bianca, mi fecero pagare dieci scudi; perché il turchino, di sera, sembrava verde.”
“Italiano? Sì, Italiano! Questo nome, posto all’indice dal governo Borbonico, e che veniva punito, sulle labbra di chi osava pronunciarlo, con le carceri e col patibolo, poteva uscire liberamente dalla bocca di tutti al finire del 1860. […] Oh, i bei giorni d’entusiasmo […] E riandando il pensiero all’epoca della mia adolescenza e della prima giovinezza, nelle quali il giogo straniero ci stringeva il collo, e le inquisitrici prepotenze chiesastiche ci attutivano l’intelletto, mi compiaccio d’esser vissuto in quel tempo, per poter oggi maggiormente apprezzare e gustare la soddisfazione di dirmi libero cittadino.”
[Tommaso Salvini, Ricordi, aneddoti ed impressioni, Fratelli Dumolard Editori, Milano 1895]
ERNESTO ROSSI (1827-1896)
“Il Cameroni sulla disgrazia di Novara aveva architettato un dramma – La fucilazione del generale Ramorino. Io doveva rappresentarlo nella primavera dell’anno 1850. Eravamo tornati colla nostra compagnia a Trieste, ed avevamo già fatta la stagione quaresimale al Filodrammatico […] Il titolo del dramma e il nome dell’autore, puoi facilmente dedurre quanta gente chiamarono al teatro. Quel vasto recinto in quella sera fu troppo piccolo, per contenere tutti i curiosi. Lo spettacolo doveva cominciare alle 7 e mezza: alle 5 il popolo faceva già una lunga coda […] fracassava porte e invetriate. Cosicché alle sei non entrava più un chicco di panico nella sala. Pensa all’orgasmo mio, del poeta, della compagnia e del pubblico, e aggiungi pure della polizia: la quale allora soltanto capì, che aveva preso un granchio a secco. Far sospendere la rappresentazione era lo stesso che istigare una rivoluzione, far succedere una carneficina.”
“Disgraziatamente nel 1859 avevo dovuto proprio piegare la testa e andare a Trieste: fortunatamente la guerra scoppiò! E noi rimanemmo fra l’uscio e il muro. Ma chi se ne lagnava? A dire il vero nessuno. I nostri cuori palpitavano, mentre i nostri volti fingevano indifferenza! Ma quali ansie! Quale trepidazione! E quali dolori! […] Montebello, Palestro, Magenta! Che respirone! Avrei desiderato per quel resto di anno, di non pensare più al teatro: ma perché mettere sul lastrico tanta gente? Non aveva io fatto tanti sacrifici per tenerli uniti? Ci riunimmo in Toscana: andammo a Livorno, e facemmo una stagione splendida.”
“Quando conobbi io Garibaldi? Fu a Padova, come ti dissi, nel 1866, mentre il generale ritornava dal Tirolo. Io recitava al teatro Duse, teatro popolare, frequentato dalla scolaresca. […] Fu subito cambiato il nome di quella baracca di legno, e si chiamò Garibaldi. Si recitava Amleto di Shakespeare. Dire che il teatro era gremito, e che Garibaldi ricevette in quella sera una commuovente ovazione da tutta quella gioventù, amore e speranza della Nazione, lo credo inutile. Solo posso dire, non vi fu né trasmodo, né volgarità: – fu una manifestazione degna di chi la ricevé, e di chi la fece. Ordinariamente in simili circostanze, lo spettacolo scenico diventa quasi secondario: perché il primo spettacolo è nella platea e nei palchi: ebbene, quella sera non fu così: finito l’interessante spettacolo in teatro, cominciò quello sul palcoscenico, con un raccoglimento veramente esemplare. Chi diede l’esempio fu il generale, il quale silenzioso e attento, si sedette nel suo palco vicino al proscenio, volgendo le spalle al pubblico, per meglio udire e vedere. [… Mi ha detto] lessi, è già molto tempo, questo lavoro, mi piacque, ma non mi interessò, e non mi impressionò quanto questa sera. Sentite la mia mano come trema ancora!”
[Ernesto Rossi, Quarant’anni di vita artistica, Tipografia Editrice L. Niccolai, Firenze 1887]
GIACINTA PEZZANA (1841-1919)
1859. ”In buona fede, rossa in viso per la corsa, entrai, con impeto, nello studio gridando: - Signor Modena, sono arrivati i francesi! – Egli mandò un tono gutturale, che non era né un colpo di tosse, né una parola; poi, guardandomi in cagnesco, mi disse: - Xeli vegnù? Basta che po i vada via!’’
“Vennero le così dette politiche, Madama Scardassa (l’Austria!) i cui personaggi Vittorio, l’Italia, facevano battere i cuori italiani, avidi di liberarsi dell’odiosa tutela! Si fu appunto rappresentando l’Italia che io raccolsi i primi applausi nel teatro Piemontese, e per quanto sentissi che erano applausi d’italianità, non ne provavo minor voluttà come artista, e come cittadina. Avevo tanto sofferto (andando a Modena con la compagnia italiana) di quel confine austriaco nel cuore d’Italia quasi… vedendo quelle garitte e fascioni gialli e neri! E quei croati con le loro gambette strette nei pantaloni attillati, che finivano in stivaletti da donna! Con quei baffi ispidi voltati all’insù!... Che orrore, che avversione! Che stretta al cuore, per me, che avevo cantato a squarciagola in piazza Castello, tutti gl’Inni patriottici con i me fratelli! E declamato, più tardi, le poesie del Berchet, insegnatemi dalla buona Malfatti, che prendeva parte alle sante convulsioni patriottiche!”
“E quando dopo le gloriose battaglie, i feriti arrivarono a centinaia, mutilati, sanguinanti, e gli ospedali di Torino ne rigurgitavano, fra le pietose donne che accorsero al letto di quei poveri eroi una delle più attive fu la nostra [attrice] Carolina Malfatti.”
“Ella è un po’ scoraggiata dalla guerra accanita che il mondo mascolino muove al femminino, guerra sleale, che ha per arma il ridicolo. [… Se] la nostra è una voce nel deserto, almeno che essa risuoni continua e potente finché venga ascoltata ed esaudita.”
“I socialisti del giorno non sanno nemmeno loro quello che vogliono. Mazzini invece predicò il vero socialismo! Il solo effettuabile, perché ha base sui diritti e sui doveri!”
“Io mi sono vantata rare volte di essere mazziniana, ma ho cercato sempre nella vita di donna come d’artista di mettere in pratica i suoi insegnamenti: pensiero e azione… ho scartato quindi dalla mia vita l’egoismo individuale, per fare qualche cosa di utile agli altri… ma non ne ricevetti che beffe e danni: non importa!”
“La commemorazione [della nascita] di G. Modena fu una vera battaglia di dietro scena. Invitai la Ristori, la Marini e Novelli a prender parte a quella solenne onoranza, ma tutti si rifiutarono… perché sapevano che intendevo commemorare il grande artista ed il grandissimo repubblicano amico di G. Mazzini!”
[Laura Mariani, L’attrice del cuore. Storia di Giacinta Pezzana attraverso le lettere, Le Lettere, Firenze 2005]
BP2011 MATERIALI Segnali di Risorgimento? Una riflessione sulla dignità dei teatranti di Mino Bertoldo, fondatore e direttore artistico e organizzativo del Teatro Out Off di Milano
Arrivato a 35 anni di attività e con un futuro così incerto, mi pongo alcune domande che mi auguro possano trovare una riflessione utile ai vecchi come me, ma anche ai giovani che iniziano questo lavoro.
Dal 1976 (anno di fondazione) al 1980 non sapevo che esistessero contributi pubblici che sostenessero l’attività culturale che in quegli anni ho ospitato o prodotto.
Quando ho cominciato a fare le domande dei contributi Ministeriali o alla Regione o al Comune mi sono reso conto che la maggior parte di chi faceva questo lavoro era da sempre informato e organizzato per ottenere quei contributi pubblici.
Chi era legato ai partiti politici otteneva il maggior sostegno, meglio per loro essere legati alla
Democrazia Cristiana o al Partito Socialista Italiano, ma anche al Partito Comunista o Social Democratico o Liberale o Repubblicano, avevano comunque tutti quasi i loro referenti.
L’entità del sostegno pubblico al teatro, iniziato allora in un modo consistente a Milano e in Italia, non è mai cambiato nella spartizione delle risorse rispondendo sempre alle logiche dei partiti.
Nel tempo, con anni di vacche grasse, questi teatri sono cresciuti molto e alle nuove realtà, se si escludono compagnie di valore nazionale e internazionale, è rimasto sempre poco. Con mani pulite, sono stati cancellati tutti quei partiti eppure nulla è cambiato.
Quelli che oggi sono al governo non hanno interesse vero per il teatro e chi lo è stato per poco in questi ultimi 18 anni non ha avuto il coraggio di modificare alcun che.
Ora ci viene detto che per il 2011 i tagli saranno molto più consistenti, che se attuati io con il mio teatro, e temo molti altri, dovremo chiudere.
Ho sempre lavorato e tutti con me all’ Out Off con economie minime, ma indispensabili per andare avanti, immaginare di fare a meno di quei minimi è impossibile.
Però mi domando e ci domandiamo, come si è potuto arrivare a questo ?
Chi ci rappresenta nei vari tavoli istituzionali, perché non hanno capito che questo era un pericolo imminente ? Qualche risposta me la do da solo: troppo egoismo, vanità, gelosie, e relativo senso di appartenenza, penso ci abbia portato a questo.
Certo le scusanti possono essere anche tante altre, ma la responsabilità è di chi nel teatro non riesce a dare dignità, valore sociale al proprio lavoro.
Lavorare per 35 anni con onestà culturale e anche con tanti lavori che hanno segnato nel tempo qualità e apprezzamento del pubblico e della critica non basta, perché la realtà è sconfortante e perversa. Infatti al Ministero tutto è ingessato, già scritto e immodificabile e questo non ci da segnali di un possibile Risorgimento.
BP2011 MATERIALI La cultura dev'essere gratuita? Una riflessione in vista delle Buone Pratiche di Andrée Ruth Shammah
Con una lettera aperta pubblicata dal "Corriere della Sera" il 13 gennaio scorso, Andrée Ruth Shammah ha innescato un vivace dibattito su un nodo centrale: la gratuità della cultura.
Per esempio, la gratuità di tantissime iniziative che si tengono in teatri come il Franco Parenti, che lei ha fondato e dirige. O per esempio la gratuità di un sito come www.ateatro.it, dove leggete questo suo intervento...
Alla sua riflessione hanno risposto, tra gli altri,
Salvatore Carrubba (22 gennaio), Andrea Kerbaker (23 gennaio), Severino Salvemini (27 gennaio)
Ho inviato questa lettera al “Corriere della Sera” non perché io abbia delle risposte, ma perché da tempo rifletto sulla questione della gratuità in teatro e vorrei che insieme riflettessimo su questo.
È vero che la maggior parte del pubblico paga per entrare a teatro e che la pratica della gratuità è diffusa per eventi come la notte bianca o altre manifestazioni, ma non per la regolare stagione di teatro. Ma è vero anche che spesso noi stessi, al momento del debutto di uno spettacolo a cui teniamo particolarmente, invitiamo amici e personalità ad intervenire gratuitamente. Perché offriamo la gratuità? Perché temiamo l’assenza in caso contrario? Addetti ai lavori a parte, operatori, giornalisti, direttori, che devono vedere spettacoli per scegliere, consigliare, diffondere le proposte teatrali, perché anche tutte le personalità di rilievo si aspettano la gratuità?
Mi chiedo ora anche quanta responsabilità abbiamo noi relativamente a queste aspettative. Forse dovremmo meglio elaborare l’orgoglio di fare questo mestiere? Ma ancora: perché ogni conferenza organizzata nelle nostre sale, se pure tenuta da preziosissime intelligenze, la offriamo a ingresso gratuito? Certamente, da una parte, c’è l’interesse a diffondere cultura che sovrasta il rientro economico, ma così non ci danneggiamo? Vorrei riflettere con voi su questo argomento che, secondo me, va ben oltre l’opportunità di ingressi gratuiti o meno. Si tratta di riflettere sull’atteggiamento che noi abbiamo rispetto al nostro lavoro e che, forse di conseguenza, hanno gli altri, enti pubblici compresi.
Una buona pratica potrebbe essere quella di immaginare un costo d’ingresso per tutte le iniziative pensate gratuite, contenuto (che so, 3 € o 5 €), che vadano a comporre un possibile fondo di reintegro per ciascun teatro.
E ancora perché non estendere questa richiesta a tutti gli invitati a teatro, chiunque essi siano? Il mio teatro sta faticosamente cercando di recuperare ingenti somme utilizzate per la ricostruzione del teatro stesso, la cooperativa che dirigo ha necessità di rientrare di investimenti mossi per la valorizzazione di un bene pubblico, di proprietà comunale. Ognuno di noi ha ragioni per individuare forme di recupero d’entrate, soprattutto in questo momento. Trovo molto utile provare a riflettere anche sui nostri atteggiamenti e su quello che da soli possiamo riuscire a cambiare.
BP2011 MATERIALI Per una Carta dei Diritti e dei Doveri del Critico Una buona pratica in progress di Claudia Cannella e la redazione di “Hystrio”
La nostra è una Buona Pratica in progress. Nel senso che, da una parte vogliamo dare una forma scritta a ciò che in modo istintivo, confuso e contraddittorio abbiamo cercato di essere in questi anni. Dall’altra, sappiamo perfettamente che, oggi più che mai, cercare di stabilire delle regole e rispettarle è azione guardata con sarcastico spregio, è lotta quotidiana, è rifiutarsi di aderire alla massima “se lo fa Lui, lo posso fare anch’io”. Vogliamo parlare della Critica teatrale, di chi la fa e di come viene fatta. Di come, prima di lamentarci degli spazi che si riducono, dell’ignoranza e del qualunquismo dei caporedattori e dell’indifferenza dei media, sia necessario capire perché contiamo così poco, quale dovrebbe essere il nostro mestiere, per chi scriviamo e, soprattutto, come vorremmo essere per non assomigliare a chi non ci piace, a chi ha avuto e continua ad avere forti responsabilità etiche e morali riguardo la decadenza della nostra professione.
Crediamo che il nostro lavoro debba essere innanzi tutto un servizio nei confronti del lettore-spettatore e degli artisti e che sia necessario un ascolto costante, per trovare il giusto punto di equilibrio tra il distacco critico e la partecipazione alla comunità teatrale. Ma una partecipazione non gerarchica, perché è ora di smetterla di pensare che siamo i padrini e i padroni degli artisti. Gli artisti non sono di nessuno e non esiste un diritto di primo sguardo su di loro. Vorremmo semplicemente avere il diritto, il dovere, il fine del contagio, ossia di riuscire a trasmettere l’amore per il teatro raccontandone magie e bellezze, ma anche limiti e cialtronerie. Perché insieme alla passione, nasca e si sviluppi quello spirito critico e autocritico di cui tanto si sente la mancanza nella società italiana. E non solo a teatro.
Per tutte queste ragioni, come rivista Hystrio, abbiamo pensato che la nostra Buona Pratica era mettere nero su bianco come vorremmo poter esercitare al meglio il nostro mestiere, definendo diritti e doveri, e respingendo le continue deroghe alla deontologia professionale, deroghe a cui non vogliamo più assistere in modo passivo o, peggio, con quell’infìdo spirito assolutorio che ci fa sentire tutti sulla stessa barca. No, noi da anni ci sentiamo su un’altra barca e cerchiamo quotidianamente una rotta diversa. Ma navigare a vista, per quanto molto poetico, lascia spazio ad ambiguità e approssimazioni. Perciò, senza voler essere draconiani, abbiamo voluto disegnare una carta, una “Carta dei diritti e dei doveri del critico”, nata assemblando i pensieri e le urgenze di chi lavora all’interno della direzione e della redazione di “Hystrio” e di chi ci collabora. Ma è una Carta volutamente aperta, passibile di modifiche e di aggiunte: per questa ragione l’abbiamo definita una Buona Pratica in progress. La pubblicheremo sul numero della rivista in uscita ad aprile, che conterrà un dossier giustappunto dedicato allo stato della critica in Italia. Nel frattempo ve la leggiamo:
DIRITTI
DOVERI
Il diritto di scrivere in piena libertà
ma il dovere di argomentare, senza presunzioni aprioristiche di saperi e competenze, pesando le parole ma usando parole pesanti quando necessario.
Il diritto di scegliere
ma il dovere di andare a vedere di tutto
Il diritto di “sporcarsi le mani”, di mettersi alla prova nelle diverse professioni del teatro, di avere amici e amanti in scena o dietro le quinte
ma il dovere di non recensire spettacoli in cui si è coinvolti a vario titolo (se ci sono in scena amici, parenti, amanti; se si è tradotto il testo; se il proprio lavoro si è spostato in settori contigui come direzione/lavoro in festival, ufficio stampa, organizzazione, distribuzione...).
Il diritto di non essere sempre reperibili e di pretendere professionalità, efficienza e senso dell’opportunità dagli uffici stampa
ma il dovere di non essere mai scortesi.
Il diritto di farsi viziare da teatri, festival e operatori...
ma il dovere di non pretenderlo, di non abusarne, di ringraziare sempre e di non comportarsi come in villeggiatura.
Il diritto di essere soggettivi e di difendere i propri gusti
ma il dovere di leggere tutte le sere due spettacoli: quello che si svolge davanti ai nostri occhi e quello che si svolge accanto a noi, in platea, domandandoci sempre: “Consiglierei questo spettacolo a un amico che non si occupa di teatro?”
Il diritto di addormentarsi e di andare via all’intervallo
ma il dovere di non russare e, se si deve poi recensire, di restare svegli e di rimanere fino alla fine.
Il diritto di manifestare le proprie emozioni
ma il dovere di non eccedere.
Il diritto di scrivere con il proprio stile
ma il dovere di chiedersi per quale tipo di lettore si stia scrivendo, di evitare autoreferenzialità e autocompiacimento, rimanendo intellegibili e ricordandosi che il confronto passa attraverso la comprensione, non solo dei propri colleghi.
Il diritto di dormirci sopra una notte prima di esprimere un giudizio
ma il dovere poi di esprimerlo.
Paola Abenavoli
Nicola Arrigoni
Sandro Avanzo
Laura Bevione
Fabrizio Caleffi
Albarosa Camaldo
Claudia Cannella
Davide Carnevali
Sara Chiappori
Tommaso Chimenti
Giorgio Finamore
Renzo Francabandera
Pierfrancesco Giannangeli
Katia Ippaso
Margherita Laera
Giuseppe Liotta
Stefania Maraucci
Gianni Poli
Andrea Porcheddu
Valeria Ravera
Domenico Rigotti
Roberto Rizzente
Francesco Tei
Pino Tierno
Nicola Viesti
Diego Vincenti
Il decalogo verrà ubblicato su hystrio 2.2011 in uscita ad aprile. Si raccolgono adesioni.
BP2011 MATERIALI Tra ricostruzione e Restaurazione L'Aquila e i suoi teatri due anni dopo il terremoto di Daniele Milani
Teatri d'emergenza: lo Stabile e le altre realtà aquilane
Una delle caratteristiche delle emergenze è che, al di là delle modalità che si scelgono per affrontarle, l'individuazione dei bisogni è estremamente facile. Questo, un po' paradossalmente, rende sicuri, fa veri voglia di muoversi, di fare. Ci si sente come se, pur dovendo affrontare un mostro gigantesco, non si avesse alcuna soggezione nel guardarlo fisso negli occhi.
Tutto questo non è né giusto né sbagliato: semplicemente, siamo fatti così. Fino a quando questo atteggiamento non viene strumentalizzato.
Parlare oggi, a quasi due anni dal terremoto, della situazione dell'Aquila vuol dire affrontare un groviglio di problemi estremamente vasto e complesso, una melassa terribile che, passata l'emergenza, invoglia all'immobilità.
Per chi vive lontano dalla città, non è facile capire una situazione che, per i suoi abitanti, è diventata normale, ma che forse tanti ignorano.
La cosiddetta «ricostruzione pesante», quella che dovrebbe riguardare la totalità del centro storico, la maggior parte del patrimonio monumentale e la totalità delle abitazioni private che hanno riportato danni gravi alle strutture, praticamente non è ancora iniziata. Questa «ricostruzione pesante» riguarda all'incirca il 70% della città. Insomma, a parte qualche isolata eccezione, la maggior parte degli edifici.
In particolare, per quanto riguarda i teatri, che come è facile immaginare non sono in cima alla lista delle priorità, gli interventi fin qui effettuati si sono limitati al semplice puntellamento. I tempi previsti per la riapertura sono un mistero per tutti, in primis le istituzioni che li gestivano.
Per un semplice cittadino, anche se armato di buona volontà e impegno, inoltrarsi a cercare le cause di questo stallo è impossibile. Però è certo che i tempi per l'inizio di alcuni lavori si stanno allungando in maniera incomprensibile e non certo per la cattiva volontà degli aquilani.
Per quanto riguarda le attività teatrali, il Teatro Stabile d'Abruzzo ha ripreso la stagione, in maniera poco più che simbolica, in un piccolo auditorium di 150 posti; la stagione di teatro ragazzi dello Stabile d'innovazione dell'Uovo sta per riprendere in uno spazio parrocchiale di fortuna. Sono iniziative che potrebbero apparire lodevoli nonostante le ristrettezze, se non venisse seriamente il dubbio che, dietro le apparenze, le istituzioni si siano abituate in fretta allo status di terremotate, gestendo accuratamente le deroghe concesse dal ministero.
Le piccole realtà cercano faticosamente di riprendere l'attività, arrangiandosi come facevano prima del terremoto, ma in un panorama ancora più complicato e desolante. Unico piccolo segnale di sostegno, ancora tutto da verificare, un bando regionale uscito il 19 gennaio 2011 «a sostegno della coesione sociale nell'area del cratere».
Ci sono piccoli tentativi, confusi e maldestri, di rappresentazioni nelle scuole da parte di tutti, stile far-west. La qualità dell'offerta è a dir poco discutibile, ma per giustificare le carenze il sisma può essere un alibi straordinario, quasi inattaccabile.
La programmazione estiva della cultura meriterebbe un approfondimento a sé. Già prima del sisma, contava purtroppo su una consolidata tradizione di improvvisazione, pasticci, estemporaneità e in alcuni casi di avvisi di garanzia con rinvio a giudizio e condanna da parte della Corte dei Conti, per una gestione «allegra» degli eventi nella giunta comunale precedente a quella attuale (a cominciare dallo scandalo della grande festa aquilana, quella della Perdonanza).
Uniche eccezioni, alcuni eventi in campo musicale: un'iniziativa delegata, dopo il terremoto, soprattutto alla generosità dei singoli artisti, come Fiorella Mannoia e Roberto Vecchioni, che l'estate scorsa hanno donato spontaneamente e in forma gratuita i loro concerti alla popolazione colpita dal sisma, dimostrando una sensibilità che non è passata inosservata ai cittadini.
Naturalmente tra l'estemporaneità della programmazione e la malagestione che porta all'intervento della magistratura bisogna fare le dovute distinzioni: ma non si può fare a meno di notare che il terremoto, per quanto riguarda la prima, ha consolidato la tradizione. Aumentano dunque i dubbi: all'Aquila, nel settore dello spettacolo, è davvero opportuno ripartire da ciò che già c'era?
E' cambiato tutto, ma non cambierà nulla...
La situazione è oggettivamente difficile. Oggi vivere e lavorare a L'Aquila è molto più triste e complicato che in altri parti del paese, che già non se la passano bene. Però l'emergenza rischia di diventare un alibi per strumentalizzare la situazione a vantaggio di chi preferisce gestire la decadenza della città piuttosto che affrontare davvero i problemi. E da operatore culturale, fa male vedere tutte le occasioni che si sono perse.
Il sisma c'è stato, punto. C'era un'opportunità: utilizzare la ricostruzione per ripensare ciò che non funzionava e ricostruirlo meglio, anche se tra mille difficoltà. Tutto questo non sta avvenendo e non avverrà. Per quanto riguarda il teatro, questa scelta porta a conclusioni folli.
L'Aquila era, prima del sisma, una città di 70.000 abitanti con ben tre istituzioni teatrali di rilievo nazionale: Teatro Stabile d'Abruzzo, ATAM, Teatro dell'Uovo. Intorno a loro, una galassia di compagnie teatrali professioniste piccole e piccolissime. Dati alla mano, c'era una vistosa sproporzione tra numero di abitanti e offerta culturale. Sovrabbondanza? Magari!
Solo la possibilità di moltiplicare consigli d'amministrazione e falsi posti di lavoro in segreterie, magazzini, eccetera. La maggior parte dei fondi erogati per quelle istituzioni non servivano alla produzione culturale.
In realtà, nessuna di queste realtà se la passava bene. Nessuna istituzione aveva i bilanci a posto, nessuna riusciva a produrre opere capaci di incidere a livello nazionale, se non tramite operazioni di pura facciata: vedi la produzione della compagnia di Gassman, che poi all'Aquila non ha avuto nemmeno la decenza di concedere il debutto nazionale del suo spettacolo. Su Alessandro Gassman e sulla sua rocambolesca fuga dalla direzione del TSA per approdare a quella dello Stabile del Veneto, qualche settimana dopo la sua partecipazione a una puntata di Porta a Porta durante la quale aveva giurato che sarebbe stato in prima linea nella ricostruzione della città, è meglio sollevare un velo di pietoso silenzio: infatti l'hanno steso tutti, per evitare l'imbarazzo di giustificare la scelta di un direttore venuto da lontano, che non ha mai avuto davvero a cuore il territorio, che davanti alle difficoltà ha capito in fretta che aveva «Un grande avvenire... altrove!» e che ha utilizzato i fondi dell'ente per produzioni che al territorio hanno lasciato poco o niente: poco più del quadretto appeso in una presidenza che recita: «Biglietto d'oro AGIS».
Oggi chi è il direttore del TSA? Possibile che, dopo un anno e mezzo, ancora non ci sia un nome? E se c'è, visto che certi programmi ministeriali devono portare la sua firma, perché non viene presentato ufficialmente?
Nel frattempo, tanti lavoratori dello spettacolo della città facevano (e fanno) la fame. Fin qui, comunque, un copione già visto e sperimentato anche altrove.
Ma è davvero possibile pensare di dover ricostruire tutto questo? Un sistema che faceva acqua da tutte le parti e che da trent'anni era ad esclusivo uso e consumo di piccole lobby di potere locali?
Il più grande fallimento della ricostruzione aquilana sta nel fatto che tutti si sono affrettati a rispondere di sì.
I politici, si sa, ragionano da politici: e, almeno qui, non se n' è mai visto uno che avesse la voglia e le capacità per mettere ordine in una situazione vischiosa come quella teatrale.
Nell'unica riunione di operatori culturali della città convocata dall'assessore del comune e non riservata alle suddette lobby, la parola d'ordine fatta circolare è stata: prima di tutto, rimettiamo in piedi tutto ciò che c'era prima e com'era prima. Questo significa concedere, ancora prima che i finanziamenti, la capacità decisionale a persone che hanno almeno sessantacinque anni, che hanno in alcuni casi storie discutibili alle spalle e che non hanno né la voglia, né le energie, né (ormai) le capacità, per sforzarsi di capire come riorganizzare un settore che già prima del terremoto era allo sbando. Vuol dire scegliere la Restaurazione e non la ricostruzione. Vuol dire sforzarsi di ricostruire il fallimento.
Qualcuno potrebbe obiettare che riorganizzare il settore non toccherebbe agli enti locali, ma a istituzioni più grandi, ministero e parlamento per primi. Giustissimo.
In questo senso infatti, era stato fatto qualche timido tentativo , ma è subito naufragato. Salvo Nastasi e Sandro Bondi avevano proposto e fortemente auspicato una fusione tra TSA e Uovo: ma il progetto si è arenato soprattutto per l'opposizione degli operatori locali, spalleggiati dai politici. Era una proposta sbagliata? Partiva da logiche semplicistiche e non avrebbe risolto nulla? Può darsi, fatto sta che non è stata rifiutata per mettere in campo un'alternativa migliore, ma solo per tornare al vecchio, per non intaccare gli interessi di alcuni privilegiati.
A questo punto viene da domandarsi: la situazione dell'Aquila è poi tanto diversa da quella del resto del paese? Per quanto riguarda il sisma certamente sì, e tuttavia una situazione così drammatica renderebbe ancora più urgente la ricerca di soluzioni necessarie al sistema teatrale in generale.
Anche su scala nazionale, L'Aquila avrebbe potuto offrire una straordinaria occasione per sperimentare formule nuove. Si è deciso di perderla.
Ciao, Nando!
Un altro capitolo riguarda l'università. Al di là dei problemi che riguardano l'istituzione nel suo insieme, che è uno dei capitoli più ampi e complessi della ricostruzione, è utile concentrarsi sulla cattedra di Storia del Teatro della facoltà di Lettere. Il corso di Storia del Teatro ha sempre avuto, nel corso degli ultimi quindici anni, un numero di studenti enorme rispetto alla dimensione della facoltà e all'importanza che quell'insegnamento avrebbe dovuto avere al suo interno, almeno in teoria. A tenere la cattedra, per tutti questi anni, è stato Ferdinando Taviani: una personalità nota e stimata ben oltre i confini della città, uno degli esponenti della generazione di intellettuali che ha ampliato in maniera significativa lo studio delle discipline teatrali in Italia.
Non è facile raccontare il rapporto tra Taviani e la città dell'Aquila, perché fondamentalmente unico. A generarlo sono stati vari fattori. Certamente ha contribuito il fatto che L'Aquila fosse una piccola città: in questo contesto, il carisma di Taviani e il sorprendente numero di studenti che lo seguivano hanno trasformato per anni la cattedra in una sorta di istituzione aggiuntiva della vita culturale, un vero polo di attrazione, soprattutto per le nuove generazioni, che trovavano lì il luogo in cui entrare in contatto con un'ampia gamma di sperimentazioni. Infatti, oltre alla normale didattica, la cattedra ha promosso un numero enorme di iniziative (spesso organizzate e realizzate in collaborazione con Mirella Schino), dalla pubblicazione di libri scritti a più mani da professori e studenti, a laboratori pratici di recitazione, regia e drammaturgia, dall'ospitalità di spettacoli di altissimo livello e di particolare fattura, difficilissimi da vedere solitamente in provincia, agli incontri con artisti e operatori teatrali impegnati nei più svariati percorsi di ricerca. Insomma, per circa quindici anni, la cattedra tenuta da Taviani ha dato alla città dell'Aquila un lievito che spesso nella provincia italiana viene invocato come la pioggia nel deserto. E tutto questo, in una città così piccola, aveva ripercussioni molto più forti che altrove. Il fermento culturale che nasceva dentro l'università riusciva a coinvolgere spesso una parte significativa della città, che partecipava alle iniziative ampliandone la risonanza.
Ora Taviani è prossimo alla pensione. Le istituzioni culturali dovrebbero avere tra le loro caratteristiche la capacità di sopravvivere alle persone che le dirigono. Quando le istituzioni sono rappresentate dalle persone, invece...
L'allontanamento di Taviani, che vive a Roma, lascerà un vuoto significativo nella città: un vuoto che in un periodo come questo potrebbe passare inosservato ma che rappresenta un impoverimento reale della vita teatrale cittadina.
Nel salutare Taviani e nel ringraziarlo per tutto ciò che ha dato all'Aquila nel corso degli anni, dimostrando una generosità che va ben oltre i compiti istituzionali di un professore universitario, una città più attenta e riconoscente potrebbe soffermarsi solo a chiedere, con una certa amarezza, il perché dopo tanti semi gettati non si sia prodigato anche per mettere al suo posto qualcuno in grado di raccoglierne l'eredità.
Post scriptum: A Bocca Aperta
La prima versione di questo articolo finiva qui. Purtroppo Mimma Gallina ha insistito, solleticando il mio ego, perché scrivessi qualcosa su una piccolissima e trascurabile compagnia teatrale aquilana, che si chiama A Bocca Aperta, che ho il piacere di dirigere e che ha fatto e sta facendo scelte molto particolari, lontane dalla sensibilità comune e magari sbagliate.
Come ho avuto modo di illustrare durante l'edizione 2008 delle Buone Pratiche, per una serie di eventi casuali dal 2007 la compagnia si è ritrovata a lavorare in quello strano e misteriso mondo che va genericamente sotto il nome di "teatro/azienda". Un ambiente in realtà, sempre difficile da gestire per alcune sue caratteristiche specifiche e nel quale si trovano esperienze anche molto distanti l'una dall'altra, a volte poco condivisibili. E tuttavia di questo ambiente ci ha sorpreso positivamente il fatto che al suo interno esista ciò che nel teatro pubblico esiste solo in maniera fittizia: un mercato nel quale è possibile competere.
Il mercato, per definizione, è luogo complesso, spietato con chi non riesce a reggerlo, ma anche in grado di offrire possibilità al di sopra delle aspettative. Per usare una metafora, il mercato è la giungla.
Secondo il nostro modesto e forse sbagliato parere, questa giungla rappresenta l'alternativa a un ambiente che, per una serie di esperienze molto negative, abbiamo iniziato a sopportare ancora più a fatica, il paludoso stagno del teatro pubblico.
La caratteristica che balza immediatamente agli occhi e che in un mondo perfetto bisognerebbe sanare, è la contrapposizione così forte tra un ambiente e l'altro, la giungla o lo stagno. Nessuno dei due rappresenta l'ambiente ideale per vivere e lavorare. Ognuno dei due rischia di trasformare profondamente e in negativo chi vi opera. L'ambiente del teatro/azienda, però, ci pare oggi più aperto a recepire progetti nuovi e appartenenti ad illustri sconosciuti. Sembra paradossale. Ma questo paradosso fotografa bene il caos e l'ingiustizia che regnano nel settore dei finanziamenti pubblici alla cultura.
E forse gli operatori culturali italiani dovrebbero riflettere sui finanziamenti pubblici in maniera meno astratta. Non è il caso di discutere se, in generale, sia giusto o sbagliato che le istituzioni pubbliche finanzino la cultura: bisognerebbe domandarsi piuttosto se nel sistema italiano, che è ormai più chiuso, corporativo, e impenetrabile di un sistema privato, ci sia ancora qualcosa che valga la pena salvare.
La nostra risposta è no. E non si tratta della provocazione di chi è stato escluso, ma la proposta di chi un'alternativa reale l'ha già trovata, di una piccola compagnia che ha subito il terremoto dell'Aquila, che ha una sede ancora gravemente inagibile, per la quale ci impediscono di avviare i lavori di ristrutturazione e che ciononostante riesce a proseguire le sue attività, progettare nuovi spettacoli, pagare stipendi e contributi, eccetera... Se siamo ancora qui, malgrado tutte le difficoltà straordinarie che la nostra realtà è riuscita a superare senza finanziamenti pubblici, probabilmente lo shock sarebbe sopportabile per molte altre realtà più grandi, prestigiose e stimate di noi.
Quando nel 2008 presentammo la nostra Buona Pratica, non lo facemmo per conquistarci un fugace attimo di notorietà. Presentammo il lavoro di una compagnia teatrale giovane e inesperta che, solo ed esclusivamente con le sue forze e con il capitale privato, era riuscita a raggiungere un giro d'affari simile a un medio teatro italiano.
Allora pensavamo che una notizia del genere avrebbe dovuto interessare soprattutto i teatri medio-grandi, primi fra tutti ovviamente quelli del nostro territorio, e poi in seconda battuta, anche quelli più "illuminati" e orientati alla ricerca e alla sperimentazione. Quella che per noi era stata un'esperienza anche un po' casuale, se affrontata da una struttura con capacità di manovra decisamente superiori, avrebbe potuto portare alla nascita di qualcosa di più grande, magari un modello nuovo e importante. Partecipammo alle BP sperando che la nostra esperienza potesse destare l'interesse di qualche istituzione.
Probabilmente eravamo ancora troppo giovani e illusi: La nostra proposta non destò nessun interesse reale. Ora, se questo disinteresse fosse giunto in un momento in cui le istituzioni culturali non hanno nessun problema di finanziamento, non avremmo nulla da dire: si tratterebbe solo di una scelta di politica culturale. Nel momento in cui tutto il sistema è al collasso, però, il disinteresse nei confronti di un progetto come il nostro ci sembra assurdo e un po' colpevole.
In questo momento avremmo alcune nuove proposte nate dall'esperienza concreta per conciliare la giungla e lo stagno: Mimma ci ha invitato a presentarle, ma ci manca il contesto, manca l'ascolto reale e mancano gli interlocutori.
Oggi le realtà che godono del finanziamento pubblico sono assolutamente disinteressate alla ricerca di una soluzione in questa direzione, perché implicherebbe un cambiamento culturale, pieno di incognite e di rischi, ma anche di opportunità, come tutti i cambiamenti. Così la rifiutano "a prescindere". Questo è, secondo noi, il cuore del problema e il cuore della attuale crisi del teatro.
Così la nostra piccola e trascurabile realtà ha deciso di proseguire da sola e di continuare a esplorare questa giungla che, nonostante le insidie sempre in agguato, già da alcuni anni frequentiamo con diverse soddisfazioni. Per esempio, possiamo dire con un certo orgoglio che il teatro che facciamo noi non è in crisi. Ce lo siamo guadagnato.
Per tutti questi motivi, quest'anno nonostante l'invito a partecipare alle Buone Pratiche da parte di Mimma ci abbia fatto enormemente piacere, non parteciperemo.
Sempre con un certo orgoglio, tutto abruzzese, in questo momento ci sentiamo un po' fuori, non dal teatro, ma da un certo ambiente teatrale che oltre la protesta, troviamo incapace di confrontarsi con l'attualità.
Saremmo lieti di partecipare solo a un'edizione 2.0 delle BP; quella in cui qualcuno - molto più potente di noi - decidesse di passare dalla presentazione e all'attuazione di alcuni progetti. Ma questa possibilità, al momento, ci appare lontana. Anche se ci sentiamo un po' come il leggendario personaggio di Ecce Bombo «Mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in un angolo senza dire nulla?»
BP2011 MATERIALI E' il nostro tempo a rompere le scatole Sul Festival delle Colline Torinesi di Sergio Ariotti
Qualche giorno fa, al Regio di Torino, ho assistito alla prima del bellissimo Parsifal di cui è regista Federico Tiezzi. Prima che si aprisse il sipario l’orchestra ha eseguito l’inno di Mameli ed una voce registrata ha proposto al pubblico l’articolo 9 della Costituzione Italiana.
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Il sovraintendente Vergnano vuole questo preambolo prima degli spettacoli d’opera per sottolineare come le attuali politiche in materia di cultura tradiscano lo spirito della carta costituzionale e come i tagli rappresentino un’iniquità immotivata. Questo è il punto. La crisi economica non giustifica la fortissima contrazione del Fus, ad esempio, e i minori stanziamenti alla cultura nei bilanci delle amministrazioni locali. Il risparmio che ne deriva è irrilevante nella strategia anti-congiunturale. Alla base dei tagli c’è dunque la volontà politica di trascurare, se non punire gli operatori ed i lavoratori dello spettacolo. Circa cinquecentomila in Italia. “Non contano niente in temini elettorali”: affermò cinicamente qualche politico dopo le elezioni regionali piemontesi del 2010. Si riferiva al fatto che due ex-assessori alla cultura, in lista per il centro-destra l’uno e per il centro-sinistra l’altro, non avevano ottenuto il minimo dei voti per essere eletti. “Non si può fare affidamento su chi lavora nel settore dunque” : questo fu il pensiero ricorrente. Espresso da chi, forse, è abituato alle clientele ma non alla democrazia e che condivide il pensiero di Tremonti: “La cultura non si mangia” o dei tanti che inneggiano alle privatizzazioni o che credono che la cultura sia un ozioso trastullo. Una tesi da contestare duramente è anche quella che riguarda l’equivalenza nei tagli alla cultura tra l’Italia e gli altri paesi europei. Balle in malafede. Basta controllare i bilanci della Francia, della Germania, della Polonia, della Slovenia, persino della Spagna. Oltretutto i fondi per i beni culturali in Italia rappresentano lo 0,21% del bilancio dello Stato, contro il 2% e oltre in Francia, Germania, Inghilterra! Briciole. Continuare a protestare è doveroso quanto dirsi disponibili a studiare soluzioni. Inventare flash-mob, ad esempio, che scuotano le coscienze quanto lavorare per una nuova legge regionale sul teatro.
Il caso Piemonte – parlando della cultura – è un caso molto particolare. Oggi nella regione la si dimentica, la si taglieggia, la si tratta con leggerezza, dopo che per anni ha contribuito in modo straordinario a rinnovare l’immagine del suo capoluogo, conosciuto solo per la Fiat. Torino veniva considerata una città grigia, monoculturale, periferica, di montagna. L’opinione è radicalmente cambiata. Giusto in tempo perché oggi la cultura non sia più considerata una priorità. Perchè in Piemonte arrivano annualmente un milione di di turisti? Solo per le belle piste del Sestriere, per le acque dei laghi? Non c’entrano anche il Museo del Cinema o l’Egizio, la Fiera del Libro, le luci d’artista, i teatri, i festival? Che la cultura paghi la crisi in ragione del solo disavanzo nei bilanci che essa stessa ha determinato. Non bisogna prestarsi al gioco di chi cerca colpevoli. Di Soria ce n’è stato uno ed uno solo. Ha prodotto danni notevoli d’immagine ma non può essere un pretesto per fare di tutta l’erba un fascio. Il Festival delle Colline Torinesi ha dato molto. Almeno quanto ha ricevuto, se non di più. E’ cresciuto anche nella reputazione europea sostenuto con grande correttezza, va detto, da Assessorati e Fondazioni. Ma adesso?
Che fare? Che può fare un festival in un panorama nazionale così deprimente. Secondo noi: offrire al pubblico cartelloni coerenti, non cedere alle mode corrive, cercare il massimo possibile della qualità e dell’impegno (anche politico). Naturalmente utilizzando al meglio i diminuiti soldi che si hanno a disposizione.
Ma oltre a questi obiettivi ve ne è uno in particolare da realizzare: rompere l’accerchiamento. L’accerchiamento della mediocrità, della volgarità, del provincialismo. Bisogna guardare oltre i festini e le escort del Presidente, forse oltre la distorta funzione politica della magistratura, oltre il federalismo di maniera. Gli operatori teatrali devono essere più seri, rigorosi, pensare a progetti non casuali, ai contenuti, alla vitalità delle nuove generazioni, alle sinergie. Perché un festival è un piccolissimo laboratorio del futuro, una minuscola coscienza critica. La buona pratica del Festival delle Colline Torinesi? Le collaborazioni internazionali, il progetto Alcotra Carta Bianca ad esempio, seppur di ingiustificata complessità burocratica e gestionale. Il Festival delle Colline Torinesi e l’Espace Malraux di Chambéry hanno dato vita con esso ad una attività di tutela della creazione contemporanea teatrale italiana in Francia e francese in Italia. Ne sono stati coinvolti, tra gli altri, Spiro Scimone, Joël Pommerat, Paola Bianchi, Christophe Huysman, Hubert Colas, Fanny & Alexander, la Compagnia Suttascupa, Motus, i Teatri Uniti, La Compagnia Menoventi, Vincenzo Schino, Ambra Senatore, Muta Imago, David Bobée, Paul Desveaux, Vincent Dupont, Gwenaël Morin, Michela Lucenti, Danio Manfredini, Joachim Latarjet, Nicolas Ramond, Babilonia Teatri, Thomas Guerry, François Orsoni. E quest’anno anche il giovane regista Guillaume Vincent della Comedie de Reims che proporrà nel cartellone 2011 del Festival il suo allestimento tratto dal Katzelmacher di Fassbinder. Tema d’attualità dello spettacolo la xenofobia. Carta Bianca in qualche modo, con un tavolo di concertazione italiano, ha chiamato in causa anche altri teatri e festival italiani: tra cui l’Emilia Romagna Teatro, Santarcangelo, lo Stabile di Brescia. Ed il Festival delle Colline da anni collabora con Avignone. Uno dei varchi verso il teatro del mondo. Uno dei possibili. Perché non Belgrado, Timisoara, Cluj?
Nelle ultime edizioni del Festival delle Colline Torinesi si possono evidenziare molte presenze di artisti francesi, europei, internazionali. Una scommessa affrontata con la positiva complicità del pubblico. Spettacoli stranieri vuol dire preparazione adeguata e sottotitoli. Basta sentir dire da colleghi che il pubblico non vuole i sottotitoli! Non li vuole la prima volta, forse. I sottotitoli vanno studiati, occorre sintetizzare i testi, risolverli graficamente. E’ un’azione artistica. Alcuni dei nostri amministratori vorrebbero in scena soltanto i nomi della propria regione. Non diamogliela vinta. La dialettica del teatro impone le diversità. Sfogliamo i cartelloni di teatri francesi, a volte ci sono più della metà di spettacoli sottotitolati. La danza e il circo, tra l’altro, non richiedono didascalie. Proviamo anche a pensare alle tante etnie presenti sui nostri territori: romeni, marocchini, cinesi. Quanto si fa per loro? I festival sono l’ambito adatto a queste sperimentazioni, a queste scommesse sul futuro. Anche i dialetti fanno parte della creazione contemporanea. Non è un caso che per Italia 150 il Festival delle Colline Torinesi proponga un segmento di programmazione sui dialetti italiani. Quando sono usati sperimentalmente. I festival non sono l’habitat della pigrizia intellettuale. Ci sono molte stagioni della stabilità, ahimè, per quella.
Insieme ad artisti di tutto il mondo il Festival ha presentato molte giovani compagnie italiane. E’ un percorso di lavoro che va suggerito e che paga. Un segnale preciso l’ha dato, ad esempio, la Centrale Fies di Dro che ha in residenza Dewey Dell, Francesca Grilli, Pathosformel, Teatro Sotterraneo e Sonia Brunelli. Bisogna che i festival tornino ad essere fabbrica. Che producano modelli drammaturgici. E’ opportuno in questa filiera produttiva, oltre le contaminazioni, non dimenticare gli autori, i facitori di testi. Qualche volta presi dell’euforia dello stile ci si scorda fin troppo della parola, del copione, dello spartito. Poi, purtoppo, va sottolineato come i festival svolgano spesso ruoli che dovrebbero competere ad altri. Agli Stabili, per esempio. Ero felice quando Mario Martone ha aperto alla creazione contemporanea. Ma lo ha fatto inventando l’ennesimo festival e non inaugurando segmenti nuovi di stagione come forse avrebbe voluto. Il suo progetto era di destinare il Teatro Vittoria al nuovo teatro. Lo Stabile di Torino torni a questa prospettiva.
Ma cos’è, quanto alle persone che ci operano, un Festival? E’ una redazione, un collettivo di lavoro, una struttura dove tutti si impegnano perché gli artisti e il pubblico possano vivere un’avventura intellettuale ed emotiva. Dal Direttore Artistico agli stagisti. Nessuno deve fare fotocopie e basta, nessuno deve fare il funzionario. Tutti devono pensare, come ricercatori, alla mediazione culturale. La mediazione culturale è la parola d’ordine per il Festival delle Colline nell’immediato futuro. Una camera di compensazione che lavora sulle teste, sui cuori, sugli stili, sulle parole, sui colori, sulle risorse umane. Che, qualche volta e seppur per pochi, scardina la globalizzazione. Compito delicato e di sicuro non superfluo.
Mi è capitato, il 27 gennaio, di vedere una fotografia di Beirut sulla Stampa di Torino. Un carro armato, il chioschetto su ruote di un ambulante, un cartello che impone di ridurre la velocità, dei passanti che vivono imperterriti la loro giornata. Credo che quel chioschetto possa rappresentare i festival. Dà da bere, dà nutrimento a qualcuno. Posizionato accanto ad un carro armato, all’invadenza della politica, nell’apparente indifferenza. Ma che rimanga lì con le sue angurie, le sue bibite, il suo povero teatrino. Rimanga lì nella Beirut che è il nostro tempo a rompere le scatole.
BP2011 MATERIALI Tre per uno: la rete dei festival di Parma Nasce InContemporanea Parma Festival di Fondazione Teatro Due, Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti, Lenz Rifrazioni
InContemporanea Parma Festival è il nuovo progetto ideato da Teatro Due, Teatro delle Briciole e Lenz Rifrazioni. Un programma coordinato di appuntamenti con particolare attenzione ai nuovi linguaggi in cui si intrecciano Teatro Festival di Fondazione Teatro Due, rassegna della nuova drammaturgia contemporanea, Zona Franca che presenta le novità italiane ed europee della scena per le nuove generazioni e Natura Dèi Teatri, progetto di creazioni performative contemporanee internazionali ideate per il Festival.
Frutto di un anno di dialogo, riflessione e coordinamento progettuale fra le tre realtà, dal 27 ottobre al 28 novembre 2010 si è svolta la prima edizione di InContemporanea Parma Festival, che ha trasformato Parma e il suo territorio in una fucina performativa, tra prime assolute e creazioni di ospiti internazionali offrendo appuntamenti adatti a ogni fascia di pubblico, bambini inclusi, in pratica a ogni ora del giorno.
Obiettivi conseguiti per la prima edizione del progetto sono stati l’ideazione e la realizzazione di un calendario coordinato volto ad evitare sovrapposizione di date, l’ideazione e la realizzazione di un piano di comunicazione e promozione comune del festival (con la stampa di un programma e manifesti, alcuni interventi pubblicitari a livello locale e nazionale e un ufficio stampa comune) promosso e sostenuto dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Parma al fine di agevolare la circuitazione del pubblico, di critici e di operatori teatrali fra i tre teatri.
Si è inoltre individuato uno spazio, il TCafé di TPalazzo in Piazza Duomo, che fosse un’area di ritrovo comune per gli artisti e gli ospiti del festival e dove si sono realizzati una serie di appuntamenti per il pubblico: incontri con gli artisti ospiti delle tre rassegne, presentazioni di libri, approfondimenti e presentazioni degli spettacoli.
Per le edizioni future si intende, compatibilmente alle risorse disponibili, immaginare percorsi produttivi incentrati su tematiche e urgenze condivise, pur nel rispetto delle differenti poetiche; l’intento è dunque quello di proseguire in un’ottica di dialogo, realizzando altri momenti in comune durante l’anno e studiando delle formule di abbonamento trasversale che possano incentivare e stimolare ulteriormente la circuitazione del pubblico in maniera dinamica e trasversale.
BP2011 MATERIALI La Rete dei Teatri di Resilienza Rigenerazione culturale e Resistenza per una Decrescita serena di Rete dei Teatri di Resilienza
Ambito tematico
Fare rete (e rapporto con lo spettatore -inteso come partecipazione della comunità-)
Obiettivo concreto
Fare rete tra realtà dell'intero territorio nazionale animate dalla necessità autentica di portare un messaggio di speranza, in un contesto di forte disgregazione sociale come quello attuale, dando testimonianza attraverso il teatro (inteso soprattutto come spazio d'incontro e partecipazione) di pratiche artistiche come possibilità di rigenerazione culturale e resilienza.
Perché
Dal dibattito e confronto intorno alla rivista e al convegno Teatri delle diversità, sei compagnie teatrali, diverse per esperienza, forma giuridica, modalità di lavoro, linguaggi teatrali praticati, ecc. ma simili nell'approccio teorico e nella sensibilità estetica ed etica, decidono di riunirsi in una rete per meglio circuitare i loro spettacoli creando una rassegna itinerante, ovvero un calendario di spettacoli che viene proposto in diverse regioni d'Italia ma che fa riferimento ad un'organizzazione e a fonti di finanziamento locali.
Come
Creando momenti d'incontro e di scambio artistico-culturale attraverso convegni e festival nelle differenti sedi delle diverse compagnie (sei compagnie rappresentanti di cinque regioni d'Italia di cui due con sede in Piemonte -Torino e Cuneo-) e lavorando alla progettazione e all'organizzazione invece a livello locale, più autonomamente e dunque in modo più snello e rapido, portando però nello stesso tempo la forza di una realtà di portata nazionale.
Metodologia
Affiancamento di una precisa linea teorica saldamente condivisa e di prassi teatrali anche differenti ma che hanno obiettivi e intenti comuni (tutte le compagnie della rete coinvolgono la comunità con l'organizzazione di eventi e la presentazione di spettacoli, ma anche in modo più diretto proponendo laboratori teatrali aperti a tutti e perlopiù gratuiti che toccano tematiche di sensibilizzazione sociale per attivare concrete strategie di resilienza sia nei riguardi della comunità territoriale che di quella teatrale al suo interno).
Bisogni
Relazionarsi con realtà teatrali lontane nello spazio e vicine per principi e pratiche, dunque in situazione non concorrenziale dal punto di vista della ricerca fondi, al fine di far conoscere il proprio lavoro ad un più vasto pubblico e di creare un circuito dedicato: resilienza per la comunità e anche per i gruppi teatrali che trovano motivazione e allargano concretamente le possibilità di visibilità, finanziamento, lavoro, ecc.
Dialogare tra di noi, con nuove realtà che vogliano aderire alla rete e con il pubblico, soprattutto quello giovane poco abituato alla frequentazione dei teatri, anche attraverso il web e con l'intervento teatrale in spazi quotidiani.
Fasi
Dibattito teorico attraverso la rivista e il convegno Teatri delle Diversità.
Riunione in rete con l'attivazione di scambi concreti (inviti a convegni, rassegne, spesso tematiche, ed esperienze di residenzialità artistica).
1. Convegno Teatri delle Diversità, Cartoceto, ottobre 2008
2. Convegno Il teatro sociale come progetto culturale e espressione di comunità, Bucine AR aprile 2009
3. Festival Scene di frontiera, Novafeltria, giugno 2009
4. Convegno Teatri delle Diversità, Cartoceto ottobre 2009
5. Rassegna Eccentrico. Teatro d'innovazione e teatri delle diversità, Torino, maggio 2010
6. Rassegna DDT (di Diversi Teatri delle Diversità) Imola giugno 2010
7. Rassegna Stazione Estiva (residenzialità artistica e allestimento spettacolo sui temi della decrescita serena -Progetto “Su il sipario sulla salute. Prassi artistiche e culturali partecipate per il benessere e la salute di comunità”-) Laterina -AR- luglio 2010
8. Convegno La necessità dell'arte, Bucine, ottobre 2010
9. Progetto “Su il sipario sulla salute. Prassi artistiche e culturali partecipate per il benessere e la salute di comunità” circuitazione spettacolo sul tema della decrescita serena Cuneo e Provincia ottobre 2010-maggio 2011
10. Convegno Teatri delle Diversità, Urbania, gennaio 2011 (presentazione ufficiale della Rete che segue la pubblicazione del documento sul n. 54/55 di “Teatri delle Diversità” novembre 2010 e la video intervista a Serge Latouche sui temi affrontati dalla Rete)
Monitoraggio e divulgazione dei risultati
Documentazione video e fotografica di tutte le iniziative, valutazione attraverso la discussione faccia a faccia e via web, pubblicazione dei resoconti delle iniziative sulle riviste specializzate (per ora Teatri delle Diversità e Promozione Salute oltre ai media a carattere locale) e realizzazione di sintesi fotovideo degli eventi diffuse su You-Tube e sui siti di ogni singola compagnia e su quello comune attivato ad hoc.
Adesione di nuove compagnie alla rete.
Fondatori Rete Teatri di Resilienza
GIULIANO SCABIA
Associazione ESSEOESSE.NET Onlus e Gruppo teatrale FuoriXCaso (CUNEO)
STALKER TEATRO società cooperativa (TORINO)
EXTRAVAGANTIS – Nuova Associazione Teatro Integrato e Compagnia Teatrale della Luna Crescente (IMOLA)
TEATRO AENIGMA associazione culturale (URBINO)
COMPAGNIA DIESIS TEATRANGO società cooperativa (Bucine- AREZZO)
NEON TEATRO associazione culturale (CATANIA)-
BP2011 MATERIALI Un business model per il teatro civile? Tra teatro di narrazione e musica di Daniele Biacchessi
Non sono qui a presentare il mio lavoro artistico sul piano della sostanza, ma della forma, dell’organizzazione.
Nasco come giornalista radiofonico nelle private e nella Rai.
Poi dal 1995 intraprendo un lavoro di indagine e di inchiesta sulla storia contemporanea e scrivo e pubblico 22 libri.
Poi negli ultimi dieci anni decido di raccontare storie d’Italia dimenticate in teatro.
Sono essenzialmente monologhi.
Per realizzarli chiama a raccolta numerosi musicisti del rock e del jazz italiani.
Diciamo un connubio tra teatro di narrazione e canzone.
Fin da subito prendo in considerazione alcune proposte di agenzie che però lavorano sui miei contatti e non aggiungono nulla agli organizzatori culturali con cui sono in contatto:teatri, comuni, province, regioni, associazioni, rassegne e festival.
Così scelgo la via della produzione indipendente.
Giro con cachet dignitosi, ma bassi, perché mi metto dalla parte di chi organizza cultura in tempi di tagli e di crisi economica.
Solo per lo spettacolo Il paese della vergogna con il gruppo rock Gang ho totalizzato ad oggi 170 repliche senza passare dalle consuete agenzie.
Il vantaggio è riuscire a realizzare molte date per poi scegliere gli organizzatori più affidabili sul piano della promozione degli spettacoli.
Curo tutto nei minimi particolari: dall’ufficio stampa alla scheda tecnica, ai rapporti con gli organizzatori, a quelli con la struttura tecnica di messa in scena
In sostanza risparmio numerosi quattrini che avrei dovuto sborsare inutilmente: i contatti con giornali, riviste, organizzatori restano personali, racchiusi cioè in un rapporto fiduciario tra prestatore d’opera e soggetto organizzatore.
Sono consapevole che la mia esperienza non può essere esportabile a tutto il mondo del teatro, ma certamente può rappresentare un punto di riferimento per piccole medie realtà che lavorano sul monologo e sul teatro di narrazione.
Credo di avervi proposto una buona pratica teatrale.
BP2011 MATERIALI 15.000 spettatori in un appartamento L'esperienza del Teatro dell'IRAA The Secret Room di Renato Cuocolo
Tutto è cominciato molto tempo fa. Quando ci siamo accorti che certi avvenimenti, certe cose ritornano, ritornano ostinatamente sebbene li abbiamo messi alla porta.
Fu circa undici anni fa, quando, dopo aver lavorato in grandi strutture teatrali, Roberta ed io decidemmo che era il momento di mettere più vita nel teatro e più teatro nella vita. Per fare questo abbiamo iniziato a lavorare sulla cronaca orale delle nostre vite. “Sono un’ attrice e recito me stessa” dice Roberta. Quella che viene messa in discussione è la tradizionale separazione tra attore e personaggio. E’ un invito a riconsiderare i limiti tradizionali tra performance e realtà, tra arte e vita, finzione e autobiografia. Una delle prime scelte è quella della necessità di utilizzare spazi non teatrali: i luoghi, le case e gli hotel in giro per il mondo in cui inizieremo vorticosamente a spostarci. Le case sono per noi non delle scenografie ma trappole per la realtà. Nel nostro lavoro l’esistenza quotidiana e quella del teatro condividono gli stessi ritmi.
Tutto questo modifica profondamente il nostro rapporto col pubblico e la normale gestione economica della compagnia.
Il pubblico da un lato diventa complice, non più spettatore ma ospite, dall’altro è necessario limitarne il numero (sia per il tipo di esperienza proposta che per la capacità fisica dei luoghi usati).
S’inizia cosi con The Secret Room, uno spettacolo per dieci spettatori/ospiti a sera nella nostra casa di Melbourne. Questo spettacolo ad oggi ha superato le 1500 repliche ed è stato visto da più di 15000 persone. Un lavoro artigianale che per le sue caratteristiche può essere replicato un numero impressionante di volte.
Dopo una settimana dalla prima rappresentazione The Secret Room sarà prenotato per tutto l’anno. Attraverso la sua trasmissione in rete più di 300000 persone ed operatori che non avevano avuto modo di vederlo dal vivo potranno seguire il progetto. In questi anni il costo dei biglietti varia da 25 a 150 euro. L’Australia Council dichiara l’IRAA Theatre compagnia guida (per tre anni) per l’innovazione e ci aiuta a mostrare il lavoro ai giornali internazionali e ai direttori di festival. The Secret Room e i successivi spettacoli della compagnia vengono invitati in alcuni dei maggiori festival internazionali intorno al mondo. (Usa, Francia, Austria, Australia, Messico, Giappone Svezia etc)
I vantaggi economici della scelta risultano per noi evidenti:
Questo tipo di progetto da alla compagnia un assoluta indipendenza. In qualsiasi momento noi possiamo decidere con molta flessibilità e senza sforzi di presentare il nostro lavoro. Il lavoro è scritto e prodotto in inglese ma è replicabile in quattro lingue e questo ci da la possibilità di presentarlo proficuamente quasi dovunque.
A fronte di costi di produzione molto bassi il solo incasso del pubblico fa si che lo spettacolo sia autonomo da finanziamenti esterni. Questo aspetto non è stato finora quasi mai affrontato perché lo spettacolo, dato anche il buon rapporto costi/ricavi è stato sempre presentato con i cachet dei Festival invitanti.
Inoltre è già dal 1998 che l’IRAA utilizza la rete e ora i social network per tagliare i costi di marketing e pubblicità.
Da due anni abbiamo organizzato tre case (Melbourne, Roma, Vercelli) dove il lavoro della compagnia può essere presentato essenzialmente agli operatori che intendono poi invitare gli spettacoli all’interno delle loro organizzazioni.
Tutto questo ha creato quel percorso virtuoso che ci ha permesso scelte sempre più radicali e comunque un’assoluta libertà nel modo di affrontare e trattare le cose che a noi interessano.
www.iraatheatre.com.au
BP2011 MATERIALI Diagonale artistica Una buona pratica per i dieci anni di PAV di PAV
Il 2010 ha rappresentato per PAV un importante traguardo, quello del primo decennio di attività.
E’ naturale in un occasione come questa che il gruppo di lavoro senta l’esigenza di analizzare il percorso compiuto attraverso i progetti realizzati. Non si tratta di un semplice bilancio come lo si potrebbe intendere in termini aziendali/finanziari (aspetto che non è assolutamente sottovalutato ma riguarda un altro piano di confronto) quanto piuttosto di un’ analisi del lavoro svolto, delle competenze acquisite, degli obiettivi raggiunti. Abbiamo cercato di mettere a fuoco e cogliere quello che in corso d’opera non è sempre possibile, ovvero la corrispondenza tra obiettivi e risultati, tra priorità e motivazioni, tra scelte ed esigenze.
Già la semplice “lista” delle iniziative e progetti che abbiamo curato, degli artisti con cui abbiamo collaborato rivela in maniera esplicita la complessa e articolata griglia di lavoro in cui si osserva la costante compresenza di progetti istituzionali, produzioni di consistente impegno economico , di rilevanza nazionale ed internazionale (come Face a Face, Santa Cristina_Luca Ronconi, Mario Martone, diverse manifestazioni per il Comune di Roma, Short Theatre) unitamente a un’attività sul territorio di monitoraggio e sostegno a realtà teatrali indipendenti, a progetti sperimentali in spazi non convenzionali, alla creazione di gruppi di lavoro e collettivi artistici (come residenze culturali e progetti di decentramento nel Lazio, Area06, partecipazione a Scenario come soci).
Queste “aree di azione” hanno tra loro dialogato e interagito in maniera naturale trovandosi eccezionalmente nello stesso luogo in incontri spesso reali e fisici avvenuti nella nostra sede.
Tale interazione si è rivelata una risorsa decisiva in molti progetti realizzati e in generale nell’intero percorso lavorativo, che si è andato strutturando seguendo le connessioni e gli sviluppi da questa generate.
Un’attività composita e multiforme ha permesso a PAV di sviluppare uno sguardo a 360 gradi sul teatro contemporaneo, un punto di osservazione privilegiato, che oggi rappresenta la base fondante su cui avviare nuove buone pratiche per il nostro secondo decennio e a sostegno di un auspicabile “risorgimento” del teatro italiano.
Stiamo avviando in particolare un processo di sistematizzazione di quell’area di azione che riguarda la produzione artistica, al fine di sviluppare un metodo che sia efficace nel dare sostegno alla creatività. L’obiettivo non riguarda la gestione e l’organizzazione di un gruppo, di un artista, ma consiste piuttosto nel lavoro finalizzato all’individuazione di obiettivi concreti e reputati possibili.
Il punto di partenza è costituito dall’analisi delle modalità di produzione artistica, dalla riflessione su specifiche peculiarità e dal conseguente sviluppo delle potenzialità che si evidenziano, sia dal punto di vista produttivo sia distributivo.
Sebbene la collaborazione con ogni singolo artista/gruppo/compagnia sviluppi modalità peculiari e individui specifici obiettivi, come accade complessivamente nel sistema di lavoro PAV, i percorsi si potranno incrociare favorendo maggiori sviluppi sui risultati attesi e senz’altro attivando un effetto moltiplicatore delle esperienze e delle potenzialità di ogni singola iniziativa.
L’impegno non si esaurisce poi nel singolo obiettivo da raggiungere ma verte a stabilire e mantenere una “rete” di rapporti con altri uffici di riferimento in Italia e all’estero, generando un costante confronto sulle pratiche e mirando alla possibilità di instaurare partenariati e creare eventuali progetti comuni. Utilizzando la conoscenza più approfondita del territorio di appartenenza dei diversi partner si rafforza inoltre una funzione di monitoraggio sulla produzione contemporanea, in particolare quella indipendente priva di organismi promozionali di riferimento.
A quest’area di azione, dedicata al sostegno , sviluppo e promozione della produzione, abbiamo voluto dare il nome di “diagonale artistica” – cogliendo la suggestione da una danzatrice che spiegava il significato dell’utilizzo della linea diagonale in una coreografia: nell’immagine evocativa del” taglio della diagonale” abbiamo intravisto nuove possibilità per il nostro lavoro.
“Diagonale artistica” è la nostra buona pratica per il 2011 e, vorremmo, per il futuro.
BP2011 MATERIALI L'innovazione e la crisi La genesi del Sistema Teatro Torino e i suoi possibili sviluppi di Beppe Rosso
Come esempio di buona pratica vorrei percorrere brevemente quale fu la genesi del Sistema Teatro Torino, per dimostrare quanto le trasformazioni avvengano per concorso di più fattori ma soprattutto per istanze progettuali che arrivano dagli operatori che operano su un territorio.
Nel 2001, pochi anni dopo il crollo del Teatro della Rocca e l’imminente accorpamento con il Teatro Stabile del Laboratorio Teatro Settimo (due compagnie importanti e fondamentali per Torino) si rendeva necessario riorganizzare il tessuto culturale di riferimento della città. L’acquisizione da parte del Teatro Stabile dei fondi ministeriali che erano stati del Gruppo della Rocca fece balenare l’idea e il conseguente progetto pensato e propugnato da me, Walter Cassani e Gianbeppe Colombano e chiamato inizialmente “Centro Servizi”. Il motore di fondo del progetto fu, da un lato, spingere il Teatro Stabile ad aprirsi al sostegno produttivo alle realtà del territorio (a livello di fondi, servizi tecnici e promozione) e a rivolgere la propria attenzione anche alla drammaturgia contemporanea (proprio in nome dell’acquisizione dei fondi ministeriali del Gruppo della Rocca) e dall’altra una necessaria ridefinizione delle funzioni tra teatro pubblico, teatri privati e compagnie di produzione presenti sul territorio.
In realtà il progetto fu ideato e redatto nel 2000 e quando nel 2001 appunto, Fiorenzo Alfieri divenne Assessore alla Cultura di Torino lo acquisì e giustamente sviluppato creò quello che sarebbe stato il Sistema Teatro Torino.
E il Sistema non coinvolse solo il Teatro Stabile ma si estese a tutto il territorio torinese comprensivo di teatri, festival compagnie di produzione creando un progetto che, chiarite le funzioni, tendeva a creare sviluppo privilegiando l’azione di “legare” i soggetti (ognuno secondo le proprie competenze) piuttosto che metterli in concorrenza.
Ora, dopo 10 anni, che hanno caratterizzato in modo innovativo la realtà teatrale torinese (e non sto qui ad elencarne le caratteristiche) ritengo sia necessario capire lo sviluppo e la trasformazione che tale sistema potrebbe avere, anche in considerazione della situazione di crisi che stiamo attraversando.
Nuovamente ci troviamo di fronte ad una carenza assoluta di fondi per l’attività di produzione, ad un restringimento del mercato, che soprattutto colpisce la drammaturgia contemporanea, e alla necessità di dare spazio alle nuove generazionale. Problematiche che il sistema torino così come fu pensato non può più da solo supportare (anche in conseguenza dei notevoli tagli subiti) quindi ritengo si debba volgere anche lo sguardo altrove.
Se si prendono in considerazione i dati regionali si scopre che la maggior parte dell’attività di spettacolo dal vivo viene svolta nella città e nella provincia di Torino (72%); risulta chiaro che, nel caso del Piemonte, esista un territorio regionale poco frequentato che potrebbe diventare punto di riferimento per una trasformazione e razionalizzazione di un nuovo sistema. Quindi perché non provare ad estendere e ridefinire il sistema Teatro Torino a livello regionale, anche in consonanza con l’esperienza delle Residenze. (Residenze che dopo anni di attività dovrebbero anche loro essere ridefinite).
Forse non è il caso che qui si entri nel dettaglio di come potrebbe essere articolata tale estensione del sistema, anche perché il progetto è in corso d’opera e si sta elaborando attraverso un tavolo di lavoro di operatori all’interno dell’Agis Piemonte, ma alcune linee si possono accennare e dire che nuovamente si impone una ridefinizione delle funzioni tra chi produce, chi sostiene la produzione e chi distribuisce, coinvolgendo le compagnie, le fondazioni teatrali (che corrispondono grossomodo alla stabilità), il circuito e i teatri comunali. Ma anche enti locali (comuni, province e regione) e privati (siano banche o mondo dell’imprenditoria) presenti in loco sui territori, per creare dei “distretti culturali” che possano accogliere e sostenere attività di ospitalità, di produzione, formazione di nuovo pubblico e sostegno (o tutoraggio) alle giovani compagnie. Distretti distribuiti sul territorio regionale che dovrebbero in prima istanza lavorare in rete tra loro e poi in seguito promuovere progetti anche al di fuori dal Piemonte.
BP2011 MATERIALI Lo Stabile e il Sistema Teatro Torino Una sintesi di Walter Cassani e Patrizia Marchisio
Il Sistema Teatro Torino (STT), che nasce nel 2001 come Centro Servizi e nel 2004 acquisisce la nuova denominazione, è un progetto per un modello partecipato tra istituzione teatrale, ente locale e compagnie e si colloca come punto di riferimento per tutto il settore teatrale cittadino.
STT, iniziativa originale sul piano nazionale, è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura e al 150° dell’Unità d’Italia della Città di Torino insieme alla Fondazione del Teatro Stabile di Torino, e sin dalla sua creazione ha avuto come obiettivo principale lo scopo di collocare su un piano di dialogo il rapporto tra il Teatro Stabile e il restante tessuto teatrale cittadino, in un’ottica di sviluppo e promozione della politica teatrale cittadina secondo una logica di sistema.
La concertazione con le Associazioni di categoria (coordinamento compagnie Tedap/Agis) e gli altri Enti Locali, e conil Ministero dei Beni Cultural Dipartimento Spettacolo Prosa, hanno sviluppato un prototipo di convenzione Stato, Ente locale e Teatro Stabile di Torino unico in Italia.
Il Centro Servizi prima e STT in seguito, hanno risposto all’esigenza di sviluppare un più organico sistema di rapporti verso il territorio attraverso un’iniziativa di servizio, intesa come erogazioni di relazioni, collaborazioni produttive e progettuali, e inoltre hanno operato per definire gli elementi di coappartenenza all’ambiente teatrale torinese.
Il compito assunto dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino, in seguito all’apertura dell’ ufficio STT, è stato quello di riaffermare e rafforzare il proprio ruolo di “Organismo teatrale di attività stabile”, consolidando l’iniziativa di servizio rivolta al territorio di competenza, in conformità con le indicazioni sull’attività stabile “d’interesse pubblico”
Il Teatro Stabile di Torino, dunque, attraverso il Sistema Teatro Torino, opera di concerto con il Settore Spettacolo, Manifestazioni e Formazione Culturale della Città di Torino, per conferire visibilità, riconoscibilità ed equilibrio alla rete del territorio del teatro professionale, attivando il coordinamento degli interventi e favorendo contestualmente la collaborazione tra soggetti pubblici e privati di altri settori artistici.
Nell’ambito di questi indirizzi operativi, in concreto, STT ha incentivato la collaborazione tra programmatori e produttori e il sostegno a produzioni. Ha consentito alle realtà del teatro torinese di realizzare e sperimentare diverse possibilità di attività sostenendo diverse tipologie d’intervento come le convenzioni con sale teatrali e compagnie, la collaborazione con i festival del territorio, eventi, oltre che iniziative rivolte alle nuove e giovani realtà teatrali del territorio (RIgenerazione), il confronto e la verifica con operatori, programmatori, rappresentanti istituzionali e giornalisti.
Ha conseguito importanti risultati per la valorizzazione del progetto territoriale sul teatro professionale torinese e ha contribuito a evitare, fin dai primi tagli dei contributi del settore prosa a livello nazionale, il conseguente declino economico di quello torinese.
Negli ultimi anni STT ha potenziato ulteriormente la collaborazione con gli Enti pubblici e privati del territorio, Circuito Teatrale del Piemonte, Festival, programmatori e produttori.
L’azione coordinata derivata dall’ingresso della Provincia di Torino con la creazione del Sistema Teatro Torino e Provincia ha rappresentato il naturale completamento e sviluppo di una consolidata azione di sostegno alle attività teatrali del territorio.
Tra le iniziative frutto di queste importanti sinergie troviamo
- convenzioni con i soggetti riconosciuti dal Ministero - coproduzioni e collaborazioni con la Fondazione TST con i soggetti convenzionati; - bandi rivolti alle compagnie cittadine per il sostegno alla realizzazione di progetti produttivi annuali inseriti all’interno dei cartelloni del Teatro Stabile e dei due Teatri Stabili d’Innovazione ….
- percorsi di formazione e crescita, legati all’iniziativa RIgenerazione, per coloro che si affacciano al professionismo teatrale, al fine di incoraggiare il ricambio generazionale
- offerta divisibilità dei prodotti artistici delle giovani compagnie attraverso rassegne specifiche realizzate con la collaborazione della Provincia di Torino e del Circuito Teatrale del Piemonte.
- iniziative di comunicazione e promozione tramite: la creazione del sito www. Sistema Teatro Torino.it,al servizio dei soggetti teatrali di Torino e della Provincia, che accompagna e facilita la lettura della realtà teatrale torinese;
- recensioni e interviste digiornalisti delle testate torinesi che collaborano con STT al fine di dare visibilità alle produzioni e alle ospitalità dei soggetti teatrali.
BP2011 MATERIALI Motoperlospettatore Una Scuola dello Spettatore di Franca Graziano (Motoperpetuo)
Motoperpetuo è un piccolo teatro di Pavia che produce spettacoli e organizza stagioni di nuovo teatro. Dedichiamo quasi tutta la nostra energia al lavoro sulla città e sulla provincia, perchè ci interessa da sempre incidere sulle politiche culturali. La situazione della provincia italiana, anche quella “d'arte e di cultura”, con la presenza di un’Università, come Pavia, è spuria e magmatica, ma occorre averla ben presente, nel bene e nel male. L'obiettivo della nostra buona pratica è quello di lavorare insieme al pubblico, cioè ai cittadini che frequentano l’arte teatrale, per elevare il livello del tessuto culturale della città e della provincia. La riscoperta del pubblico è forse è l'unico aspetto positivo di un momento di profonda crisi: morto il sostegno economico degli enti locali, agonizzante la solidarietà tra teatranti, ecco che si valorizza il polo dello spettatore. Il pubblico teatrale si sta pericolosamente omologando a quello televisivo: un pubblico alla ricerca di evasione e disimpegno, che preferisce essere rassicurato e anestetizzato dall'opera facile e commestibile, anziché essere smosso e provocato. La riscoperta può essere strumentale oppure autentica: è strumentale quando se ne tiene conto solo in termini di numeri (prassi cara agli amministratori) e quando se ne fa oggetto di promozioni improbabili, che peraltro in molti facciamo, tipo paghi uno e prendi due, regala l'abbonamento a Natale,ecc.
Ma esiste, e su questo noi stiamo lavorando, un modo più autentico di rivalutare il pubblico: e cioè instaurare un dialogo come premessa a un incontro vero; e un incontro è vero allorché da entrambe le parti c’è qualcosa da imparare.
Il primo passo è rendere edotto, informare lo spettatore di tutto il lavoro che gira attorno a un allestimento, dalla scrittura drammaturgica allo status attuale dell'attore teatrale, alla questione dei finanziamenti pubblici e privati: chi racconta oggi a uno spettatore quanto costa una stagione di un teatro comunale, qual è il cachet di un attore, chi gli spiega per esempio che l'informazione culturale sui media ormai è al 90% a pagamento?
Questo è quello che negli ultimi due anni noi stiamo facendo con la Scuola dello Spettatore, serie di incontri con studiosi e operatori sulle questioni appena elencate, e appuntamenti per assistere alle prove dei nostri spettacoli. Abbiamo verificato, a proposito del discorso sulla provincia italiana, che a Pavia mediamente il pubblico stanziale è un semianalfabeta teatrale: risultano sconosciuti grandi nomi internazionali e nazionali che presentano i loro lavori a Milano, cioè a 40 km di distanza; di ciò occorre tenere conto, seminare conoscenza affinché la situazione migliori. Questo confronto fa un gran bene anche ai teatranti; impariamo ad adottare nel dialogo un linguaggio non da iniziati, impariamo a fare la proporzione tra ciò che viviamo come ombelico del mondo ( cioè il nostro fare teatrale) e la reale percezione e rilevanza che questo fare ha all'esterno: ciò ci consente poi, sulla scena, di identificare e modulare quella sottile linea che va e viene, guizza tra l'attore e il pubblico.
Il secondo passaggio in questo percorso di valorizzazione del pubblico è il concorso di idee che abbiamo lanciato ora: chiediamo di produrre, in alternativa, le seguenti idee: un tema poetico e civile su cui costruire una produzione, un progetto di collaborazione con realtà (non solo artistiche in senso stretto) che il concorrente conosce e frequenta, la calendarizzazione di una intera settimana di attività nel nostro teatro, compresi momenti conviviali e ludici. Il regolamento è sul nostro sito: ww.motoperpetuo.org. Per noi questo rappresenta un tentativo di coinvolgimento autentico, non fittizio né finalizzato ad accondiscendere ai gusti del pubblico, primo perchè la nostra linea artistica è ben conosciuta, e poi perché non ci spaventa l'accogliere proposte “di base”: dialogare con il pubblico significa mobilitare tutto ciò che nello spettacolo può coinvolgerlo, coniugandolo con la nostra ricerca di innovazione
Esiste un obiettivo finale della nostra buona pratica: dopo aver seminato conoscenza e condivisione con i due passaggi illustrati, intendiamo costituire un laboratorio di idee, un think tank per Pavia, in cui spettatori, operatori teatrali e studiosi discutono, elaborano pensieri e proposte, acquisiscono un'identità tale da diventare interlocutori critici ma propositivi sulle politiche culturali, considerato che la progettualità in questo campo da parte degli amministratori è inesistente. Un percorso opposto alla nascita dal nulla, tipica ancora una volta della provincia, di microrganismi culturali , di comitati di amici e/o di saggi vari, spesso tanto saccenti quanto ininfluenti.
Questo per noi è l'incontro vero con il pubblico: scambiarsi conoscenze, vincere l’indifferenza imperante, verificare il ruolo che il nostro lavoro svolge lì dove operiamo.
BP2011 MATERIALI Carta Giovani 2011 Un progetto del Circuito teatrale del Piemonte di Pietro Ragionieri
Il Circuito teatrale del Piemonte, dopo aver realizzato l’Agenda Giovani 2011 in collaborazione con il Teatro Stabile di Torino ed il Sistema Teatro Torino e Provincia, dedicata a 28 giovani compagnie di teatro e di danza, vuole rinnovare il proprio impegno nei loro confronti. Il Circuito è infatti consapevole dei numerosi disagi cui vanno incontro i giovani che intendono “fare teatro” – dal reperimento di spazi adeguati per provare, all’ingresso nel mercato e all’insediamento sul territorio di teatri loro dedicati, e ha quindi deciso di proporre alle 28 compagnie, e a quanti altri vorranno aderire, di produrre insieme una Carta che raccolga le proposte dei giovani artisti piemontesi, dando a questo documento la massima diffusione nella convinzione che le istituzioni, le forze sociali e la società piemontese sapranno dare risposte adeguate ad un problema che non consente ritardi (“Dio perdona, l’ignoranza no” ci ricorda il bel film di Cristiano Barbarossa). L’edizione 2011 delle Buone Pratiche a Torino è dunque un’ottima vetrina in cui il Presidente del Circuito, Pietro Ragionieri, e le compagnie potranno presentare al pubblico la Carta redatta insieme e dialogare con i numerosi operatori che parteciperanno, al fine di allargare la rete di diffusione e di promozione dell’eccellenza piemontese.
BP2011 MATERIALI La seconda edizione del Premio Nico Garrone Comune di Radicondoli – Associazione Radicondoli Arte di Anna Giannelli Premio Garrone 2011
Carissimo/i,
vasta e calorosa la risposta alla prima edizione del Premio Garrone. Numerose le indicazioni, non facile la scelta. Ma: bene!
Ed ora si riparte! Contando ancora una volta su di voi - attori, registi, gruppi...chi concretamente lavora nel teatro - per avere le indicazioni di quei critici che, a volte meno immediatamente visibili, stanno compiendo un prezioso lavoro di analisi degli spettacoli, di messa in circolazione di nomi di compagnie e di artisti che davvero meritano.
Così per i maestri...
Per il bando pensiamo che possa restare lo stesso dell’anno scorso (v. sotto), ringraziando qui tutti coloro che hanno partecipato in varie forme all’iniziativa e che sono stati presenti alla giornata di consegna dei premi, davvero molto piena di tanti pensieri, attraversata da intense emozioni.
BANDO
solitamente sono i critici a giudicare, a premiare compagnie, spettacoli. Comprensibilmente: una questione di ruoli...
Ma in realtà si conosce sempre molto poco della ricchezza del teatro: anche chi cerca di seguire il più possibile vede sempre una piccola parte della vasta, fitta originalità creativa così vivace in questi anni nel nostro paese.
Abbiamo bisogno di sinergie, di individuare anche chi sa affiancare le nuove formazioni, riconoscerne in tempo il valore, aiutarle nel comporre la loro identità.
Abbiamo bisogno di confrontare gli sguardi, artisti e critici.
Ricordando Nico Garrone
Il Sindaco del Comune di Radicondoli, il Presidente dell’Associazione Radicondoli Arte e la giuria composta da Anna Giannelli - che ha lavorato a fianco di Nico Garrone, curando anche l’edizione speciale del festival 2009 - e dai critici teatrali Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Enrico Marcotti e Valeria Ottolenghi, promuovono due nuovi premi, proprio in nome di un critico davvero speciale, Nico Garrone, presenza fondamentale per il teatro, sensibile alla contemporaneità che muta, alle esperienze nuove di valore.
Ma vorremmo che ad aiutare la giuria ad individuare chi merita tali premi
Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta
Premio Nico Garrone a maestri che sanno donare esperienza e saperi
siano proprio gli artisti, chi vive le difficoltà del teatro nel ricevere attenzione, instaurare dialoghi con le precedenti generazioni, nell’ottenere la presenza di critici, esperti di teatro che, nell’esprimere diverse valutazioni, favoriscono la riflessione intorno alla propria poetica, i contenuti messi in campo, i linguaggi utilizzati.
Avremmo proprio bisogno che rispondiate a queste domande:
. ci sono stati/ ci sono maestri di teatro lungo il vostro percorso che vi hanno aiutato a crescere, figure particolarmente disponibili, capaci di ascoltare, di mettersi a confronto con generosità?
. ci sono stati/ ci sono critici che hanno scritto di voi - magari anche su riviste, giornali periferici - che hanno contribuito al vostro percorso attraverso il loro sguardo, le loro analisi?
Sarebbe importante che insieme ai nomi ci indicaste quanto è possibile per noi contattarli, specie quei critici forse meno noti da cui pensavamo quindi di farci mandare una parte dei loro scritti da leggere insieme come giuria.
La giuria - affiancata magari da altre figure per la fase finale, l’ultimissima tappa - valuterà le indicazioni pervenute e assegnerà i premi al prossimo Festival di Radicondoli, estate 2011, con momenti d’incontro, di analisi dei dati pervenuti, di confronto con le compagnie che hanno partecipato al percorso, tema centrale naturalmente maestri e critici come compagni di viaggio...
Dovreste mandare le risposte entro la fine di marzo 2011! mi raccomando non oltre!!! Ci sarà poi molto lavoro da fare...Potete spedire tutto a: Anna Giannelli, e.mail: anna.giannelli@virgilio.it, ma per informazioni e chiarimenti potete chiedere, oltre che ad Anna Giannelli, cell. 338 3417150 anche a Valeria Ottolenghi, valott@tin.it, , tel.0521/786075, 340 3600836.
Grazie!
BP2011 MATERIALI Cara sinistra, ci hai mai pensato? Quattro idee per quattro Buone Pratiche di sinistra di Luciana Libero
Caro Pdp, nel nostro privato e vivace scambio di email su lottizzati e lottizzatori (una volta si diceva sfruttati e sfruttatori), mi hai posto una domanda a proposito delle tante e inutili denunce fatte sull'argomento: ma allora dobbiamo diventare più buoni o più cattivi? Ti rispondo.
Io credo che tutti dobbiamo diventare cattivi, politicamente scorretti, e anche, un po' più furbi.
Nel mio ultimo libro Il teatro e il suo Sud, scrivevo, a proposito delle proposte di legge del Pci degli anni Settanta: "Ma la vera lotta dietro le quinte dei convegni cui partecipavano entusiaste ed ignare folle di appassionati – che beatamente si azzuffavano sul teatro immagine, sul testo e sul teatro di parola, sulle avanguardie e sulle masse, sulle élite e sul popolo – era tutta politica ".
L’autocitazione sta a dire da quanto noi, della mia e credo anche della tua generazione, siamo quelle "ignare folle di appassionati" e quanto vogliamo ancora esserlo, discutendo oggi delle buone pratiche. Ora con tutto il rispetto, quanti di coloro che partecipano al vostro lodevole incontro, sono espressione di buone pratiche? Gran parte degli artisti, certo, testimoni con la propria opera; forse gli organizzatori, ma altri?
Leggo che la giornata prevede una sezione sui bandi ad evidenza pubblica. Magnifico. Avete notizia di qualche bando del genere? Qualche incarico di presidenza, di consigliere, di direttore? No, immagino, perché in tal caso lo pubblichereste sul vostro sito e magari qualcuno di noi potrebbe parteciparvi. E allora di che parliamo?
In realtà, come tu ben sai, il teatro in Italia non fa bandi, nemmeno per prendere un addetto alla biglietteria. Si entra per conoscenze, appartenenze, nomine politiche. A destra, e a sinistra.
Con la differenze che, in Italia, quando si fa a sinistra è giusto, a destra è sempre uno scandalo.
D’accordo, il personale della destra non è sempre all’altezza ma il criterio dovrebbe valere per tutti, o no? E allora di quali buone pratiche vogliamo parlare?
Parliamo di Napoli che è all’ordine del giorno. Qui l'onorata gestione Bassolino ha creato quelle che ho chiamato le "piramidi culturali", in omaggio al senso dell'immortalità. Piramidi (alias Fondazioni) di diritto privato, di emanazione regionale che, una volta avviate, con milioni e milioni di euro gestiti da presidenti, cda - tutti nominati tra consulenti, amici e sodali di partito, indipendentemente dalla loro qualità e competenza - non sono facilmente smantellabili dallo spoil system, suscettibili, come sta di fatto accadendo, di corsi e ricorsi al Tar, in caso di modifiche e cambi di scena. Il Madre con Cicelyn, Il Napoli con il Teatro Festival, il Mercadante. Questa è stata, secondo voi, una buona pratica?
Ora tutti hanno gridato allo scandalo e all’ignominia per la nomina di Luca De Fusco in sostituzione di De Rosa. Perché? Perché De Rosa è più bravo di De Fusco? Perché De Rosa è espressione del teatro di ricerca e De Fusco della tradizione? Non ha forse diritto anche De Fusco? Non è stato nominato anche De Rosa dalla politica? E tutte le nomine degli Stabili italiani come avvengono?
Sono usciti, come sai, molti libri in questi anni sulla supponenza della sinistra, sulla convinzione di essere sempre i migliori e dalla parte giusta. E si sa quanto l’atteggiamento non abbia giovato.
La verità è che il problema non sono i nomi ma le cose e cioè i teatri, gli spazi, i progetti, che non sono beni privati di chi in quel momento amministra ma beni pubblici nei quali si dovrebbe avvicendare personale artistico e amministrativo qualificato e competente, anche, se vuoi, segnato dall’alternanza di una contiguità politica. Questa sarebbe una buona pratica.
Se invece, si continua a strapparsi i capelli per lo smantellamento che sta facendo la destra di tutto ciò che ha costruito la sinistra, senza fare nulla affinché le regole cambino, facciamo chiacchiere, fuffa, conformismo. Se la sinistra avesse organizzato, in Campania come altrove, non privatissime Fondazioni con soldi pubblici, bensì regole ferree di ingaggio ancorate a qualità, competenza, manageriali sistemi di gestione, non credi che oggi sarebbe più difficile per la destra? Si può nominare un direttore di un museo come il Madre a tempo indeterminato? E in Toscana, dove da tempo immemore governa la sinistra, la situazione è forse diversa? Anni fa la Fondazione Toscana Spettacolo fece un bando per la direzione al quale partecipai. Non se ne è saputo più nulla.
In questi giorni, per rimanere a Napoli, Renato Quaglia ha presentato le proprie dimissioni dal Napoli Teatro Festival, legando le sue sorti a quelle di Rachele Furfaro. Così il risultato è che mentre i mediocri, quelli nominati solo per appartenenza, stanno a fare ridicoli ricorsi al Tar (anche perché fuori di lì non vanno da nessuna altra parte), anche quelli bravi sono costretti a legare le proprie sorti alla politica.
Che fare? Forse, in questi anni difficili, smettere di continuare a essere ancora ignari appassionati; uscire dall’ipocrita paese delle meraviglie delle buone pratiche e avanzare due o tre domandine con tanto di firme a coloro ai quali, volenti o nolenti, nonostante tutto, ci rivolgiamo. Forse, non servirà a niente ma almeno, proviamoci.
Te le espongo:
1) Cara sinistra che sei in Parlamento, si sta tornando a discutere della legge sullo spettacolo, ti vuoi impegnare come forza di opposizione a portarla a termine?
2) Cara sinistra (PD, SEL, IDV, Veltroni, Bersani, Vendola, Chiamparino, Renzi, Governatori regionali, sindaci etc etc), pensi di introdurre regole di evidenza pubblica obbligatorie per le nomine nelle istituzioni teatrali dove governi?
3) Hai mai pensato che i giovani, i gruppi, le piccole compagnie, i singoli artisti non hanno nulla a che vedere con criteri quali “storicità”, percentuali di finanziamenti, contributi versati e altre simili amenità che puntualmente sono inserite nelle normative statali e regionali, grazie alle concertazioni con l’AGIS? Hai mai pensato di modificare questo sistema che blocca le giovani generazioni teatrali?
4) Vuoi chiedere, e pretendere e ottenere, grazie ai tuoi uomini e donne in Parlamento, al Dipartimento della Funzione Pubblica, di aprire una short list di esperti dalla quale è obbligatorio attingere in caso di nomine alle direzioni e nei Cda delle istituzioni teatrali e culturali?
Queste, per ora, poi a voi ne verranno in mente altre. Grazie e tanti auguri di buone pratiche
BP2011 MATERIALI Smarketing per il teatro Come trovare i soldi per mangiare tutti i giorni facendo teatro? di Marco Geronimi Stoll
Lo smarketing non è una sorta di marketing alternativo: il suo obiettivo è che si vendano meno merci in questo mondo che consuma energia e materia come se avessimo a disposizione cinque pianeti.
Lo smarketing aiuta a ridurre la filiera, a far incontrare produttori e acquirenti, anche di cultura. Quando una piccola compagnia può chiamare il suo pubblico in una sala con twitter o con una newsletter senza bisogno di organizzatori, agenti e marketer, stando fuori dai cartelloni o creandone di autonomi mettendosi in rete con altri, quello è smarketing.
1. Come trovare i soldi per mangiare tutti i giorni facendo teatro
Certo, alle compagnie spesso servono locandine più chiare, siti più navigabili, schede più efficaci, comunicati stampa quantomeno decenti. Non serve essere bravi se non lo sa nessuno; ma questa è solo tattica,comunicare bene è indispensabile ma è insufficiente se non si guarda anche oltre.
Molti si mettono la cravatta e vanno a cercare sponsor; è una pratica frustrante, spesso inutile quando i finanziamenti privati sono più lottizzati e scambisti di quelli politici.
Possiamo piuttosto conquistarci autonomia economica diretta riducendo la filiera. Il compito è enorme, ma i nuovi mezzi ci aiutano.
- Dobbiamo contendere il pubblico all'ipnosi televisiva su quei comodi divani domestici,
- dobbiamo chiederci come integrare il corpo vibrante dell'attore coi media digitali (sia quelli ex-nuovi come il computer, sia quelli nuovi-nuovi che stanno arrivando),
- dobbiamo, ancora una volta, chiederci quali azioni teatrali fare negli spazi scenici deputati e quali nel territorio popolato dalle persone “normali”.
Per questo occorre fare un paio di riflessioni sullo scenario attuale, partendo da alcune apparenti ovvietà.
2. Cambiamento della dieta mediatica.
Prima apparente ovvietà. La televisione in mezzo secolo ha eroso pubblico a tutte le forme di incontro sociale fuori casa. Vale non solo per l'attore, anche per il sacerdote, per il fisarmonicista di liscio, per l'agitatore politico, per chi cantava con gli amici in osteria...
Questo cambio del consumo culturale è stato centripeto, ha uniformato drasticamente gli stili quotidiani e l'immaginario di ciascuno, diventando il fondamento (eterodiretto) dei valori e delle aspirazioni.
Con internet per la prima volta diminuisce la penetrazione dei mass-media a vantaggio di un uso di massa dei personal media. In Italia proprio in questi mesi c'è stato il sorpasso (più ore su internet che alla TV).
E' vero che la penetrazione di internet riguarda solo la metà della popolazione, ma quella urbana cui può interessare il teatro è quasi tutta già connessa, esperta ed attiva.
E' presumibile che anche questo nuovo cambio del consumo culturale modifichi radicalmente gli stili quotidiani e l'immaginario di ciascuno, ma nella strada opposta a quella della TV, cioè centrifuga dall'uniformità alla poliedricità, dal controllo alla liberazione.
3.Tendenze in atto
Seconda apparente ovvietà. Gli scenari tecnologici futuri vedranno un sempre maggiore mix tra TV, PC telefonino ed altri strumenti personal (macchina fotografica, videocamera, software grafici, georeferenziatori, strumenti agili per scambiare testi...).
Non è facile immaginarsi la quotidianità d'uso di questi nuovi animali che avremo in casa e in tasca, ma non è difficile vedere tre implicazioni a cui fare attenzione:
1. Diventiamo tutti nicchie; ciascuna nicchia può schiodare dai divani catodici un piccolo ma significativo numero di sederi e farli uscire la sera, almeno per alcuni giorni al mese.
2.
3. L'esposizione ai massimi tecnologici crea voglia di minimi tecnologici; in particolare, da quando si può downloadare praticamente tutto, diventa interessante l'unica cosa che non puoi scaricare attraverso un filo: il corpo in carne ed ossa ed il flusso comunicativo dal vivo con esso.
4.
5. Un telefonino in tasca diventa foto-video-audio-camera e può farci diventare tutti autori e giornalisti, in un mondo dove i contenuti sono generati dal basso. Questo comporta il parto sofferto ma generativo di nuove competenze, stili e gusti in una nuova alfabetizzazione popolare.
6.
Vale la pena di approfondire questi tre aspetti.
3,1 Sederi liberati dalla lobotomia
Ricordate i tempi antichi, quando ancora si compravano i CD e i DVD? oggi l'accesso ai contenuti è sempre più economico, articolato e non controllabile dall'alto. Se il disco della pop star prefabbricata dalle major si può scaricare “a scrocco” se ne usura il branding, si rendono contemporanee tra loro le sue produzioni precedenti e quelle recenti, quindi diminuisce l'interesse di consumare il suo megaconcerto.
Invece se una band emergente con un'etichetta indie si fa strada su youtube col passaparola, facilmente troverà un pubblico bastante a fare ogni anno un discreto giro di concerti medio-piccoli; potrà mantenersi accettabilmente senza dover fare troppi compromessi. Regalare ai fan le proprie canzoni in formato MP3 sarà una forma di relazione sostitutiva ed alternativa al marketing; senza intermediari, a costo zero; chi è interessato si autoseleziona, quindi addio al vecchio concetto di target; lo scambio è leale, winner to winner: o vinciamo entrambi o perdiamo entrambi. Così tu verrai al mio concerto e porterai nuovi amici.
Rispetto alla pop star, la fidelizzazione (scusate questo orrendo termine) probabilmente dura di più nel tempo; nonostante ciò l'artista può evolvere dal proprio clichet e cambiare liberamente, perché le strade tra le nicchie possono incrociarsi, fondersi o transizionare.
3,1,1 Fanno molto teatro, i non teatranti
Il fenomeno per cui esci di casa quando scopri di appartenere a una nicchia, vale per tutti i casi di evento dal vivo: hanno sempre più successo le occasioni in cui si incontra fisicamente la persona che ha una certa fama in un gruppo sociale relativamente limitato.
Vale per la poetessa iraniana che fa i reading, per l'astronomo che spiega i quark, per il produttore di aranci che, invitato a Bolzano da un GAS, racconta a quaranta persone come li coltiva biologicamente, te li fa assaggiare e ti insegna a fare colle bucce una speciale marmellata buonissima che spalma sul pane tirolese. Attenti, tutto questo è teatro.
Diversi scrittori italiani girano il Paese perché vendono più nelle presentazioni del libro che in libreria; non guadagnano molto ma è una vita piacevole: mangiano bene, incontrano bella gente e il loro narciso gode a mille. Notatelo: dopo una decina di repliche hanno la battuta giusta, imparano i tempi di lettura, cominciano a “sentire” il pubblico, scoprono come cominciare ad effetto e chiudere in bellezza... a volte fanno anche tutti gli errori teatrali del dilettante allo sbaraglio e una consulenza non nuocerebbe; tuttavia è innegabile che sono in scena.
Azzarderei il seguente postulato: è teatrale qualsiasi situazione dove ci sia un pubblico, un soggetto comunicante e non si usi Power Point.
3,2 Minimi tecnologici
In modo molto empirico negli anni '80 avevo formulato la teoria dei minimi e massimi tecnologici, incrociando i lavori di Bruno Munari con la pragmatica della comunicazione (Watzlavick).
Detta in breve: quanto più la nostra esperienza si apre al virtuale, all'astratto e all'intangibile, tanto più abbiamo bisogno di equilibrarla con esperienze materiche, fisiche e sensoriali.
Elaborata nell'era dell'analogico per facilitare l'esperienza artistica in età evolutiva, oggi, con gli adulti dell'era digitale, funziona anche meglio.
3,3 Siamo tutti autori
Da anni si parla di User-Generated Content. Anch'io credo che sia il futuro, anche se all'inizio dei nuovi alfabeti si è tutti nuovi analfabeti. Wikipedia ha surclassato le enciclopedie tradizionali perché milioni di persone anonime la scrivono, aggiornano, controllano, correggono, traducono.
Se in qualche paese la polizia picchia dei dimostranti, decine di cellulari la fotografano e in pochi attimi pubblicano notizia e foto sul world wide web: se siamo tutti giornalisti c'è più democrazia.
In tasca abbiamo (o avremo fra poco) un telefonino la cui funzione è sempre meno quello di comunicare in voce. E' una videocamera, una fotocamera, un registratore audio, una radio (per sentirla, ma anche un mezzo per parlare in diretta ad una radio), un rapidissimo word processor.
E' anche (attenti, che è importante) un navigatore satellitare che va in googlemap: io metto l'indice su un punto della mappa ed è un input che dice “qui”. Chiunque voglia saperlo, saprà che lì c'è un buon ristorante, un bel paesaggio,... o anche un evento di arte minima, un mob, una performance, un'azione di guerrilla theatre.
Incrociate questa potenzialità col fatto che siamo tutti nicchie e troverete un aspetto molto territoriale dell'essere autori: ritrovarsi in molte decine (o alcune centinaia) in un posto x, decidendolo poche ore prima... così possiamo essere tutti autori non solo di un'opera ma di un evento. Questo grazie al cellulare che dice dov'è il theatrum.
4. E ti dico una cosa già detta
Le conclusioni non sono così originali come le premesse perché ci troveremo (già ci troviamo) a proporre filoni e generi che abbiamo già frequentato e che forse sembrano (nella ricerca teatrale) sorpassati.
Spesso quel cittadino che vorremmo come pubblico, sente piuttosto l'esigenza di fare l'allenamento dell'attore, vuole esperire l'emozione, la disciplina, il coraggio, l'empatia con gli altri corsisti e anche la coralità antropologica del teatro. Non dileggiamolo se c'è in gioco anche un bel po' di narcisismo, la questione è proprio questo mondo di trasparenti in cui ciascuno subisce milioni di input, ma dei suoi output non frega niente a nessuno.
Poi c'è la questione, anch'essa annosa, del “dove”; quando si è nella macchina scenica, tra i fari e con una buona acustica, il pathos è potente; ma la gente deprivata del proprio pathos è altrove, magari sono tutti cinquanta metri oltre il muro del teatro ad aspettare la metropolitana con l'aria nervosa e depressa: non ci vorrebbe proprio lì un po' di teatro di strada...? non c'è teatro senza cittadinanza.
Potremmo andare avanti: l'animazione coi bambini, il teatro dell'oppresso, le performances d'artista, le pantomime carnevalesche; il nuovo gramelot di tutte le etnie che ci sono su un autobus; due burattini che si bastonano e (maledizione) riescono ancora a farci ridere...
Spesso cose già digerite, che “abbiamo già fatto”, che fanno dire a molti addetti ai lavori “uffa” nel déja vu ormai poco divertente: territori desertificati che abbiamo abbandonato, magari lasciando i meno colti di noi, o i meno furbi, a presidiarli. E' davvero una questione di evoluzione culturale? non sarà banalmente una questione di età media?
5. … già detta da diecimila anni
Non può che essere una cosa già detta, perché l'arte nel novecento, culmine dell'età del ferro, ha molto indagato l'inizio dell'espressione umana, l'età arcaica quando le arti erano indifferenziate e tutto era teatro. Sono in molti a scrivere che oggi, uscendo dall'età del ferro (che ci ha accompagnato dalla fine della preistoria alla chiusura delle grandi fonderie) e passando all'età del silicio (il computer e i pannelli solari: il piccolo col cosmico, l'individuale col collettivo globale) si vada verso nuove forme di olismo e sincretismo, di nuova oralità molto simili a quella arcaica.
Torniamo a come pagare l'affitto e la luce. Come campava uno sciamano o un cantastorie? Una compagnia di guitti sul carrozzone? Un poeta greco o un griot? L'orchestra zingara e il burattinaio? Eppure mangiavano; certo non ingrassavano, ma avevano per pubblico gente più magra di loro. Erano in una rete di relazioni sociali complessa e ramificata e il reciproco sostentamento era nello scambio, cibo dell'anima in cambio di cibo del corpo.
Nello scambio, non nel “mercato”, sembrano due cose diverse ma hanno un senso opposto, il mercato è un'ideologia, lo scambio è una prassi.
Nel mercato, il cibo dell'anima è studiato dai marketer: due tette siliconate che l'allattano ingozzandola di vinavil, così resta incollata. Nell'era premoderna sapevamo quando l'anima ha fame.
Oggi cosa alimenta l'anima? Quest'anima anestetizzata dal più brutto dei mondi possibili, nelle più brutte città della storia, cosa può consolarla, risvegliarla, ridarle senso, passione, entusiasmo?
Forse la domanda da farsi è questa: non chiedere a quale target vendere il nostro prodotto teatrale, ma piuttosto cosa affama l'anima quel potenziale pubblico che al nostro spettacolo ancora non viene, col quale potremmo, vorremmo scambiare narrazioni.
BP2011 MATERIALI Artisti per casa, giardino e cortile Un progetto di teatralità diffusa sul territorio di Claudia Allasia
Artisti per casa, giardino e cortile è un progetto di teatralità diffusa sul territorio, adatta soprattutto a questo momento di crisi, ma che ha molte altre finalità virtuose, quali avvicinare il teatro alla gente, fare concorrenza alla televisione direttamente in salotto, creare occasioni d' incontro culturale tra vicini di casa, far sentire le persone
protagoniste di un evento speciale, essere in sintonia con la scuola di pensiero slow, ecc.
Insomma: Artisti per casa, giardino e cortile è una forma imprenditoriale di artigianato culturale a basso costo, che di questi tempi fa bene a tutti e che, per attuarsi, può disporre di formule e atout diversi, in una gamma che può andare dalla A alla Z .
Per la formula A è sufficiente che qualcuno di buona volontà faccia delle telefonate, vada a parlare ai circoli femminili e ambosessi, alle circoscrizioni, alle scuole. Per arrivare alla formula Z si necessita invece del solito aiutino politico però in forma light e pochissimo costosa, come può essere l' ospitalità nel sito di un Circuito Teatrale o di un Sistema Teatro o di un Assessorato alla Cultura o di un Teatro Stabile o Privato.
In mezzo, tra l' A e la Z ci possono stare tante cose, dal fare sistema unendo le forze in comunione dei beni (pullmino, luci, costumi, luogo di stoccaggio, sala prove da usare insieme, il sito, Facebook, l' indirizzario delle case, il promoter che può essere uno studente designato da un DAMS).
Artisti per casa, giardino e cortile è stato presentato come show-case in casa mia, in campagna, il 2 giugno scorso, Festa della Repubblica. Gli artisti si sono prestati gratuitamente, il pubblico era formato da amici e vicini di casa invitati collettivamente tramite posta elettronica in quanto possessori di spazi e voglia sufficienti per ospitare a loro volta gli spettacoli. C' è stata una conferenza stampa sotto il terrazzo, sono state consegnate le cartelline del progetto, preparate dal Circuito Teatrale del Piemonte che ha messo a disposizione i suoi canali di comunicazione e promozione ed ha collaborato alla realizzazione del catering con risorse proprie e trovando persino uno sponsor per i vini (diciamolo: il generoso Casadei e il suo TorloVini).
Patrizia Coletta, allora direttrice del Circuito, aveva visto la bontà di questa buona pratica e l' avrebbe sicuramente adottata facendo approdare Artisti per casa, giardino e cortile all' ottimale punto Z. Purtroppo, il suo contratto è scaduto e noi ci siamo mossi da soli, restando ancorati, penso, tra il punto A e il punto G. Va detto però che siamo tutt' oggi ospiti del sito del Circuito Teatrale del Piemonte e che il video di quella giornata è ancora visibile cliccando sulla voce Fotogallery.
Senza chiederlo, altrimenti non l' avrebbe fatto, la redazione di Repubblica ci ha dedicato una pagina entusiastica a firma di Clara Caroli con tutte le belle foto degli artisti e il titolo dei loro spettacoli; la Rai ci ha regalato un bellissimo servizio sul telegiornale e alcuni invitati hanno preso sotto la loro ala alcuni artisti. Ad esempio, Erika Di Crescenzo è attualmente ospite in una casa, gode delle conoscenze artistiche e manageriali della sua anfitrione e andrà presto in residenza creativa allo Chateau La Napoule sulla Costa Azzurra e poi da una mecenate piemontese che inviterà nel suo castello per il debutto persone che a loro volta si daranno da fare per la carriera di Erika. Insomma, ciascuno degli Artisti per casa, giardino e cortile dice che ne è valsa la pena e nessuno ha intenzione di uscire da questa famiglia imprenditrice
BP2011 MATERIALI Mosaico: due network per la giovane danza d'autore Uno nazionale e uno internazionale di Natalia Casorati
Una buona pratica... vicina per ora al mondo della giovane danza d’autore, ma che senz’altro può interessare come modalità anche le realtà emergenti del teatro, sono i due network a cui noi aderiamo come AssociaziOne MosaicoDanza/Festival Internazionale Danza Contemporanea INTERPLAY, diretto da Natalia Casorati.
Si tratta di due network, uno internazionale: Les Reperages e uno nazionale: il network Anticorpi XL, con cui collaboriamo da diversi anni.
Lo scopo dei network è quello di promuovere con delle progettualità condivise il sostegno, la promozione e la circuitazione dei giovani danz’autori. Il tutto in un’ottica di suddivisione e ammortamento dei costi tra i partner, in modo da poter rendere sostenibili i progetti .
Anticorpi xl è stato fondato nel 2001 dall’associazione Cantieri di Ravenna, finanziato dal MIBAC e dalla Regione Emilia-Romagna, è la prima rete indipendente italiana dedicata alla giovane danza d’autore, successivamente esteso a tutto il territorio nazionale grazie ad una rete di Partner ( di cui noi come festival Interplay rappresentiamo il Piemonte), che ne hanno da subito condiviso le finalità riconoscendo l'importanza della danza d'autore nel panorama dello spettacolo dal vivo e partendo dalla volontà di creare un progetto di promozione e sostegno dei giovani artisti nel territorio italiano e, in prospettiva, a livello internazionale.
I partner del progetto appartengono a 12 regioni italiane e lo scopo della rete è quello di analizzare le creazioni di gruppi di giovane formazione operanti nel territorio italiano; agevolare la loro mobilità grazie alla condivisione delle esperienze e allo scambio di informazioni dei partner del network e condividere progetti e opportunità rivolte ai coreografi, mantenedo sempre aggiornate le occasioni e le modalità di diffusione e osservazione della giovane danza d'autore italiana e internazionale, con un continuo aggiornamento e studio di progetti modulari condivisi da tutti i partners.
Nello specifico il NETWORK attiva delle azioni :
-Vetrina della giovane danza d'autore (Anticorpi eXpLo), azione emblematica dello stesso Network che consiste nell'offrire visibilità alle compagnie emergenti selezionate tramite un bando annuale; con la successiva possibilità di circuitare all’interno delle manifestazioni organizzate dai partner aderenti al progetto.
-Monitoraggio delle realtà produttive ed organizzative della danza contemporanea e di ricerca;
-Danza Urbana, performance di danza d'autore internazionale nei paesaggi urbani;
-Video Dance. proiezioni di dance film creati da autori internazionali contemporanei;
E partirà dal 2011/12 un progetto di rete per l’opportunità di offrire alle comagnie delle residenze creative nelle nostre strutture.
Le regioni e i partner :
Selina Bassini e Monica Francia - Anticorpi - Rete di rassegne, festival e residenze creative (Emilia Romagna)
Roberto Casarotto - Operaestate Festival Veneto e
Giacomo Cirella - Arteven Circuito Teatrale Regionale (Veneto)
Gilberto Santini e Daniele Sepe - AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali (Marche)
Emanuele Valenti - Progetto Punta Corsara (Campania)
Gemma di Tullio - Teatro Pubblico Pugliese (Puglia)
Natalia Casorati - Mosaico Danza - Interplay (Piemonte)
Annamaria Onetti - ArtedanzaE20 (Lombardia)
Eliana Amadio - Associazione A.R.T.U. (Liguria)
Linda Di Pietro - Associazione Indisciplinarte (Umbria)
Dario Natale - Scenari Visibili (Calabria)
Silvano Patacca - Fondazione Teatro di Pisa (Toscana)
Walter Mramor - Circuito Danza F.V.G. - a.Artisti Associati (Friuli Venezia Giulia
(Da due anni anche il Circuito Teatrale del Piemonte è entrato accanto al festival Interplay come partner della rete per il Piemonte)
Gli incontri internazionali di giovane coreografia del festival Les Reperages, si svolgono tutti gli anni in Francia a Lille, con un appuntamento in replica anche in Belgio a Charleroi e uno stage formativo aperto a tutte le compagnie ospiti a Parigi, presso il centro coregrafico diretto da Carolyn Carloson.
Appartengono al network gli organizzatori prevenienti da 15 paesi, i quali presentano un giovane coreografo proveniente dal loro territorio.
Gli operatori ospiti durante la vetrina del festival, hanno l’opprtunità di vedere il meglio della nuova danza emergente internazionale. Durante il soggiorno sono organizzati degli incontri fra gli operatori, coordinati dal centro coreografico CDC Danse a Lille-Roubaix , diretto da Catherine Dunoyer de Segonzac , dove confrontarsi sui progetti, raccontare delle nostre manifestazioni, prevedere collaborazioni e progettualità comuni.
Nel nostro caso sono infatti nate dei progetti di residenze e creazione coreografica, tra coreografi italiani e coreografi internazionali, in collaborazione con la Finlandia, il Brasile, il Lussemburgo e la Germania.
Per maggiori informazioni allego il link, dove sono anche segnalati tutti i partner del progetto:
http://www.mosaicodanza.it/mosaicoreperages.htm
BP2011 MATERIALI Dov'è la ricerca? Appunti dal cantiere dell’Anti-Teatro di Domenico Castaldo
“In principio era il Verbo”, così inizia il Libro e il Libro iniziò l’epoca della scrittura. Il Libro è stato per lunghi secoli la Verità. Oggi il verbo, i libri, la parola sono soprattutto menzogna. Sono il mezzo del raggiro, dell’imbonimento, della cultura spicciola. Noi cerchiamo la Verità, risaliamo ancora prima dell’inizio, al suono. Il suono ed il segno non mentiscono, non lo possono. Non ascoltiamo la parola, bensì il modo in cui viene pronunciata, il modo in cui vibra, e risuona in noi. E come animali reagiamo. Prima del principio era un suono ed un orecchio. L’orecchio di un animale e di un bambino. Entrambi fasci di nervi e pelle sottile, pronti a reagire.
Ecco l’origine: suono e azione.
Questo è il teatro nuovo, un Anti-Teatro, perché è, non rappresenta. Tanto vecchio da rassomigliare alle parti più ignote di noi. Dall’uomo telematico una fuga, una costante privazione, fino a giungere alla colonna vertebrale: il rettile in noi. Questo viaggio è la meta del LABORATORIO PERMANENTE ed il mezzo è Katharsis, il nostro ultimo progetto in corso (2007-2011). E’ essenziale esporre le proprie iniziative, nominandole, secondo canoni riconoscibili: katharsìs (mutuato da Aristotele) indica quel processo per cui, attraverso un evento teatrale, si giunge ad una purificazione. Nel nostro progetto si canta, si danza, si usano i mezzi dello Spirito (disciplina e perseveranza) e dello spirito (ironia e autoironia). Per raggiungere Katharsis si ride, ci si interroga, si propongono risposte, nella pratica quotidiana.
Come mai questo nome al progetto?
Questo nome è una aspirazione e un mezzo. Non vi sentite anche voi stanchi, oberati, pieni di stimoli, e privi di tempo per seguire tutto quanto succede, vi provoca, vi raggiunge? Non avete provato a chiudere le porte una volta, un giorno, o anche solo un’ora? Lasciare fuori tutti gli stimoli con cui riempiamo le nostre giornate. Che piacere, riposo, vi dà? Più che andare in vacanza.
Lì ci si muove per divertirsi e spendere energie, ci si sposta, si cercano e si trovano altre comodità e inconvenienti. Si pensa al rientro quasi tutti i giorni. Quando si smette di pensarci è finita la vacanza, e si torna alla routine. E’ così! Non si riesce mai veramente a prendere le distanze dalla prigione del vivere quotidiano.
Chiudere al mondo è aprire altre porte. Katharsis è questa pratica. Ci si ritira per sei, otto, anche dieci ore al giorno, tutti i giorni della settimana. Tranne uno. Non è escludersi, è come ripararsi da una bufera. E’ praticare una decisione, dopo aver ascoltato e scelto il proprio punto di vista. Nel ritiro si cercano e si trovano risposte diverse da quelle ovvie, dai percorsi di pensiero obbligati dall’informazione, dalla moda, dalle idee della cultura diffusa, sia di tendenza che di controtendenza.
Si chiudono le porte quando e perché le abitudini ci abbrutiscono, ci offendono, ci privano del bello e del giusto, dell’organicità e della semplicità. Quando il vivere si offre a noi monco di sensibilità e sottigliezza, inespressivo e sordo. Allora si creano gli spazi per coltivare un tempo ed una via di purificazione. Appena si hanno dei frutti si offrono, nella speranza che questo dono viaggi e si propaghi il più possibile.
Cosa significa aprire altre porte?
Fare silenzio. Se taccio, se taccio dentro, ovvero, se riesco – dopo grande sforzo – a fermare il flusso generico dei miei pensieri quotidiani, inizio a sentire dentro di me un’altra voce, più profonda, che parla di un bisogno essenziale. Se soddisfo questo bisogno. Anche la seconda voce può tacere. Allora ne sento un’altra, ancora più profonda. Fino a non sentire più parole, nulla. La mia testa si fa vuota, come quella di un neonato, o di un’animale. Inizia un enorme riposo attivo. Una vacanza dell’anima: Katharsis. Da questo silenzio inizio ad ascoltare gli impulsi di una necessità vitale, creativa, giungo ad una forte sensazione. Questa sensazione risale il flusso dei pensieri e affiora nel mondo, sotto forma di musica, azione e testo. Tutto inizia dallo zero, dal silenzio. Le porte che si aprono sono le soglie del pensiero e dell’azione che stanno oltre le parole e le idee comuni.
Cosa ha a che fare quanto descritto con il Teatro?
Con il Teatro nulla. E’ il principio dell’Anti-Teatro. Questo processo è nell’attore, nella sua interazione con l’opera, con le partiture e con lo spettatore. Il Teatro, siccome è gestito, creato, concepito da funzionari o da teatranti mai diventati professionisti e che si sono votati all’organizzazione, non ha nulla a che vedere con il viaggio descritto sopra. Questo viaggio si spinge oltre il professionismo nel Teatro. Acquisite le tecniche e le aspirazioni si muove sul terreno della conoscenza più che in quello dell’affermazione personale.
Questo che chiamiamo Anti-Teatro, ha sede negli attori (intesi come uomini e donne d’azione), si nutre del processo descritto sopra, vive e resuscita in esso, guarisce e diventa una pratica creativa. L’ Anti-Teatro, così inteso, si muove fuori dai cliché; l’attore in esso è aperto, è se stesso, e si manifesta attraverso corpo, voce, attenzione. Quest’ultima circola in due direzioni: verso il proprio mondo interiore per sbocciare nell’attenzione altrui. L’uomo in azione diventa sottile, una pellicola trasparente, che muta quando l’attraversano i sentimenti, quando riceve un impulso.
L’arte presunta purtroppo non trascende la realtà, bensì la imita, ci si immerge per rappresentarla, riconoscersi e riflettere i drammi delle persone. I drammi vanno affrontati nella vita reale, l’arte deve fornirci la forza, la coscienza, l’etica, il senso di verità e libertà; deve nutrire il nostro animo e farci esseri pensanti e determinanti nella società, nella cultura. La massa si ingozza invece di paure e dolori, di sogni di ricchezza e frustrazione di non avere altre possibilità. Non riusciamo neppure ad immaginare un modo di vivere diverso dal nostro, seppure esso crei e ci crei così tanta sofferenza.
Quello che ho chiamato Anti-Teatro è una via di coscienza e conoscenza. E’ un modo per determinare il proprio destino, è un esempio in cui la professionalità si afferma, crea, aldilà delle possibilità che i vari sistemi di gestione impongono.
Ma un attore o un’attrice che segue questo processo può fare il Teatro?
Certamente. Finché non decide che affrontare i cliché o le banalità delle proposte del Teatro non gli interessi affatto. I cliché con cui, nella vita e nell’arte, ci si presenta oggi sono l’intraprendenza, la disinvoltura, la libertà dei privilegiati, l’impadronirsi di sentimenti non propri, il non avere una posizione, l’essere disinteressati, il non avere nulla da raggiungere, l’essere giovani sempre come unico valore, dunque reiterare comportamenti e abitudini giovanili, il non-essere nulla e nessuno perché nulla e nessuno ha valore. Si usa imitare atteggiamenti di libertà, vitalità, autodeterminazione, anziché praticarla. Questa è oggi la nostra cultura, ed il Teatro conferma, nel rappresentarli, gli atteggiamenti e le prospettive del vivere quotidiano.
Ma siccome gli esempi alternativi al Teatro sono marginali e nel Teatro istituzionale circola il denaro ed il sogno del successo, tutti gli attori e le attrici aspirano a quello, pur sapendo di star vendendo l’anima al diavolo. Ma in fondo, il diavolo, oggi, non fa più paura, anzi è un povero diavolo. Ci si dice: “Che male fa? E’ come me, è come te! E’ solo un po’ di trasgressione! Tanto gli altri sono peggio. Se loro lo fanno allora anche io lo faccio. Almeno prendiamo un po’ di soldi!”. Questo modo di pensare è privo di etica. L’etica è il primo passo che ci guida ad un’altra realtà, sia essa culturale, politica o spirituale.
Qual è lo spazio di uno spettatore a questo processo, c’è spazio per lui, cosa ne riceve?
Questa domanda è oziosa, nasce dal bisogno di rassicurazioni, dalla paura di sentirsi ignoranti. Ci si informa: “Riceverò il solito oppure no?”. Ma un “no” che male comporterebbe? Una novità, lo stupore di una novità, lo stupore fa stupidi, stupidi come bambini. Da parte nostra dovremmo comunicargli ”Stai tranquillo, capirai! Nessuno ti farà sentire stupido o ignorante.” Così non si stimola lo spettatore alla curiosità, allo sconosciuto, alla capacità di comprendere più che di capire. Di leggere segni diversi dai comuni.
Cosa dà uno spettacolo di cabaret o di teatro tradizionale allo spettatore, il cinema di cassetta o la televisione? A me spettatore questi esempi tanto diffusi lasciano solo vuoto ed angoscia, ansia e voglia di fuggire. Ma per dove? La cultura imperante mi provoca questa reazione. Così come osservare le edicole e vedere tonnellate di carta stampata sul nulla, miliardi di parole che, se anche forniscono qualche nozione, non accrescono in nulla la persona. Occupano, invano, spazio, tempo e pensieri: occupano le teste, che dunque non sono più libere. Ma nessuno -maledizione!- si chiede cosa dà allo spettatore quella spazzatura?
Katharsis va a bilanciare quel vuoto. E’ una via di fuga, ma restando ed essendo reperibili. La via è il messaggio, il modo e la qualità sono preda per l’attenzione dello spettatore; ma un’attenzione non solo cerebrale, del cuore, di affinità. Una preda, non una scatoletta di tonno. Lo spettatore in qualche modo deve essere attivo per seguire le anse della vita che scorre. Riceverà in funzione della disponibilità, della sua propensione ad aprirsi a quella via. E’ libero di scegliere.
Ovvio! Il nostro mestiere ci impone di seguire regole teatrali innanzitutto (una forma performativa che si segua, che non annoi, ricca di spunti e riferimenti, che può far ridere e piangere -per essere proprio chiari-), ma negli strumenti delle persone in azione si può cogliere una tensione diversa da quella del Teatro.
Ma, se usa le tecniche del Teatro, cosa c’è di diverso da uno spettacolo teatrale? Dov’è la ricerca?
Lo spettacolo a cui si assiste è il frutto di una lunga ricerca. Ma questo frutto non ha l’obbiettivo di stupire, shockare lo spettatore, come la presunta ricerca. Accompagna lo spettatore negli spazi creati e conquistati dagli uomini in azione, come nel migliore dei Teatri, e magari oltre, come ci hanno indicato i grandi maestri. Ripeto è un principio che si cerca, non una fine.
Io vorrei che lo spettatore si intrufolasse su questo cammino di libertà e possibilità. Che in qualche modo lo praticasse. Questo genere di domande rivelano lo stato di diffidenza, del pensiero dominante, nei confronti di una via teatrale e culturale che si spinge all’origine del fare arte.
Il nostro occhio deve saper andare oltre il significato detto e spiegato. Deve saper leggere oltre il segno sia nell’arte che nell’informazione –anche essa un artificio costruito per l’attenzione di molti spettatori.
Il detto è una verità estremamente relativa. Qualcuno è di fronte a me, mi comunica qualcosa, io sono in ascolto: questa è la verità! Come ci si esprime è il veicolo dei contenuti, come è la voce che parla alla nostra pancia. Nella tecnica, nella composizione delle informazioni (siano esse visive o uditive, artistiche o d’informazione) c’è l’intenzione che passa dall’ ”attore” allo spettatore.
Ci possono affascinare con dei nudi di belle donne o begli uomini, saturarci le orecchie di strilla e suoni assordanti, toglierci spazi vitali, reprimerci e dire che c’è una crisi o una guerra. Possono farci tutto questo e noi restare senza risposte. Perché noi ascoltiamo solo le parole dell’informazione ed escludiamo la fonte, escludiamo il segno scelto per comunicare con noi, se non ci chiediamo ad esempio “Chi ha scelto la persona che ora mi parla? Come mai sta usando questa parole? Di che qualità sono? Hanno qualità? In che modo analizza, elabora, i fatti accaduti per farli diventare uno spettacolo o un evento di cronaca. Cosa sta cercando di ottenere?”.
Evitare queste domande è evitare il contatto con l’artista o con l’informatore, con colui che modella i nostri pensieri quotidiani. Diventiamo dei solitari contenitori di micro verità, incapaci di costruire da noi stessi strumenti di verifica e di intervento. Il contatto e lo scambio nascono dal dubbio, dalla domanda “Come mai mi dici questo, qual è il tuo intento nel parlarmi, nel pretendere la mia attenzione?”.
Quando non ci è possibile avere queste risposte o quando l’intenzione non è esplicita, la si deduce dai segni, un po’ come nell’archeologia, attraverso la lettura dei come. Dalle scelte che l’artista o l’informatore hanno scelto per comunicare con noi: i segni non mentono e si rivelano molto più chiari delle parole, veicolo di verità contraddittorie, alle quali ci aggrappiamo senza mai trovare una definitiva soddisfazione.
Se non si entra nel cuore, nell’intento di chi ci parla, se non si aprono varchi di comprensione, si rischia di soffocare con le nostre domande, con le perplessità e le frustrazioni, si resta soli. Se non si sforzano i confini delle nostre abitudini, del nostro usuale sentire, non si potrà entrare in contatto profondo con chi sta davanti a noi, con chi si prende la responsabilità di comunicarci qualcosa. Abbiamo orecchie che non odono, occhi che non vedono, corpi e cuori che non sentono. Si sta perdendo l’uso della sensibilità: si è vivi in quanto si sente e si reagisce alle sensazioni che gli altri o l’ambiente provocano in noi. Questo sapere e questa pratica giungono ad una verità di livello più amplio, che contiene le ragioni di chi parla e le mie. Se si diventa capaci di ascoltare si può finalmente scegliere cosa coltivare nella nostra vita, chi sono i nostri alleati, qual è il nostro punto di vista, quale messaggio noi stessi possiamo essere per gli altri, quale segno intendiamo lasciare in questo mondo.
In principio era il Verbo. Quanto siamo lontani da quel principio. Ora, come frecce scoccate, siamo nel presente anche il futuro. Siamo, come frecce scoccate, già il nostro destino. Il futuro è scritto dal virtuale, da quello che non c’è. E noi in nome di quello che non c’è ci immoliamo.
L’attore - in quanto uomo di azione - si immola all’immaterialità. Ma questa è opera d’immaginazione. Quanto egli immagina esiste, ed il suo strenuo lavoro serve a renderlo evidente. Ma chi gli crede più? Chi crede a questa immateriale evidenza? Chi crede all’immaginario del “passante” tra i due mondi? Pochi, solo quelli che hanno deciso di mantenere viva in loro questa possibilità.
Come nel Medioevo stiamo diventando reietti. Animali in via d’estinzione, resti di antico materiale organico che ancora attraversa la terra. Questo incedere nutre il cuore, nutre l’anima, nutre lo spirito, nutre l’invisibile, nutre i morti e si nutre dei morti, è spirare e rinascere, è essere e non essere. Risale al principio.
Ma come si può spiegare questa necessità ad un funzionario ministeriale, per esempio, i cui criteri sono quelli del rendimento dei numeri, a danno di qualsiasi qualità? E’ difficile, forse impossibile. Eppure anche il funzionario - che pure ne decreta l’incompatibilità con i programmi culturali dell’istituzione - comprende in fondo. Sa che questo percorso nutre il cuore e non si può arrestare. E’ la vita stessa che continua a muoversi; è al di là di lui stesso, delle sue scelte (forse persino delle nostre). Rinasce e si reincarna anche nell’essere escluso. Teme l’abnegazione totale dei regimi, che impongono la cecità, la sordità, l’insensibilità. Ma non si arresta neppure in quel caso. E’ come una scintilla impossibile da spegnere, talvolta divampa come grande fuoco, altre volte è una fiammella lontana. E’ energia creativa che scorre tra gli individui più sensibili, è bene-essere, è felicità.
A noi non resta che trovare questo fiume per bagnarci dentro, questa scintilla per far luce nel buio che sta calando su di noi, buio dell’ignoranza sulle cose dello spirito e dell’anima.
P.S.: Le domande di questo testo sono nate dall’autore stesso. Scrivendo si è trovato innanzi alle proprie perplessità ed ai propri dubbi. Ed ha iniziato a dialogare con essi. Ha risposto a se stesso come se foste voi. Questo testo è stato dunque un’occasione intensa di lavoro sulle ragioni profonde dell’autore a proseguire il cammino descritto e a raccontarne a Voi mantenendo saldo il proprio punto di vista. Mi auguro che questo travaglio (non privo di autoironia) risuoni nel lettore di queste pagine.
BP2011@Torino Dalla Lituania all’Africa Con una intervista a Marius Ivaškevičius in margine a Madagaskaras e alle sue utopie tragicomiche di Stefano Moretti
Stefano Moretti e la Compagnia degli Incauti stanno lavorando alla traduzione, messinscena e auto-produzione di un testo teatrale lituano del 2004, Madagaskar, del giovane dramaturgo Marius Ivaškevičius. In anteprima per i lettori di www.ateatro.it, la presentazione del progetto e una ampia intervista con l‘autore.
Perché mettersi in viaggio Verso Madagascar...
1. Com’è nato il progetto (ammesso che lo sia)
Si parlava di utopie e di teatro. Di testi teatrali ambientati su isole utopiche, luoghi reali e immaginari, proprio come lo spazio della scena (un tema che seguo da alcuni anni, con articoli e interventi). (1)
Ci è passato per la testa che uno di questi testi, scritto in Lituania nel 2004, potesse avere il diritto di essere letto e ascoltato in lingua italiana. Toma Gudelyte, dottoranda di letterature comparate a Genova, mi ha fatto leggere Madagaskaras di Marius Ivaskevicius, il più importante drammaturgo contemporaneo lituano. Sono rimasto folgorato dal respiro della sua scrittura, epica e assurda allo stesso tempo. Per darvi un’idea: immaginate che i Monty Python facciano il Peer Gynt di Ibsen o che Little Britain racconti della migrazione degli indiani alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
C’è chi pensa che tradurre una commedia che parla di nazione e nazionalismo, sia semplicemente impossibile. Un’utopia insomma, che per presunzione o per troppo amore del testo, abbiamo provato a seguire.
Traddotto il testo, chiedendo spesso consiglio all’autore, al quale abbiamo anche fatto una lunga intervista scritta, abbiamo iniziato a muoverci in tre direzioni:
a) cercare un editore italiano interessato alla pubblicazione;
b) mettere in scena il testo;
c) produrre materiale scentifico tramite convegni e contributi su riviste scientifiche.
2. Strategia artistica e produttiva
La strategia artistica e produttiva che stiamo ponendo in essere con il nostro progetto su Madagascar esula inevitabilmente dalla pura e semplice ricerca di fondi e di strutture logistiche per la creazione di uno spettacolo teatrale. Come ci capita di osservare sempre più di frequente, lo stesso allestimento di uno spettacolo o di una performance presuppone che gli artisti si facciano produttori e promotori del loro stesso lavoro. Ritorno al mecenatismo? Diremmo piuttosto trionfo dell’economia di mercato e del marketing culturale. Nell’ambito di quell’ “ampliamento della prospettiva” auspicato e promosso dal C.Re.S.Co, la nostra progettualità vuole e deve fare i conti, inevitabilmente ma non senza sforzi e idiosincrasie, con la totalità delle pratiche sociali e economiche che riguardano la comunicazione, i media e lo spettacolo.
La prima riflessione – e forse anche l’ultima, ossia da farsi a consuntivo della nostra esperienza – riguarda lo statuto giuridico, artistico e in senso più ampio politico della nostra compagnia. Gruppo di ricerca, spazio di intervento culturale, associazione o impresa culturale? I confini tra queste diciture, pur delimitando abissi di differenza, sono assai labili e confusi. (2)
Nella pratica (cattiva, certo), la differenza spesso risiede nell’impossibilità di fornire una continuità retributiva ai componenti del gruppo, donne e uomini che a vario titolo collaborano alla creazione e alla promozione di un evento teatrale. Precarietà lavorativa che non equivale a una sana spinta verso la competitività e la creazione ma che può inficiare la stessa libertà di ricerca, il suo “respiro”. Di fronte alla necessità vitale di ricevere da un gruppo di “esperti” la facoltà di esistere, gli stessi progetti artistici rischiano di subire il fascino dei tempi, delle mode, del compiacimento personale.
Quelle realtà che sono e si definiscono “agevolatori” delle produzioni rischiano di trasformarsi in ostacoli nuovi e ancor più pericolosi da superare. (3)
Cercando non solo di intrecciare le scelte artistiche a quelle produttive e organizzative, ci siamo chiesti se fosse possibile di farle coincidere. L’organizzazione e la ricerca di finanziamenti può diventare in sé un’occasione di intervento culturale (rubiamo l’espressione alla dicitura di “Alfabeta2”, che seguiamo anche se lei non segue molto noi teatranti)? È possibile, per un progetto culturale che non è ancora appetibile per il mercato diffondersi senza essere stritolato dalle sue logiche? Tra essere sul mercato e esserne completamente fuori, una terza opzione è davvero impossibile?
Nell’attesa di trovare (forse) risposta a queste domande, ci siamo mossi seguendo questo schema, solo in parte premeditato:
- Creazione di una progettualità triennale (il progetto sulle Utopie e le distopie MAi – mondi alternativi ir/realizzabili) presentata:
a) al Comune di Bologna, per partecipare alla gestione di una stagione Off del teatro Duse di Bologna (ex ETI). Questa proposta è stata a sua volta accompagnata da una lettera di interesse e sostegno da parte dell’ERT e della società privata CAMST
b) ad aluni sostenitori privati nell’ambito dell’imprenditoria emilana: gruppo Maccaferri, Camst (che hanno risposto finanziando i costi di vitto e alloggio della compagnia nella fase di preparazione dello spettacolo)
c) alle Fondazioni bancarie di Bologna (che hanno già finanziato il programma di intervento precedente e che stanno al momento valutando il nuovo progetto)
– Partecipazione a bandi e concorsi (quelli che il C.re.s.co definisce “agevolatori” della produzione):
a) residenze creative 2010 del Teatro Garybaldi di Settimo Torinese (vinto)
b) Premio Scenario 2011 (in concorso)
– Attivazione di collaborazioni con teatri e associazioni teatrali:
a) con Agriteatro di Tonino Conte, con sede a Cremolino (AL) che ha ospitato in residenza la prima fase di laboratorio del lavoro, abbattendo i costi di pre-produzione
b) con il Teatro Consorziale di Budrio (Bo), che dal 2009/2010 ospita stabilmente le produzioni della compagnia
– Presenza nella programmazione culturale di amministrazioni locali (ed eventuale finanziamento)
a) con la Città di Ovada (AL) che promuove e finanzia lo spettacolo nell’ambito di una rassegna diretta e gestita dalla compagnia per il 150° dell’Unità d’Italia
b) presentando il progetto agli assessorati alla cultura delle città di Genova, Milano e Torino, nell’ambito dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
– Presenza nella programmazione culturale di amministrazioni regionali
a) il progetto Madagascar, all’interno della progettazione triennale della compagnia è entrato nel monitoraggio della commissione cultura della Regione Emilia Romagna per le attività del 2011.
– Traduzione del progetto in un’operazione di intervento culturale e di discussione ad ampio raggio, che coinvolge artisti, università e operatori culturali
a) coinvolgendo nella creazione del progetto un fotografo, uno scultore e un musicista che non siano solo corredo e maestranze al servizio della regia di uno spettacolo, ma che partendo dal lavoro comune sul testo teatrale, portino avanti un lavoro personale e autonomo, che potrà portar loro accrescimento, riconoscimenti e gratificazioni anche al di fuori dell’ambito specifico dello spettacolo.
b) presentando e discutendo il progetto al convegno di Storia Comparata e Teoria della Letteratura, intitolato Performance e performatività tenutosi a Messina il 18-20 novembre 2010
....e dulcis in fundo...
c) presentando il progetto a... Torino per le Buone Pratiche 2011!
NOTE
(1) Sulle isole utopiche a teatro, dal Seicento di Andreini e Shakespeare al Novecento di J. M. Barrie e Tom Stoppard, ho pubblicato «Arcadia maledetta». Ismenia, La Tempesta e l’utopia cortigiana di Giovan Battista Andreini, su www.drammaturgia.it e in «Annuario Internazionale della Commedia dell’Arte», 3 (2010), Firenze, Olschki (in via di pubblicazione), e redatto due interventi inediti presentati a Torino (Il potere di un’isola che non c’è. Utopie teatrali barocche e contemporanee, in I volti degli intellettuali di fronte al potere. Giornata di studi della Scuola di dottorato in Culture moderne e comparate dell’Università di Torino, 13 maggio 2009) e Oxford (Never Land Stages. Theater as Utopian Space in J. M. Barrie’s insular plays, Utopian Spaces of British Literature and Culture, 1890-1945. A One-Day Conference at the University of Oxford, 18 September 2009).
(2) Nel citato Quaderno di Bassano, si legge che «un ulteriore elemento per innescare dinamicità nel sistema è sicuramente quello di identificare una forma giuridica adeguata per le compagnie teatrali. Le compagnie teatrali possono anche essere riconosciute come “imprese” ma a patto che vengano inquadrate in un modello specifico di “impresa culturale”, le cui caratteristiche e funzionalità sono ancora tutte da delineare con appositi studi di settore, ma che riconoscano almeno la natura lavorativa atipica e intermittente non solo dei dipendenti, ma pure delle imprese del settore»; p. 6.
(3) Questo punto apre una discussione più ampia su quello che ci pare essere un tabù dell’attuale organizzazione teatrale. Pur essendo meritori e assolutamente necessari alla vita e allo sviluppo futuro del teatro italiano contemporaneo (come lo sono per il nostro progetto), le residenze creative, i bandi per le giovani compagnie, per i drammaturghi e performers non possono essere lasciati soli nel dialogo con le nuove generazioni, come rischia di avvenire ora che, tra l’altro, è scomparso il pur farraginoso e complesso rapporto con l’ETI. Il rischio che si corre è quello che le scelte artistiche e le progettualità delle compagnie stesse si modellino di volta in volta sulla contingenza di una scadenza e di una commissione. Una dinamica che và ben aldilà di quella storica, naturale e necessaria dialettica che da secoli presiede ai rapporti tra committente, mecenate e artista, tra mercato e libero professionista della cultura e del pensiero. La questione è spinosa e antica, perché da sempre il produttore ha imposto – o tentato di imporre – il proprio volere al regista; è cosa risaputa sin ai più ingenui. Nuova invece è la scarsa capacità degli artisti di far fronte a questa scommessa; perché, resi vulnerabili dalla quasi totale assenza di altri interlocutori, si trovano nella condizione di dovere la loro stessa esistenza e sopravvivenza a queste nuove forme di finanziamento – a loro volta fragili e sottofinanziate.
Madagaskar. regia di Rimas Tuminas, al Piccolo Teatro di Stato di Vilnius (2004).
SM: Nel 2004, come tu stesso confessi nella Premessa, ti sei accinto a scrivere Madagascar su invito del regista Rimas Tuminas. Prima d’allora non esistevano pièces teatrali che affrontassero la controversa figura di Kazys Pakštas. A chi si deve l’idea di far diventare Pakštas un personaggio teatrale? Che significato ha riprendere la sua figura e il suo pensiero negli anni Duemila?
MI: Sulla figura di Kazys Pakštas non solo non esistevano pièces teatrali, ma in generale non c’era quasi nessun materiale a disposizione. Era un eroe dimenticato della Lituania del primo dopoguerra. Per la prima volta ne ho sentito parlare proprio da Rimas Tuminas ed è stato lui a propormi di trasformare questo materiale prima in pièce e poi in spettacolo.
Tuminas, però, aveva una visione un po’ diversa: l’idea del regista era quella di far arrivare Pakštas nella Lituania rustica, dove avrebbe incitato i contadini a trasferirsi in Africa. Io invece, approfondendo il materiale, sono rimasto più colpito dall’élite lituana di quel periodo, da quel mondo intellettuale. Forse sono stato suggestionato dallo stesso pensiero di Pakštas: lui aveva fondato il suo progetto del trasferimento della nazione su calcoli precisi, aveva riflettuto su tutte le possibili conseguenze e difficoltà di questo grandioso progetto. Lo avrebbe eseguito a un livello nazionale e statale e non incitando di volta in volta i villaggi separatamente.
La pièce è comparsa nel tredicesimo-quattordicesimo anno dopo la ricostituzione dell’indipendenza e, certo, lo spettatore ha visto sul palcoscenico molti paralleli con la siuazione attuale, perché anche nella pièce è passato più o meno lo stesso arco di tempo dalla prima ricostituzione della Lituania nel 1918. Ritornano oggi la stessa idealizzazione della Lituania, gli stessi slogan patriottici insieme alla mancata strategia da parte dello Stato e alla massiccia emigrazione dei lituani spinti da motivi economici verso l’Occidente.
SM: Le teorie geopolitiche e razziali di Pakštas, lette oggi, possono sembrare assurde ma al tempo stesso inquietanti. Negli stessi anni in Germania Hans Grimm pubblicava Volk ohne Raum, che ispirò la teoria hitleriana dello spazio vitale. Così pure in Italia, schierandosi a fianco di Hitler, Mussolini disse che un popolo senza spazio non può esistere. Leggendo la commedia, però, si ha l’impressione che, nella sua follia, Casimiro abbia un lato patetico e tragicomico che ce lo rende in qualche modo “simpatico”. Del resto, hai scelto di giocare con la sua figura sin dal nome, chiamandolo Pokštas. Che ruolo hanno, per te, la parodia e la comicità nella riscrittura della Storia? E, in generale, che cosa è per te il comico?
MI: Esattamente, la retorica e le idee di Kazys Pakštas possono sembrare razziste solo nel contesto di oggi. All’inizio del XX secolo era invece la norma: tutto il mondo occidentale era intriso di spirito razzista, i bianchi si consideravano la razza superiore nei confronti degli altri sia negli Stati Uniti, sia in Europa e molte nazioni erano dominate dall’idea di colonizzare di nuovo e questa volta definitivamente il continente dell’Africa, dove fondare i surrogati delle Americhe. Ovviamente, nessuno chiedeva agli africani cosa ne pensassero, come precedentemente nessuno aveva chiesto agli indiani dell’America l’opinione sul trasferimento dei bianchi nel loro continente.
Il colonialismo era un’idea ancora viva e secondo Kazys Pakštas era l’unico modo per la Lituania di sopravvivere. Ma il mondo d’allora è cambiato e oggi parlare seriamente di quella realtà è impossibile, il comico diventa l’unico modo per ricordarla e per rifletterla. Solo utilizzando il comico si può invisibilmente passare al tragico e attraverso la loro combinazione (il tragicomico) parlare di questo tema con lo spettatore contemporaneo.
SM: Al riguardo, di recente il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha ripreso la nota formula di Marx secondo cui la Storia si ripete sempre, con l’unica differenza che se la prima volta si presenta come una tragedia, la seconda volta si ripete in farsa. Sei d’accordo? In una intervista recente, lo scrittore spagnolo Enrique Vila-Matas dice che, per descrivere “lo stato agonizzante del nostro tempo” è necessaria la “lente della parodia” che permette di raccontare la vita, sempre tragicomica. Che cosa ha significato per te descrivere un mondo agonizzante, quello che precede la Seconda Guerra Mondiale, mettendolo in relazione alla nostra società odierna e alla sua crisi?
MI: Credo di aver risposto a questa domanda.
SM: Affrontando l’ideologia del Pakštas storico, emergono temi come il colonialismo, il razzismo, l’emigrazione forzata e lo studio della demografia malthussiana. Per questo, rappresentare Madagascar in Italia oggi tocca alcuni nervi scoperti: sotto la spinta di movimenti xenofobi e razzisti, gli italiani stanno rispondendo con diffidenza e paura all’immigrazione di decine di migliaia di persone provenienti dall’Europa dell’Est, dalla Cina, dall’Africa, dal Maghreb. Com’è la situazione in Lituania? Qual’è stata la reazione degli spiriti più nazionalistici e sciovinisti? Esiste un problema razziale nella Lituania di oggi?
MI: Il razzismo non è scomparso, si è solo camuffato sotto la maschera della correttezza politica. Ma è sempre dentro di noi e potrebbe erompere in qualsiasi momento. Così è successo in Lituania e in molti paesi dell’Europa Orientale durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il regime nazista che li aveva occupati ha dichiarato gli ebrei fuori legge e praticamente oltre i confini della concezione dell’uomo. Tutti gli strati più bassi e meno educati della società si sono accinti con zelo a uccidere gli ebrei. Anche oggi le risorse della tolleranza nell’Europa Occidentale cominciano a diminuire, gli stranieri non si sentono più al sicuro.
La situazione della Lituania è un po’ diversa, da noi quasi non ci sono immigrati. Ma compariranno inevitabilmente e allora anche a noi toccherà quel difficile esame di tolleranza. Considerando l’opinione dominante dei lituani sugli immigranti dagli altri paesi e altri continenti, non sarà facile né per loro, né per noi.
SM: Scrivendo Madagascar, hai scelto di intrecciare le peregrinazioni di Pokštas in giro per il mondo con le vicende di un’altro personaggio tratto dalla storia, la poetessa Salomėja Nėris. Entrambi i personaggi sembrano rappresentare una parte della storia lituana e, di conseguenza, dell’avventura degli intellettuali europei della prima metà del Novecento: i nazionalisti, che spingono il tasto dell’indipendenza sino allo sciovinismo e al razzismo e quelli che Antonio Gramsci chiamava “intellettuali organici” al partito comunista. A cosa è dovuta la scelta di inventare una impossibile e inconcludente storia d’amore tra queste due illustri figure storiche?
MI: Salomėja Nėris era una figura di spicco e insieme una figura controversa nella Lituania del dopoguerra. Eccellente poetessa, era lacerata tra due ideologie politiche estreme e contrapposte: la destra democristiana e la sinistra comunista. Non era però qualche ideologia profonda a spingerla nelle vortici politiche, ma il rancore personale, l’amore tradito e simili motivazioni. In quell’epoca, era una delle donne più notevoli della Lituania. Cercava invano l’amore e gli uomini, invece di rispondere al suo amore, la sfruttavano nelle lotte politiche. Nella pièce il personaggio di Sale vuole mostrare proprio questo: la femminilità che disperata vaga nella nazione, in cui i maschi sono occupati con la costruzione dello Stato, la creazione della nazionalità e la progettazione di atti eroici. Per cui questo amore non è destinato a realizzarsi.
SM: Tra queste due figure, che sembrano rappresentare due diversi approcci dell’intellettuale all’ideologia, si pone Gerbutavičius, poeta che tu definisci “televisionario”. A questo personaggio fai dire che “in fondo l’arte è menscevismo” ma al tempo stesso rappresenti in lui la figura dell’intellettuale e dell’artista che decide di dedicarsi all’arte pura, che non scende a compromessi con le ideologie e i partiti politici ma nemmeno con la logica del mercato, che in fondo, si è rivelata essere una nuova forma di ideologia dominante. Che ruolo hanno secondo te l’artista e l’intellettuale nella società contemporanea? Che differenza c’è, come dici nel II atto, tra “art” e “industry”.
MI: L’importanza dell’arte, da allora, è notevolmente diminuita. In gran parte sono stati la televisione, internet, il cinema commerciale ecc. a impadronirsi della funzione dell’arte come divertimento. Ma non appartengo a coloro che, per questo motivo, piangono o sbattono la testa contro il muro. Perché anch’io guardo la TV, vado al cinema, navigo in internet. I libri e il teatro non sono scomparsi e neanche i lettori o gli spettatori. E dopo aver sollevato in Lituania numerose e piuttosto accese discussioni con alcuni miei libri ho visto che questo campo è ancora lontano dall’esaurirsi. Se l’arte può provocare, può invitare nuovamente a interrogarsi sulle verità che prima erano ritenute fuori discussione, può influenzare i gusti e la concezione estetica, allora non ha alcun senso seppellirsi prima del tempo.
SM: Di fronte alla riscrittura di personaggi realmente esistiti, come Kazys Pakštas, Salomėja Nėris, ma anche Ronald Reagan e Marlene Dietrich si direbbe che tu abbia un atteggiamento simile a quello di molti scrittori “postmoderni” come Enrique Vila-Matas, Don De Lillo o J. M. Coetzee, che riscrivono la storia facendo svanire il confine tra verità e finzione, tra Storia e narrazione, dicendo che non vi sono frontiere tra realtà e immaginazione. In teatro qualcosa di simile si è avuto con Thomas Bernard o con Tom Stoppard. Che tipo di atteggiamento hai nei confronti di questa letteratura e di questa drammaturgia cosiddetta postmoderna? Come spieghi il ricorso a diversi stili e registri teatrali, a salti “surreali” come l’apparizione del drago tetracefalo come simbolo del comunismo?
MI: È come fare un cocktail, un’insalata o una pizza. Si può mischiare tutto, l’importante è che sia buono. Non rinuncio a priori a nessun tipo di procedimento o registro stilistico e utilizzo quei mezzi che in quella specifica situazione intuitivamente mi sembrano i più adatti.
SM: Al riguardo, mi viene da pensare che è possibile leggere Madagascar su due livelli: uno “storico” e parodico, come la vita riscritta di Kazys e Salomėja e uno “simbolico” nel quale gli incontri, le scene e i personaggi assumono un valore allegorico. Penso per esempio all’incontro tra Casimiro e Oscar, riscritture parodiche di due personaggi storici che nella loro essenza rappresentano il nazionalismo e il cosmopolitismo, l’emigrazione letteraria. Trovi che una simile lettura sia giustificata?
MI: Ogni lettura è unica e non voglio in nessun modo condizionare il lettore, imporgli le mie interpretazioni. Per questo non offro ricette su come leggere la pièce, non partecipo alle discussioni con i critici, anche se a volte penso che interpretino il testo in modo diverso da come vorrei io. La letteratura è una cosa strana, che viene inghiottita e che solo dopo fiorisce e si schiude come un fiore nella nostra mente. E lì tutto dipende dal contenuto della nostra testa, in che modo e di che roba questa nostra testa è imbottita.
SM: Leggendo e provando Madagascar, alcuni attori hanno avuto l’impressione di trovarsi di fronte a un romanzo e non a una pièce teatrale. La nostra drammaturgia italiana – ma anche quella francese e inglese – hanno un “respiro” molto più corto, parlano di situazioni minute, quotidiane o psicologiche. I tuoi personaggi, invece, hanno una densità e una statura rare nei testi che leggiamo solitamente. Insomma, a leggerli mi sono venuti in mente Ibsen (diciamo quello di Peer Gynt e di Brand, pensando a Casimiro) e Čechov (leggendo Sale e le sue “tre sorelle”). Per esempio, il fallimento delle speranze è la cifra dominante di Madagascar, così come in molti personaggi di Čechov e di Ibsen. Qual è il tuo rapporto con questi grandi drammaturghi del passato? Che rapporto c’è a tuo avviso tra teatro, romanzo e i mezzi di comunicazione dominanti oggi – tv, youtube ecc.
MI: Lo spettatore lituano, o in generale dell’Europa Orientale, è abituato a spettacoli di registi di peso massimo come Eimuntas Nekrošius o Kristianas Lupa. La mia formazione di drammaturgo forse era influenzata da questo teatro. I termini come densità, polisemia, pluralità dei piani nel teatro per me sono i vantaggi. Importante è mantenere il senso del limite e non cadere nella noia e negli eccessi. Comunque, avevo scritto anche qualche pièce piuttosto breve, come Malyš. Cinque anni fa fu messa in scena anche in Italia.
SM: La tua commedia si struttura in tre parti: la costruzione di due utopie (quella nazionale e geografica di Kazys e quella letteraria e amorosa di Sale) – le peripezie per ottenerle e il naufragio delle aspettative. In questo – e nella confronto con grandi personaggi della storia – ricorda The Coast of Utopia di Tom Stoppard, che parla della generazione di intellettuali di Herzen, Bakunin e Turgenev destinati a dover rinunciare alla loro idea di un mondo migliore e più giusto. Secondo te ha ancora senso parlare di utopia oggi? Quali sono le grandi battaglie e i mulini a vento del nostro tempo?
MI: L’utopia è una parte inseparabile dell’umanità, a prescindere dai cambiamenti del mondo e della tecnologia. Gli uomini non smetteranno mai di sognare un mondo migliore. Dall’altra parte, questo sogno sarà sempre accompagnato dai disincanti, dovuti all’acquisizione della consapevolezza che il mondo sognato è impossibile. La ragione di tutto questo è la nostra immaginazione, che può essere distrutta solo dopo aver distrutto l’uomo stesso.
SM: Un’ultima domanda riguarda una frase della prefazione, per me stupenda e essenziale per capire la commedia: “Questa commedia parla degli uomini che ancora non sanno, e che, proprio per questa ragione, cercano di vivere la vita con tutte le loro forze e la loro passione: amare come nessuno ha mai amato prima di loro, sperare come nessuno ha mai sperato, desiderare come nessuno ha mai desiderato e portare lontano ciò che nessuno ha mai spostato”. Tu dici che questi personaggi, come noi per uno spettatore futuro, non hanno ancora superato il confine fatale della storia, ma avvertono che tutto sta per cambiare. Anche oggi, per vari motivi, la crisi economica, l’invecchiamento della popolazione europea, l’affacciarsi di nuove potenze economiche e culturali fa parlare della fine dell’egemonia euro-americana nel mondo. Che cosa vuol dire oggi trovarsi a un passo dal confine?
MI: Penso che oltrepassare il confine sia una costante condizione umana e che, dopo aver varcato un confine, noi inevitabilmente ci avviciniamo a un altro. Perdere il mondo che ti aveva formato porta, certo, una grande tristezza ma anche la curiosità di vedere cosa ti aspetta dopo. Nel caso di noi lituani, questo non è il primo confine che dobbiamo superare. Il mondo in cui sono cresciuto io, intendo l’Unione Sovietica, non esiste più. E grazie a Dio. Il mondo che all’epoca tutti noi sognavamo e dove finalmente siamo entrati, almeno formalmente, ovvero l’Occidente, oggi si ritrova in un particolare stato di decadenza. Quindi, direi che l’abbiamo raggiunto troppo tardi. Cosa succederà dopo, lo vedremo. Solo una cosa è certa: il mondo ha preso una velocità tale che i confini che prima bisognava aspettare qualche secolo oggi stanno entrando più di uno alla volta nella vita della stessa generazione. E per l’insaziabile curiosità umana questo è il tempo più opportuno.
(intervista rilasciata e tradotta nel gennaio 2011)
teatro@mediterraneo La situazione del teatro in Egitto e Tunisia Dallo studio Towards A Strategy for Culture in the Mediterranean Region EC Preparatory document di Fanny Bouquerel e Basma El Husseiny
Per capire meglio la situazione in Nord Africa segnaliamo lo studio di Fanny Bouquerel e Basma El Husseiny per la Commissione Europea.
Di seguito, dal capitolo sui profili dei diversi paesi, le pagine sull’Egitto (di Basma El Husseiny) e la Tunisia (di Fanny Bouquerel).
Towards A Strategy for Culture in the Mediterranean Region EC Preparatory document
Needs and opportunities assessment report in
the field of cultural policy and dialogue in the
Mediterranean Region
A study prepared for the European Commission
by Fanny Bouquerel and Basma El Husseiny
November 2009
Egypt‘s cultural heritage is one of the most valuable in the world, enjoying much international attention and support. The country also has a central position in the region in terms of its modern cultural production. Its cultural products and trends represented the strongest cultural influence in the region until the 1970s. However this position has in subsequent years been challenged by many political and economic factors. Egyptian culture today still claims the reputation of being the most popular, but not necessarily the most creative, in the region.
Egyptian society is generally supportive of culture, especially music and film. However, conservative religious trends in recent years had a negative impact on the society’s perceptions of cultural creativity, something that was for many cultural operators, official and independent, a matter of concern. Informal censorship is often applied by individuals and social groups to books, films, and even songs, to make sure they conform to religious beliefs and traditions146. In addition to that, there is official censorship by the Censorship Board and Al-Azhar's Islamic Research Complex.147 Although the country has a large Coptic Christian minority, and a smaller Nubian minority, this diversity is seldom reflected in cultural structures, or even in cultural productions. National unity is a slogan that is widely used, officially and non-officially, to suppress creative voices coming from outside the mainstream.
The Ministry of Culture and National Orientation was created in 1958, during the brief union with Syria. A stand-alone Ministry of Culture was first introduced in 1965, but later combined with other ministries, such as the Ministry of Mass Media, or that of Education and Research. In 1980 the Supreme Council for Culture was established in an attempt to involve independent intellectuals and artists in public cultural policies. The Ministry is today one of the biggest in the region and includes nine major national agencies148 employing more than 90,000 full time employees and an unknown number of consultants and short-term employees. The Ministry’s mandate includes conservation and management of antiquities and archaeological sites, artistic production and distribution, management of cultural venues across the country, organization of festivals, arts education, translation and publishing and international cultural exchanges. Information on the Ministry’s budget is not available but there is evidently substantial government support for the Ministry’s projects.
Since the early 1990s Egypt saw the emergence of a growing number of independent
cultural initiatives that attempt to present and promote contemporary arts. These initiatives are largely funded by international donors such as the Ford Foundation, SIDA, the Open Society Institute, the EU Commission and European embassies and cultural centres in Egypt. However, they receive very little support and recognition from the public sector and face serious legislative obstacles that limit their ability to register non-profit cultural organizations149, or to operate in the public sphere. In fact, most of them are registered as commercial entities, despite relying primarily on funding from international donors. Although most of these initiatives are in Cairo and Alexandria, and rarely extend activities to other cities and towns, they are generally well connected on the international level and have good experience of working with partners from other countries in the Mediterranean region and beyond. There are also a larger number of young theatre companies and music groups that exists in the main cities but without legal status, access to venues or financial resources. Tedious bureaucracy and tight security measures make it very difficult to organize simple cultural events such as music concerts or theatre performances.
Most independent cultural initiatives started out to provide artists with a place to rehearse, exhibit or perform, and are now moving towards educating or training artists and cultural operators. Those initiatives often link art and culture to education, social integration and social change, and are rarely specialized in one art form, but instead cater to two or more genres. In Cairo, they tend to cooperate with each other and ignore, and be ignored by, official entities. In Alexandria, most independent entities work in cooperation with the Bibliotheca Alexandrina's Arts Centre. There is also a large amount of cooperation with other independent initiatives in the Arab world.
There is wide agreement among cultural practitioners in Egypt, including those in the public sector, that the absence of a national cultural policy, agreed by all active players, is a major challenge. There were some attempts in the Supreme Council for Culture to draft such a policy but it never materialized, perhaps because of the lack of expertise in this field in the country. As Egypt appears to be waiting fora political transition, many reform plans are put on hold. However, other immediate needs might be considered in the short term. Improvement of arts education, especially at university level, was high on the list of priorities of many cultural operators. The Academy of Arts, which has seven artistic institutes and two under construction, suffers from shortage of qualified staff and inadequate libraries and training facilities. Two other needs were highlighted: the need for qualified and well trained cultural managers to work in both the public and the independent sectors and the need for extending cultural services and activities to communities outside the privileged circles in Cairo and Alexandria.
149 Cultural non-profit organizations in Egypt can only be registered as social NGOs under the
Ministry of Social Solidarity
Some Independent Cultural Organizations:
• Townhouse Gallery, www.thetownhousegallery.com
• El Sawy Culture Wheel, www.culturewheel.com
• Semat, www.sematcairo.com
• Contemporary Image Center, www.ciccairo.com
• Makan (Egyptian Center for Culture and Art), www.egyptmusic.org
• Studio Emad Eddine, www.seefoundation.org
• El Mastaba Center, www.elmastaba.org
• Alexandria Contemporary Arts Forum, www.acafspace.org
• Culture Resource (Al Mawred Al Thaqafy), www.mawred.org
• International Association for Creation and Training - I act, Alexandria, www.iacteg.
org
• Mashrabia Gallery of Contemporary Art, Cairo, www.mashrabiagallery.com
• El Warsha Theatre group, Cairo
Major Cultural Events and Festivals:
• Cairo International Book Fair, www.cairobf.org
• Cairo International Film Festival, www.cairofilmfest.com
• Cairo Children's Film Festival, www.ciffc.org
• Cairo Biennale
• Alexandria Biennale
• International Photography Festival
• Cairo Experimental Theatre Festival
• Ismailia International Film Festival, www.egyptianfilmcenter.org
• Cairo Refugee Film Festival, www.cairorefugeefilmfestival.blogspot.com
• Spring Festival
146 Workers in the Ministry of Culture’s printing plant often censor books they consider immoral or blasphemous
147 The Censorship Board practices before-the-fact censorship on music, audiovisual material, and plays. The Islamic Research Complex practices post-publication censorship on these as well as print media. President Anwar Al Sadat officially outlawed censorship of newspapers in 1974.
148 The Supreme Council for Culture, The Supreme Council for Antiquities, The General Egyptian Book Organization, The General Organization for Cultural Palaces, The General Organization for the National Library, The Cairo Opera House, the General Organization for Urban Beautification, The Academy of Arts and the Cultural Development Fund.
Tunisia
The smallest country in the Maghreb sub-region enjoys a relatively favourable environment for the cultural sector. It is largely subsidized by national public funding since the establishment of the Ministry of Culture, especially in certain fields such as heritage. In other disciplines, such as theatre, several organisations were created in the 80s and the early 90s and are still active today, playing a major role in the cultural landscape. The situation is more challenging for the younger generation, which encounters difficulties in establishing its position, hindering a fruitful renewal of cultural and artistic expression.
Tunisia generally enjoys a good economic record and is not confronted with the social issues of its neighbours: religious extremism remains under strict control, and minorities groups are not an issue. Formal and informal censorship is a more sensitive issue for the civil sector and particularly for the cultural field. There is a kind of resignation from a section of society and young people are emigrating in considerable numbers, including young artists who see only very limited opportunities to develop a professional career in the cultural and artistic field.
As from 1961, a special department for cultural affairs and information was established within the Ministry of Education, and several agencies were founded at that time159. In 1969, legalisation introduced a professional artists card, which is still in use. Cultural Committees, Cultural Houses and Cultural Libraries were created and built across the country as part of the decentralisation plans of the 60s. The introduction in 1994 of the “code de la protection du patrimoine archéologique, historique et des arts traditionnels” (code for the protection of the archaeological, historical or traditional arts heritage) and the new title given to the Ministry in 2004 “Ministère de la Culture et de la Sauvegarde du Patrimoine” (Ministry of Culture and Protection of Cultural Heritage) attest the government priorities, focussing mainly on tangible and intangible heritage. Overall, the national budget for culture has increased significantly over the past years160 and now has reached 1.5% of the total budget, divided between an articulated network of cultural organisations dependent upon the Ministry and direct support given to the civil sector for publishing, theatre, cinema or festivals. Major projects are planned in the near future, such as the “Cité de la Culture” which should be completed in 2010. In terms of public arts education, there are several higher arts institutes across the country, some of which recently opened such as the Public High School for Audiovisual and Cinema created in 2004. However, there is still a serious lack of offer for the dance field, technical professions and cultural management. Some private initiatives have emerged, especially in the field of contemporary dance and cinema. The major players in the independent sector are mainly small organisations that were established in the 80s, in particular in the field of theatre and music, and who are connected to the international scene. There are quite a large number of newcomers in terms of theatre companies today (around 250) but most of them do not benefit from funding and barely survive. In the performing arts sector, almost all organisations are private societies: even though cultural associations are not prohibited, no request to set up an association has been approved for a long time. Major music promoters, though conditions may have improved lately, still encounter obstacles when they wish to invite famous international stars or relating to the payment of taxes.
The cinema industry’s production and distribution network has suffered dramatically over the last decades: there are only fourteen cinemas left in Tunisia161. However, new initiatives and networks involving international partners, mainly from Europe, have succeeded in developing high quality work and large-scale feature film production, sometimes with the help of European programmes. Publishing is another cultural industry in dire need of partnership: as Tunisia is a small country, the modest dimension of the internal market makes it hard to survive. The USA is investing more and more in the young Tunisian elite though there is also a new trend of conservative Islamism promoting publishing in Arabic (mainly the Koran), to the detriment of publications in French.
In terms of festivals and events, the Tunisian audience enjoys both public and private initiatives in theatre, music, dance, and cinema. A number of young and dynamic new operators, well connected to the international scene, have started to organise small scale but successful events, including digital art.
The most significant international players are the national European Cultural Centres, in particular the French Institute, whose budget for culture is far higher than the other foreign organisations, including the EU delegation. However, and as elsewhere, budget cuts and changes of cultural policies have caused confusion with some cultural operators who have been collaborating and receiving support for decades, including in the “Francophone” framework. Major foundations in the Mediterranean region such as the Ford Foundation or other NGO’s play only a minor role in Tunisia. The EU Delegation organises a popular “Journées du Cinema Européen” in partnership with various European Embassies and publishes a call for cultural projects.
To develop their activities, cultural operators require more freedom to offer diversified cultural and artistic programmes, including the public sphere. A major involvement of the private sector and of regional and municipal authorities for cultural funding and the supply of better infrastructure would also contribute to a healthier cultural scene. Major mobility opportunities and long-term exchanges, facilitating better understanding and more fruitful partnerships are other key factors to promote a lively cultural sector.
159 such as the Institut National d’Archéologie et des Arts (National Institute for Archaeology and
the Arts) or the Société des Auteurs et Compositeurs de Tunisie (Tunisian authors’ and
composers’ rights society)
160 the heritage budget has multiplied sevenfold in twenty-one years
161 in contrast to the 120 movie theatres that existed in 1952
Major cultural organisations
• Africart Cinema, Tunis
• Centre culturel international
• Hammamet,www.culture.tn/html/institutions/ccih.htm,
• Centre des musiques Arabes et de la Méditerranée (CMAM), Sidi Bou Saïd,
www.musiqat.com/cmam.php
• Editions Ceres, Tunis, www.ceres-editions.com
• El Hamra, Tunis, www.theatrelhamra.com
• El Teatro, Tunis, www.elteatro.net
• Familia Productions, Tunis, www.familiaprod.com
• Nomadis Images - société de production, La Marsa, www.nomadis.net
• SCOOP organisation, Sidi Daoued, www.scooporganisation.com
• Théâtre National Tunisien, Tunis, www.theatrenational-tn.com
Major Cultural Events and Festival:
• Doc à Tunis http://docatunis.nesselfen.org
• Dream city – Muzaq, Tunis, http://dreamcity.over-blog.com
• Festival international de Sahara of Douz
• Festival échos sonores, Tunis, www.lefest.org/2009
• Festival International de Carthage, www.festival-carthage.com.tn
• Festival international de jazz, Tabarka
• Festival Printemps de la danse, Tunis, www.nesselfen.org
• Jazz Carthage, www.jazzacarthage.com
• Journée de cinema de Tunis, www.cinematunisien.com
• Musiqat, www.musiqat.com
• Rencontres internationales de la photographie
Salon de la bédé, Tazarka
teatro@mediterraneo "Mubarak sembra morto", ovvero L’importanza di essere arabo Per ragionare sulla questione egiziana a partire dal testo di Ahmed El Attar di Mimma Gallina e Ahmed El Attar
Nel quadro del festival organizzato da Outis nello scorso settembre, il 22 e 23 per la precisione, al Teatro Studio-Piccolo Teatro di Milano, per un pubblico non troppo numeroso, ma sorpreso e incuriosito, Ahmed El Attar presentava il suo On the Importance of Being an Arab, una performance teatrale multimediale realizzata con la Temple Independent Theater Company del Cairo.
E’ un monologo complesso, in cui un materiale verbale fluviale e informale si intreccia con il video (l’interprete – lo stesso El Attar – “doppia” le immagini di vita quotidiana proiettate), evocando episodi precisi della vita dell’autore. Punto di partenza del testo è la registrazione di (vere) telefonate, e l’informalità della conversazione in un flusso continuo (senza alternanza delle due voci o ricerca di personaggi), è uno degli elementi di interesse – stilistico e drammaturgico – del testo.
Nella prima scena, El Attar parla con un amico, l’artista visivo Hassan Khan, della visita di Obama al Cairo del giugno 2010; altre due conversazioni – e altri due “video-capitoli” dello spettacolo – riguardano la malattia del padre (quindi il rapporto padre-figlio) e i documenti di identità che la fidanzata deve ottenere. Ma oltre alla forma che vuole, secondo le note di regia, “creare aspettative da parte del pubblico, senza soddisfarle in pieno” (il copione non indulge infatti al racconto e mantiene un andamento frammentario), sono i temi trattati che acquistano ancora maggior interesse oggi, alla luce delle vicende egiziane.
Con l’indeterminatezza e la franchezza della conversazione privata, il testo getta un po’ di luce su una situazione di cui in pochi, e poco, in Italia e in Occidente ci si è occupati: il punto di vista sul discorso di Obama è spiazzante rispetto al nostro diffuso apprezzamento del presidente americano (condivisibile, ma privo di sfumature).
Anche chi opera in ambito culturale ha infatti spesso o quasi sempre avuto fino ad oggi – se pure involontariamente - un punto di vista post-coloniale su questi paesi (quando non di “scontro di civiltà”), che rende difficile capire una situazione di oppressione inaccettabile in cui è cresciuta –indipendentemente da come si evolverà - una società civile matura, complessa e animata da una dirompente energia.
Un altro elemento di interesse deriva dai modi di produzione e dalla dinamicità che rivelano.
Ahmed El Attar è autore, attore, regista, ma anche infaticabile animatore culturale: di grande interesse è stata la sua relazione sui rapporti culturali fra Mediterraneo e Europa e proprio sulla situazione del Cairo al convegno internazionale organizzato da Fondazione Cariplo e associazione Etre a Milano nel marzo 2010). Il centro che ha inaugurato nel febbraio 2005, lo Studio Emad Eddin, è un progetto unico nel mondo arabo nel campo delle performing arts: uno spazio per prove, formazione e residenze, messo a disposizione di compagnie indipendenti, egiziane e in generale arabe, e di progetti internazionali, lo scopo è infatti anche quello di promuovere contatti e collegamenti fra artisti della regione e stranieri.
Gli artisti della Temple Company del Cairo, nell’agosto del 2008, hanno vissuto a Marsiglia per lavorare su questa performance con contributo di “La Friche Belle de Mai” e del “Roberto Cimetta Mobility Fund”. Un’azione preparatoria è stata un laboratorio sulla luce organizzato presso lo stesso Studio Emad Eddin Foundation. La produzione infine è stata possibili grazie a 9th Sharjah Biennal (United Arab Emirates) & Orient productions (Egypt) con il supporto di Dramatiska Institute/SIDA – Tamasi group (Sweden).
(Mimma Gallina)
On the Importance of being an Arab
Tape 1 Hassan Track 15
Hey come va?
Tu! Che mi dici?
Obama è al Qubba Palace.
Abbiamo veramente segnato un punto storico!
Sì... Il mondo intero ci sta guardando, pieno d’affetto e di sostegno.
E ci ammirano per il nostro ruolo strategico nel mondo arabo, anzi, del nostro ruolo chiave nel mondo intero.
L’inizio della civiltà e 7000 anni di storia, Hassan... 7000 anni.
Tut Ankh Amon…
No, è Samir Ragab, il giornalista del quotidiano repubblicano.
Vuoi dire quel leccaculo della Tele
e dei giornali?
Di quei tipi la televisione è piena.
Non c’è niente da fare. È Ahmed Samir.
Veramente squallido quel tipo.
Sì, il tipo del cappello bianco.
Sì, è proprio Ahmed Samir... credo,
ma non sono sicuro.
A proposito, Mubarak sembra morto.
Sembra un cadavere.
Non sto scherzando, sembra proprio un cadavere.
Obama sembra un ragazzino vicino a lui.
Così giovane e pieno di vita, vicino... a una mummia.
È veramente orribile.
Abbastanza assurdo.
Non capisco. Cosa stanno aspettando?
Probabilmente lo mummificheranno,
una volta morto e lo presenteranno al mondo.
Il primo Presidente mummificato al mondo.
Sembra morto. Te lo giuro,
sembra un cadavere
Probabilmente ha un burattinaio alle spalle.
E quando sarà finito lo butteranno in soffitta.
Ma seriamente, è quasi ridicola la parata che hanno fatto per Obama.
Hanno fatto una parata dall’aeroporto,
piena di macchine e cavalli a fargli da scorta.
No, Obama non andava a cavallo.
Sì, era su un cavallo come un cowboy.
No, era in macchina, ma c’era un plotone di guardie a cavallo che scortavano la macchina presidenziale.
È veramente da malati.
Siamo una nazione così malata.
Una vista schifosa, veramente.
Dove pensa di essere? A Camp David???
Neanche a Camp David avrebbero montato uno spettacolo così.
O pensa di aver vinto la Seconda Guerra Mondiale?
Che vada affanculo, veramente.
Non ha ancora fatto niente.
È così… No era dall’aeroporto al palazzo presidenziale.
C’erano 30 o 40 macchine blu a scortare la macchina presidenziale.
E dopo c’erano Obama e le sue 16.000 guardie.
E intorno 15 cavalli che facevano da scorta,
6 a destra, 6 a sinistra e 3 di fronte.
La parata li ha portati fino al palazzo Presidenziale.
Non so neanche dove diavolo sia il palazzo di Qubba.
È vicino a Heliopolis.
Sempre la stessa merda, continuamente.
Hanno detto di Obama e del Popolo islamico e ci abbiamo creduto come polli.
Obama in un momento diventa la cosa migliore del mondo, in assoluto.
È ovvio che ha le sue ambizioni politiche.
Si sta scoprendo che alla fine non gli interessa l’Egitto, né il mondo arabo, e ha deciso di colpo di cambiare la sua politica estera.
Non posso credere come possano diventare i “nativi” a volte.
Sì, è vero. È che il governo cerca di salvarsi.
Questa è la più grande leggittimazione di questo fottuto sistema maledetto.
Fanculo.
E improvvisamente, l’Università del Cairo diventa il centro dell’educazione, della cultura e dell’illuminazione.
Due anni fa, tutti questi criticavano l’Università perchè non era fra le prime 500 nel mondo.
Allora era un dilemma, ma ora…
Ho sentito che hanno messo a posto l’Università e pulito tutto intorno.
Dovremmo invitare Obama a visitare il resto del Cairo.
Sì, così dovrebbero pulire tutto.
Lo inviteremo nei sobborghi di Manshiet Nasser. Ah, quasi mi dimentico...
La signora Mubarak si è già occupata
del Manshiet Nasser e ne ha fatto il quartiere ideale!
Potrebbe andare a Sharabbeya.
Il Manshiet Nasser e il Boulak el Dakrour non sono gli unici due da mettere a posto.
C’è Darb el Ahmar, Bab el Shereya,
e la piazza di Attaba... che schifo…
Guarda, il meglio del meglio, ed è ancora merda.
Sì, Gabal e Akhdar o quell’altra zona.
Io conosco la piazza di Attaba, Bab el Shereya e Darb el Ahmar suck.
A proposito, il centro sarà
completamente deserto oggi.
Che fai oggi?
No, al contrario, oggi è un giorno
ideale per lavorare
Al lavoro, in un ufficio tranquillo.
Bè, mi sono stancato.
Voglio andare in Inghilterra e ricominciare da capo.
E vivere una nuova vita.
Voglio andare in Inghilterra, così posso diventare...
Voglio scrivere.
Devo scrivere i miei progetti su un pezzo di carta.
Chi c’è a casa tua così presto?
Ah, è il ragazzo del supermercato, che porta la spesa di ghee, zucchero e burro.
La mia creatività ha raggiunto un nuovo livello!
Vero?... Sono totalmente d’accordo.
È così… Dovrei lavorare.
Come commentatore alle visite del Presidente.
Sì. È la cosa più importante... Sì, naturalmente.
C’è un ragazzo Sudanese in TV proprio ora,
che sta facendo le sue previsioni sulla visita di Obama.
Si chiama Dr. Rabei…
Sì, quello che ci si aspetta dalla visita di Obama…
Obama è come un mago...
Sì, è come Babbo Natale.
L’uomo che migliorerà tutto, incurante dell’interesse americano e della politica estera.
Sì, sì... suo padre non è musulmano?
Quindi dovrebbe essere un po’ dalla nostra parte.
Sì, certo… Barak Hussein Obama.
Assolutamente.
Basta solo che vada a pregare
nella Moschea di El Azhar e tutto sarà perfetto.
Dopo diventerà un credente.
come quella scena di quel film arabo degli anni settanta, l’alba dell’Islam.
Vedi, questa è cultura... Questa è raffinatezza.
Seriamente, però... La lotteria al Centro d’Immagine Contemporanea era così...
Mi stancano tanto questi artisti con la loro presunzione.
Che si fottano loro e la loro arte.
Veramente siamo degli sfigati. Avremmo dovuto trovare un posto in banca.
È così stressante avere a che fare con loro.
Sono dei borghesi, è la cosa peggiore che è successa all’arte nei paesi del terzo mondo.
Quando l’arte diventa borghesia.
È uno schifo.
Hai visto Tarek Aboul Fotouh ieri?
E cosa ti ha detto?
Proprio... me ne sono accorto.
Il tipo che organizza la Biennale e tutta quella roba “importante”.
Veramente, che cazzo... Siamo veramente sfigati
Sarebbe stato meglio essere nati nel periodo
di Abbasid con Shahrayar e Shahrazad, e tutte quelle schiave sexy.
Gli artisti che erano vicini allo Stato.
nel periodo Islamico, al contrario di adesso, vivevano come Re.
Fino ad offendere il Sultano,
che era un tagliateste.
Ho chiuso con il lavoro.
Non viveva a Londra?
Oh... Amr Khaled, il presentatore evangelista è un miliardario.
Voglio dire, ha una casa di produzione a Londra,
ed è il proprietario del suo programma.
È un tipo furbo.
Ha capito come funzionano le cose.
La storia della TV evangelista è tutta roba Americana.
A proposito, ci sono un sacco di analogie.
fra gli egiziani e gli americani... Sì, il documentario Jesus Camp.
Abbastanza inquietante.
Sì... È spaventoso.
Veramente spaventoso... Questa tendenza religiosa arretrata.
In realtá siamo una società di destra.
Voglio dire, ne hanno parlato sui giornali per qualche mese dell’idea
delle esecuzioni in piazza.
Parlo sul serio.
Ma non hanno visto mai un film.
o letto un libro di storia?
Non hanno visto le torture e i massacri del medioevo nei film di Hollywood?
La testa se ne va e la folla incomincia a gridare ancora più forte.
È completamente da barbari.
Ma questo non fa paura alla gente.
Al contrario, aumenta la tendenza alla violenza.
che vediamo nella nostra società.
Specialmente con la tendenza alla violenza, che vediamo nella nostra società.
Ha quasi raggiunto il limite.
Un uomo potrebbe uccidere sei persone su un autobus per avere un pezzo di pane.
È così. Devi essere prudente.
Ho smesso di litigare con i tassisti.
Solo nel caso in cui un tassista,
prima di tornare a casa da sua moglie, decida di tirare fuori il suo fucile AK-47 e mi spari!
Dimenticare... che bello.
Veramente, ho voglia di scrivere.
Arriverà... Non so cosa, ma arriverà.
Oh e naturalmente voglio mettere in scena.
Un musical con qualche attore egiziano super famoso.
Che dici della Carmen?
Con l’attrice Samah Anwar.
Sì, credo... No, non l’attrice Simone... Sì!
Senti, Isabelle mi sta chiamando dalla Francia. Ti chiamo dopo. Ciao.
Sí, Padre, buongiorno
Cosa fai?
Dove sei?
Ti ha chiamato il padre di Nevine?
Ho bisogno di parlarti...
Adesso non posso, devo andare
a ritirare la carta d’identità.
E poi devo tornare a sistemare alcune cose in casa.
E ho bisogno di soldi
Pronto?
Ti stavo dicendo che ho bisogno
di una parte dei soldi che mi devi.
Ho bisogno di parlarti
Cosa fai domani?
Perchè non passi a prendermi in ufficio dopo la banca?
O possiamo vederci nel mio appartamento,
se preferisci.
Papà, devo fare un milione di cose prima del matrimonio.
Mancano solo quattro giorni e ho bisogno di vederti.
No, ci metterei una vita a passare dal Club.
Fa veramente caldo, perché non vieni tu?
Vieni a casa.
In ogni caso, domani passerai dalla banca, in centro.
Sarai a pochi minuti sia da casa che dal mio ufficio.
Va bene, non venire in ufficio se non vuoi.
Vieni a casa.
Perchè non vuoi venire a casa?
Perchè non te la senti?
Non capisco.
Con te è sempre lo stesso.
Non c’è mai…
Ti sto forzando a fare cosa, esattamente?
Ma comunque domani sarai in centro!
Che documenti?
Il contabile non li ha visti.
Li ha fotocopiati, li messi in una busta e me li ha inviati a Londra.
Non ha visto niente e non sa niente.
Quale riciclaggio sporco?
Non ha visto niente e non sa nemmeno l’inglese.
Solo perchè qualcuno ti ha detto -non so cosa- così adesso sono responsabile?
Papà, anche la gente che ti sta attorno ha le sue necessità, forse a volte puoi prenderlo in cosiderazione.
Non mi sposo tutti i giorni.
Hai deciso di stare – dove?
Volevi andare via?
Non starai andando via per colpa mia!!!
Non capisco.
Ci sono invitati che vengono dall’estero
e tu non vuoi venire?
Ha senso che tu rimanga.
No, non è solo una mia opinione.
Va bene Papà.
Il mio cammino! Quale cammino? Cosa vuoi dire?
Per tua informazione, ho risolto quella questione...
Pagherò soltanto la metà.
Ha senso, ma non lo sapevo.
Non lo sapevo.
Voglio dirti una cosa.
Non lo sapevo. Non lo sapevo. Ho reagito secondo quello che sapevo.
Mi sembra che mi abbia detto tu quelle cose.
Perchè tu hai esperienza.
Nevine me lo diceva fin dal principio ma io non ci credevo.
Me lo ha detto, non abbiamo fatto la festa di fidanzamento.
Così divideremo il costo del matrimonio.
Pensavo che dicesse così per far pagare suo padre.
Così ho detto di no.
Se avessi saputo che aveva ragione, avrei agito diversamente fin dal principio.
Ti voglio dire una cosa.
Non fa differenza se venga da te o da me.
Non fa differenza, non fa differenza.
Non fa differenza.
Ti giuro che non fa nessuna differenza.
Io posso dire che tu sei il padre.
Che sei felice che io mi sposi.
E che vuoi chiedere come vanno le cose.
Papà, non chiedi mai di me.
Come sei esattamente con me?
Non mi chiami mai per sapere come sto o cosa faccio.
E perchè non lo farai?
Ok, va bene.
È quello che ho fatto per anni.
Dovrei chiamare io perché sono tuo figlio.
Ma tu non mi chiami mai, né chiedi di me, anche se sono dall’altra parte del mondo.
E tu non sei obbligato a farlo
nemmeno una volta
Non capisco.
Come non è un problema?
Certo che è un problema.
Ogni persona ha situazioni particolari.
Il padre ha un ruolo da svolgere, come il figlio.
Ho quarant’anni e mi parli come se fossi un adolescente.
Sono un uomo adesso.
Ho già avuto una famiglia e adesso ne inizio un’altra.
La tua storia del “Io sono l’unico
che può parlare” non funziona più.
No papà, non è normale.
Non ha niente a che vedere con ciò che è normale.
La cosa normale è che la gente parli.
A volte un padre fa uno sforzo.
Mentre altre volte è il figlio a sforzarsi, e così via.
In alcuni casi, il padre deve fare uno sforzo e chiedere di suo figlio.
È ovvio che i figli devono chiamare i genitori
Ma in alcune circostanze il padre deve sforzarsi.
E così tu sei nella tua piena facoltà mentale,
non sei...
Non è un crimine, nessuno ha detto che è un crimine ma…
Ok, ma la cosa più importante adesso è che ho voglia di parlarti e organizzare le cose.
Dobbiamo vedere il matrimonio,
chi riceverà gli ospiti. Ci sono dettagli che devo essere sistemati.
Vorrei vedere i dettagli, così potremmo…
Sai quando arriva lo zio Ahmed?
Non viene?
Mi ha chiamato due giorni fa,
e mi ha detto che sarebbe venuto.
Mi ha detto che era andato a cena con un medico, amico suo, e che hanno parlato.
Puoi spiegarmi quali sono le tue condizioni di salute?
Fino ad ora non ho capito niente.
Che cos’hai?
Hai una cirrosi al fegato?
Quanto è grande la parte colpita?
Ok.
A parte questo, qual è la situazione?
Hai il cancro?
No, te lo sto chiedendo, hai il cancro?
Il cancro è una cellula che uccide le altre cellule.
Sì, sì, esattamente, sì.
C’è una grande differenza.
Sono due malattie diverse… Forse in sei mesi.
Qual è il trattamento per questa malattia?
Come la chemioterapia?
Voglio chiederti una cosa.
Come sai che non hai il cancro?
Un’altra cosa, cosa ha detto il dottore, qui in Egitto?
Non ti ha detto che è un cancro?
Glielo hai chiesto direttamente?
Ok, va bene.
Sì.
Cosa ha detto?
Bene e qual’è la soluzione, quindi?
Sì, lo so, il fegato pulisce il sangue.
Sei pronto per il trapianto?
Perché no?
A Ramadan Khater hanno fatto la stessa operazione 8 mesi fa.
Sì, il fegato si rigenera.
Il dottore che ha operato Ramadan ha preso un pezzo di fegato da un’altra persona.
Ha detto che, più o meno in un anno,
il fegato torna alle sue dimensioni normali.
Ok.
Non capisco esattamente cosa dice il dottore.
Ti ha detto che la malattia continuerà.
Quanto tempo? cinque anni? di più?
Per prendere precauzioni per la cura,
o per cosa esattamente?
Il tuo stato d’animo, Vorrei che tu...
Stare tutto solo non è la soluzione,
per sollevare il tuo stato d’animo.
Ti dirò una cosa.
Alla tua età dovresti goderti la vita.
Non ti dovresti isolare dal mondo per migliorare il tuo stato d’animo.
Dovresti essere felice e non preoccuparti.
La soluzione per sollevare il tuo stato d’animo non è mettere le preoccupazioni da parte, ma eliminarle completamente.
Ok, va bene.
Devo andare a ritirare la carta d’identità.
Sì, ho una conoscenza.
Normalmete ci vogliono tre giorni.
Ma conosco una persona e l’avrò in 24 ore.
Devo andare prima che chiudano.
Ok, ti chiamerò.
Ti chiamo quando torno.
Ciao…
Sto sistemando l’appartamento con Farag e poi andrò a incaricare il buffet.
Sì... Era veramente pieno di gente.
Era un caos, un disastro.
Te lo giuro, era assurdo.
Prima sono andato a salutare l’ufficiale di polizia, che lì è il capo.
Mi ha mandato quel tipo, Fathy, per fare le carte.
E gli ha detto di venire con me.
Così sono andato con Fathy, prima al piano di sotto, dove un agente ci ha detto
che il generale Anwar, con cui aveva parlato prima, aveva dato ordini di fare tutte le carte d’identità nel palazzo di fianco.
Così siamo tornati un’altra volta di sopra, dove Fathy mi ha mandato all’altro palazzo con un fattorino, che dicesse al funzionario
che venivo da parte del generale Anwar.
Mm… sì, così sono andato lì con il fattorino... è stato un attimo.
Che situazione… avresti dovuto vedere la gente... Onestamente io...
È l’ultima volta che faccio una cosa simile.
Mi vergogno proprio.
Avresti dovuto vedere la gente lì...
Alcuni erano invalidi…
c’erano donne anziane... donne che piangevano... che scena...
C’erano centinaia di persone,
probabilmente che aspettavano in fila da 3 o 4 ore.
Sono entrato dentro, mi sono seduto
di fronte al funzionario per 10 minuti di orologio, mi ha dato la ricevuta e tutto era fatto.
Cosa è successo dopo?!!
Così ho preso la ricevuta...?!!
In che senso mi ha aiutato...?!!
Se avessi seguito la normale routine, probabilmente avrei finito a mezzanotte
Senza tener conto dello stress
e dell’umiliazione
Sì... Così i miei documenti sono praticamente pronti.
In teoria dopo tre giorni, così dice la ricevuta... Adesso dovrei chiamare Ashmawy...
E andare domani alla polizia.
dal suo amico funzionario, Ihab.
Pronto, ci sei? Sì le carte sono state verificate e dovrebbero essere a posto.
Gli ho detto che ne ho bisogno urgentemente.
Mi ha detto che molto probabilmente la cosa sará veloce.
Così aspettiamo... abbiamo due possibilità, adesso.
Sicuro, per oggi non c’è modo di averla.
Non me l’ha detto.
Mi ha detto un paio di giorni.
Nevine, non posso gestire questa cosa adesso.
Ascolta… Nevine… Non lo so.
Prima devo chiamare qeul dannato avvocato per sapere quando quel cazzo di Seicco
ha bisogno della mia carta d’identità per il matrimonio.
Mi ha detto che ha sistemato la cosa
con lo Sceicco, e che gli possiamo dare la carta d’identità domani o martedì.
Adesso chiamo l’avvocato.
Così la cosa è risolta.
Sì, mi senti?... Gli ho spiegato tutto.
Sì, gliel’ho detto.
Lo Sceicco ha bisogno della carta d’identità
tre giorni prima.
Te l’ho detto, ha detto domani o dopodomani.
Potrei fare un salto domani.
a vedere com’è la situazione.
Potrei andare da questo Ihab e vedere come vanno le cose.
In futuro sarà più facile avere il documento in questo modo.
Non puoi immaginarti la situazione.
Devi solo affrontarlo… Tu sai come gestire queste cose.
Ti ho chiamata, ma non hai risposto...
No, tu mi hai chiamato adesso.
Io ti ho chiamata un’ora fa.
No, no… no…
Non mi hai chiamato subito dopo che ti ho chiamata io.
In ogni caso, potrei andare domani mattina, nel pomeriggio o fra un paio di giorni.
E vado a ritirare la carta d’identità,
miracolo...
C’erano almeno 2000 persone lì, aspettando da 4 ore, per avere i loro documenti.
Sembrava quasi una rivolta. Tutte quelle persone a prendere d’assalto gli uffici per avere i documenti.
Quasi rimaniamo lì!
Non potevamo uscire.
E il funzionario che controllava
gridava alla gente.
C’erano migliaia di persone.
C’era una ragazza che piangeva,
una donna che urlava e un altro ragazzo che faceva non so cosa. Era veramente assurdo, stressante e si moriva di caldo.
Gli impiegati avevano pile di documenti e moduli di fronte a loro.
La mia è stata messa in cima alla prima pila.
L’impiegato ha sbrigato la mia pratica subito dopo aver finito quella di una donna.
Sì, ha tolto la parola divorzio
dal vecchio documento, ma il numero di carta d’identità rimane lo stesso.
Ha solamente cambiato lo stato civile.
Nevine, potrei venire domani mattina...
Non ci sono problemi, solo che oggi non posso tornare.
Chi...?
Chiamerò l’avvocato e vedremo come fare.
Non ti preoccupare, sistemerò tutto oggi…
Ok
Sì… Non ti preoccupare me ne occupo io.
Non ti preoccupare, si sistemerà tutto.
Nevine, per favore... Adesso non posso.
Va bene, vestiti e vieni.
Ok.
Va bene… Ciao.
(traduzioni di Simone Alberto Bearzi per le parti dall'inglese, e Akram Idries per quelle dall'arabo)
Perdersi nel nulla con i testi per nulla Kosuth e Beckett alla Galleria Lia Rumma di Milano di Redazione ateatro
Lia Rumma, napoletana verace, ha aperto un ampio spazio espositivo a Milano, in via Stilicone 19. Fino al 31 gennaio, era possibile visitare una mostra dedicata a Joseph Kosuth, maestro americano del concettuale, arricchita da una emozionante installazione transmediale “site specific”.
An Uneven Topography of Time, la mostra, era dedicata a tempo, con una serie di opere cenrate su questo nodo estetico-filosofico. L’installazione occupava il piano terreno della galleria, un ampio spazio di un edificio industriale ristrutturato, ed era dedicata a Samuel Beckett e ai suoi Texts for Nothing.
Le pareti sono compleamente dipinte di nero, il visitatore è al centro del nulla. Ma sulle pareti, le parole di Beckett sono diventate scritte al neon che vibrano nell’oscurità. Quelle che nel passaggio dalla pagina alla scena diventavano onde sonore, qui diventano foton, onde luminose. Frammenti ultimi strappati al nulla, frammenti che al tempo stesso lo negano e lo confermano.
Lavorando su un’opera considerara “minore” dell’autore di Aspettando Godot, Kosuth coglie l’essenza della riflessione beckettiana, centrata sul rapporto tra significato e assenza di significato.
Teatro pubblico e teatro pubico Dal Teatro di Baldracca (Firenze, 1576) al Bunga Bunga (Arcore, 2011) di Oliviero Ponte di Pino
Le televisioni commerciali sono abbastanza squallide e volgari in tutti i paesi del mondo. Perciò chi viaggia, quando vede uno schermo acceso, non si aspetta gran che. Ciononostante, quando un ospite straniero arriva in Italia, di solito si stupisce: “Ma nella vostra tv si vedono solo vecchi in giacca e cravatta circondati da ragazzine quasi nude che si dimenano!"
E' la programmazione (e l'ideologia) della nostra tv, come l’ha condensata con efficacia Lorella Zanardo nel documentario "Il corpo delle donne". E' la "scena primaria" della nostra tv commerciale. Sul piccolo schermo, ormai paiono osceni i maschi sotto i quaranta e le femmine sopra i trenta. Con la direzione nazionale del PDL nell'aprile 2010, l’immagine è diventata anche l’icona politica dell’ultima stagione berlusconiana.
Silvio Berlusconi, beato tra le ministre.
Quando negli anni Settanta e Ottanta lanciava le sue trasmissioni intorno a questa immagine (da Colpo grosso, recuperato da un'altra tv privata, Antenna Tre, a Drive In, il programma simbolo di quella stagione), Silvio Berlusconi tutte le sere veniva immediatamente informato dell'audience delle sue tv. Teneva sotto stretto controllo le reazioni del pubblico, in modo da conoscerne tutti i desideri e soddisfarli, con dosi sempre più massicce di quella medicina.
Il segreto di Drive In: donne seminude e uomini vestiti.
Uno dei primi teatri moderni, aperto a Firenze nel 1576, si chiamava Teatro di Baldracca. Prendeva il nome dal quartiere malfamato in cui si trovava, appena dietro il Palazzo degli Uffizi. Vi si esibirono con grande successo le prime compagnie dei comici dell'arte, compresi i Gelosi.
Isabella Andreini, star dei Gelosi, alle prese con Pantalone.
Il Teatro di Baldracca, probabilmente progettato dall’architetto e scenografo Bernardo Buontalenti, si trovava nel salone dove ha attualmente sede la Biblioteca Magliabechiana. Era collegato agli Uffizi, residenza dei Medici, da un passaggio riservato, un corridoio che si affacciava su una finestrella: da lì il Granduca poteva assistere, non visto, allo spettacolo, ma poteva anche osservare le reazioni del pubblico (ne parla Ludovico Zorzi, in Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Einaudi, Torino, 1980).
Quello utilizzato dai Medici e da Berlusconi è un efficace meccanismo di feedback, che permette di verificare l'effetto sui potenziali destinatari dei prodotti culturali che vengono promossi o in qualche misura indetti o «concessi » dal Principe di turno, e di «aggiustarli» a seconda delle esigenze della propaganda (o della pubblicità), oltre che dei gusti e delle attese del pubblico. E' un processo dinamico, che evolve nel tempo, e che permette di indirizzare e sui tempi lunghi plasmare l'immaginario di una comunità.
Di recente, il Rubygate ha messo sotto l'impietosa luce dei riflettori l'immaginario personale e privatissimo del nostro premier. Che siano state coinvolte minorenni o no sarebbe ininfluente, se lo stesso Berlusconi non avesse dichiarato che secondo lui l'età mentale media dei telespettatori (e di conseguenza degli elettori) è di circa undici anni.
Va subito aggiunto che la «scena oprimaria» dell'immaginario berlusconiano ha un fondamento teatrale. In origine, il chiacchieratissimo Bunga Bunga era una barzelletta da avanspettacolo, o da convention aziendale. Poi questo «microracconto» è diventato il copione per il teatrino privato delle ville di Arcore e della Costa Smeralda, oltre che di Palazzo Grazioli. La drammaturgia prevede (o prevedeva...) ragazze che si vestono (e svestono) da infermiere o da poliziotte, come nei porno-soft all'italiana degli anni Settanta, protagoniste Carmen Villani, Edwige Fenech o Gloria Guida.
Edwige Fenech, ovvero la Dottoressa del Distretto Militare.
Anche la strepitosa gag telefonica sulla «nipote di Mubarak» rientra alla perfezione in una sceneggiatura da commedia all'italiana o da cinepanettone. Unica eccezione, nel coro di infermiere, poliziotte e «liceali nella classe dei ripetenti», la «badessa sexy» Nicole Minetti, che per spogliarsi – dicono le intercettazioni - si vestiva da uomo (un po' come Charlotte Rampling nella celebre scena del Portiere di notte di Liliana Cavani).
Carmen "Lingua d'Argento" Villani, ovvero la Supplente sexy.
Le perversioni seguono meccanismi precisi: per primi, la coazione a ripetere e la necessità di aumentare progressivamente lo stimolo. Come in tutti i processi di assuefazione, chi ne è vittima resta convinto di poter tenere il fenomeno sotto controllo.
I Medici, sempre a rischio di congiure aristocratiche (come quella dei Pazzi), di rivolte popolari (i Ciompi) ma anche di rigurgiti moralistici (Savonarola), erano attentissimi alla loro immagine pubblica: la ritrattistica del Bronzino, cui era affidata l'immagine ufficiale della casata, è da questo puntoni vista impeccabile. I Medici potevano anche avere vizi privati, ma a rifulgere dovevano essere le pubbliche virtù. L'immagine pubblica di Berlusconi, finiti i bei tempi dell'album agiografico Una storia italiana, con le belle foto di famiglia e la versione «ufficiale» del romanzo d'amore con Veronica Lario, è ora affidato al re del gossip Signorini, diventato ormai il canale preferenziale della comunicazione politica berlusconiana, sulla stampa e in tv. Non ci governano più gli uomini politici, ma le celebrities
Con il Rubygate (ma già prima, con il caso Noemi), le posizioni si sono rovesciate, rispetto alla prossemica del Teatro di Baldracca. Noi, i «sudditi», siamo diventati spettatori indiscreti ma attentissimi del Gran Teatro del Bunga Bunga: seguiamo con attenzione morbosa le inchieste della magistratura (ma di fatto grazie anche al panopticon delle nuove tecnologie elettroniche), leggiamo le intercettazioni, aspettiamo le foto...
La reazione di fronte all'ennesimo scandalo sessuale berlusconiano può variare: dal moralismo di stampo cattolico o femminista all'invidia di chi canta il libertinismo e il trionfo del principio del piacere, per non parlare del calcolo di chi conta di sistemare «tu, io e mammà» grazie a un paio di notti ad Arcore (naturalmente con la fica o il culo di figlie e sorelle, e magari anche di figli e fratelli).
Per gli uni e per gli altri, puritani e libertini, la tentazione voyeuristica di sbirciare nel teatrino privato di Berlusconi è irresistibile: sono vent'anni che la televisione italiana ci allena lo sguardo e gli ormoni a questo spettacolo, modulando il nostro desiderio su questa scena primaria.
Gli ultimi eventi segnano anche un punto di non ritorno. Perché ormai l'immaginario ossessivo del Principe coincide con quello dei suoi sudditi. Il progetto berlusconiano pare aver raggiunto perfettamente il proprio obiettivo. Però, a ben guardare, ci troviamo in fondo a un vicolo cieco. Per Berlusconi e per gli italiani, il rischio è che questa sovrapposizione di immaginari porti all’inevitabile crollo del desiderio. Al collasso dell'immaginazione, erotica e politica. A uno stallo.
Forse a rimettere in moto il meccanismo può essere il grottesco. Ormai il "corpo glorioso" del Principe, quello che Marco Belpoliti ha battezzato nel titolo del suo saggio Il corpo del Capo (Guanda, Milano, 2010), malgrado i numerosi interventi che l'hanno trasformato in una sorta di cyborg, è ridotto a "culo flaccido", come è sbottata la prima delle sue Vestali al telefono in un momento di rabbia. Nell'eterna e feroce Commedia dell'Arte che viviamo in Italia, basta un attimo, e il Principe Azzurro, il buon partito che ogni fanciulla vorrebbe come sposo, si rivela all'improvviso un vecchio e tremante Pantalone che sbava dietro a tutte le servotte che gli passano accanto: ma nessuna di loro si sogna di innamorarsi di lui.
Ovviamente anche dietro al trionfo dell'anziano satiro (dietro alle orge del Drago) c'è un rimosso, un "non detto" che inquieta e disgusta. Ma ancora non riusciamo a liberarci di questo perverso incantesimo. Oggi, grazie ai nostri abili satirici, ridiamo delle avventure erotiche e delle disavventure giudiziarie del premier. Ma quando ci risveglieremo, quando calerà il sipario su questo teatrino pubico, ci sarà poco da ridere.
BP2011 MATERIALI L'anno delle residenze I numeri di Associazione Piemonte delle Residenze
18 Compagnie professionali
29 Prime nazionali
32 Teatri gestiti
85 Comuni coinvolti
93 Corsi di formazione
217 Lavoratori impiegati
378 Spettacoli programmati
68971 Spettatori nel duemiladieci
Le Residenze Multidisciplinari del Piemonte Una ricchezza del nostro territorio al servizio del nostro territorio
L'associazione Piemonte delle Residenze nasce nel giugno 2006 per volontà delle strutture teatrali della Regione Piemonte che scelgono la collaborazione per stimolare e migliorare le condizioni della produzione e promozione artistica contemporanea.
Le finalità principali dell'associazione sono di costituire un sistema organico tra le attività produttive, distributive, promozionali e formative, costruire uno scambio con il mondo del teatro e le altre arti e favorire il superamento delle tradizionali suddivisioni in generi.
La costruzione di una comunità sociale coesa e un rafforzamento dell'idea di teatro come esperienza necessaria e alternativa al consumo dei prodotti multimediali, sono dunque augurio e obiettivo comune dell'Associazione Piemonte delle Residenze di cui ad oggi fanno parte17 delle 19 residenze attive in Piemonte.
Residenza multidisciplinare DAL MONFERRATO AL PO
CASA DEGLI ALFIERI
Località Bertolina 1 - 14030 Castagnole Monferrato (At) Tel. 0141 292583
alfierihouse@tin.it – www.casadeglialfieri.it
FABER TEATER
Via Blatta 72 – 10034 Chivasso (To) Tel. 338 2000758
info@faberteater.com - www.faberteater.com
Residenza multidisciplinare DALLA MONTAGNA AL LAGO
ONDA TEATRO
Corso Galileo Ferraris 266 - 10134 Torino
Tel. 011 197 402 90
info@ondateatro.it - www.ondateatro.it
Residenza multidisciplinare DI CARAGLIO E DELLA VALLE GRANA
Teatro Civico - via Roma 124, - 12023 Caraglio (Cn)
Tel. 0171 617714/617718 (Comune di Caraglio)
SANTIBRIGANTI TEATRO Tel. 011 643038
santibriganti@santibriganti.it – www.santibriganti.it
Residenza multidisciplinare ARTETRANSITIVA
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anno di fondazione 2002
Residenza multidisciplinare SUL LAGO D’ORTA
TEATRO DELLE SELVE
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Residenza multidisciplinare STORIE DI ALTRI MONDI
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Residenza multidisciplinare DEL TERRITORIO PEDEMONTANO
TEATRO DELLE DIECI
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Residenza multidisciplinare DELLE DUE PROVINCE
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Residenza multidisciplinare TEATRIMPEGNOCIVILE
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Via delle Rosine 11 - 10123 TORINO Tel. 011 837846 - 340 6983636
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UN TERRITORIO PER BAMBINIATEATRO - Residenza multidisciplinare di Ivrea e del Canavese
STILEMA/UNOTEATRO
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stilema@unoteatro.it - www.stilema-unoteatro.it
Residenza multidisciplinare VAL PELLICE PER L’INFANZIA E LE NUOVE GENERAZIONI
NONSOLOTEATRO
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Residenza multidisciplinare UN CAMPO DI STELLE
ANNA CUCULO GROUP
via Mercanti, 8 bis - 10122 TORINO Tel. e fax. 011 5619129 - 347 2547687
info@annacuculogroup.it - www. annacuculogroup.it
Residenza multidisciplinare “I LINGUAGGI DELLA CONTEMPORANEITA’”
A.C.T.I. ASSOCIAZIONE CULTURALE TEATRO INDIPENDENTE
Via San Pietro in Vincoli, 28, 10152 Torino Tel. 011 5217099; fax 011 4362208
info@teatriindipendenti.org- www.teatriindipendenti.org
MAESTRALE - IRRUZIONI TEATRALI Residenza multidisciplinare di Ivrea e del Canavese LIBERIPENSATORI “PAUL VALERY”
via Moretta, 31 - 10139 TORINO Tel. e fax. 011 657365 - 347 9104064
liberi.pensatori@tiscali.it - www.liberipensatori.net
BP2011 MATERIALI Postop L'intervento alle BP e le linee programmatiche di Alessio Bergamo, Francesca Cavallo e Flavia De Strasser
L'intervento di Alessio Bergamo alle Buone Pratiche
Vi presento la mia pratica. Un anno e mezzo fa ho fondato con due ex mie allieve della Paolo Grassi, POSTOP che piuttosto che compagnia forse sarebbe più corretto definire “area”, un’area di artisti e organizzatori che condivide un determinato approccio produttivo e artistico. Il ragionamento dal quale siamo partiti è stato questo: non esiste più una produzione pubblica o privata alla quale si possa bussare alla porta. L’autoproduzione costringe chi la fa ad operare con criteri antieconomici, costringe a perdite consistenti o a risparmi indiscriminati, soprattutto sul lavoro e porta a risultati artistici per lo più di scarso valore. Inoltre anche quando si riesce nell’impresa, in genere, e a prescindere dalla qualità, il lavoro dell’indipendente non trova circuitazione si sfalda e muore dopo brevissima vita creando una terribile frustrazione. Stando così le cose ci siamo detti che si era arrivati ad un limite ultimo. Che fare a prezzi di enormi sacrifici uno spettacolo scarso per cercare invano di farlo girare era inutile. E abbiamo deciso di lavorare in maniera diversa.
Abbiamo individuato un aspetto per noi prioritario da un punto di vista artistico. Questo aspetto, per noi che veniamo da un’impostazione stanislavskiana, era il lavoro dell’attore, nella misura in cui è vivo, creativo, centrale, comunicativo; nella misura in cui passa dal ripetere, al ri-vivere; in cui la sua performance supera la riproduzione e diventa un avvenimento. Abbiamo quindi deciso di cercare delle condizioni in cui almeno questo aspetto del lavoro creativo potesse essere garantito. Così abbiamo rinunciato al concetto di spettacolo che si riproduce spostandosi uguale in posti diversi e ci siamo inventati la formula della POSTOP e cioè della POST-OPERA: un momento performativo in cui l’attore crea in improvvisazione davanti al pubblico senza eseguire una messa-in-scena preordinata. Ovviamente questa scelta, lo ripeto, l’abbiamo potuta fare sulla base di una determinata scuola, di un determinato approccio che ci permette di improvvisare rimanendo in rapporto di fedeltà con un progetto scenico alto, coerenti con un testo letterario, e che fa della mutevolezza della performance dell’attore un punto di forza e non un problema…. In termini produttivi abbiamo deciso di agire nella maniera seguente: insediarci per un periodo x su un territorio, lì vivere e lavorare e lì, in quello spazio e per quello spazio (spazio fisico e sociale, culturale) creare e mostrare il nostro lavoro. Quando il periodo di lavoro finisce l’esperienza deve considerarsi conclusa. Durante il periodo di lavoro ci comportiamo come una compagnia stabile (come pensiamo debba comportarsi una compagnia stabile), cioè non solo smerciando uno spettacolo, ma fornendo servizi culturali per il territorio. E cioè, in genere, viste le diverse competenze che riuniamo e vista la vocazione pedagogica della nostra scuola, facciamo corsi e laboratori per la gente del territorio, interagiamo con scuole, associazioni, ecc. Il primo anno c’è andata bene, abbiamo ricevuto 32.000 euro con un bando della provincia di Roma e abbiamo fatto un mese e mezzo di residenza nella valle del Tevere mostrando in spazi urbani di diversi paesi 12 POSTOP in improvvisazione tutte differenti l’una dall’altra, spesso incontrando spettatori che non avevano mai visto uno spettacolo teatrale – incontri meravigliosi, questi, e molto gratificanti -. La prima POSTOP l’abbiamo fatta dopo 11 giorni , le altre a seguire ogni due tre giorni. Ogni volta ci siamo rapportati all’incontro col pubblico come ad un momento di prova, di verifica del percorso in atto, momento che ovviamente incideva sullo stesso percorso. Abbiamo anche sviluppato un piccolissimo pubblico di spettatori itineranti che seguivano l’evolversi del progetto di paese in paese. Sull’esperienza abbiamo fatto un ipertesto che si può consultare cliccando su www.postop.altervista.org/book . Adesso siamo partiti con un nuovo progetto.
Ora, non so se questa la si possa definire una buona pratica, so che è l’unica che abbiamo potuto escogitare per non tradire noi stessi da un punto di vista artistico. Da un punto di vista economico è estremamente poco redditizia e, per me che ne sono l’animatore, lavorativamente molto onerosa. Ma ripeto, per il momento non volendo/potendo emigrare e non volendo smettere di far teatro questa è l’unica che mi sono potuto inventare e che salvaguarda la mia dignità e la mia fede artistica, e non mi sembra poco.
A conclusione di questo intervento voglio però dire una cosa su aspetti più complessivi. Il teatro italiano è in coma profondo. I teatranti sono per lo più impossibilitati a lavorare dignitosamente. Il sistema degli stabili si è trasformato in un’enclave che difende i suoi sempre più limitati privilegi. Attorno a questa enclave non esiste lavoro, non esistono garanzie sociali, mutualistiche, non esistono circuiti, quasi non esistono economie, quasi non esiste produzione. Permettetemi di rivolgere la vostra attenzione ad un semplice dato personale: contate mentalmente quanti sono gli attori o registi di vostra conoscenza che hanno figli. L’esiguità del loro numero è la conferma di una totale assenza di sistema lavoro. In questa situazione catastrofica la qualità artistica media dei lavori è spesso, amatoriale. Vorrei dire chiaramente ai dirigenti degli stabili (concordando con quanto detto da molti, oggi) che la difesa delle istituzioni che rappresentano ha senso solo se presentata all’interno della salvaguardia di un sistema, eventualmente in quanto difesa dell’eccellenza di un sistema (eccellenza che va comunque dimostrata e tutelata, anche in termini di virtuosità amministrativa). Ma perché l’eccellenza sia tale devono preoccuparsi che dietro di loro il sistema rispetto al quale eccellere esista, ci sia. In caso contrario la loro risulta essere la difesa vergognosa di privilegi inaccettabili, vista la condizione della maggior parte degli operatori teatrali. In questo caso si troveranno isolati e sempre più in balia dei ricatti dei politici, con l’anima venduta per un pugno di riso… che è sempre passibile di trasformarsi in un pugno di mosche, come sta regolarmente accadendo.
Dico in 30 secondi e con l’inevitabile rozzezza la cosa a cui più tengo. Per risollevare la situazione bisogna rifondare ex novo un sistema che deprecarizzi le istanze produttive e dia fiato all’iniziativa artistica di quelli che ora sono gli indipendenti. Queste figure sono schiacciate dal peso del continuo e caotico cercare finanziamenti sempre insufficienti tra mille fonti diverse (bandi, sponsorizzazioni, finanziamenti locali, centrali, europei, ecc.) . Questo sarà possibile solo cambiando maggioranza al governo del paese e indirizzo al governo della cultura. Peraltro la Di Biasi-Carlucci, spiace dirlo, va in una direzione errata e già sconfitta dalla realtà, oltre che da Tremonti, che è quella di rianimare il sistema attuale, cercando di garantire la ricchezza artistica con la complessità organizzativa e la molteplicità di istanze decisionali. Penso si debba andare nella direzione opposta. Penso che chiunque di noi si imbarcherebbe con molto più piacere in un avventura produttiva cercando di investire e crescere artisticamente ed economicamente su un territorio se gli fosse garantito uno spazio e un finanziamento parziale e un salario di sussistenza minimo, in cambio ovviamente di determinate prestazioni. Credo che bisognerebbe orientarsi verso la creazione di una rete di micro teatri stabili che affianchino quelli attuali: ciò garantirebbe investimenti e crescita artistica e culturale. L’effimero ha fatto il suo tempo, nella cultura, e ormai si delinea come principio, come forza definitivamente alternativa ad essa.
Le linee programmatiche di Postop
Postop, diretta da Alessio Bergamo, raccoglie artisti di teatro professionisti che, avendo preso atto di una serie di mutamenti mai enunciati ma ormai già in essere nel sistema produttivo teatrale italiano , intendono proporre una modalità di creazione che ha importanti elementi di novità, sia da un punto di vista artistico che organizzativo.
Postop organizza performance in continua evoluzione. Questo dato è inevitabile per il teatro eppure, curiosamente, il sistema produttivo si ostina a negarlo. Oggi più che mai, però, quest’ostinazione è insensata. Un regista che produce una partitura fatta per essere ripetuta e attori e tecnici che vanno a ripeterla in spazi e città diversi e davanti a pubblici differenti, sono un lascito di un sistema produttivo che prevedeva un pubblico orientato dalla critica e la possibilità di replicare lo spettacolo per molte volte e senza intervalli di tempo troppo lunghi. Questo mondo, di fatto, non esiste più. Postop considera controproducente e dannoso (per chi fa teatro, per chi ci va e per il lavoro che il teatro comporta) continuare a fingere di non accorgersene e ha deciso di abolire nelle sue produzioni lo spettacolo teatrale come oggi comunemente lo si intende. Postop, che si pone lo scopo di coltivare la compresenza viva e interconnessa di pubblico e artisti, assume quindi come dato programmatico che ogni sua performance sia differente dalla precedente.
Coerentemente con quest’impostazione Postop usa il tempo delle prove non per acquisire una partitura data che possa essere ripetuta, ma come un allenamento per abituare i suoi artisti a compiere azioni vive che si pongano in una relazione davvero presente con gli spettatori: pronti al racconto collettivo di una storia, ma ancorati a una relazione viva (e quindi mobile) col pubblico in sala.
In nome di questa poetica Postop predilige la musica dal vivo, costruisce un lighting variabile, mobile, non programmato per successione di quadri, e ha un rapporto con lo spazio che rifiuta la concezione tradizionale della scenografia in base alla quale si impianta uno proprio spazio precostruito in quello in cui si va a lavorare.
Postop, al contrario, parte dal dato (morfologico, ma anche storico) del luogo in cui viene ospitata e lo mette al servizio della performance. Usa il dato reale come trampolino di lancio per l’immaginazione.
Questo principio comporta che Postop lavori obbligatoriamente in luoghi che può “abitare” per il periodo delle prove e delle performance. Luoghi peraltro che non devono di necessità essere specificatamente destinati a teatro.
Postop produce per ogni periodo di prove una serie di performance originali: create e mostrate in e per quel luogo.
Questo nuovo tipo di “stanzialità temporanea” permette a Postop di instaurare un rapporto con la gente del quartiere, della cittadina, del paese, dell’istituzione ospite che si differenzia notevolmente da quello che può instaurare una compagnia tradizionale, che si limita a portarci uno spettacolo per una o anche più serate. Crea i presupposti per l’articolazione di un ventaglio di iniziative (formative, performative, ludiche…) che possono configurare una funzione culturale più ricca e complessa della presenza della compagnia in un luogo e dell’atto teatrale in sé.
Postop è viva dal 14 luglio 2009. L’hanno fatta nascere Alessio Bergamo, Francesca Cavallo e Flavia De Strasser.
BP2011 MATERIALI Pergola: quale progetto per il futuro?
di Andrea Di Bari, Massimo Castri
Non possiamo non leggere con perplessità la risposta che l'Assessore Da Empoli riserva alle critiche rivolte dalle direttrici del Museo dell'Accademia e della Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti al protocollo d'intesa siglato tra il Sindaco Renzi e il Mibac, sulla gestione di alcuni dei principali beni culturali della città, paragonandole alle vecchie zie protagoniste di Arsenico e vecchi merletti.
A parte le questioni di galateo istituzionale, già rilevate, non vediamo il nesso tra le spassose vecchiette della commedia di Kesserling, portata sullo schermo nel '41 dal grande Frank Capra, e la polemica odierna. A parte il fatto che né Giuliano Da Empoli, né tanto meno Matteo Renzi, reale destinatario delle critiche, hanno le physique du rôle dell'indimenticabile Cary Grant nel ruolo del nipote savio Mortimer, non pare proprio che sia il conservatorismo la patologia principale delle simpatiche ziette. Che sono alquanto bizzarre nel loro folle disegno di alleviare le sofferenze di anziani signori soli e infelici, spedendoli al creatore con un cocktail di arsenico e vino al sambuco, per poi seppellirli in cantina. A meno che non si voglia invece immaginare che le parti in commedia del Sindaco e del suo bravo Assessore siano in realtà quelle del fratello omicida Jonathan e del suo fido compare dottor Einstein (il mitico Peter Lorre), che hanno anch'essi il loro bel cadavere da nascondere in cantina.
Poiché, se vogliamo entrare un po' nel merito della questione, non si può non vedere come dietro l'annuncio dell'accordo, salutato con squilli di tromba come un gran vantaggio per la città, non vi siano in realtà grandi motivi di giubilo. Non soltanto per gli argomenti puntualmente indicati dalle due funzionarie, ma anche per quella parte dell'accordo che prevede il passaggio della Pergola al Comune di Firenze.
Contrabbandare come una vittoria il totale disimpegno dello Stato dalla gestione di un bene come il Teatro della Pergola, dopo che per oltre sessant'anni ne ha retto le sorti, attraverso l'Eti, appare piuttosto incomprensibile, quando sappiamo che le risorse per la sua gestione non ci sono né ci saranno (il milione annuo promesso (?) dall'Ente Cassa è poco più della metà degli attuali costi fissi di gestione), checché ne dicano i sedicenti manager, ai quali va peraltro attribuita, in quota, la responsabilità gestionale dell'ente soppresso.
Parlare di un polo teatrale Pergola-Niccolini, al di fuori di un ragionamento complessivo sul sistema teatrale dell'area metropolitana fiorentina e della Toscana, non ha molto senso, soprattutto se non si chiariscono i contenuti culturali del progetto. Che teatro per Firenze? Un teatro pubblico o a gestione prevalentemente privata? Un teatro di ospitalità o anche di produzione? Un luogo di formazione e di confronto internazionale? Tre anni fa, quando si cominciò a parlare di dismissione da parte dell'Eti, si provò a discutere del ruolo della Pergola in un rinnovato scenario teatrale metropolitano, con un convegno internazionale, promosso da Comune e Regione, che stimolò il confronto tra tutte le istituzioni, con importanti contributi culturali e tecnici. Emersero sostanzialmente due indicazioni di percorso: una che vedeva nella Pergola la sede ideale per un Teatro della Lingua italiana, una sorta di Comédie Française, o Royal College dedicato al repertorio nazionale classico e contemporaneo, da sviluppare in sinergia con importanti istituzioni presenti a Firenze, quali la Crusca, il Vieusseux, l'Università; l'altra che ipotizzava una riorganizzazione del teatro pubblico toscano attorno a un sistema policentrico che avesse in Firenze e Prato i suoi poli principali. Entrambe le soluzioni richiedevano un concorso di risorse a livello centrale e/o regionale ma soprattutto una condivisione delle scelte tra i diversi livelli istituzionali, una forte consapevolezza del ruolo di Firenze nel panorama culturale nazionale e internazionale da rivendicare con orgoglio con la forza di obiettivi precisi.
Un'ultima riflessione merita il decreto sul cosiddetto federalismo demaniale che mostra tutte le contraddizioni della politica di governo: se infatti al trasferimento dei beni e delle competenze dallo Stato agli Enti locali non si accompagna un trasferimento delle relative risorse, ciò si traduce in un netto impoverimento delle comunità, ovvero nel rischio che quel bene, magari patrimonializzato in una fondazione di diritto privato (vedi Teatro Goldoni), possa un domani venire alienato, passando così da bene pubblico, patrimonio della collettività, nella disponibilità privata, perseguendo di fatto una sorta di privatizzazione opaca, al di fuori di ogni regola di trasparenza e di concorrenza.
Non vorremmo che alla fine, scava scava, il cadavere da seppellire in cantina fosse quello del teatro e della politica culturale fiorentina.
BP2011 MATERIALI National Campaign for the Arts In Irlanda una efficace mobilitazione e sostegno della cultura di Guen Murroni
L'origine della mobilità è nata a causa del “McCarthy Report”: il rapporto raccomandava un'analisi dettagliata e critica del Dipartimento di Arte, Sport e Turismo nonché la chiusura dell' Irish Film Board and Culture Ireland.
Il rapporto è stato pubblicato nel luglio 2009 dalla commissione per il servizio pubblico e programmazione della spesa pubblica - Special Group on Public Service Numbers and Expenditure Programmes.
Gli obiettivi: risparmio fino a 5.3 milioni di euro, tramite licenziamenti nel servizio pubblico( fino a 17,300 posti di lavoro) e un calo del 5% del sussidio statale.
In risposta a queste decisioni e in vista del Budget del 2010, diverse associazioni artistiche guidate dal Theatre Forum (congregazione di gruppi e associazioni teatrali, la “voce” del teatro irlandese) hanno deciso di agire e il 23 settembre 2009 hanno fondato The National Campaign for the Arts – i membri includono festival, associazioni artistiche e singoli privati addetti ai lavori (danza, architettura, letteratura, cinema, teatro, musica, arti visuali).
L'NCFA è una campagna di sensibilizzazione e richiamo all'azione attraverso social network, conferenze e assemblee in tutta l'Irlanda.
Gli obiettivi del NCFA includono: assicurarsi che l'arte faccia parte dei programmi dei futuri candidati alle elezioni (25 febbraio 2011), in modo da non fare crollare i fondi ulteriormente, mantenendo un Ministro per le Arti, richiedendo continui investimenti nell'arte e tutela per artisti e addetti ai lavori.
L'NCFA si sta impegnando a promuovere il ruolo dell'arte nella società attraverso una fitta rete di contatti – associazioni e privati – e attraverso un vero e proprio passaggio di responsabilità al singolo cittadino: “il 25 si vota, cosa puoi fare per aiutare”.
Oltre ad invitare le persone alle assemblee, sulla pagina del sito ci sono una serie di suggerimenti di domande che il singolo cittadino può porre ai diversi rappresentanti di partito, in modo da far capir loro che l'arte è una questione fondamentale all'interno delle elezioni.
Il vostro partito ha una linea politica per le arti?
Quali pensate che siano i valori importanti per una società sana e prosperosa?
Quali valori portereste al governo per fare la differenza?
Il vostro partito riconosce quanto vitale e prezioso può essere il contributo dell'arte e dell'industria creativa verso la nostra ripresa economica e sociale?
Il suo partito investirà nell'arte?
Sul sito è scaricabile un file di dati e messaggi (vedi allegato) e le singole linee politiche di ogni partito – Fianna Fail, Fianna Gael, The Green Party, Labour, Sinn Fein.
Inoltre un link al registro voti può essere utilizzato per controllare di essere registrati per votare, a disposizione c'è il logo del NCFA per la diffusione, un suggerimento per una lettera agli editori (vedi allegato) o brevi e-cards http://www.ncfa.ie/files/e-card_text.pdf per diffondere il messaggio del NCFA e una richiesta di donazione all'associazione.
Eventi organizzati dall'NCFA:
17 settembre 2010 - National Day of Action dove addetti ai lavori e artisti hanno incontrato rappresentanti delle sezioni locali dei partiti. Dance Flash Mob davanti agli uffici governativi e eventi mediatici in tutto il paese.
21 settembre 2010 – Culturesource programma di informazione sull'arte e la cultura per i lavoratori nel servizio pubblico e gli addetti alla linea politica nei dipartimenti governativi. Il seminario si focalizzava sul ruolo dell'arte e le opportunità che possono nascere dalla collaborazione tra l'industria creativa, l'istruzione e l'economia.
Altra iniziativa attinente
Fund it - trovare un link tra le aziende e l'arte.
Associazione di mediazione tra artista, network e possibili fondi – operazione chiamata crowdfunding, traducibile come “finanziamento di gruppo” o “finanziamento della folla”.
Sito www.fundit.ie
Tagli e fondi
Alcuni esempi dei fondi negli ultimi anni – da un articolo intitolato Death by a thousand cuts (Morte per migliaia di tagli).
Nota: l'Arts Council è il fondo pubblico per le arti in Irlanda.
The Dance Theatre of Ireland (Teatro della Danza di Dublino)
Arts Council Funding
2010 - 140,000
2009 - 208,000
2008 - 341,220
Ireland Literature Exchange (Promozione della letteratura Irlandese all'estero)
Arts Council Funding
2010 - 225,000
2009 - 298,670
2008 - 297,270
Hawk’s Well Theatre Company (Hawk's Well - Compagnia Teatrale e Teatro a Sligo)
Arts Council Funding
2010 - €145,000
2009 - €175,000
2008 - €190,000
Commento interessante – alla fine di questo articolo il giornalista scrive “In 2020 the next generation of artists will look back and see this moment as formative” ovvero – Nel 2020 la futura generazione di artisti rivedranno questo momento come periodo formativo.
http://www.youtube.com/user/NCFAireland
Su Facebook, Twitter e sito: http://www.ncfa.ie/ e altri network come myspace, messenger, surfpeople.
Petizione online sul sito: http://www.petitiononline.com/ncfa/petition.html
Il teatro alla Spezia: assenze, scarti e e alcune modeste provocazioni Note a margine del convegno sui Teatri Minori a Genova, palazzo Ducale, gennaio 2011. di Anna Maria Monteverdi
Intervengo al convegno genovese organizzato dall’Associazione teatrale Lunaria di Daniela Ardini come studiosa di teatro e come organizzatrice di eventi teatrali nella provincia della Spezia. Per il convegno ho incontrato due rappresentanti del teatro minore spezzino di cui porto una piccola ma significativa testimonianza: la compagnia degli Scarti e la compagnia degli Evasi. Il loro nome è tutto un programma: sono i prigionieri che vogliono evadere dalla città e dalle sue logiche, sono gli scarti, gli esclusi, i rifiuti di produzione che nessun centro di smaltimento vuole accogliere. Neanche qua alla Spezia dove, solenne, si erge la famosa discarica di Pitelli, nota come “la collina dei veleni”, vero simbolo della città.
La prima cosa che mi preme dire è che la criticità evidenziata nella nostra provincia e non da ora, è la scarsa propensione a investire e a programmare una cultura altra e giovanile: è una lamentazione che è stata espressa a più riprese dalle associazioni culturali spezzine su cui le istituzioni culturali sono intervenute in maniera minima, privilegiando una programmazione standard, assai polverosa e di scarso appeal che non corrisponde alla vivacità dell’ “aria che tira”, al fermento artistico che ci circonda. Una nube di vecchiume circonda la città rendendola ancora più grigia di quello che non sia.
Per cambiare le cose, dicono le associazioni, occorrerebbe un tavolo di concertazione comune, una progettualità aperta ai diversi gruppi e settori della cultura, articolata, rappresentativa e attivamente partecipata. Gli incontri con i rappresentanti delle istituzioni in passato non hanno prodotto nulla di significativo, nulla è cambiato. Uno strumento utile e democratico da adottare subito sarebbero sicuramente i bandi pubblici per le direzioni artistiche (selezionabili queste, solo da progetti pluriannuali) e le commissioni collegiali con tecnici competenti (selezionabili solo attraverso curriculum non secondo le solite discrezionalità o affiliazioni politiche), magari allargate anche ai giovani, per scegliere proposte e progetti secondo criteri di assegnazione rigorosi e trasparenti.
Nello specifico va detto che alla Spezia – fatto salvo la Dialma Ruggiero, uno spazio decentrato e sfortunato che accoglie molte attività ma senza un’identità specifica - esiste unicamente il Teatro Civico che ospita 900 posti; non è un teatro di produzione, non ospita teatro di ricerca e non fa residenze, questa è la nota dolente più volte sottolineata in alcune delle occasioni di confronto con le istituzioni; inoltre è un funzionario comunale e non qualche vivace compagnia teatrale che fa la programmazione del Teatro la quale, di conseguenza, è tipicamente d’agenzia, molto tradizionale, addirittura polverosa, inutilissima e priva di un tema comune, di un’idea portante: ci viene proposto così il “teatro mortale” contrapposto al “teatro vivente” di cui parlava Peter Brook, che ha certamente il suo pubblico di amatori, di abbonati perfetto forse solo se si guarda ad una certa fascia di età, decisamente elevata, del pubblico. Ma chi l'ha detto che i giovani non amano andare a teatro? E che il teatro di ricerca spaventa e allontana quel pubblico non teatralmente o tecnologicamente alfabetizzato?
Per il resto dell’anno il Teatro Civico è di norma chiuso e questo è un altro dato negativo: si potrebbe usare per fare formazione anche nelle professioni tecniche non solo artistiche della scena, creando sinergie e convenzioni con le università, con le accademie, con i Conservatori, con gli istituti d’arte.
Un Progetto pilota di collaborazione tra strutture di alta formazione artistica regionale è stato ideato da docenti di musica e di teatro del DAMS di Imperia e del Conservatorio della Spezia che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo multimediale musicale interpretato dagli studenti delle rispettive istituzioni.
Il Teatro Civico, così importante e centralissimo, è in realtà lontano anni luce da chi il teatro lo fa davvero, appunto i protagonisti di quel teatro minore sempre alla disperata e ossessiva ricerca di una sede, e lontano anche da quelli che sono gli ambiti della sperimentazione più attuale. Mentre si investe moltissimo per il teatro maggiore, che è un teatro già di per sé ricco, costoso, elitario, non si investono i proventi derivanti da queste programmazioni nel teatro minore che è costantemente in crisi finanziaria e che possiamo identificare con quel teatro di ricerca che lavora sui contenuti, sulle nuove drammaturgie, sui nuovi materiali tecnologici, su tematiche di impegno politico e sociale. Pensiamo al modello virtuoso dei teatri della Toscana (la Fondazione Toscana Spettacolo), ad alcuni felici esempi di vicini Festival di qualità (Lunatica in Lunigiana diretto da Marina Babboni) ma anche alla vivacità di teatri genovesi dove una compagnia residente anima il teatro, lo fa vivere con i laboratori e lo rende luogo aperto alla città.
Il teatro minore è un teatro di qualità, è l’altro teatro che potrebbe affiancarsi al teatro commerciale, formando un pubblico: penso alle ottime sperimentazioni di quel teatro che usa le modalità delle innovazioni tecnologiche tra installazioni e videoproiezioni, e che riesce a parlare a tutto il pubblico anche a quello giovane perché in grado di comunicare diversamente. Questo “teatro altro” è slegato da logiche di mercato e per sopravvivere deve essere necessariamente supportato non solo economicamente ma anche da tutta una rete che in armonia con le forze cittadine e provinciali, lavori a definire un progetto di identità culturale. Sarebbe infatti auspicabile -e in Liguria se ne parla da vent’anni-, provare a mettere in piedi i singoli pezzi di un circuito, un network che darebbe linfa vitale a chi non può permettersi di far uscire il proprio lavoro dal territorio provinciale. Una logica (e una politica) di “sistema” ricordava Oliviero Ponte di Pino in un intervento delle Buone Pratiche, rafforzerebbe sicuramente le proposte minimizzando gli sforzi, creando effetti virtuosi sulle singole iniziative.
In fondo quel teatro di ricerca “altro”, che noi amiamo, alla Spezia non viene promosso se non incidentalmente, anche se in minima parte c’è, esiste, sia pur sommerso, non essendoci un censimento delle attività e dei luoghi; è un teatro invisibile per mancanza di riconoscimenti e di aiuti istituzionali, in costante negoziazione di spazi e fondi. Se ne fanno portavoce alcuni gruppi: la Compagnia degli Evasi e la compagnia degli Scarti. Nonostante i grandi sforzi e i buoni risultati, -gli Evasi preparano spettacoli su tematiche storiche di impegno civile (27 produzioni in otto anni di vita, replicate 180 volte) e dirigono un Festival a Castelnuovo, Teatrika con ottima partecipazione di pubblico, mentre i giovanissimi e numerosi componenti degli Scarti hanno appena realizzato uno spettacolo politico degno di visibilità nazionale, Ubu rex- entrambi continuano a fare spettacoli in totale autoproduzione. Tutti gli incassi ottenuti vengono reinvestiti sulle nuove produzioni per i ben noti “costi vivi” del teatro: scene, costumi, attrezzature, manutenzioni, furgone, tecnici…e poi si tassano per rimborsare le giornate di lavoro perse a coloro che fanno dell’altro. Provano in luoghi di fortuna, garage o seminterrati, in sale parrocchiali perché i centri culturali comunali hanno prezzi troppo alti per chi ne ha bisogno per lunghi periodi. Queste compagnie mi piacciono perché puntano sulla serietà del lavoro teatrale e sulla necessità di raccontare alcuni temi urgenti anche quando hanno poche economie da gestire. Loro sono quelli, sicuramente troppi nel teatro di oggi, che devono fare sistematicamente della povertà virtù, ma non hanno nulla da invidiare a coloro che pur non avendo questi problemi economici, investono tutto in pubblicità per coprire l’assenza di idee.
Mi piace citare l’intervento di Andrea Cerri, degli Scarti apparso oggi sulla cronaca locale in cui si ribadisce l’indipendenza dei loro progetti ma anche l’impossibilità ad avere come vorrebbero, un ruolo più centrale per la crescita culturale della comunità: “Non abbiamo alcun sostegno né pubblico né privato (…), questo ci rende autonomi, meno legati a compromessi. Nessuna amministrazione si è mai preoccupata più di tanto di trasformare vecchi teatri in disuso in qualcosa in più di un discount o un parcheggio. Le giovani compagnie si ritrovano nei salotti degli amici, nelle parrocchie. Così ogni punto di riferimento per la creazione, fisico e intellettuale è smarrito e non c’è possibilità di crescita. Il nostro teatro arranca verso l’idea di quello che vorremmo essere e la necessità di sopravvivere”.
Infatti si parla di sovvenzioni pubbliche per le associazioni teatrali in termini di poche centinaia di euro: nella maggior parte dei casi devono autofinanziarsi per farsi da soli la formazione, chiamando nelle loro sedi temporanee e poco ospitali, registi come Massimiliano Civica o attrici come Cathy Marchand per fare da supervisori al loro lavoro teatrale, poiché in città non ci sono scuole professionali. Questo fa sì che non sia possibile considerarli compagnie professioniste anche se non sono affatto amatoriali; non sono professionisti perché non riescono a fare bordereaux, non vivono del loro lavoro.
In questa malsana aria che tira in cui dilaga il protezionismo (l’uguaglianza di opportunità non è mai contemplata, e la qualità e la competenza se c’è è un caso), in cui non si investe sugli spazi di aggregazione giovanile e dove non c’è coordinamento tra le iniziative o continuità nei progetti formativi, con conseguente desertificazione dei musei e dei luoghi di cultura (altro che “motori dell’innovazione”, “attivatori sociali della creatività” (sic), slogan che appartengono alla campagna elettorale del 2007 dell’attuale sindaco Massimo Federici) ci piacerebbe ripensare la cultura come frutto di un serio e sano dibattito civico attualmente azzerato.
La proposta più ragionevole sarebbe quella di fare del Teatro Civico un luogo di formazione continuata (oggi esistono nuove professioni legate all’allestimento multimediale per il teatri, al video design e alla progettazione grafica 3D applicata alle arti teatrali e coreutiche), di residenza o di produzione proprio di questo teatro minore, minore ma solo perché meno visibile; alla richiesta di una programmazione di un teatro altro, alternativo, le istituzioni culturali hanno sempre risposto o che non ci sono risorse o che non ci sono teatri. Le risorse probabilmente non ci sono ma potrebbero essere razionalizzate; d’altra parte La Spezia è sede di uno dei Festival più sovvenzionati (Aria Festival, diretto da Pischedda junior), su cui la giornalista genovese Michela Bompani aveva scritto un assai eloquente articolo di denuncia intitolato “I ricchi e i poveri del teatro in Liguria” su Repubblica.
Per il resto, è vero: alla Spezia i teatri non ci sono, però c’erano: il CinemaTeatro Astra di Via Veneto è diventato un supermercato, lo storico e monumentale CinemaTeatro Monteverdi di via dello Zampino (fondato nel 1919 dal mio bisnonno), vincolato dalle Belle Arti, sotto la giunta di sinistra guidata da Giorgio Pagano all’inizio del 2000 è diventato un parcheggio, il Trianon, teatrino privato di inizio secolo incastrato tra i fondi commerciali di Via Manzoni, un’autorimessa.
Il Teatro Trianon (foto Mauro Manco).
AltraCultura aveva posto l’accento su questi spazi inutilizzati e aveva creato un bel fermento di attività con ospiti sia gli Scarti che gli Evasi, testimoniato da queste fotografie degli eventi ospitati.
Forse non ci sono spazi teatrali attrezzati ma dopo l’esperienza delle neoavanguardie non si può più dire che non si può fare teatro perché NON CI SONO TEATRI: il Living Theatre, l’Odin, il Bread and Puppet ci hanno insegnato che gli spazi non sono ma diventano, che ogni luogo può diventare funzionale, e che uno spazio industriale o militare può essere drammaturgicamente interessante se reinventato ex novo e ad hoc.
Se il Teatro Civico ha fidelizzato un pubblico non giovanissimo, altri spazi sono quindi in attesa di destinazione e guida se enti pubblici o privati decidessero di farsene carico e di affidarli a professionisti giovani e competenti e offrire un’alternativa concreta (e un ricambio generazionale) di cui si ha urgente bisogno. Possiamo dire piuttosto che le istituzioni devono cominciare seriamente a porsi il problema di nuovi spazi culturali e di come utilizzarli, dal momento che quelli che ci sono non vengono messi a disposizione. Ci sono le fortificazioni militari delle zone collinari e panoramiche della provincia (il forte Macé, il forte dei Pianelloni), spazi paradossalmente restaurati negli anni Novanta dunque in buone condizioni strutturali e architettoniche ma in stato di abbandono e di degrado. Ci sono le fortificazioni di epoca napoleonica in condizioni perfette all’Isola Palmaria ma non sono mai state usate per residenze teatrali e solo incidentalmente per brevi mostre e per la manifestazione da me diretta Genius loci events. E’ falso poi dire che non ci sono spazi in una città come La Spezia che ospita l’Arsenale militare. Insisto sulla questione dell’Arsenale come possibile luogo teatrale, come cantiere di produzione teatrale: avendo lavorato per alcuni eventi dentro l’Arsenale chiamata dalla Marina Militare in occasione di celebrazioni centenarie, ho avuto modo di verificarne la potenzialità. Qua abbiamo realizzato uno spettacolo multimediale per la Festa della Marineria sopra il leudo centenario “Felice Manin”, mentre i bacini di carenaggio hanno ospitato uno spettacolo di ispirazione futurista per il centenario della corrente marinettiana.
Spettacolo ai Bacini di Carenaggio dell'Arsenale.
Eravamo curiosi della risposta del pubblico spezzino rispetto a questa proposta di “altro teatro in altri luoghi”. Quel pubblico, un pubblico curioso ma non abituato ad andare a teatro e a cui è di norma interdetto l’accesso all’area militare, ha atteso fuori dalla porta principale dell’Arsenale per molte ore prima dell'inizio, per paura di non trovare posto, e alla fine ci aspettava per chiederci quando ne avremmo fatto un altro. Anche i luoghi possono dare un’efficace suggestione o stimolo per andare a teatro e possono sicuramente essere parte integrante di un concept teatrale. Capannoni che sono stati rimessi a nuova vita dall’Autorità portuale e dalla Marina in occasione delle celebrazioni dei centoquarant’anni della Fondazione e dei centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, potrebbero essere utilizzati come “cantieri residenziali”, per un teatro alternativo, e diventare la sede ideale magari addirittura regionale, di questo teatro minore.
L’Arsenale come Officina dell’Arte Scenica, come Cantiere creativo residenziale? Prato e Pontedera ci hanno insegnato come piccole realtà di provincia nate attorno all’industria possano ritagliarsi, un’identità artistica molto forte. In questi anni i ragazzi di Zo culture a Catania hanno trasformato un’ ex raffineria di zolfo e un insieme di edifici industriali del secolo scorso, in un centro per le culture contemporanee. Si diceva i luoghi non sono, diventano e questo “farsi luogo” dell’Arsenale potrebbe essere la prossima scommessa di una città che investe sulla cultura. Oggi il tema dell’Arsenale e dell’utilizzo delle sue aree è in primo piano sui giornali locali per il depotenziamento dell’area militare a vantaggio di Taranto, e sarà sicuramente argomento principe della prossima campagna elettorale. Qui vennero costruiti i primi idrovolanti, dagli scali dell’Arsenale scese il primo sommergibile sperimentale italiano, “Delfino”, consegnato poi alla Marina Militare nel 1896 e proprio all’interno della base militare sono stati compiuti i primi esperimenti di Guglielmo Marconi sulla radiotelegrafia di supporto alla navigazione. Le idee per una riconversione delle aree militari sono legate per ora da parte del COMUNE all’unico uso delle strutture ospitanti come campus universitari, o all’uso delle banchine e dei bacini di carenaggio per nuove produzioni cantieristiche private o restauri navali ma la discussione deve essere allargata a mio avviso, dal tavolo di concertazione sindacale, politico e militare all’intera società civile perché l’Arsenale rappresenta nel bene e nel male, una grande parte dell’identità e della memoria storica della città e che può ancora essere resa funzionale e funzionante non solo in termini industriali ma anche culturali. La Fonderia con annessa Zincheria, edificio rimasto illeso dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale attualmente dismesso e ingombro di macchinari, modelli e altri residui di lavorazione potrebbe essere, con un adeguato restauro conservativo, uno spazio adattissimo alla rappresentazione teatrale. Quest’edificio (Fabbricato 50) potrebbe essere sia un ideale Padiglione Espositivo in cui depositare l’immensa memoria del lavoro umano, sia luogo dove dare spazio ai nuovi ingegni e a nuovi progetti nell’ambito dell’arte e della scena.
Si parla tanto di ricostituire comunità ma non è mettendo insieme le persone in un luogo qualunque privo di storia e di valore che si può ricostituire un tessuto culturale. Credo al contrario che solo censendo questi luoghi ricchi di storia e potenzialmente trasformabili, e insieme queste realtà del teatro minore ancora purtroppo sommerse, dandogli ascolto, offrendo loro le opportunità produttive che onestamente meritano per uscire da un’ottica meramente provinciale, discutendo di quali risorse siano necessarie, ragionando su come mettere in rete tutta questa ricchezza, si potrà davvero cominciare a migliorare e diversificare un’offerta teatrale oggi forse troppo a senso unico.
Infine un consiglio ad uso delle Istituzioni culturali della città: la funzione dell’arte è vitale sempre e va sostenuta e non emarginata anche (anzi, a maggior ragione) laddove questa si presenti critica nei confronti del sistema dominante perché è garanzia di pluralismo: il teatro per essere davvero pregnante deve mostrarsi –come diceva Peter Brook- “un acido, una lente di ingrandimento, un riflettore o un luogo di confronto”.
Ritratto di un attore (in)stabile Un'intervista a Roberto Alinghieri di Anna Maria Monteverdi
L’appuntamento è alla Spezia, alla Loggia di Corso Cavour, unico luogo di ritrovo alternativo e vagamente underground della città; davanti a un piatto di polenta e seduti a un tavolo (per me) troppo alto, Roberto Alinghieri mi racconta il suo percorso artistico di spezzino emigrato felicemente a Genova. A volte capita di incontrarci al solito bar in pieno centro, perfettamente equidistante dalle nostre rispettive case, anche se ormai lui è diventato genovese al 100%. Roberto Alinghieri è una specie di simpatico incrocio tra Hemingway e Orson Wells. Ha una formazione attoriale stabile, nel senso della Scuola del Teatro Stabile genovese, ed è entrato ormai da anni nella compagnia vivendone i giorni meno rosei e quelli beckettianamente felici. Attualmente è in tournée con Misura per misura e con Ritorno a casa di Pinter.
Attore-autore, vincitore di alcuni premi nazionali, predilige repertori comici in particolare la “scrittura comica di situazione”, sia da scrivere che da interpretare, ma non in modo esclusivo (ha appena riscritto per la scena Uomini e topi, fa reading poetici accompagnati dalla musica suonata dal vivo). Il suo nome è da sempre, indelebilmente associato a Stefano Nosei con cui si divertiva a riscrivere le canzonette e i jingle della tv, sin dall’epoca della strana coppia Nosei-Vergassola (anche lui spezzino) e delle loro comparsate al Maurizio Costanzo show. Autore di Comix Alinghieri è una fucina inesauribile di battute “stile Zelig”: in effetti è anche grazie al suo lavoro di scrittura che possiamo parlare di un filone comico genovese che sta spopolando in teatro e in televisione. Il suo testo Pinocchio di Bergerac ha vinto la Rassegna Nazionale Teatro di Parola. Il suo monologo Mille, interpretato da Gianpiero Bianchi, ha vinto la Rassegna Attori in cerca d’Autore 1997 diretta da Ennio Coltorti. E’ uno degli autori del programma televisivo Facciamo cabaret e della sit-com Casa Baldini e Simoni. Con Alessandra Serra ha tradotto e adattato per il teatro italiano il testo One fine day di Lumborg, da lui stesso interpretato. Ha collaborato a lungo con la rivista Comix ed ha pubblicato numerosi libri tra cui: Prevenzione fatale, Guaraldi editore, Turista per caos, Panini editore, La puliche Biancorì, edizioni Grandir, Francia. Ha vinto il Premio Persefone, riservato a personalità del mondo artistico che si sono particolarmente distinti negli spettacoli trasmessi da Rai Due Palcoscenico e Mediaset Premium nella stagione 2007-2008 come Miglior attore coprotagonista per lo spettacolo Le nozze di Figaro.
Anna Maria Monteverdi: Il teatro classico e la comicità televisiva, come metterli insieme, come conciliarli?
Roberto Alinghieri: Il mio repertorio va da Roman Polansky a Zuzzurro e Gaspare. Ho attraversato tutto il panorama teatrale italiano senza sbandamenti o ripensamenti. Ho lavorato con Lavia, Bosetti, la Melato, Umberto Orsini, la D’Abbraccio ma in mezzo o di lato, anche con Zuzzurro e Gaspare facendo Rumori fuori scena e La strana coppia una decina di anni fa; in tournée con loro, immancabili erano le sfide a freccette dove perdevo sempre. Così come senza alcuno sbandamento ho lavorato anche con un grande come Roman Polansky per un Amadeus che portava la sua regia teatrale e la produzione di Luca Barbareschi. E’ stata una grande emozione lavorare con Polansky che ci guardava alle prove con dolcezza, mettendoci in una condizione di agio assoluto e trasmettendoci grande profondità intellettuale e felicità. Polansky non riusciva a stare fermo in scena, ci mostrava come recitare senza un vero metodo, ma con una partecipazione che non ho più trovato; aveva molta pazienza, una pazienza assoluta direi, dandoci tutto il tempo per trovare il modo giusto di interpretare, come se l’attore non dovesse avere mai la fretta di produrre qualcosa. Non mi stupisco più di niente, mi sento in grado di affrontare qualunque tipo di teatro.
Anna Maria Monteverdi: Puoi raccontare la tua formazione genovese?
Roberto Alinghieri: Nasco allo Stabile sia come scuola che come spettacoli; per un certo periodo mi sono allontanato da Genova per altre collaborazioni, poi sono tornato nel gruppo originario dove sono attualmente. Mi considero un attore con una “forte componente dello Stabile”. Gli attori dello Stabile, quelli formati negli anni, sono un po’ un mondo a parte: sono attori di grande talento, hanno ideali piuttosto puri ma con una speranza d’arte forse un po’ fuori dal tempo. La scuola dello Stabile non si discute: non si privilegia l’uniformità di stile, di interpretazione ma la diversità. La Scuola ti prende sulla base di quello che loro pensano tu potrai fare, non sulla base di quello che sai già fare. Vogliono persone che hanno a cuore il mestiere, e formano tanti profili di attori differenti, caratteristi, primi attori. Sara Bertelà, Valerio Binasco, fino a Margiotta e Olcese e Maurizio Lastrico di Zelig sono alcuni dei nomi noti che sono usciti dallo Stabile. Quando vai a fare un provino senti sempre un’attenzione migliore, ti guardano con ammirazione, sarà la fama della Scuola, considerato il suo valore riconosciuto. Le produzioni dello Stabile prevedono tantissimi attori anche per impegnarli, per farli lavorare. E’ una situazione quasi unica: si può fare cultura alta scegliendo testi importanti, dando lavoro a molti attori. Misura per misura ha venti attori in scena. L’anima buona del Sezuan di Elio de Capitani con la Melato è uno spettacolo con oltre venti attori. Sono nate anche compagnie-satellite da una costola della Scuola che vengono aiutate dalla casa madre. Certamente la situazione è questa, la crisi è totale, ci sono tagli al settore da parte della Regione, del Ministero, dello stesso Comune. Sembra che dopo il 2011 non ci siano certezze di finanziamenti. Noi attori, certo, siamo impegnati in misura minore rispetto agli altri anni, ma abbiamo una stabilità che ci garantisce pur sempre un tetto minimo. Non abbiamo un albo, se non lavoro non guadagno e di questi tempi un’Istituzione che garantisce mesi di lavoro dal mio punto di vista è santa, va salvaguardata a tutti i costi. Lo Stabile è un’Istituzione ed è un caposaldo della cultura teatrale non solo regionale; sarebbe molto difficile sia pur in un momento di crisi e di tagli indiscriminati come questo, dire che non vengono dati i soldi proprio a loro.
Anna Maria Monteverdi: Come giudichi lo sbarco “clandestino” degli attori cinematografici a teatro?
Roberto Alinghieri: Se un attore cinematografico o televisivo si rivolge al teatro per poter guadagnare allora vuol dire che è lui in difficoltà. Toglie lavoro ai veri attori teatrali ma non è altro che sintomo di una disperazione! Ma in effetti oggi più che mai conta per un attore sapersi districare in vari linguaggi e in vari format. Io personalmente non ho mai fatto l’attore che si auto emargina dentro alcuni settori o ambiti di produzione, ho avuto la fortuna di divertirmi e di districarmi in tanti generi, inseguendo la serietà prima di tutto. Mi piace pensare ancora che se hai divertito qualcuno con intelligenza, se hai provocato qualcosa in lui, anche fosse che rifletta su un tema, che compri il testo alla fine dello spettacolo perché gli è piaciuto, oppure se torna a teatro, allora indipendentemente dal teatro comico o serio, hai fatto qualcosa di buono. Diventa un esercizio fine a se stesso se non lasci nulla. Un attore deve essere felice di recitare Eschilo o Paravidino e nel momento in cui visualizza il motivo per cui lo fa, credendoci veramente, allora può regalare dei momenti intensi al pubblico.
Anna Maria Monteverdi: Come ti definiresti?
Roberto Alinghieri: Un attore da utilizzare, semplicemente mi piace farmi usare, mettere a disposizione le mie qualità umane e artistiche. Mi nascondo dietro una presuntuosa umiltà, mi piace fare delle letture da testi che amo, mi piace farlo in luoghi non teatrali per accendere una comunicazione diversa.
BP2011 MATERIALI Tre idee per sostenere l'insostenibile Tassa di scopo, azionariato diffuso, responsabilità sociale di Adriano Gallina
Qualche breve nota a mo' di premessa ed inquadramento, a partire dalla brughiera gallaratese, per cercare di allargare uno sguardo possibile all'orizzonte.
Cinquantamila abitanti, dalla metà dell’Ottocento Gallarate è stata un centro di prima importanza per l’industria tessile, su cui ha storicamente costruito la propria identità, e nel Secondo Dopoguerra anche per l’industria aeronautica. Di recente, la sua posizione strategica tra l’aeroporto di Malpensa e Milano, l’ha ulteriormente favorita, seppure con una funzione essenzialmente di transito: non è casuale, del resto, che l'enfasi legata al possibile incoming turistico che aveva accompagnato la costruzione dell'aeroporto si sia ora significativamente ridimensionata, evidenziando anzi una forte crisi del settore alberghiero.
Nel 2001 viene eletto, per il suo primo mandato, un Sindaco di centrodestra (Forza Italia) che, da subito, persegue lucidamente un disegno obiettivamente di grande interesse e al contempo in fortissima controtendenza rispetto alle politiche culturali - di destra e sinistra - di quegli anni: in un’epoca di spazi che si chiudono, cioè, l’Amministrazione Comunale di Gallarate decide di investire fortemente sulla cultura, sui suoi luoghi e sulle sue istituzioni come risorse e come filo conduttore possibile per la ricostruzione di una nuova identità cittadina. (1)
Anzitutto a partire dai luoghi: nel 2006 - dopo un laborioso, costoso (ed in parte affrettato) lavoro di restauro - tornano a rivivere due teatri storici della città. In marzo viene inaugurato il piccolo ed incantevole Teatro del Popolo (220 p., risalente al 1921) e poco dopo, in aprile, il più grande e ottocentesco Teatro Condominio Vittorio Gassman (650 p. circa). (2)
In ulteriore controtendenza con i tempi ,(3) tuttavia, l'Amministrazione non si limita all'investimento in conto capitale per la ristrutturazione ma si pone - a monte della rinascita dei teatri, nel febbraio 2005 - il problema della loro gestione efficace e continuativa. Nasce così, con compagine societaria a maggioranza pubblica, la Fondazione Culturale di Gallarate. L'idea è quella di istituire uno strumento gestionale agile, sganciato dall'elefantiasi burocratica della Pubblica Amministrazione, strutturato professionalmente ed in grado - almeno in parte - di aggirare alcuni dei vincoli imposti alle spese dei Comuni dal Patto di Stabilità. Occorre però anche ricordare, al contempo, che la nostra organizzazione nasce sulla scorta della mitologia - molto diffusa in quegli anni ed in generale "ai tempi del colera" del Welfare e a tratti supportata, più o meno astrattamente, da ambienti universitari (4) - sull'efficacia dello "strumento-Fondazione" come intercettore di rilevanti e continuative risorse private: un assunto che, non solo con riferimento al caso concreto, si è rivelato ampiamente infondato. (5)
Da qui - non senza alcune iniziali difficoltà, legate alla radicata mitologia di cui sopra - la necessità di stipulare, da subito, una convenzione pluriennale (si è poi consolidata la biennalità) tra il Comune e la Fondazione finalizzata al trasferimento di risorse dedicate alla gestione e programmazione dei teatri nonché alla stabilità dell'impianto organizzativo. (6)
Il primo biennio si caratterizza per il carattere fortemente "sperimentale" (sul piano quantitativo e qualitativo) dell'attività: da un lato per la necessità di verificare l'intensità realmente sostenibile della stagione e al contempo per definire, per entrambi i teatri, una fisionomia ed una identità interstiziali (ossia in grado di proporre repertori e generi differenti da quelli presenti storicamente in città ed in grado di rivolgersi ad un bacino di utenza ampiamente extra-gallaratese).
Coincidono con l'avvio della prima stagione due scelte legate alle possibilità di autofinanziamento:
1. Anzitutto - anche in relazione al decreto sulla competitività emanato nel 2005 - l'acquisizione dellostatusdi ONLUS: che consente, da un lato, di ricevere donazioni da privati e da imprese detraibili dall'imponibile fino a 70.000 €; e, dall'altro e per certi versi più significativamente, di accedere all'elenco delle organizzazioni accreditate per il versamento del 5 per mille. Un'opzione che ha fruttato alla Fondazione un gettito oscillante tra i 15.000 e i 20.000 € nel corso del triennio 2006-2008.
2. In secondo luogo (e anche, devo dire con onestà, "solleticando" le pulsioni volte all'acquisizione ed esibizione di elementi di "status symbol" della medio-alta società gallaratese, particolarmente accentuate nel periodo immediatamente successivo alle inaugurazioni dei teatri) introducendo una tessera/abbonamento generalista ("furbetta" anche nel nome: "Golden Class") all'intera stagione, dal costo - apparentemente del tutto "folle" - di 1.000 €. Una "lucida follia", evidentemente: dal momento che questa tessera è stata acquistata - il primo e il secondo anno - da una settantina di spettatori per ridursi, oggi, al numero comunque rilevante di circa quaranta abbonati. (6)
Detto questo: come è stata finanziata, dall'Ente Pubblico, questa "lucida follia", questa stranissima "eccezione gallaratese"?
Il tributo più visibile ed evidente - sino a tempi recenti - è stato sostanzialmente pagato (soprattutto nelle aree periferiche) alla qualità del contesto urbano, segnato per tutto il primo decennio del 2000 da una progressiva e costante edificazione (l'opposizione parla, forse più correttamente, di "cementificazione") della città, con rilevantissime entrate derivanti da oneri di urbanizzazione. A questo dato va poi aggiunto - nel 2007 - il sostanziale raddoppio dell'addizionale IRPEF, che passa dallo 0,3% allo 0,55% (cioè da 1.030.000 € a 1.900.000 €), per lo più senzaindicazioni precise rispetto alla finalizzazione dei tributi (si parlò in generale di "potenziamento dei servizi").
Poi, però, anche qui è arrivata la crisi. E anche il mito (o l'illusione) dell'inesauribilità delle risorse da urbanizzazione ha mostrato, infine, tutti i suoi limiti.
Una crisi, tuttavia, probabilmente inattesa o che, forse, si è voluto ritenere molto più rapida e transitoria di quanto non si stia rivelando alla prova dei fatti. Un errore percettivo che - per molti versi - spiega forse, almeno in parte, la leggerezza con cui si è andati incontro al radicale mutamento che ha caratterizzato lo scorso anno il quadro di quella che mi piace considerare "l'ecologia culturale" della città. Con una metafora: se noi eravamo grossi brontosauri, ad un certo punto - atteso, ma con la strana consapevolezza rassegnata del "poi si vedrà" - è finalmente apparso, come in Jurassic Park, il Tirannosaurus Rex.
Nel marzo 2010 vede la luce e viene inaugurata dopo anni di costruzione - con una mostra dedicata ad Amedeo Modigliani - la nuova, splendida, sede della Galleria d'Arte Moderna, che viene ribattezzata MA*GA (Museo d'Arte Gallarate). Nasce anche da subito, in parallelo, la Fondazione che si occuperà della gestione e che si caratterizza immediatamente - contrariamente a quanto accaduto per noi - per una pressoché totale applicazione dello spoil system nella composizione del C.d.A. (a partire dalla presidenza, affidata ad Angelo Crespi, consigliere di Bondi: sotto il cui patrocinio ministeriale - non finanziario - il nuovo organismo prende il via).
Ingentissimi costi di costruzione e strutturali. Ma soprattutto, e con tutta evidenza, straordinari costi legati all'attività: con una convenzione recentemente sottoscritta che prevede un contributo pari a 950.000 € annui (con l'esclusione delle le utenze), connessi sostanzialmente alla copertura di quasi tutti i costi, compresi - in parte - quelli di allestimento delle mostre (200.000 di contributo, quest'anno, solo per la mostra dedicata a Giacometti che verrà inaugurata il 5 marzo).
Il Comune di Gallarate si trova dunque a dover sborsare - solo per le due Fondazioni - costi vivi approssimativamente pari a 1.400.000 €. A cui si aggiungono tutti i costi legati alle utenze... Uno stato di cose, visibilmente (ma soprattutto a detta dei quadri dirigenziali), non più sostenibile.
Il tutto in un contesto in cui: (a) Calano verticalmente le entrate da oneri di urbanizzazione; (b) Si riducono in modo drammatico i trasferimenti dello Stato; (c) In alcuni casi - sebbe non sia tanto il caso di Gallarate - le sanzioni dovute alle violazioni del Patto di Stabilità mettono in ginocchio numerosi Comuni e in alcuni casi riducono i bilanci al lumicino della sussistenza; (d) Conseguentemente vengono tagliati altri servizi essenziali nei settori dell'istruzione (i bambini che vanno a scuola con la carta igienica in tasca; i maestri che chiedono ai genitori le fotocopie) e della stessa assistenza sociale. (8)
Da questo quadro - anche a titolo di "lascito testamentario" ideale per la Fondazione di Gallarate, da cui sono dimissionario - alcuni possibili versanti d'intervento complementari (cioè non necessariamente in alternativa tra loro), che scaturiscano da politiche pubbliche democratiche, trasparenti, esplicite e sottoposte alla valutazione della collettività. Ipotesi che - ed ecco il senso di questa testimonianza - ritengo possano in realtà rappresentare un'indicazione più generale per programmi trasparenti di sostegno della domanda e dei luoghi della programmazione teatrale.
1. Tassa di scopo
Riprendo un'osservazione molto interessante - dovuta al Prof. Trimarchi - che già citai al convegno di Mira. Falliti (o comunque dimostrati poco (o addirittura a-) scientifici) tutti i tentativi di giustificare l’intervento pubblico in chiave filosofica, socio-antropologica, pedagogica, ecc. rimane un dato, storico ed inequivocabile: tutti i sondaggi che indagano l’opzione dei consumatori relativamente all’opportunità del finanziamento pubblico del teatro danno usualmente esito ampiamente positivo. Questo significa che un’ampia maggioranza dei contribuenti (che, ovviamente, in misura predominante non è pubblico dei teatri) è tuttavia favorevole a destinare una quota della sua tassazione per garantirsi un diritto potenziale. In questo dato trova a mio avviso una giustificazione non metafisica o ideologica il sostegno pubblico al teatro. Non cioè argomentazioni più o meno nebulose e generiche – di cui tutti peraltro, facendo questo mestiere, siamo piuttosto convinti – ma la definizione di un diritto congiunta, anche sul piano causale, all’inequivocabile opzione del consumatore "sovrano".
E allora, forse, anziché in fondo "ripiegare" amaramente - come ancora pochi giorni fa ha fatto Paolo Protti, Presidente AGIS - rivolgendosi ai cittadini italiani "per informarli che avranno ben presto meno teatri, meno spettacoli, meno cinema, meno occupati, meno offerta e prezzi più elevati" - rivolgersi davvero ai cittadini italiani per chieder loro se sono disponibili, comune per comune, all'introduzione di specifiche tasse di scopopluriennali espressamente dedicate (con coefficienti variabili eventualmente di natura progressiva anziché proporzionale, definite in forme precise, trasparenti, volta per volta destinate a progetti, iniziative o istituzioni chiare ed individuabili) al sostegno delle attività teatrali (o, se si vuole, culturali in senso ampio).
Non è casuale del resto che - anche in relazione al decreto sul federalismo fiscale - questa possibilità si stia collocando in alcune regioni al centro del dibattito sui programmi elettorali. (9)
La chiave di volta di questa ipotesi, al di là del suo contenuto economico, è da individuarsi nella sua premessa, rischiosa ma a mio modo di vedere sempre più necessaria (anche in chiave di legittimazione politica delle istanze dello spettacolo dal vivo): la consultazione preliminare dei cittadini. In questo modo, infatti: (a) l'ente pubblico - come direbbero ad anatema i neo-liberisti di vario colore (quasi fosse uno scandalo) - mette le mani nelle tasche dei cittadini; (b) ma in forma esplicita, con chiara definizione dello scopo e soprattutto chiedendo il loro parere su senso, opportunità e sostenibilità dei sistemi e progetti culturali locali (ed in particolare, per quanto riguarda l'esperienza riportata, la sostenibilità dell'"eccezione culturale" gallaratese).
Vi è naturalmente un corollario fondamentale che rende razionale questa ipotesi, anche in caso di - possibile - esito negativo delle consultazioni: la tassa di scopo e il gettito che ne deriverebbe dovrebbe avrebbe una funzione additiva e complementare rispetto alla spesa in campo culturale definita ordinariamente nei bilanci comunali e compatibilmente con le politiche e le risorse delle amministrazioni. Si tratterebbe, cioè, di un volano ed un moltiplicatore - qualitativo e quantitativo - per l'incremento delle attività, da un lato, e per il perseguimento di politiche più efficaci di contenimento dei prezzi al pubblico, cioè di sostegno della domanda. Un esito negativo nonsospende quel che tutti riteniamo un diritto della collettività ma - semmai - ne limita la piena realizzazione: un dato che, del resto, stiamo tutti subendo da anni in qualsiasi caso.
2. Azionariato diffuso
Si tratta di un'ulteriore possibilità, che nasce in questo caso dall'iniziativa ed azione privata e che si caratterizza - quasi giocoforza - per una maggiore complessità di connessione ed organicità al territorio, per uno sforzo straordinario di natura organizzativa e comunicazionale e per una sostanziale, e quasi connaturata, precarietà ed aleatorietà. Si tratta tuttavia, al contempo, della scelta che più radicalmente marca la tendenziale e possibile indipendenza delle organizzazioni da gruppi di potere, stakeholders e pressioni di natura politica per rivolgersi prioritariamente al destinatario naturale dell'attività: gli spettatori, la comunità locale.
Al di là dei dati "tecnici" legati all'economia aziendale (il termine "azionariato diffuso" non necessariamente deve essere collegato all'effettiva costituzione di una S.p.A.: è un concetto, a mio modo di vedere, di natura più "evocativa" che strettamente aziendalistica), l'idea dell'organizzazione culturale come "sistema aperto", almeno parzialmente condivisoin itinere, soprattutto reso trasparente (per esempio attraverso la pubblicazione dei bilanci), partecipato e indipendente (il modello più interessante rimane, a mio modo di vedere, quello di Radio Popolare) ha qualcosa di estremamente affascinante dal punto di vista politico e del senso della democrazia e, insieme, ha nuovamente il sapore di una scommessa: da un lato sul versante dell'efficacia e capillarità (dal porta-a-porta a banchetti permanenti in città) delle politiche di fund raising che - dalla sempre più precaria relazione con l'universo delle imprese - si vanno spostando sul terreno della connessione stabile con gli individui, nella direzione esplicita di un teatro dei cittadini; dall'altro, ovviamente, sul versante dell'effettiva verifica sul campo di questa, ipotetica, necessità ed organicità territoriale. Da questo punto di vista - al di là delle procedure standard e più o meno di routine della comunicazione - credo che un ruolo potenzialmente molto interessante potranno (potrebbero) avere i nuovi canali di relazione offerti dai social networks ed un intenso (e probabilmente non facile) lavoro di immaginazione organizzativa, in grado di creare - non solo sul piano "virtuale" - una vera e propria comunità di sostegno, anche affettivamente raccolta intorno al teatro, con occasioni di incontro, dibattito, scambio, reciprocità che rafforzino - e rendano significativa per ciascuno, oltre l'ordinaria programmazione - la scelta di sostenere il proprio teatro.
3. Responsabilità sociale (obbligatoria) d'impresa.
Infine una boutade, legata a Gallarate (ma valida, a titolo di principio, in generale, come vertenza di natura politica e civile).
Sono rimasto molto colpito, a Bologna lo scorso anno, dalla relazione di Roberto Calari sulla "responsabilità sociale dell'impresa" a sostegno del teatro. Come molti, tuttavia, temo di aver avuto la sensazione che si parlasse di un altro mondo, anche se probabilmente non è così.
Questo perchè il riconoscimento della propria responsabilità sociale, in quell'accezione, è naturalmente frutto di intenzionalità, emergenza fattuale della cosiddetta "cultura dell'impresa", dei suoi orientamenti rispetto alla comunità territoriale (il "giving back to community"), ecc.
La mia persuasione è che invece - penso per esempio alla Lombardia dell'Expo 2015 - la responsabilità sociale delle imprese sia invece un fatto, il cui riconoscimento andrebbe sottratto all'aleatorietà della "coscienza" aziendale (un mito, in larga misura, che ricorda molto i pii desideri sulla "bontà" del capitalista espressi dai socialisti utopisti del primo Ottocento). Un fatto: legato - per esempio - al deterioramento di qualità del tessuto e del contesto urbano, alla riduzione o localizzazione del verde pubblico, alle implicazioni sull'inquinamento dell'aria. Una responsabilità oggettiva, che è continua nel tempo e non si può concepire come "conciliabile", una tantum, sostanzialmente via pagamento degli oneri di concessione urbanistica.
Ora: se é del tutto evidente che a tutto questo vada, quanto prima, posto un freno e che sarebbe insieme irrazionale e criminale collegare causalmente il cemento alla cultura (il primo come condizione della seconda), credo sia invece giusto e quasi "naturale" prevedere che i processi di cementificazione già in essere o in via di deliberazione (penso per esempio al PGT gallaratese) vengano, obbligatoriamente, connessi a tributi pluriennali che - ancora una volta - restituiscano qualità della vita alla comunità, destinando risorse ad un arco di investimenti pubblici che vanno dalla spesa sociale, al diritto allo studio, alle istituzioni culturali e teatrali. Una sorta di tassa obbligatoria per la responsabilità sociale d'impresa.
Pensate che bello immaginare Caprotti o Ligresti che - per una volta - vengono obbligati a restituire qualcosa, almeno qualcosa, alla comunità... Ma si tratta, forse, dell'ennesimo sogno ad occhi aperti.
NOTE
1. Credo, dopo sei anni, di poter sostenere che per l'amministrazione le scelte culturali hanno rappresentato sostanzialmente (o soprattutto) un'importante operazione di immagine. E, con riferimento specifico al Sindaco (a cui occorre però riconoscere notevole intelligenza e lungimiranza), una visione un po' personalistica (e a tratti, in senso buono, faraonica: non a caso collegata all'idea, anche fisica, del "monumento" che resta - due teatri, il nuovo museo di arte contemporanea, ecc.) del suo ruolo e della sua memoria nella Gallarate del futuro.
2. Occorre sottolineare un altro dato fondamentale, che evidenzia come l'intero processo sia stato in certa misura caratterizzato da una forte sottovalutazione (o da una mancata lettura) del contesto "ecologico": i due nuovi teatri non nascevano nel vuoto ma, al contrario, si affiancavano e sovrapponevano a due teatri già esistenti e attivi, uno dei quali - il "mitico" Teatro delle Arti di Don Alberto Dell'Orto (500 p.) - rappresenta dal 1967 il fondamentale polo gallaratese per la Prosa. Con il Teatro Nuovo di Madonna in Campagna (250 p.) Gallarate si trova così ad avere a disposizione 1.620 posti a sedere per 50.000 abitanti: una "folle" media (di fatto sostanzialmente "milanese") di 30 posti per ogni abitante.
3. Sono gli anni del cosiddetto, e del tutto vuoto, "Rinascimento Lombardo" propagandato dall'allora Assessore regionale Albertoni: grandi investimenti in conto capitale, rinascita di cattedrali nel deserto totalmente prive tuttavia - dopo i "tagli di nastro" - di risorse finalizzate all'attività e alla valorizzazione.
4. Penso per esempio ad alcuni spunti presenti in una ricerca della LIUC commissionata dal Comune di Gallarate e preliminare alla nascita della Fondazione.
5. Nel concreto e per fare solo due esempi: il più importante socio fondatore - cioè SEA, gestore di Malpensa(mica bruscolini!) - ha contributo istituzionalmente con 50.000 € all'anno per i primi tre anni per poi tirarsi indietro; le associazioni di categoria - prima tra tutte l'Unione Industriali di Varese, tra i soci fondatori - ha riconosciuto un contributo iniziale di 2.500 € (non manca uno zero: duemilacinquecento euro!) successivamente non rinnovato.
6. La convenzione prevede uno stanziamento decisamente significativo (sebbene ancora insufficiente, in rapporto ai costi gestionali e ai costi di programmazione) di € 400.000 annui, a fronte di un bilancio che si aggira intorno a € 1.300.000 annui.
7. Da sottolineare - a proposito di questo calo - un dato realmente molto significativo anche dal punto di vista ideale e in relazione a quanto dirò oltre: se nel corso delle prime stagioni il valore della tessera, rapportato al numero di spettacoli, poteva essere considerato paradossalmente "conveniente" (con ratei che oscillavano tra 20 e 25 € a spettacolo per la cosiddetta "poltronissima"), oggi - con il calo di attività che ha caratterizzato la nostra evoluzione - questo abbonamento si configura espressamente come abbonamento sostenitore, con un rateo di ben 52,60 € a spettacolo. Il segno di un sostanziale affetto e stima o il segno di una convenzionalità che non guarda in faccia né la convenienza né la crisi? Ad posteros.
8. E si pone al contempo fortemente, - lo dico a titolo del tutto personale - un problema deontologico, legato paradossalmente ai fortissimi "danni collaterali" del "fare cultura", probabilmente non compensati dai corrispondenti benefici: all'orizzonte la città vede l'approvazione di un PGT che implicherà ulteriori colate di cemento legate alla costruzione di un "Distretto del Commercio" e di un "business park" (denominato "Sky City") lungo la SS336 di Malpensa.
9. Penso in particolare all'Emilia Romagna, con le ipotesi dell'Assessore Regionale Mezzetti, proprio oggi sostenute dallo stesso Prof. Trimarchi su "Repubblica" ed. Bologna: "La Regione suggerisce di ricorrere a una tassa di scopo. "Ne penso tutto il bene possibile e la propongo da anni come una delle vie efficaci per creare un po' di circolo virtuoso nella sopravvivenza finanziaria della cultura". O ancora, su un altro versante che può tuttavia ricollegarsi al nostro tema, al programma elettorale di Virginio Merola (PD) per il Comune di Bologna: "Se ne avessi la possibilità, userei l’autonomia impositiva del Comune facendo l’esatto opposto di quello che sta facendo il governo Berlusconi. Investirei sui settori prioritari per il futuro delle nuove generazioni, delle imprese e dell’ecosistema. Per parlare di occupazione, di valorizzazione dei talenti e di svolta ecologica in modo credibile occorre un ribaltamento dell’agenda politica. Bologna può proporsi come un modello alternativo e può impegnarsi per invertire la rotta. Questa scelta segna nettamente la mia idea di città".
BP2011 MATERIALI Il migliore dei bandi possibili: una ricerca per le Buone Pratiche Con il DATABASE dei bandi di Alessandra Narcisi e Sabrina Gilio
I finanziamenti allo spettacolo dal vivo sono quasi esclusivamente pubblici: statali, regionali, provinciali e comunali.
A livello nazionale si rileva la mancanza di una legge quadro che definisca le linee e i criteri per l’assegnazione di contributi ad enti che svolgono attività nel settore.
Esiste invece il Decreto Ministeriale del 22 novembre 2007 che definisce le modalità di erogazione dei contributi.
Relativamente agli Enti Locali (Regioni, Province, Comuni) si rileva come nella maggioranza assoluta dei casi i fondi vengano assegnati tramite bandi e gare.
La gara ad evidenza pubblica, infatti, è lo strumento più usato per l’affidamento di fondi alle strutture culturali esistenti in Italia ed è uno strumento che per struttura e natura dovrebbe garantire ai possibili interessati trasparenza e pari opportunità. Tuttavia tale strumento risulta nella maggior parte dei casi inadeguato.
CRITERI DELLA RICERCA
Al fine di riuscire a capire la reale efficacia dello strumento “bando” nell’assegnazione delle risorse pubbliche si è deciso di analizzare una serie di bandi emessi dagli enti pubblici e privati dal 2008 al 2010 emessi in tutta Italia.
La ricerca di bandi di finanziamento di “Attività culturali” è stata condotta su internet, sui 240 siti istituzionali delle Regioni, Province e Capoluoghi di Provincia. Inoltre per ogni regione si è effettuata una ricerca generica sul motore di ricerca Google inserendo la stringa “nome della regione bandi attività culturali”.
Il procedimento di ricerca ha visto innanzitutto l’analisi della sezione bandi ed avvisi pubblici, l’analisi delle sezioni degli assessorati alla cultura, turismo, politiche giovanili, spettacolo.
Si è cercata innanzitutto la legge regionale di riferimento per il finanziamento delle attività culturali, se non presente si sono cercati i regolamenti per l’assegnazione di contributi e se non presenti i moduli per la richiesta di contributi.
Nei siti che presentavano sezioni specifiche dedicate alla cultura si sono analizzati i bandi emessi per le categorie “attività culturali” e “teatro, danza, spettacolo” e si sono scelti i più pertinenti al tema spettacolo dal vivo.
Per quei siti che invece presentavano tutti i bandi pubblicati, gare d’appalto per tutti i settori si è fatta una ricerca per parole chiave: sono stati individuati tutti quei bandi che nell’intestazione contenessero le parole “spettacolo, attività culturali, teatro, contributi, cultura, danza, musica, finanziamento, legge regionale di riferimento”, sono stati letti velocemente e sono stati selezionati quelli inerenti con questa ricerca.
Si è poi passati ad analizzare i siti delle fondazioni bancarie presenti su ogni regione e sono stati analizzati quei bandi/regolamenti che assegnassero contributi per attività culturali.
I numeri della ricerca:
Anni di riferimento 2008-2010
Siti istituzionali analizzati: 240
Siti di fondazioni bancarie analizzati: 92
Siti di enti privati analizzati: 30
Totale siti analizzati: 362
Bandi visionati: 300
Bandi analizzati: 160
Totale bandi: 460
CONSIDERAZIONI
I bandi per la cultura e lo spettacolo dal vivo sono per lo più emanati da enti pubblici (regioni, province, comuni) e declinati sulle varie leggi regionali che sostanzialmente impegnano le amministrazioni nel sostegno all’arte e alla cultura con delle forme pressoché identiche.
Ne risulta che il primo grande ostacolo, non è tanto nella burocrazia o nei vincoli amministrativi richiesti all’ente che intenda partecipare, quanto piuttosto nella assoluta mancanza di obiettivi che il bando intende perseguire, nella vaghezza dei parametri di valutazione qualitativa, di inquadramento delle azioni artistiche in un territorio, in un’identità, in un bacino di necessità analizzate. Persino le differenze di parti politiche fra le varie amministrazioni non contribuiscono affatto a rendere caratterizzati i bandi prodotti. Non cambia quasi nulla, fatta eccezione per le percentuali del contributo concesso.
Il problema è che la formulazione del bando non nasce da una preventiva analisi dell’offerta già presente nel territorio, dalle lacune che ne emergono, quindi dagli indirizzi che l’amministrazione vuole evidenziare. Ne esce di conseguenza un prodotto generico che elargisce fondi cercando di accontentare quanti più soggetti possibile nel territorio, spesso con contributi non congrui all’entità dei progetti presentati.
Terminata la fase di aggiudicazione poi, l’amministrazione non fa che riprendere in mano la pratica in sede di consuntivo, valutando così l’operato in ottica esclusivamente economica.
Ecco allora il secondo grande ostacolo, figlio del primo: come inizialmente non si era valutato l’ambito in cui far uscire lo strumento bando, non si erano definiti perciò bisogni e obiettivi da raggiungere, così adesso non si sente l’esigenza di valutare l’impatto che i vari progetti finanziati hanno avuto sul territorio. Manca uno strumento di controllo dei bandi e in molti casi manca anche un osservatorio sulla cultura.
Dalla ricerca condotta su tutte le regioni italiane è emerso un dato atteso: mediamente il maggior numero di bandi per la cultura e lo spettacolo è emesso dalle regioni del nord e la quantità si affievolisce man mano che si scende lo stivale.
Il dato inatteso è stato scoprire che regioni ritenute culturalmente vitali e virtuose, come l’Emilia Romagna e la Toscana hanno invece una esigua produzione di bandi per la cultura e lo spettacolo.
La sorpresa che un po’ ci aspettavamo è stata invece il fatto che regioni ritenute fino a qualche tempo fa culturalmente desertiche, come la Sardegna e la Puglia, siano oggi da considerare all’avanguardia non solo per la quantità di bandi emessi, ma per la specificità degli interventi che sembrano, in virtù di quanto detto in precedenza, nascere da un’analisi delle richieste e da una specificità del territorio.
Dal fronte dei contributi concessi alla cultura da istituzioni private (abbiamo nello specifico esaminato le fondazioni bancarie) possiamo dire che la quantità di bandi emessi a favore della cultura tende generalmente a favorire delle azioni maggiormente tangibili, come restauri oppure opere architettoniche. Ma se poche sono le Fondazioni che si occupano specificatamente di spettacolo dal vivo, quelle che lo fanno hanno almeno il vantaggio di esprimere obiettivi molto chiari, diversificati per i vari bandi e di prospettare un panorama più ampio in cui queste azioni di elargizione sembrano convergere. Ne sono un esempio il bando “Note e Sipari” della Fondazione CRT, la valorizzazione della creatività giovanile ad opera di Fondazione Cariplo e il bando per le iniziative ad ampia diffusione culturale della Fondazione Carito.
Una pratica piuttosto diffusa vede i soggetti a partecipazione pubblica, esclusi per questo da tutti i bandi pubblici, ricevere però in affidamento la gestione di strutture culturali pubbliche ed emettere attraverso tali strutture dei bandi ad affidamento diretto. Questa pratica fa perdere all’operazione la trasparenza del bando puramente amministrativo ma spesso ne escono dei prodotti interessanti, guardiamo ad esempio ai bandi emessi dal Teatro Pubblico Pugliese.
Probabilmente fra quelli analizzati non c’è “il migliore dei bandi possibili” e forse non ci sarà mai, ma in un mondo migliore ciò che rende necessaria l’elargizione di fondi alla cultura e nello specifico allo spettacolo non nascerà solo da una fantomatica linea guida costituzionale di valorizzazione di questo settore ma si fonderà sull’analisi di un bisogno reale ed incanalerà i propri sforzi in quella direzione per trovare dei soggetti che possano adeguatamente soddisfare quel bisogno, osservando il lavoro fatto e quello ancora da fare per tornare nuovamente ad aggiustare il tiro anno dopo anno.
APPENDICE
Qui di seguito una breve esposizione dei criteri di assegnazione dei contributi del Decreto Ministeriale e della Comunità Europea.
DECRETO MINISTERIALE TEATRO
Il Ministero per i Beni e le Attività culturali, attraverso la Direzione Generale per lo spettacolo dal Vivo, eroga contributi a soggetti che svolgono attività di teatro, commedia musicale ed operetta in base agli stanziamenti del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) istituito dalla Legge n. 163/85. Il D.M. in vigore è del novembre 2007.
OBIETTIVI DICHIARATI:
a) Favorire la qualità artistica e il costante rinnovamento dell’offerta teatrale italiana, promuovendo l’innovazione nella programmazione anche attraverso le nuove tecnologie e sostenendo vari linguaggi teatrali con una particolare attenzione alla contemporaneità.
b) Consentire ad un pubblico sempre più alto di accedere alla cultura teatrale con particolare riguardo alle nuove generazioni e alle categorie meno favorite.
c) Favorire il riequilibrio territoriale fra le regioni con interventi perequativi.
d) Promuovere nella produzione teatrale la qualità, l’innovazione, la ricerca, la sperimentazione di nuove tecniche e nuovi stili, favorendo il ricambio generazionale anche attraverso le residenze.
e) Agevolare la committenza di nuove opere e la valorizzazione del nuovo repertorio contemporaneo italiano ed europeo.
f) Promuovere la valorizzazione e la valorizzazione del repertorio classico
g) Ampliare la potenzialità del mercato teatrale anche promovendo la valorizzazione di luoghi non destinati ad attività di spettacolo e l’utilizzazione di siti storici ed aree archeologiche per lo sviluppo del turismo culturale.
h) Sostenere la formazione e tutelare le professionalità in campo artistico, tecnico ed organizzativo.
i) Promuovere l’interdisciplinarietà e la multimedialità.
l) Sostenere la promozione internazionale del teatro italiano, in particolare in ambito europeo, attraverso iniziative di coproduzione e di scambio di ospitalità con qualificati organismi esteri.
I contributi vengono assegnati con un decreto del Direttore Generale dello Spettacolo dal Vivo, tenendo conto delle leggi finanziaria e di bilancio, del parere della Commissione consultiva per il teatro,della Conferenza delle Regioni, dell’Unione delle Province Italiane e dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, determinando così l’elenco degli organismi finanziati in armonia con i contributi stanziati nell’anno precedente e con la quota da stanziare per ciascun settore.
CRITERI GENERALI DI ATTRIBUZIONE DEL CONTRIBUTO:
Il contributo è assegnato:
• Sulla base delle voci di costo presenti nel preventivo finanziario presentato e considerate ammissibili (nelle percentuali e nei massimali stabiliti per ciascuna attività).
• Sulla valutazione qualitativa del progetto artistico.
• Sulla base della validità organizzativa ed imprenditoriale dell’ente richiedente.
• Sulla qualità culturale delle iniziative.
• Sulla natura professionale delle attività realizzate
• Sul rispetto dei Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro di categoria.
In ogni caso il contributo non può eccedere il pareggio di bilancio fra entrate ed uscite dei preventivi e consuntivi del soggetto beneficiario.
COSTI AMMISSIBILI AI FINI DELLA BASE QUANTITATIVA:
a) Per i TEATRI STABILI,le IMPRESE DI PRODUZIONE ed il TEATRO DI FIGURA: oneri previdenziali ed assistenziali.
b) Per gli ORGANISMI DI PROMOZIONE E FORMAZIONE DEL PUBBLICO: compensi corrisposti agli organismi teatrali ospitati, costi di promozione, pubblicità e gestione sale con l’esclusione del personale dipendente.
c) Per L’ESERCIZIO TEATRALE: gestione della sala, costi di promozione del pubblico e pubblicità.
d) Per la PROMOZIONE TEATRALE, IL PERFEZIONAMENTO PROFESSIONALE E GLI ARTISTI DI STRADA: spese artistiche con esclusione delle spese generali.
e) Per le RASSEGNE E FESTIVAL: oneri previdenziali ed assistenziali, costi di ospitalità, pubblicità e promozione.
f) Per i PROGETTI SPECIALI: costi artistici ed organizzativi.
g) Per l’ATTIVITA’ ALL’ESTERO: viaggi e trasporti.
Nessun soggetto può essere ammesso a contributo se non ha svolto attività per almeno tre anni nel settore teatrale. Per i soggetti già finanziati negli anni precedenti, la domanda viene accettata a condizione che sia stato presentato il rendiconto artistico e finanziario relativo al penultimo anno antecedente a quello a cui si riferisce la domanda.
CRITERI DI VALUTAZIONE QUALITATIVA:
La valutazione qualitativa è determinata dalla Commissione che tiene conto della qualità artistica dei progetti e del parere espresso dalle Regioni sulla coerenza e l’efficacia dei progetti in riferimento alle linee di programmazione regionale in materia.
I criteri di valutazione qualitativa sono i seguenti:
a) Stabilità pluriennale e regolarità gestionale-amministrativa dell’organismo.
b) Direzione artistica o organizzativa.
c) Identità e continuità del nucleo artistico e organizzativo.
d) Spazio riservato al repertorio contemporaneo.
e) Periodo di impiego degli scritturati in rapporto ai compensi da corrispondere.
f) Carattere di stanzialità per le attività stabili e tipologia del decentramento territoriale per le attività di giro.
g) Integrazione delle arti sceniche e processi innovativi nelle attività di produzione.
h) Creazione di rapporti con le scuole e le università
i) Integrazione con il patrimonio storico ed architettonico.
l) Finalità sociali del progetto.
m) Rapporto consolidato con enti locali e istituzioni culturali.
n) Formazione e sostegno alle nuove istanze artistiche.
o) Impiego di giovani di età compresa fra i 18 e i 35 anni.
p) Qualificata attività di diffusione e documentazione, anche editoriale, dell’attività teatrale.
q) Rapporto fra entrate di bilancio ed intervento statale.
La Commissione, però, tiene anche conto, relativamente al triennio antecedente la domanda di contributo dei seguenti elementi:
a) Progetti artistici realizzati e andamento del flusso del pubblico pagante.
b) Capacità imprenditoriale di reperire risorse da parte di soggetti e istituzioni private e/o di enti territoriali.
Una valutazione qualitativa favorevole conferma, aumenta fino a tre volte oppure diminuisce la base quantitativa, fermo restante il limite del pareggio fra entrate e uscite del preventivo.
CATEGORIE DI SOGGETTI FINANZIABILI, GIORNATE LAVORATIVE E RECITATIVE RICHIESTE E QUOTE DI PARTECIPAZIONE DI SOGGETTI ALTERNATIVI ALLO STATO:
• TEATRI STABILI AD INIZIATIVA PUBBLICA
• TEATRI STABILI AD INIZIATIVA PRIVATA
• TEATRI STABILI DI INNOVAZIONE (richiesta la disponibilità di entrate finanziarie provenienti da soggetti diversi dallo Stato in misura non inferiore al 40% dei costi sostenuti tra cui almeno un ente locale)
• IMPRESE DI PRODUZIONE TEATRALE
• TEATRO DI FIGURA
• ORGANISMI DI PROMOZIONE, DISTRIBUZIONE E FORMAZIONE PUBBLICO
• ESERCIZIO TEATRALE
• PROMOZIONE TEATRALE, PERFEZIONAMENTO PROFESSIONALE, ARTISTI DI STRADA: (Contributo non cumulabile con altre forme contributive previste dal presente decreto)
• RASSEGNE E FESTIVAL: (Contributo non cumulabile con altre forme contributive previste dal presente decreto, Il contributo ha carattere integrativo di altri importi finanziari e non può superare il 30% dei costi sostenuti. Il progetto deve essere inoltre sovvenzionato da uno o più enti pubblici.)
• ENTE TEATRALE ITALIANO
• ACCADEMIA NAZIONALE DI ARTE DRAMMATICA “SILVIO D’AMICO” E SOCIETA’ ITALIANA AUTORI DRAMMATICI
• PROGETTI SPECIALI: (Contributo non cumulabile con altre forme contributive previste dal presente decreto).
• ATTIVITA’ ALL’ESTERO
Le giornate lavorative e recitative richieste vanno da un massimo delle 5000 giornate lavorative e 120 giornate recitative richieste agli stabili ad un minimo delle 700 giornate lavorative e 80 giornate recitative richieste al teatro di figura. Giornate recitative ancora inferiori sono richieste agli organismi di promozione,distribuzione e formazione pubblico e agli esercizi teatrali.
CONSIDERAZIONI:
Le linee programmatiche del D.M., qui riassunte in modo schematico, tendono a sostenere l’attività di organismi considerati “affidabili” (la principale discriminante è l’attività almeno triennale) innanzitutto da un punto di vista amministrativo e poi da un punto di vista qualitativo.
Anche fra i criteri valutativi della qualità dei progetti, i primi posti sono occupati dalla stabilità amministrativa e organizzativa del soggetto, dalla comprovata professionalità della direzione artistica, dalla stabilità del nucleo artistico.
A seguire troviamo l’attenzione per il rapporto con il territorio: viene valutata la stabilità per le attività stanziali e il decentramento per le attività di giro, viene inoltre valutato il rapporto con gli enti locali e le istituzioni culturali locali, il rapporto con le Università e le scuole, la finalità sociale del progetto.
Questa attenzione è giustificata anche dal consistente ruolo che hanno gli enti locali nella valutazione dei progetti, esaminati con il parere della Commissione consultiva per il teatro,della Conferenza delle Regioni, dell’Unione delle Province Italiane e dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia. Viene dichiarato che il parere espresso dalle Regioni è basato sulla coerenza e l’efficacia dei progetti in riferimento alle linee di programmazione regionale in materia.
Altro elemento di attenzione dichiarato fra gli obiettivi generali è la contemporaneità dei progetti: la promozione di testi italiani contemporanei, di nuove tecniche e forme espressive artistiche, di nuove formazioni artistiche, l’ampliamento del mercato teatrale italiano.
Se affianchiamo ai dettami del D.M. gli elenchi degli organismi che hanno beneficiato dei sovvenzionamenti statali negli ultimi anni, possiamo vedere però che il risultato delle linee guida è quello di un mantenimento sostanziale dello status quo.
Ovvero, l’intento di tutela dell’Amministrazione attuato incentrando la gran parte dei criteri valutativi sulla affidabilità amministrativa e qualitativa dei soggetti finanziati,le agevolazioni date ai soggetti che già negli anni precedenti hanno ottenuto dei finanziamenti, la natura stessa del contributo che prevede la copertura solo di alcuni costi sostenuti prevedendo (in alcuni casi in modo dichiarato negli altri in modo implicito) il sostegno di altri soggetti pubblici o privati allo stesso progetto senza,tuttavia, incoraggiare i soggetti privati con una specifica politica di defiscalizzazione, fanno sì che di fatto venga consentito l’ingresso alle liste dei soggetti beneficiari solo a pochissime nuove realtà, finanziate con delle cifre insufficienti a garantire quella programmazione a lungo raggio e stabilità che lo stesso decreto richiede per continuare il rapporto di sostegno.
Insomma, la comprensibile prudenza dell’Amministrazione nell’accettare nuovi soggetti provoca un evidente immobilismo che ci rimanda alla stessa situazione già riscontrata nei finanziamenti concessi dagli enti locali: manca un preciso indirizzo politico, si cerca l’innovazione e insieme la garanzia dei soggetti più navigati, si richiede una capacità di reperire fondi integrativi senza incoraggiarne l’entrata in campo, si tende a distribuire a pioggia i fondi che le varie leggi finanziarie e di bilancio riducono dando poco a tutti poiché i criteri sono tanto generici da rendere ammissibili moltissime istanze anziché avere il coraggio di introdurre dei parametri più stretti, meno generici, se vogliamo orientati politicamente ma che realmente possano garantire un maggior sostegno ai soggetti ritenuti idonei.
LA COMUNITA’ EUROPEA
La Commissione europea, incoraggia le iniziative culturali in maniera duplice:
- mediante politiche dirette, principalmente culturali, oppure integrando la dimensione culturale con altri settori di interesse comunitario quali, ad esempio, la concorrenza o la politica industriale;
- tramite il sostegno finanziario mediante il programma Cultura (2007-2013), ma anche tramite iniziative diverse, quali, ad esempio, quelle che si collocano nel quadro delle politiche regionali .
Vi sono poi delle linee di finanziamento dirette come il programma Capitali della cultura che solo raramente pubblicano bandi per lo sviluppo di attività culturali ma che prevedono un’assegnazione diretta alle città selezionate.
I finanziamenti che passano tramite bando sono quelli del Programma Cultura 2007-13.
Dalla modulistica da utilizzare per la presentazione dei bandi si ritrova in particolare un budget estremamente strutturato pensato per permettere un costante monitoraggio delle azioni finanziate.
La cosa che caratterizza l’UE è l’attenzione posta nel monitoraggio delle azioni che porta alla fine del progetto finanziato ad avere un report adatto a evidenziare l’efficacia delle azioni finanziate.
Per una maggiore trasparenza è pubblicato un documento che illustra passo per passo come avviene la valutazione dei progetti da parte degli esperti, che non devono solo dare un voto per ogni voce ma devono spiegare il perché hanno dato quel voto
Interessante è che la pubblicazione della graduatoria dei progetti ammessi non è solo un mero elenco ma contiene la sintesi del progetto da realizzare, la tematica, l’elenco dei partner coinvolti, i recapiti del capofila, l’ammontare della sovvenzione e percentuale della copertura.
A livello italiano i progetti finanziati sono stati presentati da Comuni, Università, società cooperative e srl. Questi sono infatti gli enti che da normativa italiana possono partecipare in quanto o enti pubblici o enti privati con personalità giuridica.
Obiettivi:
- incentivare la mobilità transnazionale degli operatori in campo culturale;
- sostenere la circolazione transnazionale di opere e beni artistici e culturali;
- promuovere il dialogo interculturale
CHI PUO’ PARTECIPARE: Operatori e imprese culturali legalmente riconosciute se dimostrano di operare nel settore culturale e non avere scopo di lucro. Per partecipare bisogna essere o un ente pubblico / privato la cui attività principale è compresa nella sfera culturale con sede legale in una dei Paesi ammissibili.
Settore 1: sostegno a progetti culturali
Le organizzazioni culturali possono ricevere sostegno per progetti finalizzati a forme di cooperazione transnazionale al fine di creare e implementare attività artistiche e culturali.
Questo settore si rivolge a enti, quali teatri, musei, associazioni professionali, centri di ricerca, università, istituti culturali e autorità pubbliche, provenienti da paesi diversi fra quelli ammessi al programma, al fine di accrescere la cooperazione fra diversi settori e ampliare il loro campo d’azione culturale e artistico oltre i confini nazionali. Il settore è ripartito in cinque categorie.
Settore 1.1: Progetti di cooperazione pluriennali (durata non inferiore a 36 mesi e non superiore a 60 mesi)
Obiettivo: favorire legami culturali pluriennali e transnazionali all’interno di un gruppo minimo di sei operatori culturali, provenienti almeno da sei Paesi diversi per la realizzazione di progetti di cooperazione, e per lo sviluppo di attività culturali congiunte in un arco di tempo compreso tra 3 e 5 anni.
Sovvenzioni: min 200.000 max 500.000 l’anno e fino al 50% dei costi ammissibili totali.
Settore 1.2.1: progetti di cooperazione (durata non superiore a 24 mesi)
Obiettivo: sovvenzione di azioni condivise da almeno tre operatori culturali multisettoriali, provenienti almeno da tre paesi partecipanti al programma, per un periodo massimo di due anni. I progetti che promuovono rapporti di cooperazione sul lungo periodo sono tra i favoriti.
Sovvenzioni: min 50.000 max 200.000 l’anno e fino al 50% dei costi ammissibili totali.
Settore 1.3.5: progetti di cooperazione con i paesi terzi (durata non superiore a 24 mesi)
Obiettivo: progetti di cooperazione culturale che promuovano scambi tra paesi partecipanti al programma e paesi terzi che abbiano stipulato accordi di associazione o cooperazione culturali con l’Unione Europea. L’azione deve creare una concreta dimensione di cooperazione internazionale. I progetti di cooperazione devono coinvolgere non meno di tre operatori culturali, provenienti da minimo tre paesi partecipanti al programma, garantire una cooperazione culturale con almeno un’organizzazione del paese terzo selezionato e prevedere attività culturali nello stesso.
Sovvenzioni: min 50.000 max 200.000 l’anno e fino al 50% dei costi ammissibili totali.
Settore 1.3.6: sostegno a festival culturali europei
Obiettivo: sostegno ai festival che abbiano una dimensione europea e che contribuiscano al raggiungimento degli obiettivi specifici del programma (ossia la mobilità dei professionisti, la circolazione di opere e il dialogo interculturale).
Sovvenzioni: 100.000 e fino al 60% dei costi ammissibili totali. Il sostegno può essere garantito per una edizione del festival o per tre edizioni.
Settore 2: Sostegno a organizzazioni attive a livello europeo nel campo della cultura
Le organizzazioni culturali operanti, o che intendono operare, nel campo della cultura a livello europeo, possono essere sostenute nei costi di funzionamento.
Il tipo di sovvenzione previsto per questo settore rappresenta un sostegno ai costi di funzionamento delle organizzazioni beneficiarie per l’implementazione del loro programma di lavoro. Tale sovvenzione si distingue categoricamente dai finanziamenti riguardanti gli altri settori del Programma. Maggiori informazioni concernenti il sostegno dei costi di funzionamento e le sovvenzioni per progetti sono reperibili al capitolo III.2.
A tal fine, le tipologie di organizzazioni ammissibili sono:
a) ambasciatori,
b) reti di rappresentanza e difesa,
c) piattaforme di dialogo strutturato.
Sovvenzioni: min 100.000 max 600.000 EUR e fino all’80% dei costi ammissibili totali o dei costi stimati nel lavoro proposto.
BP2011 MATERIALI Media partner Studio28 TV La documentazione video della giornata e gli approfondimenti di Studio28 TV
Studio28 TV riprenderà l'intera giornata di sabato 26 e, anche attraverso interviste agli ospiti, al pubblico e agli organizzatori, riproporrà nelle settimane successive dei video di approfondimento, per chi non c'era, e per chi vorrà proseguire a dibattere sui temi lanciati durante le Buone Pratiche.
BP2011 MATERIALI Carta Emergenza Cultura in Piemonte Un appello di Comitato Emergenza Cultura del Piemonte
Questo appello è rivolto a tutti gli abitanti del territorio regionale piemontese affinché, in questo periodo di crisi, ritenendo di importanza strategica i beni e le attività culturali di pubblico interesse, firmino per sostenere la richiesta di ripristino dei fondi dello Stato, della Regione Piemonte e degli Enti Locali destinati alla cultura.
Il Comitato Emergenza Cultura che promuove l’appello è un organismo spontaneo, senza connotazioni politiche, nato dall’impellente necessità di sensibilizzare la pubblica opinione sui valori della cultura e di costruire una piattaforma di proposte nei confronti delle varie Istituzioni pubbliche. Il Comitato è costituito da operatori che prestano volontariamente il loro impegno.
La cultura è un diritto sancito dalla Costituzione (Art. 9) e la sua promozione è un dovere delle Pubbliche Amministrazioni. Essa rappresenta un investimento, non una spesa. La cultura infatti sostiene la crescita del nostro Paese, la sua economia, la sua coesione sociale, il futuro delle nuove generazioni.
I “tagli alla cultura”, in particolare da parte della Regione Piemonte, riguardano dunque non solo gli operatori culturali e gli amministratori degli Enti Locali, ma tutti i cittadini, giovani, adulti e anziani che usufruiscono delle iniziative e dei beni culturali diffusi su tutto il territorio. Biblioteche, musei, enti culturali, attività di teatro, danza, cinema, musica, festival, rassegne e molte iniziative di aggregazione, di formazione e d’informazione, sono attualmente sul bordo di un baratro dove potrebbero precipitare portandosi dietro una buona parte della qualità della vita delle nostre comunità.
Alcuni dati significativi spiegano come l’investimento in cultura renda sia in termini di redditività sociale sia in termini puramente economici (vedi indotto). Il nostro Paese potrebbe essere molto più ricco se sapesse utilizzare bene le proprie risorse culturali.
1. L' Italia nel 2010 ha investito in cultura lo 0,21% del PIL e nel 2011 tale cifra è scesa allo 0,1% del PIL.La Media Europea d'investimento in cultura è del 3% del PIL, riconoscendo al settore un forte valore anticiclico.
2. La spesa Regionale per la cultura nel 2010 è stata pari allo 0,6 del Bilancio totale, concorrendo però per circa l'11% di economie.
3. Nel 2011 la spesa Regionale per la cultura sarà pari allo 0,31% del Bilancio totale, con un esborso pro-capite annuo a carico del singolo cittadino piemontese che non raggiunge i 15 euro!
Nello stesso 2011 la spesa Regionale per trasporti, infrastrutture, mobilità e logistica sarà pari al 10% del Bilancio totale, con un esborso pro-capite annuo a carico del singolo cittadino piemontese di circa 450 €.
1. I dati Istat relativi al 2010 attestano gli addetti occupati nel settore culturale in Piemonte in 37.000 unità (i lavoratori dello Stabilimento di Fiat Mirafiori sono nel complesso circa 5.400) che, considerando tutto l'indotto generato, raggiungono oltre 280.000 occupati. L'età media degli addetti in ambito culturale si situa tra i 30-45 anni, con una maggioranza di occupazione femminile.
2. Il Turismo che produce il 3,5% del PIL Regionale e che, negli ultimi 8 anni ha visto un incremento del 43% di presenze rivela un crescente peso della componente culturale: il 40% dei turisti, infatti, dichiara di venire in Piemonte perché attirato principalmente dai beni e dall'offerta culturale.
Come si può vedere, il settore culturale è quello su cui vengono investite meno risorse economiche e, in proporzione, è il settore che crea un maggiore indotto. L’Italia in particolare, per le sue risorse di beni artistici, storici ma anche per la sua vivacità nel contemporaneo, detiene un primato mondiale di interesse. Peraltro i tagli sono in controtendenza rispetto al fatto che negli ultimi anni c’è stato un forte aumento della domanda di cultura nel nostro Paese da parte degli italiani e degli ospiti stranieri.
La cultura a cui ci riferiamo non è fatta di sprechi e di “grandi eventi”. E’ la pratica quotidiana e diffusa fatta di uso corretto delle risorse, fondata sul principio della “sostenibilità”. La maggior parte degli operatori artistici e culturali hanno retribuzioni simili (se non al di sotto) agli stipendi degli insegnanti della scuola o degli operai delle fabbriche. La loro reale condizione è dunque ben lontana dai miti fasulli che identificano l’ambiente culturale nei personaggi dalla vita dorata, buoni per gli scandali, per i compensi da capogiro e per una infinità di inutili gossip. La loro attività professionalecontinuativa riesce inoltre ad aggregare l’impegno di numerosissime altre persone (volontari, apprendisti, semiprofessionisti, collaboratori occasionali) a vantaggio di tutti. E se i lavoratori del settore culturale sono riusciti in questi anni a svolgere la loro professione è stato grazie soprattutto al riscontro del pubblico (spettatori, frequentatori di biblioteche, musei, istituti culturali) che riconosce la qualità del loro impegno.
La cultura non ha un colore politico, ma ha in sé tutti i colori.
La cultura è da sempre parte integrante dello sviluppo dell’individuo e della società di riferimento. La cultura ricerca, comunica e sviluppa le infinite esperienze, idee e visioni dell’essere umano che si arricchisce nello scambio con gli altri. E’ necessario liberare la cultura, in tutte le sue forme, dalla pervasività della politica e dei partiti.
Ripristino e sviluppo degli investimenti pubblici destinati alla cultura.
In considerazione dei gravi tagli economici al sostegno della cultura decisi dagli Enti territoriali e dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, avvenuti nel 2010 e previsti nell’anno in corso, il Comitato Emergenza Cultura del Piemonte chiede allo Stato e alle Amministrazioni Pubbliche una sollecita revisione dei bilanci affinché le attività e i beni culturali possano continuare ad esistere e svilupparsi sul nostro territorio.
Oggi, tutti gli operatori culturali si trovano nella condizione di non sapere cosa potrà accadere domani, se quest’anno potranno continuare a lavorare e se i programmi per i quali si sono già impegnati potranno essere rispettati.
In queste condizioni non è più possibile andare avanti !
Vanno ristabiliti i fondi economici necessari al mantenimento dell’offerta culturale sinora fornita, in quanto essi sono, come risulta dai dati suesposti, i più bassi d’Europa.
Poiché non ci nascondiamo le difficoltà chiediamo che, qualora si verifichino delle riduzioni, esse siano programmate con criteri trasparenti e condivisi.
Proponiamo inoltre che si studino incentivi attraverso forme di detassazione (Irpef, Irap o altro) per le imprese private che intendono sostenere le attività culturali e che gli stanziamenti assegnati ad ogni soggetto siano per il futuro certi e definiti triennalmente al fine di consentire quella continuità indispensabile alla realizzazione effettiva di qualsiasi progetto o servizio culturale.
Richiediamo quindi al più presto una rapida risposta dalle Amministrazioni Pubbliche, affinché sia possibile prevedere l’immediato futuro: quale potrà essere la condizione dei lavoratori dei vari settori culturali e quale sarà la sorte della cultura per gli abitanti del Piemonte.
COMITATO EMERGENZA CULTURA DEL PIEMONTE
NDR Il comitato sta procedendo con una raccolta firme attraverso unmodulo per la sottoscrizione della Cartache verrà divulgata in tutte le sedi opportune.
Chi volesse sottoscrivere l'appello o contribuire alla raccolta firme è pregato di compilare ed inoltrare il modulo a
comitatoemergenzacultura@gmail.com
BP2011 MATERIALI Che cosa è successo al Napoli Teatro Festival Una lettera aperta di Renato Quaglia
Caro Oliviero,
come già sai, a pochi mesi dall'inizio della quarta edizione del Napoli Teatro Festival Italia, si interrompe e cambia il progetto iniziato tre anni fa.
Da tre settimane non sono più direttore del Napoli Teatro Festival Italia.
Nel mese di marzo 2010 i partiti della destra hanno vinto le elezioni e la Regione Campania e' passata da una maggioranza di centro-sinistra a una di centro-destra, che dopo poche settimane dall’insediamento ha immediatamente iniziato a rivendicare la guida delle principali istituzioni teatrali, culturali e scientifiche di Napoli.
La Fondazione Campania dei Festival, presieduta da Rachele Furfaro, è stata oggetto dal giugno 2010 di due azioni parallele: da un lato il blocco dell'erogazione dei finanziamenti europei che erano dovuti alla Fondazione ma che per ragioni amministrative sono deliberati e assegnati attraverso la Regione; dall'altro, l'intimazione ad applicare una discussa legge nazionale che impone alle Regioni che hanno sforato il patto di stabilità (e la Regione Campania è tra queste) di revocare immediatamente ogni contratto di lavoro con i dipendenti a tempo determinato, nelle società a partecipazione regionale.
Il Consiglio di Amministrazione della Fondazione ha cercato di dialogare con la nuova maggioranza della Regione per molti mesi, senza essere mai ricevuto e senza avere nessuna possibilità di dialogo, nemmeno indiretto.
Ha così dovuto affrontare una difficile crisi finanziaria, che non ha permesso di rispettare gli impegni economici presi con artisti, compagnie, società nel 2009 e nel 2010, e che non ha nemmeno permesso di pagare il personale della Fondazione per diversi mesi.
Il Consiglio della Fondazione ha anche chiesto alla Regione se la legge che imponeva di licenziare tutti i dipendenti, fosse effettivamente applicabile alla Fondazione; che autorevoli esperti di diritto amministrativo (consultati in questi mesi) ritengono essere indipendente dalla Regione.
Ma non riuscendo ad avere udienza presso la Regione, il Consiglio di Amministrazione ha dovuto rivolgersi al Tribunale Amministrativo Regionale e poi al Consiglio di Stato che (pur avendo in una prima sentenza dato ragione alle tesi di indipendenza della Fondazione) alla fine ha dato ragione alla tesi della Regione.
Per questo il 31 gennaio sono stati licenziati gli ultimi dipendenti, compreso io stesso (il mio contratto sarebbe invece scaduto nel febbraio 2014).
Il 23 gennaio si è insediato il nuovo Consiglio di Amministrazione; il cui Presidente è l'Assessore alla Cultura della Regione Campania (che è stato nominato presidente anche del Consiglio di Amministrazione del Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina – MADRE, insieme al Teatro Trianon, al Teatro Mercadante, a Città della Scienza e ad altre istituzioni napoletane, oggetto delle attenzioni politiche della nuova maggioranza della Regione Campania).
Pur avendo di fatto chiesto anche la mia revoca con costanza settimanale e intimativa, in questi mesi il Presidente della Regione Stefano Caldoro e l'Assessore regionale alla Cultura Caterina Miraglia mi hanno invitato (sulle pagine della stampa – vedi Repubblica Napoli) a proseguire con loro il mio compito di direttore artistico e organizzativo, ma io non ho ritenuto di poter continuare a collaborare con un Consiglio di Amministrazione diverso da quello che mi aveva nominato (tranne che per il consigliere Luigi Grispello, Presidente dell’AGIS Campania, che si è dimesso mesi fa dal CdA precedente, per essere oggi riconfermato in quello espresso dalla nuova maggioranza regionale) e che è evidentemente rappresentativo di modalità di azione che non condivido.
Avrei anche molto probabilmente dovuto lavorare con un gruppo di lavoro differente.
In questi due anni avevamo lavorato al programma della quarta edizione, ho quindi consegnato al nuovo Presidente tutto il programma per l'edizione del giugno 201: il calendario, i contatti, il budget, le disponibilità finanziarie della quarta edizione (sono disponibili fondi europei per 4.000.000 di euro per il 2011 e altrettanti per il 2012; fondi europei che non incidono sulle disponibilità regionali e che devono essere spesi per il festival).
Non conosco quali saranno le decisioni del nuovo corso: se sarà affidato alle cure della nuova direzione del Mercadante, se anche a quelle del Teatro San Carlo, se si farà un unico soggetto tra Teatro stabile pubblico di Napoli e Festival, per aumentare le dotazioni produttive del primo e normalizzare l’indisciplina del secondo…; certamente si conclude dopo tre anni molto intensi una esperienza internazionale, il cui successo è stato determinato dalla partecipazione straordinaria di artisti, professionisti e spettatori.
La nuova fase che si va ad aprire avrà un segno e una progettualità diversa da quella che ho difeso insieme a un gruppo di professionisti tra i migliori in Italia.
Questa città così ricca di talenti e contraddizioni, saprà certamente ancora dimostrare di essere una città europea.
BP2011 MATERIALI Canto per Torino Con un articolo del 2007 di Gabriele Vacis
Nel 1995 il Canto per Torino è stato uno spettacolo.
Negli ultimi lustri sono successe un´infinità di altre cose, a Torino, ma basta scorrere il cast per capire che il Canto per Torino è una sorta di gesto fondativo.
A scrivere i testi c´erano, tra gli altri Giuseppe Culicchia e Alessandro Baricco, in scena c´erano tanti attori, ricordo solo tre ragazze: Paola Rota, Serena Sinigaglia, Emma Dante.
Quindi: ho detto che quello spettacolo fu un gesto fondativo perché conteneva, in nuce, molto del teatro di oggi.
Conteneva le persone, ma, quello che importa, conteneva le idee.
Nel cast, prima, ho dimenticato gli organizzatori, ne dico uno per tutti: Giorgio Guazzotti.
L´ho detto per ultimo perché parto da lui per raccontarvi le idee del Canto.
Forse il Canto per Torino è stato l´ultimo spettacolo di Giorgio Guazzotti. Giorgio prima di fare teatro lavorava alla Olivetti. I suoi maestri, quindi furono, naturalmente Paolo Grassi, ma, prima di lui, Adriano Olivetti. Adriano Olivetti, negli anni Cinquanta fondò un movimento politico che si chiamava "Comunità". Uno degli obiettivi del Movimento di Comunità era il federalismo... Negli anni Cinquanta.
Ma cos´era il federalismo di Adriano Olivetti? Era che nelle fabbriche di Ivrea ci lavorava la gente di Ivrea, del Canavese. Gente che, finito il lavoro in fabbrica tornava nella vecchia cascina di famiglia e fino al tramonto lavorava anche un po´ la terra...
Sfruttamento intensivo della manodopera?
No: antidoto all´alienazione. Comprensione della complessità del lavoro e dei suoi processi. Per quest´idea di federalismo Adriano Olivetti, naturalmente fu accusato di xenofobia: “Non vuole gli immigrati a lavorare nelle sue fabbriche: razzista!”...
Ma il suo federalismo non era solo questo. Era una cosa sottile che si chiama comprensione degli opposti. Mentre ad Ivrea voleva solo indigeni, Olivetti andava a costruire fabbriche a Pozzuoli e a Matera, perché campani e Lucani restassero a lavorare nella loro terra a valorizzare la loro terra. Non chiudersi per paura degli altri, ma raccogliersi per relazionarsi agli altri.
Il contrario di quello che faceva la FIAT negli stessi anni, che deportava migliaia di persone, costringendo il territorio piemontese a salti mortali urbanistici che solo adesso cominciamo ad assorbire. Ecco, io penso che nel DNA di Guazzotti fosse rimasta quest´idea olivettiana di federalismo, e credo che lui l´abbia trasmessa al Canto per Torino.
Dicevo che il Canto è stato un gesto fondativo: ma i gesti fondativi, originari, non hanno alle spalle il nulla. Costruiscono il futuro perché comprendono il passato. Uno come Richi Ferrero, per esempio, faceva installazioni urbane già negli anni Settanta. Faceva atterrare aeroplani nelle piazze molto prima della Fura del Baus e faceva ballare acrobati sui tetti quando il Cirque du Soleil non era neanche un progetto... Ecco, quest´idea della spettacolarità urbana si è capito cos´era chiaramente solo nel 2006, con le Olimpiadi, ma era già contenuta nel Canto per Torino. Mi spiego: viviamo in un flusso di comunicazione continuo: cinema, internet, telefonini, televisione. La visibilità di un prodotto passa attraverso questi mezzi. Ma il teatro non è uno di questi mezzi. Il teatro dà una notorietà molto circoscritta. E´ un media ma non è un mass-media. Il teatro è antico, come le città. Le città ormai sono grandi musei a cielo aperto, parchi tematici che hanno per tema sé stesse. Sono prodotti da promuovere, questo non deve più scandalizzare nessuno. Ma sono anche luoghi di concreti rapporti umani. Se la città come prodotto culturale da promuovere ha bisogno dei mass media che ne moltiplichino l´immagine, la città come luogo concreto dei rapporti umani ha bisogno del teatro, che serve a comunicare senza mediazioni. Se il cinema e la televisione servono a far vedere un prodotto fuori dalla fabbrica, il teatro serve a concepire al proprio interno il prodotto, a far funzionare la fabbrica. Se il mondo assiste al "grande evento Torino" attraverso televisione e cinema, il grande evento Torino funzionerà perché c´è una fabbrica che lavora per produrlo. E deve essere una fabbrica che si nutre di rapporti umani quotidiani. Ecco un´altra idea, fondata nel Canto per Torino, che poi sono due: la grande spettacolarità urbana è una possibilità di teatro del futuro. E il teatro del futuro, come quello del passato, è fatto di ambienti culturali. Se i mass media illuminano la città dall´esterno, come i bengala che durante i bombardamenti lanciavano gli aerei degli alleati, il teatro illumina la città dall´interno, come una buona rete di lampioni.
Il Canto per Torino era un ambiente culturale perché coniugava il territorio e la spettacolarità, l´evento e la continuità.
Dico ancora due idee del Canto . Ce ne sarebbero tante ma ne dico due: Marco Paolini non era in scena. Ma veniva alle prove e mi suggerì il finale dello spettacolo, come aveva fatto tante volte per i nostri spettacoli precedenti. Ricordo Marco Paolini perché è l´incarnazione della narrazione. E un´altra idea incastonata nel DNA del canto, naturalmente, era la narrazione. E io faccio fatica a trovare un'altra categoria della comunicazione che negli ultimi anni sia nata dal teatro e abbia trovato così ampia diffusione nella società: dalla scuola alla scienza, dal giornalismo alla politica. Credo che la narrazione dia senso ad anni di teatro di ricerca, perché si fa ricerca per trovare idee che poi contagino la società, permeandola in tutte le sue articolazioni. Altrimenti trionfa la vanità autoreferenziale.
L´ultima idea che fondava il Canto per Torino era la sobrietà. Soprattutto economica. Questo spettacolo così carico di promesse, con un cast così ricco, costò pochissimo. E qui devo ancora ricordare Giorgio Guazzotti che alle mie lamentele per le ristrettezze rispose: “Non devi arrabbiarti per aver speso meno, devi essere orgoglioso”.
Aveva ragione: venivamo da un periodo in cui era un vanto per i registi sforare i budget, sfasciare i bilanci dei teatri. E critici e studiosi li aizzavano... Invece nel Canto eravamo riusciti a contenere i costi (anche perché i soldi erano quelli, ed erano pochi), però io non avevo rinunciato a niente. Certo le paghe di tutti erano molto basse, ma nessuna idea aveva dovuto essere sacrificata. Avevamo dovuto razionalizzare, naturalmente. Roberto Tarasco, uno degli uomini più detestati del teatro, aveva fatto i salti mortali per stare nel budget: e forse è per questo che lo si detesta. Io invece gli sono riconoscente. E sono contento di aver seguito anche in questo caso il consiglio di Giorgio Guazzotti, che mi disse, dopo una discussione piuttosto concitata con Tarasco: quello lì tienitelo d´acconto. Me lo sono tenuto d´acconto e grazie a lui, sedici anni dopo il Canto per Torino, siamo riusciti ad applicare la stessa sobrietà a Rusteghi, lo spettacolo in scena in questi giorni al Carignano. Il bilancio di Rusteghiall´inizio era il doppio di quello che abbiamo usato. Alla fine abbiamo speso la metà del budget. Ma come nel Canto io non ho dovuto rinunciare a nessuna idea d´arte. Anche in questo caso le paghe di tutti sono molto basse. Ma di questi tempi essere riusciti a dimezzare il costo di produzione di una spettacolo ci riempie d´orgoglio. Come abbiamo fatto? Abbiamo razionalizzato. Abbiamo applicato la sobrietà del Canto per Torino. Si può fare anche nelle grandi istituzioni: ci vogliono magari sedici anni e bisogna essere disposti a farsi detestare, ma si può fare. E qui voglio chiarire bene una cosa: i tagli alla cultura sono uno scandalo perché sono inutili. Se si azzerassero completamente il bilancio dello Stato risparmierebbe un´inezia, perché i soldi che in Italia si spendono per la cultura sono un´inezia: quindi non solo non si devono tagliare, ma stato, regioni e città dovrebbero raddoppiarli, triplicarli, nel proprio interesse. Ma questo non mi impedirà mai di dire che il mondo della cultura spreca, specie nelle grandi istituzioni. E questo lo rende impopolare. La vanità autoreferenziale di certe scelte costringe poi a mentire sul fatto che la cultura costa così. Non è vero! Per la cultura si deve spendere di più ma deve costare meno. Si può fare! Si deve fare perché continuando a difendere quel poco che rimane, si legittimano i nemici della civiltà a continuare a tagliare, come di fatto stanno facendo. In questo momento la difesa dell´esistente giustifica solo la politica dell´interesse immediato, che strumentalizza la cultura, come l´urbanistica, l´economia e tutto il resto al mantenimento esclusivo del proprio potere. Adesso ci vogliono le idee. E qui a Torino, dal Canto per Torinoin poi ne abbiamo prodotte parecchie. Bisognerebbe prenderle e metterle in produzione.
Dopo le Olimpiadi Gabriele Ferraris sulla “Stampa” scrisse che il teatro era rimasto fuori dalla nuova Torino. Allora me la presi un po´. Ma come? Le cerimonie olimpiche o la festa della 500 non sono state il cuore della rinascita? Bookstock non è stato un simbolo della nuova Torino? E quelli non erano spettacoli teatrali? Non è anche quello il teatro della nuova Torino? Glielo dissi, un giorno che lo incontrai. “Ah, già”, fece lui, “ma il mondo del teatro quello non lo considera mica teatro”. “Ah già”, pensai io.
Insomma, tutte le idee del Canto per Torino, il federalismo teatrale, la cura, il matrimonio di ambienti culturali e grande spettacolarità, la coniugazione di eventi e territorio, la sobrietà... ecco, tutto questo potrebbe essere riportato ad un valore di fondo che voglio ribadire: da quando mi occupo di teatro ho sempre visto contrapposizioni ideologiche: il teatro di regia contro il teatro d´attore, il teatro d´arte contro il teatro commerciale, il teatro di ricerca contro il teatro di tradizione, e chi più ne ha più ne metta... ma non si tratta di realtà: sono categorie ideologiche novecentesche. Sono convinto che vada salvaguardata la memoria di questi fenomeni. Ma, proprio per questo bisogna prendere atto che non esistono più; fatto questo primo passo, si potrà smettere di catalogare, classificare, separare, dividere, contrapporre - come si faceva nel Novecento - e cominciare a comprendere.
E questo era quello che volevo dire sul Canto per Torino. Ma se ho ancora qualche minuto, visto che ho ricordato Giorgio Guazzotti che è stato un po´ il padre di quell´esperienza, credo che questa assemblea sia il luogo giusto per ricordare un'altra persona che a modo suo si è assuto la responsabilità di collegarci il passato con il futuro, perché di questi tempi credo che questa sia la cosa importante.
Il Professore era alto due metri, aveva occhiali rotondi con la montatura nera e di scarpe portava il 50. Aveva più o meno l´età di Grotowski, di Barba, di Peter Shumann. Una generazione di maestri che nella seconda guerra mondiale erano ragazzini. Gente che aveva bisogno di piedi grandi per camminare nel deserto di cenere del dopoguerra. E loro ci hanno viaggiato in lungo e in largo, cantandolo. Il Professore dirigeva il Centro di Ricerca Teatrale di Milano. Nel 1987 produsse un mio spettacolo, Riso amaro. Dopo il debutto mi invitò a cena. Mi parlò a lungo dei maestri, delle loro gesta e anche dei contrasti che aveva avuto con loro, perché avevano certi caratterini... Alla fine mi disse, con quel suo accento veneto che ti risucchiava dentro ai libri di Meneghello: “Io quest´anno ho prodotto, oltre al tuo, altri due spettacoli. Tre spettacoli di gente della tua età. Sai che non ne ho capito neanche uno?”. Non lo disse malevolmente. Lo disse come un padre deluso, comprensivo ma inappagato. Il che, dopo due ore di racconti sulla magnificenza dei maestri, a me suonò più o meno così: noi che abbiamo visto la guerra sì che siamo forti, voi che siete cresciuti a nutella ce la mettete tutta, ma in fondo siete un po´ una generazione di mezze seghe. Sono passati più di vent´anni da quella cena, ma la ricordo come fosse adesso, perché io sono stato sempre molto curioso di questa generazione di padri che sono andati in guerra da bambini, ma erano già fortissimi, come Achille che a quindici anni era già "la Bestia". Quei grandi uomini e le loro avventure hanno nutrito la mia infanzia, li avevo sempre ammirati e, perché no, temuti. Uno spettacolo su Riso amaro, tratto dal film di Giuseppe De Santis con la Mangano che faceva la mondina, era un omaggio, era un ponte che volevo gettare tra la mia generazione e la loro... E lui non aveva capito.
Un´altra volta ci ritrovammo nel foyer di un teatro dopo che avevamo visto uno spettacolo brutto. Lui disse che di spettacoli come quelli dei maestri non se vedevano più. Erano passati pochi mesi dalle Troiane di Thierry Salmon, che secondo me era un capolavoro, e lui l´aveva ospitato nel suo teatro, a Milano. Glielo dissi. E lui per un attimo guardò dentro ai dei suoi occhiali neri, poi disse: “Ah, sì”. “Tutto qui?” “Ah, sì.” Non una parola di più.
Ma dài! Come si fa a crescere sani con dei padri del genere? Se siamo venuti su mezze seghe, sarà un po´ anche colpa loro, o no? I figli bisogna incoraggiarli, rassicurarli, ogni tanto. La ruvidezza dei nostri padri, che per tanto tempo ho scambiato per insensibilità, narcisismo, perfino cinismo, e che certamente era un po´ di tutte queste cose, la ruvidezza dei nostri padri col tempo si è stemperata in un sentimento di comprensione per gli ultimi "severi", per l´ultima generazione che ha visto il mondo prima del deserto di cenere, prima che scomparissero le lucciole, come diceva Pasolini.
Io sono sempre stato curioso di quando c´erano ancora le lucciole, di com´era il nostro pianeta prima del consumismo. Mi sono sempre piaciuti gli uomini antichi che immagino lo popolassero, e di cui la generazione dei padri custodisce la memoria genetica. Per questo ho fatto spettacoli dai film neorealisti, dai romanzi di Meneghello, per questo ho raccontato del Vajont e di Olivetti, miti della generazione dei padri. Per gettare ponti. Così per tanto tempo mi ha sconcertato quella freddezza da parte loro. Però a ripensarci adesso una cosa devo riconoscerla: al Professore e a certi filibustieri come lui, che poi, per fortuna, non sono neanche tanti, a questi rusteghi che ti fanno le pulci su tutto, che pretendono molto e che alla fine pagano poco e sempre molto in ritardo, io un po´ di gratitudine gliela devo. Perché qualcosa me l´hanno dato. Un´attenzione ruvida, sempre "interessata", ma concreta, che alla fine mi ha spinto a raccontare le storie che ho raccontato, magari anche solo per fargliela vedere. E col tempo ho anche imparato che la generazione dei padri, nonostante lo abbia sempre negato, ha fatto pedagogia, in quel loro modo burbero, e sempre vergognandosene un po´, ma l´hanno fatta, eccome.
Quell che segue è il testo che Gabriele Vacis ha letto in apertura del suo intervento.
Pompa magna o necessità. In mezzo niente. Girano parole che per un po’ tengono banco. Qualche tempo fa, nei circoli teatrali, uno spettacolo poteva essere “intrigante”, per dire che non era riuscito del tutto, ma aveva un certo non so che. Poi arrivò “forte”. Non nel senso di sei forte, papà! Ma nel senso di duro, denso di significato. Ultimamente va forte l’aggettivo “necessario”. E’ necessario il teatro fatto da non attori. Possono essere barboni o prostitute, extra comunitari, carcerati, animali… Oppure deve raccontare di catastrofi, di mafia, di malattia mentale… Ecco: questo è il teatro necessario. Precisazione: il tono ironico che mi scappa non è canzonatorio. Cioè: a me piacciono molto certi spettacoli necessari. Lo dico anch’io, ogni tanto: questo spettacolo è necessario. Spero addirittura di averne fatto qualcuno. E’ che quando si abusa delle parole mi scappa l’ironia… E parlo molto male di prostitute e detenuti da quanto mi fa schifo chi ne fa dei miti… Quando è moda è moda… Cantava Giorgio Gaber. Ecco: comincio a provare fastidio per certe parole quando diventano moda. E non servono più a distinguere, a precisare. Servono ad omologare. Così c’è in giro molto “teatro necessario”. Più di quello che serve.
E poi c’è la pompa magna. La pompa magna è un carattere del teatro. Grandiosità, sfarzo, magnificenza è quello che vogliamo vedere. La pompa magna è il ricordo di quando la società si rappresentava nel teatro. Dal settecento ad oggi, gli attori stanno sul palcoscenico, ma anche gli spettatori stanno nei palchetti. Da sempre a teatro si va per vedere ma anche per “farsi vedere”. Oggi per farsi vedere si va in televisione, off course, ma la pompa magna, l’esposizione del meglio di sé, è bello che rimanga nel DNA del teatro. Anche qui, però, c’è il rischio dell’abuso. La pompa magna da sola diventa vuota ostentazione. Bisognerebbe che il teatro riuscisse ad essere, insieme, pompa magna e necessità. Qualche volta ci riesce. Ma nel teatro di oggi la pompa magna e la necessità sono i nomi di due circoli abbastanza ristretti che difendono le loro poetiche e le loro abitudini di clan. In fin dei conti quello che difendono è il loro diritto ad esistere fuori dal mercato. Il teatro della pompa magna è in genere prodotto dai teatri stabili pubblici che hanno bilanci enormi rispetto a tutti gli altri. Questo genera due economie: l’economia dello spreco e l’economia della miseria.
Spreco o miseria. In mezzo niente.
L’economia dello spreco mette milioni su spettacoli che vedono in pochi e hanno scarso impatto sul dibattito culturale (a volte non vanno in scena nel totale disinteresse della “società civile”). L’economia della miseria coinvolge tanta gente non pagata, che inventa stratagemmi come seminari, che sono prove mascherate, per ridurre costi di produzione già all’osso.
Tutte e due sono economie surreali. Non hanno alcun rapporto costo beneficio. Il teatro, per definizione, è fuori del mercato. Ci ha messo tanti anni ad accettare questa verità senza umiliazione. Non è riproducibile, e quindi difficilmente mercificabile. In un mondo dominato dal mercato questo è un valore. E’ un valore perché, senza l’assillo del profitto si può fare ricerca, innovazione. La ricerca e l’innovazione devono svolgersi nel raccoglimento e nella concentrazione dei piccoli numeri. Ma poi i risultati della ricerca devono essere proiettati nel mondo. E perché il mondo ti ascolti devi essere autorevole e farti capire. Questione di equilibrio. La nuova presidente del Teatro Stabile, Evelina Christillin, ha esordito con una parola: eccellenza. Bello. Il teatro della città dovrebbe perseguire l’eccellenza. Ma cos’è l’eccellenza? La Christillin lo sa bene perché è una delle persone che hanno fatto il miracolo olimpico. Le Olimpiadi hanno fatto il botto perché hanno coniugato lo show mondiale e il genius loci, perché hanno messo insieme grandi artisti e migliaia di volontari, perché hanno trovato l’equilibrio tra la pompa magna e la necessità, tra lo spreco e la miseria. L’eccellenza è soprattutto equilibrio. Chissà che dopo il miracolo olimpico, ad Evelina Christillin e al suo nuovo consiglio d’amministrazione, non riesca anche il miracolo teatrale. Buon lavoro.
(Gabriele Vacis, 9 settembre 2007)
BP2011@MATERIALI Bandi? No grazie L'intervento nella sezione Il migliore dei bandi possibili? di Marco Maria Linzi
Il Teatro della Contraddizione non è un gruppo anarchico che a priori nega regole e istituzioni, ma certamente guardando la società politica e quello che produce oggi in termini culturali, sociali.
Come possiamo pensare che i suoi bandi, i suoi parametri non la rispecchino?
Questo può accadere solo per distrazione... disinteresse...
Io parto dall'idea che l'arte in genere, non solo il teatro, non possa essere condizionata da modelli preesistenti, decisi perlopiù con la funzione di rappresentare chi li ha pensati:
la politica dei grandi eventi è il simbolo del bisogno delle istituzioni di autorappresentarsi... una logica che non dovrebbe appartenere alle istituzioni, che, al contrario, dovrebbero puntare su ciò che il cittadino comune non è in grado di rintracciare da solo; ma capita che gli assessori spesso siano piccole aziende e abbiano la necessità di vendere se stessi in cambio di consenso. Ci sono esempi anche paradossali.
Abbiamo aspettato non ricordo nemmeno quanti anni, per avere la possibilità di rivedere a Milano un'artista come Pina Bausch e non si può dire che non sarebbe stato un evento, eppure abbiamo dovuto aspettare la sua morte per rivederla.(a prezzi accessibili a tutti ovviamente... quasi quaranta euro).
Cosa produce secondo noi rincorrere questa non-politica culturale che sta dietro molti bandi?
Cambiare la propria prassi... e questo potrebbe essere un vantaggio se potesse avere un contatto reale con le proprie scelte, ma è raro che accada... oltretutto io credo che sia l'arte a dover segnare le vie... le istituzioni devono conoscere il territorio, raccogliere le sue indicazioni e organizzarle in modo che sia tutelato il diritto di scelta dei cittadini.
Cosa manca nei bandi? L'immaginazione... l'arte è un mondo in continua trasformazione, elastico, imprevedibile, che per sua natura fugge dalle classificazioni... eppure tutti i bandi si assomigliano, da anni... chiedono una solidità finanziaria preesistente senza considerare la storia che ha strappato all'impossibile quella realtà... perché solo così si può sopravvivere in condizioni come queste... inventando... eludendo... marginalizzando anche bisogni primari pur di intaccare quell'impossibilità... quindi ci si trova ad avere un mondo improvvisato che non si può relazionare con modelli economici di un azienda solida, oppure si costruisce un progetto che finga di contenere
le linee guida del bando per fare poi tutt'altro. Troppa fatica...
Nei bandi è fondamentale che la struttura abbia al suo interno figure professionali che più o meno ricoprano ogni competenza specifica Sembra pornografico, non professionale, sopperire con la propria inventiva e il proprio lavoro a questa mancanza. A queste condizioni il bando ti suggerisce: “Meglio non fare teatro”.
I numeri in generale sono il parametro fondamentale, questo cosa può portare? A non prendersi alcun rischio... è umano che l'obbligo di raggiungerli mi spinga a non rischiare in produzioni che non abbiano un risultato immediato e garantito... ne va della mia sopravvivenza come teatro, come compagnia.... ma queste scelte alla fine snaturano le potenzialità culturali di una città.
L'alternativa? Faticosa... tutto si inventa con una rete di solidarietà artistiche... partendo senza fondi, spesso arrivando senza fondi, in nome di un atto artistico che sulla carta non avrebbe dovuto esistere...
Oggi pare che anche il comune di Milano adotti pratiche da teatro di ricerca... chiedendo di produrre non in nome di un atto presente ma di una promessa futura, senza nessuna garanzia: come nella recente vetrina dell'Expo dove non solo gli artisti non erano pagati ma dovevano pagare loro per esistere... questa potrebbe essere una buona idea... azzerare tutti i finanziamenti? forse rimarrebbe solo chi ha veramente qualcosa di urgente da dire...
Confesso che questa provocazione fatta da chi non ha sovvenzioni è facile... ma dall'altra parte cosa succede? si spinge il teatro ad essere un'azienda e allo stesso tempo poche tra queste realtà vengono finanziate, le altre si trovano a competere non in un mercato libero ma drogato...
Mi rendo conto che qualcosa va parametrato... per uscire dalla logica dell'arbitrio... eppure occasioni per seguire altre vie ci sono e altre possono essere immaginate.
Come la Festa del Teatro a Milano, occasione unica per il pubblico di scoprire territori inesplorati
a costi irrisori, tali da far correre il rischio di entrare in luoghi di perdizione quali i teatri di ricerca. Ovviamente è stata cancellata.
Nel 2009 il Teatro della Contraddizione ha vinto il premio del pubblico per il miglior spettacolo prodotto nella città di Milano; per la prima volta è stato il pubblico a scegliere... ma prima ancora ha avuto la possibilità di conoscere realtà di cui non sapeva nemmeno l'esistenza.
Cosa è successo dopo? Il premio è stato cancellato l'emersione di un'immaginazione alternativa distrutta... dopo un solo anno?
Perché? C'è qualche relazione col fatto che tutti gli artisti premiati dal pubblico venissero dal teatro di ricerca?
Ma Milano è un cimitero di occasioni create e poi cancellate
Quest'anno nemmeno la guida ormai storica sui cartelloni dei teatri milanesi è stata pubblicata... I soldi ai teatri o la possibilità per i cittadini di conoscere cosa accade in città?
Se bisogna scegliere, sono sempre per la seconda ipotesi.
In conclusione va detto per onestà che chi si prende la responsabilità di essere alternativo deve essere cosciente di quello a cui va incontro... e accettarne le conseguenze in cambio dell' utopica libertà di agire il più vicino possibile a ciò che crede sia il suo compito...
Il fotoromanzo del Risorgimento del teatro (secondo atto) La settima edizione delle Buone Pratiche a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di Paola Maria Di Martino, Silvia Limone, Sara Giurissa, Alessandra Di Nunno, Laura Pecci
Se vuoi leggere (o rileggere) la prima parte, clicca qui
Da Torino all’Europa: parliamo di Festival
coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino
Sergio Ariotti (Festival delle Colline Torinesi)
La crisi non giustifica i tagli, esordisce Ariotti. Dal punto di vita del bilancio della Stato, il risparmio è irrilevante: i tagli sembrano più frutto di una volontà politica di punire la cultura. Del resto non è vero che tutti i paesi europei stiano tagliando l’investimento in cultura:
· la Germania per la quinta volta consecutiva aumenta la spesa pubblica per la cultura a livello nazionale, anche se le spese dei Länder sono diminuite del 2,8%;
· in Francia, nel 2010, il bilancio dedicato alla cultura e stato aumentato del 2,18%;
· in Inghilterra, dove si vive una pesantissima crisi, abbiamo visto che i tagli sono sostanziali;
· in Spagna la cultura è stata tagliata del 3%.
Per quanto riguarda Torino, la città ha guadagnato in immagine: adesso la gente ci viene viene apposta per visitare il Museo del Cinema, o per Luci d'Artista... Anche per questo, in tempi di crisi bisognerebbe incrementare i fondi alla cultura. Noi però abbiamo Tremonti che dice “Con la cultura non si mangia”. E così mette in crisi i risultati di quindici-vent’anni di politiche culturali a Torino. D’altra parte, visti i pochi voti che raccolgono gli assessori che si occupano di cultura, significa che il settore è davvero poco considerato da politici ed elettori.
Passando alla funzione specifica dei festival, Ariotti spiega che hanno il ruolo di sprovincializzare e di promuovere collaborazioni internazionali. I teatri stabili lo fanno meno. Adesso il Festival delle Colline è in difficoltà.
Noi operatori, conclude Ariotti, abbiamo grandi responsabilità nei confronti delle nuove generazioni e dobbiamo avere il coraggio di affrontare sfide nuove, soprattutto nel nostro rapporto con la politica.
Alessandra Belledi e Lisa Gilardino (Tre per uno: la rete dei festival di Parma)
Il Festival di Parma nasce dopo un anno di dialogo da tre realtà: Teatro Due, Teatro delle Briciole e Lenz Rifrazioni. E’ una fucina di teatro, laboratori, eventi per ogni tipo di pubblico.
Abbiamo anche identificato un luogo comune nel TCafè di Piazza del Duomo, dove avvengono presentazioni, incontri con gli artisti, dialoghi.
Stiamo studiando nuove forme di abbonamento nell’ottica di un maggiore dialogo con il pubblico.
In sé non si tratta di un progetto nuovo, piuttosto di buonsenso. L’iniziativa valorizza i festival storici del territorio di Parma, in un momento storico in cui c'è l'ossessione della ricerca del nuovo. L’obiettivo è cercare di educare il pubblico: ma sappiamo che questo richiede sforzo e tempo.
Il festival si svolge nel mese di novembre, che diventa il mese del teatro, per farlo scoprire al pubblico. Vuole essere un impulso all’informazione e un invito al pubblico a seguire la nuova stagione.
Siamo consapevoli della fine di un’epoca ma, concludono Belledi e Gilardino con uno slogan assai efficace, non distruggiamo la nostra esperienza.
Gigi Cristoforetti (Torinodanza)
Sento forte, dichiara Cristoforetti, in questa sede la necessità di proposte concrete.
I festival sono lo specchio della società, connessi quindi ai suoi problemi. Ritengo debba esserci chiarezza nel definire la nostra identità per essere percepiti: una identità anche di gusto, che non deve nascere da scelte facili o calate dall’alto.
Dobbiamo trovare il dialogo con la società, che si sta trasformando.
Il Festival Torino Danza cerca di rivolgersi a tanti settori di pubblico. Importante è avere un tema intorno a cui articolare la produzione. E’ importante anche il racconto: spesso quando torniamo a vedere un artista, ci chiediamo: “Che cosa avrà di nuovo da raccontare?”.
Torinodanza, nato e organizzato per focus (classico, performativo, di ricerca...), nel 2010 aveva come idea di base “Il gesto del disagio”, ben rappresento dal lavoro di Alain Platel, e carica di speranza. Nel 2011 Torino Danza si incentrerà su aspetti visionari, cercando di dare spessore a un presente che pare non avere visioni.
Cristoforeti conclude: “Ma dobbiamo fare ancora molto per migliorare le relazioni, per creare e condividere istanze collettive.”
Silvia Bottiroli (Festival di Santarcangelo)
Il Festival di Santarcangelo, ricorda Silvia Bottiroli, è stato fondato nel 1971. Dal 2009 è nato un progetto triennale affidato a tre artisti, Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio), Enrico Casagrande (Motus) ed Ermanna Montanari (Teatro delle Albe); e a tre critici osservatori: Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci. L’idea è quella di coralità, di collettivo di lavoro con un orizzonte comune.
Artisti e critici sono tra loro felicemente inconciliabili. I critici si assumono responsabilità, si sporcano le mani, e si costruisce insieme.
Vogliamo che il nodo non sia teorizzato, ma vissuto nella pratica: è un’avventura!
Partendo dal presupposto che l’artista è dismisura, stiamo cercando di unire due potenze: quella visionaria e quella riflessiva.
Non è una situazione facile. ll budget è di 400.000 euro di budget all’anno, ma va tenuto presente che a Santarcangelo non esiste di fatto un vero teatro.
Il punto di criticità è la collettività: non c’è un direttore. Questo crea ovviamente discussione su tutto. Vogliamo che le responsabilità siano condivise. Lavorare con poca gerarchia è difficile, ma davvero molto fertile.
L’orizzonte di questo trienno? La ricerca di un rapporto forte con la città, con la comunità, permettendo l’incontro con gli stranieri (in questo caso gli artisti), creando l’emozione dell’incontro tra loro e il pubblico.
Il festival vuole essere un'idea forte di democrazia nata da sei persone.
Ora il triennio sta per finire. In futuro, cercheremo di portare avanti questa idea mirando a migliorare l’apertura e i rapporti con altre realtà.
Beppe Navello (Fondazione Teatro Piemonte Europa)
Navello parte da una consapevolezza: la situazione sta cambiando in peggio. E chiede agli assessori: Torino e il Piemonte devono continuare nella loro trasformazione?
Le ultime politiche hanno creato grosse ferite e le risposte per ora sono inadeguate. Le realtà culturali continuano a collaborare tra loro ma questo non è sufficiente.
In rimo luogo, è un problema di obiettivi. Le politiche della cultura dovrebbero essere condivise da tutte le forze politiche, come accade in Francia o Germania.
Andrea Nanni (Armunia)
In autunno ha ricevuto il passaggio di testimone in Armunia da Massimo Paganelli.
Armunia, spiega Nanni, è un'associazione fra diversi comuni. Nel corso di questo passaggio istituzionale, c'è la volontà di aprire ai privati, per rilanciare l’associazione. Armunia è inoltre legata al sistema delle residenze in tutto il territorio italiano. Gestisce attività tutto l’anno, fra cui il festival In Equilibrio, d’estate, di solito a inizio luglio, che è il momento di maggiore visibilità, ma c’è l’appuntamento dedicato alla poesia a giugno, da quattro anni. Inoltre è un punto di riferimento per le realtà associative locali e riveste un ruolo di mediazione culturale sul territorio con vocazione nazionale e internazionale. Stamani, prosegue Nanni, si parlava della frattura fra il mondo della cultura e il resto del paese. Ne individua alcune cause:
1. una strategia politico-mediatica efficace nel rendere il paese ignorante e manovrabile;
2. la responsabilità del mondo dello spettacolo, di artisti e organizzatori, che non sono riusciti ad avvicinarsi al pubblico. Ciò non significa abbassare il livello, fare para-tv, ma al contrario alzarlo, fare attività che parlino a più livelli e non si limitino a un pubblico di addetti ai lavori, ma capace di entrare in rapporto col territorio.
Per questo con In Equilibrio, sempre orientato alla nuova scena, Nanni cercherà di fare non solo spettacoli nel Castello Pasquini, all’interno di una struttura, come finora, ma di sfruttare anche il parco intorno al castello con attività rivolte a bimbi e genitori. Cercherà anche di entrare nel disco urbano con spettacoli in strada, negozi, case, progetti che coinvolgano anziani, bambini eccetera.
Per rispondere alla domanda sulla funzione dei festival, la divide in due parti, quella che era in passato e quella che è oggi. Il festival era e dovrebbe ancora essere l’eccezionalità della festività. Di fatto, vista la mancanza di comunicazione fra i compartimenti che compongono il sistema teatrale italiano, i festival hanno svolto una funzione di supplenza, dando sostegno ai giovani artisti senza che poi trovassero sbocco negli stabili – salvo eccezioni, ma si sa che le eccezioni sono la conferma della regola. I festival necessitano di novità: tuttavia, se i giovani non trovano sbocco nel sistema, i festival diventano un incentivo a proporre novità senza feedback: insomma, si tratta di un meccanismo rischioso.
Il mercato è il mondo degli scambi: quando si parla di marketing, si parla di scambio e di comunicazione. Internet è una forma di intrattenimento più forte della televisione, ma quest'ultima è l’unica che viene accusata di sottrarre attenzione al teatro. Il mondo dei social media, con l'avvento di internet, ha creato quello dei consumers. La vita è cambiata rispetto a dieci anni fa, e dunque è riduttivo parlare solo di marketing come se avessimo di fronte un sistema monolitico.
Nani conclude il suo intervento con due annotazioni. Primo: la crisi, che non è sempre negativa, ci impone di cambiare i paradigmi e trovare nuove soluzioni. In secondo luogo, i social media non sono così economici come si è detto. La Regione Toscana per esempio spende 12.000 euro per promuovere la parola “Toscana” su Google.
Natalia Casorati (Mosaico), Due networkper la giovane danza d’autore
Il direttore artistico del festival Interplay spiega che la manifestazione che dirige è rivolta a giovani danzatori, che è da sempre un festival di nicchia, per artisti emergenti, sempre molto selettivo, a livello sia nazionale sia internazionale.
Non è facile riempire un teatro con la danza giovane: certe scelte artistiche hanno premiato il festival, che ha iniziato portando la danza fuori dai teatri, strade, negozi, gallerie d’arte – location non convenzionali, contaminazioni di danza urbana: è una sezione forte per avvicinare nuovo pubblico. Non per forza è necessario il palco, che richiede anche tutta un’altra struttura.
Interplay è il frutto di tre network, sono vere vetrine per la danza giovane in Francia. Così Mosaico ha potuto sostenere giovani realtà in condivisione.
La principale vetrina è a settembre, e offre ai giovani un’opportunità conoscere (e farsi conoscere da) organizzatori e addetti ai lavori.
Mimma Gallina coglie l’occasione per ricordare che la danza è la Cenerentola dei finanziamenti, ma anche un settore che esprime forse la creatività più vivace.
Velia Papa (Inteatro)
All'estero l'anzianità e l'esperienza sono considerati un fattore negativo, perché generano immobilità: ci si chiede perché alcune persone siano ancora allo stesso posto dopo tanti anni. In Italia l'immobilità è causata da una necessità di sopravvivenza.
Il festival è un luogo di confronto e di incontro, dove far dialogare le persone, pubblico e artisti. Armunia non è più un festival, nemmeno Santarcangelo, perché hanno raggiunto una dimensione temporale e produttiva diversa. Non hanno più bisogno della forma del festival, che si esaurisce in un breve arco di tempo, ma sono diventati luoghi di produzione e di creatività permanente, dove si sostengono gli artisti al fine di escogitare nuove soluzioni per il teatro. Sono la sede ideale per un lavoro di ricerca, poiché sono opportunamente attrezzati.
A breve, annuncia Vela Papa, a Inteatro partirà un uovo progetto, Legàmi, che vedrà la collaborazione e l'incontro di artisti da tutto il mondo, che produrranno alcuni lavori da poter mostrare in sede di festival. L'obiettivo è quello di aiutare la ricerca.
Il perfezionamento professionale ha senso se sfocia in un progetto e non se è fine a sé stesso. Per questo è necessario un luogo dove è possibile sperimentare, grazie a uno spazio adeguato e al confronto con il pubblico.
Un nodo critico, specifica Velia Papa, è la difficoltà di “fare rete” in Italia. Certo, si sono fatti alcuni tentativi con i festival, oppure cercando l'appoggio di enti stranieri. Ma in generale siamo così presi dalla necessità di andare avanti, dalla fatica di sopravvivere, che la rete diventa un lusso. La creazione di una rete è possibile solo tra gruppi che non hanno la preoccupazione immediata della sopravvivenza, e quindi possono pensare di andare oltre: in altri paesi ci si accorpa anche tra settori diversi, proprio per andare avanti. In Italia mancano invece gli strumenti per approfondire il ruolo del teatro all’interno delle cosiddette “industrie creative”, per inserirlo in progetti culturali e politici.
Ouverture
Laura Mariani Un Risorgimento teatrale
Il periodo storico che ha preceduto l’unificazione ha visto la partecipazione di attori detti appunto “risorgimentali“: Gustavo Modena e Giacinta Pezzana erano mazziniani, ma anche Ernesto Rossi e Tommaso Salvini erano in prima linea nel 1848.
Anche nel primo Ottocento emergono alcuni momenti di crisi del teatro, ma Laura Mariani sceglie di soffermarsi sulla seconda metà del secolo, individuando alcuni nodi problematici:
1. Il tema della patria, la creazione di un teatro della nazione. Gustavo Modena è considerato il padre degli attori combattenti, impegnato non per un teatro alternativo, ma nazionale.
2. Nazione non come culla, ma come rete. Francia e Inghilterra erano da tempo stati unitari, a differenza dell’Italia non era ancora uno stato unito: quindi il nomadismo degli attori italiani non riguardava solo il nostro paese, ma tutto il mondo.
3. Modena veniva soprannominato il “mattaccio”. Egli era animato dall'utopia e dall'idea di un teatro fortemente politicizzato: lo dimostra il fatto che era disponibile non a fare teatro, ma a fare il suo teatro. Adelaide Ristori era invece l’attrice “marchesana”, portavoce di Cavour in Francia e Russia. Questi due attori combattono con presupposti diversi per un teatro comune, nazionale, rivolto al grande pubblico e rappresentano un unico modello.
4. L'ultimo problema è quello della cittadinanza: non si trattava più di sudditi, ma di cittadini. Il nodo è dunque quello della autonomia, della rappresentanza politica, e della battaglia per la cittadinanza femminile, ottenuta molto più tardi. La Ristori in quegli anni ebbe un ruolo importante grazie alla sua individualità e alle proprietà che gestiva autonomamente. La Ristori - madre, attrice, cittadina - combatte la cattiva fama della donna attrice. In quegli anni si pone il problema della rappresentazione delle donne fuori dagli stereotipi: bisogna rappresentare il femminile come soggetto vero.
Giovanna Marinelli illustra brevemente l’importanza dei bandi, in particolare per la pubblica amministrazione, e la necessità di individuare metodi e criteri per renderli efficaci, trasparenti e coerenti rispetto agli scopi. E’ proprio partecipando assieme alla giuria di un bando che alla stessa Marinelli e a Mimma Gallina è venuta l’idea di approfondire il tema nel quadro di Buone Pratiche e di realizzare una ricerca preparatoria.
L’analisi del contesto, gli scopi, i termini organizzativi ed economici, i tempi, la formazione dei funzionari incaricati a formulare i bandi e scegliere: sono tutti aspetti analizzati nell’intervento pubblicato sul sito e affrontati dalla ricerca, affidata ad Alessandra Narcisi e Sabrina Gilio, due allieve della Scuola Paolo Grassi di Milano, residenti a Roma.
Si è inoltre pensato di raccogliere due testimonianze critiche da parte di compagnie giovani: sulla funzione che hanno eventualmente avuto per la loro crescita e il rapporto con i bandi.
Alessandra Narcisi e Sabrina GilioI bandi per il teatro: una ricerca per le Buone Pratiche
La ricerca sulla situazione dei bandi in Italia si è svolta esclusivamente sul web, a partire da siti istituzionali degli assessorati alla cultura delle varie regioni (non esiste un sito unico che raccolga tutti i bandi affini) e da siti di enti privati, e si è in pate scontrata con il problema della trasparenza. Dal 2008 al 2010 sono stati presi in considerazione oltre 300 bandi e, tra questi,160 sono stati analizzati nello specifico.
Pochissimi sono i siti di riferimento, poche le fasce di consultazione ed inoltre manca un'area suddivisa per catalogazione dei diversi bandi. Tutto ciò ha reso la ricerca difficoltosa.
Le due ricercatrici hanno raccolto i dati e li hanno inseriti in un foglio Excel. Dai risultati si evince una prevalenza numerica di bandi nel nord del paese. La regione con il maggior numero di bandi è l il Lazio, a seguire la Lombardia, ma si fa notare che i bandi sono di indirizzo privato. Infine è da considerare rilevante la domanda crescente di finanziamenti da parte delle regioni Puglia e Sardegna.
Per quanto riguarda i finanziamenti, “almeno 50%” di autofinanziamento è la formula preferita dalla maggior parte dei comuni, che tentano di accontentare così tutte le realtà. In genere vengono assegnati circa 30.000 euro; nella sostanza si tratta di contributi contenuti e assegnati “a pioggia”.
Gli obiettivi generali sono quelli di incentivare l'aggregazione tra progetti e associazioni diverse, ma le finalità spesso non risultano chiare. I criteri di valutazione avvengono in base a un punteggio, che non di rado è in contraddizione con gli obiettivi generali del bando (esempio: si dice di voler sostenere i giovani, poi il puneggio reativo a questo punto è basso).
Dai bandi analizzati, si potrebbe partire dalle carenze per ipotizzare “il migliore dei bandi possibili”.
I criteri sono:
· l'individuazione dei fabbisogni secondo un'analisi del territorio (la Basilicata non ha lo stesso fabbisogno della Lombardia, per esempio);
· la valutazione dell'impatto del progetto nel territorio a breve e a lungo termine: ogni provincia incanala i fondi in cassetti diversi. Un intervento mirato andrebbe chiarito e differenziato per regione.
· vi è una mancanza di monitoraggio degli interventi realizzati. Manca lo scambio di informazione, nei progetti realizzati, tra finanziamenti e risultati ottenuti.
Matteo Pessione (Fondazione CRT) Le fondazioni bancarie e i bandi: l'esperienza della Fondazione CRT
Il migliore bando possibile è quello in evoluzione, secondo i bisogni del territorio e che sostiene attività che supportino il territorio. E' necessario cercare di attrarre nuove risorse dall’Europa, anche se la situazione in questo caso è molto diversa perché i paletti sono più stretti. Si cerca allora di finanziare realtà che abbiamo davvero la possibilità di svilupparsi a livello europeo. CRT tenta di affiancare i bandi ad una serie di attività di supporto. Per esempio il bando Sipario di CRT si pone i seguenti obiettivi:
· cerca di sostenere le compagnie giovani, per questo dà subito finanziamenti sopra gli 11.000 euro, invece che con fondi a consuntivo;
· cerca di capire la capacità di crescita, cioè ciò che succede dopo il finanziamento;
· cerca di valutare la capacità di comunicazione attraverso mezzi innovativi che abbattano le spese come per esempio i social network;
· offre supporto alla comunicazione (mancano figure manageriali);
· nei prossimi mesi si procederà alla creazione di una Onlus che si occuperà di agevolazione fiscale del territorio.
· Capacità di crescere. Dall'anno scorso alcune persone lavorano per effettuare delle valutazioni sul luogo. I social media sono strumenti utili.
Paolo De Santis (Tecnologia Filosofica)e Marco Maria Linzi (Teatro della Contraddizione) I bandi, pro e contro
Paolo De Santis (Tecnologia Filosofica)
Il bando è uno strumento che esste. E’ migliorabile o no, ma non si toglie. Tecnologia Filosofica è una compagnia complessa e sfaccettata, che guarda ai bandi come a un'opportunità. Per la compagnia il bando è un termometro per misurare la propria creatività e anche l'urgenza delle necessità (economiche). Può essere un aiuto per aprirsi all’esterno e verificare la propria credibilità. Ha una funzione maieutica.
Per molti anni la compagnia è sopravvissuta per vie trasversali, senza usufruire dei bandi. Buon elemento è il confronto con l'estero.
Marco Maria Linzi (Teatro della Contraddizione) Bandi? No grazie
Teatro della Contraddizione vorrebbe essere un'associazione anarchica. Anche per questo trende a tenere le distanze dai bandi: il rischio è quello di cambiare la propria arte per adattarla alle clausole del bando e quindi limitare l'immaginazione. I bandi si assomigliano troppo, a volte marginalizzano i bisogni primari, oppure reinventano la storia.
L'alternativa è faticosa: bisogna partire e spesso arrivare senza fondi. Questo è possibile attraverso la fratellanza tra progetti, e protagonisti.
Bisognerebbe azzerare tutti i finanziamenti (è una provocazione ovviamente, se arrivano li usano) perché spingono il teatro verso una direzione aziendale. Milano è un cimitero di iniziative nate e poi cancellate, andrebbe data la possibilità al pubblico di esprimersi.
In conclusione Giovanna Marinelli sottolinea la necessità che la politica e la pubblica amministrazione prendano posizioni precise e approfondiscano lo strumento dei bandi. E’ importante che i bandi siano garantisti per le espressioni artistiche, non per chi li emette (come rischia di avvenire) e che gestirli ci siano funzionari preparati. E’ importante il prima, cioè tutto ciò che si deve fare perché il bando sia efficiente e reale. Quindi l’individuazione del dove.quando e perché.
Ma la correttezza e l’efficiacia del bando si misurano dopo: nella valutazione del percorso e dei risultati, importantI quanto la trasparenza del bando.
Intermezzo. Il burlesque come Buona Pratica dell'autofinanziamento? starring Federica Fracassi
Per sostenere il Teatro i, Federica Fracassi aveva pensato e realizzato diverse iniziative:
· “Adotta uno spettacolo”: lo spettatore può adottare lo spettacolo (o un attore) per 150 euro: purtroppo nessuno ha pagato;
· “Dai un peso alla cultura”: lo spettatore può sostenere lo spettacolo con un'offerta, a seconda delle proprie possibilità;
Fracassi parte dalla definizione di ciò che non è: “Non sono una ragazza tra i quindici e i vent’anni, non sono una gatta morta, non sono fidanzata con uno potente, non sono un'attrice mediocre, sono un'attrice brava, e quindi con pochi soldi! Allora ho pensato a Monica Vitti in Polvere di Stelle, oppure al burlesque, visto anche il mio fisico burroso, e l’ho studiato, per offrire qualcosa in cambio al pubblico. Ha funzionato, anche se il pubblico del Teatro i non è ricco… Se vi sono piaciuta, pagate!!!”.
Anche il burlesque per una sera ha avuto successo, e con ironia afferma che è un genere con una sua drammaturgia.
Riproporre questi appuntamenti ha un costo, ma un attore spera di poter fare il suo lavoro.
Le Buone Pratiche della crisi
Costi di produzione in crescita, finanziamenti tagliati, investitori latitanti, critica marginalizzata, pubblico disorientato: come reagire?
coordinano Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, commenta Giulio Stumpo
Oliviero Ponte di Pino: il teatro ha in sé un valore che tutte le altre forme mediatiche non hanno, quello della liveness. Anche il prezzo è un fattore chiave, soprattutto in un'epoca in cui, grazie o per colpa del web, pare dominare l'ideologia dei contenuti gratis. La salvezza del teatro è che accade dal vivo e non ha alle spalle solo un mondo virtuale.
Marco Geronimi StollIntroduzione: lo smarketing applicato al teatro
Con il termine “smarketing”, Marco Geronimi Stoll non intende tanto il contrario del marketing, piuttosto una integrazione, ma anche un modo per “difendersi” dal marketing.
Il vero problema sono le competenze (purtroppo drammaticamente scarse) extra-teatrali delle compagnie. Se si chiedono locandine, siti, una foto o un comunicato stampa, mancano competenze – si vede! È micidiale per la comunicazione del teatro. La soluzione non è farsi pubblicità col marketing commerciale. Tutti i prodotti ormai sono associati a un immaginario. Il primo problema è che il teatro deve competere con la tv per conquistare pubblico. Bisogna riuscire a far uscire la gente di casa. Quello che vedono sul divano non è la tv, è marketing.
Il primo sforzo da fare è far alzare lo spettatore dal divano, ovvero convincerlo a spegnere la televisione. Il teatro può offrire qualcosa che non passa dai media digitali. Abbiamo bisogno di vedere persone in carne e ossa. In Italia si trovano scrittori, poeti che girano a leggere le proprie cose, scienziati che vanno a fare conferenze: scelte sempre più teatrali. Fanno, ahimè, molti errori, ma si tratta di nuovi alfabeti, e rispetto ai nuovi alfabeti siamo tutti analfabeti. Abbiamo bisogno di altre forme di provocazione, di istituire la filiera corta fra noi e un pubblico che ha bisogno di cibo per l’anima.
Daniele BiacchessiUn business model per il teatro civile
Bianchessi intrattiene un rapporto irregolare con il teatro. Si definisce un “giornalista della memoria” e dell'identità italiana. Ha letto e raccontato tante storie (di mafia, di politica, eccetera), storie ormai dimenticate che celavano altre storie. Il suo lavoro è stato un recupero di informazioni occultate.
Il dovere del cittadino, prima che del giornalista, è quello di raccontare storie per salvarle dall’oblio. Devono essere storie vive nel presente, che possono essere ulteriormente tramandate. Ha incontrato lungo la strada alcuni gruppi che si ponevano gli stessi problemi e obiettivi da altri punti di vista, per esempio in campo musicale (come i Modena City Ramblers).
Biachessi descrive il suo metodo per distribuire i suoi spettacoli, coprire i costi, organizzarsi in modo indipendente. Anche per ciò che riguarda la comunicazione, come nella distribuzione, è importante il contatto diretto, i comunicati devono essere corti e sintetici. Per pubblicizzare un evento, usa la rete e i social network, la diffusione di estratti di spettacoli su Youtube...
Elena ComettiLa rete dei teatri di Resilienza
Costituita per ora da sei realtà sul territorio nazionale, la rete si pone come obiettivo combattere la crisi. Il teatro offre modelli in questo: le ristrettezze non sono una novità, le pratiche teatrali sono modellate dall’abitudine a resistere. Si individuano alcuni metodi/obiettivi:
- la ricerca di un paradigma culturale diverso rispetto a quello dell'economia, basato sul piacere di incontrarsi e di creare relazioni;
- costruire gli spettacoli come progetti, produrre materiali dalle esperienze teatrali e trasferirli alle comunità (obiettivi estetici e sociali si intrecciano nel coinvolgimento della comunità);
- il rapporto con le istituzioni e il territorio non deve essere finalizzato a ottenere finanziamenti ma a costruire una progettualità comune;
- si privilegiano spazi non deputati al teatro: agire in luoghi dove sorprendere, incontrare, quindi stimolare un nuovo pubblico.
Claudia Cannella Per una carta dei diritti e dei doveri del critico
Claudia Cannella, direttore di “Hystrio”, presenta il decalogo del critico che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista.
A spingere alla redazione del documento, spiega, è il degrado della situazione generale, basato sul principio: “Se lo fa lui, allora posso farlo anch'io”. Per regire al decadimento morale e alla marginalizzazione della figura del critico è fondamentale sviluppare lo spirito critico, e restare consapevoli delle dfferenze, perché, dice, “non siamo tutti sulla stessa barca, e non vogliamo esserlo”. Ricrodando in goni caso che “gli artisti nonappartengono a nessuno”.
Valeria Ottolenghi Un premio alla critica?
Riferendosi all'attacco portato da Gabirele Vacis in mattinata contro il crtico di “Repubblica”, e ricollegandosi al galateo del critico appena presentato, Valeria Ottolenghi precisa e rilancia: “Se il critico dev’essere educato, allora deve esserlo anche l'artista”.
Presenta la nuova edizione del “Premio alla critica”, che segnalare quei critici che hanno saputo riconoscere il valore di una compagnia, seguire artisti alle prime armi, in poche parole che hanno aiutato il teatro.
A fianco al premio ai critici viene stato assegnato anche quello al maestro, ovveroa una personalità che si è distinta per generosità nel concere spazi, dare consigli e offfire opportunità. L'anno scorso il premio è stato vinto da Alessandro Benvenuti.
Renato PalazziLa scena critica: Goethe schiatta!
Palazzi spiega che per lui, critico teatrale, salire in scena è stato un punto di
Il fotoromanzo del Risorgimento del teatro (primo atto) La settima edizione delle Buone Pratiche a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino di Paola Maria Di Martino, Silvia Limone, Sara Giurissa, Alessandra Di Nunno, Laura Pecci
Sabato 26 febbraio 2011 Teatro Cavallerizza Reale, Torino
si ringrazia per l’ospitalità il Teatro Stabile di Torino
Evelina Christillin, Saluti e benvenuto
Per il Presidente del Teatro Stabile di Torino il Governo non tiene in sufficiente considerazione il teatro italiano, che non viene visto come il portatore di una straordinaria tradizione, ma è giudicato un elemento di cui il paese potrebbe anche fare a meno, e che dunque se vuole sopravvivere deve farlo con le proprie forze. Evelina Christillin ospita dunque con piacere un evento come “Le Buone Pratiche” e apprezza la scelta di un titolo tanto evocativo, il più adatto per ricordarci che dobbiamo guardare avanti, per essere assertivi e propositivi, avendo per obiettivo un “Risorgimento” che oggi deve essere soprattutto culturale. Ma questo potrà accadere solo se il Governo, insieme agli enti locali e ai rappresentanti dell'Agis, si assumerà le proprie responsabilità. Non è accettabile che i direttori dei teatri si trovino costretti dalle carenze economiche a decidere chi far sopravvivere e chi no: tocca al governo decidere, non si può pensare che permetta che i teatri si azzannino tra loro per decidere come gestire la crisi.
Le Buone Pratiche del Risorgimento!
Introduce e coordina Mimma Gallina
Mimma Gallina ricorda che l’obiettivo delle Buone Pratiche è sempre stato quello di andare oltre il lamento, evitando di piangersi addosso per vedere cosa si può fare. Anche quest’anno, spiega, abbiamo cercato di seguire la linea delle precedenti edizioni. Tuttavia non è facile essere ottimisti, di fronte a una crisi politico-economica così pesante. Non è stato neppure facile individuare, fra le diverse suggestioni che sono pervenute al sito, filoni precisi, attraverso confronti e incontri (temi da discutere e BP propriamente dette).
La mattina sarà dedicata alla riflessione sulla situazione nazionale e sulla suggestione del titolo (“Risorgimento!”), a partire dalla città di Torino, da un modello di sviluppo fondato sulla crescita e sugli investimenti in cultura, perseguito in oltre dieci anni: si tratta infatti del modello più significativo di questo tipo a livello nazionale.
Il pomeriggio sarà invece dedicato alle Buone Pratiche vere e proprie.
Oliviero Ponte di Pino sottolinea che i tagli sono una costante degli ultimi anni, e tuttavia quelli prospettati nell'ultima finanziaria sono insostenibili. Se fino a ieri si poteva pensare di trovare soluzioni all’interno delle singole organizzazioni (risparmi e razionalizzazioni, tagli di attività non strategiche), ormai si è arrivati a un punto in cui la politica del risparmio non è più sufficiente. Fino a che punto è ancora possibile razionalizzare? Fino a che punto la crisi può offrire un'opportunità di cambiamento e di ridefinizione del sistema?
Mimma Gallina si chiede se di fronte una crisi così grave e a tagli annunciati del 50% del FUS, in aggiunta a quelli degli enti locali, esista ancora la possibilità di sopravvivere, la possibilità per il territorio di attivare offerte culturali.
Ma come reagire? Nella cartella dei materiali di lavoro per la settima edizione delle Buone Pratiche, è stato inserito l’appello del Comitato Emergenza Cultura del Piemonte. Viene citata anche una suggestiva iniziativa dei colleghi irlandesi a sostegno dell’investimento pubblico in cultura (con raccolta di firme tra i cittadini e pressioni dirette sui candidati alle elezioni). Ma come rendere queste azioni davvero incisive per la difesa e il rilancio del sistema teatrale? Come coinvolgere in prima persona i cittadini, e non solo gli addetti ai lavori?
Al di là delle considerazioni politiche generali, sarebbe opportuno riflettere su aspetti specifici: per esempio, di fronte all’improvvisa soppressione dell’ETI, perché Arcus spa non è stata toccata? E che dire dell’appropriazione indebita del cinque per mille? Vanno approfondite anche le diverse forme di finanziamento e sostegno alla cultura che coinvolgono direttamente i cittadini. Dobbiamo affrontare problemi di organizzazione e razionalizzazione del lavoro, dobbiamo rivedere il ruolo degli ammortizzatori sociali.
Gli interventi possibili sono numerosi e bisogna rimboccarsi le maniche. E' necessario ridisegnare il nostro sistema teatrale. La partecipazione eterogenea e trasversale alle Buone Pratiche - giovani e meno giovani, rappresentanti di giovani gruppi e di prestigiosi teatri stabili, direttori di festival importanti e di piccole rassegne, una folta partecipazione torinese, ma anche arrivi da tutte le regioni d'Italia - è già di per sé un successo e dà fiducia nella capacità del teatro di reagire.
Nel ricapitolare le tematiche della giornata, Mimma Gallina ringrazia infine particolarmente Giovanna Marinelli per la sessione “il migliore dei bandi possibili”.
Lo stato delle cose
Oliviero Ponte di Pino, Teatro e identità nazionale
Oliviero Ponte di Pino ricorda che dieci anni fa, il 14 gennaio 2001, è andato online il numero zero di www.ateatro.it. Il giorno dopo andava online Wikipedia. Per il web dieci anni sono una storia lunghissima. La settima edizione delle Buone Pratiche festeggia dunque anche i dieci anni della webzine. E si svolge a Torino per due motivi. Il primo, come accennava Mimma Gallina, è il ruolo della cultura nella reinvenzione e nella ricostruzione dell’identità culturale di una città attraversata da un violentissimo processo di deindustrializzaizone. Il secondo motivo è ovviamente il 150° anniversario dell'Unità d'Italia.
Ponte di Pino ricorda l'apporto degli uomini di teatro al processo di unificazione e alla costruzione dell’identità italiana. In questi 150 anni il teatro italiano ha raccontato, attraverso i testi e gli spettacoli, l’evoluzione del paese e ha costruito la sua memoria collettiva. A partire dagli autori che fin dall’indomani dell’Unità hanno srcitto in dialetto, mantenendo dunque uno stretto rapporto con il territorio, per aprirsi però a tematiche di rilevanza nazionale: basti pensare alle Miserie d’ Monsù Travet di Vittorio Bersezio (dove tra l’altro allo sfortunato protagonista viene minacciato un punitivo trasferimento nel Meridione, analogo a quello che subisce in Benvenuti al Sud il personaggio interpretato da Claudio Bisio). E sulla scia di Bersezio, tra gli altri, il Carlo Bertolazzi del Nost Milan e la grande drammaturgia napoletana, da Scarpetta a Viviani, dai De Filippo a Ruccello e Moscato. Tra Ottocento e Novecento, autori come Praga e Giacosa hanno raccontato le condizioni e le crisi della borghesia: le crisi private, come nei drammi sull'adulterio, e le crisi pubbliche, quelle legate al fallimento economico. Facendo un salto verso l’attualità, negli ultimi decenni il teatro di narrazione e il teatro civile stano cercando di creare una memoria condivisa, partendo dal nostro passato prossimo: stanno raccontando tutta l'Italia, dal Vajont a Gela, dalla stagione delle stragi all'Aquila, da Cengio a Taranto. E oggi il teatro che racconta meglio l'Italia, nei suoi aspetti più profondi, è forse quello si fa in carcere: basti pensare al lavoro che svolge da vent’anni Armando Punzo nel carcere di Volterra
A questo proposito, Mimma Gallina ricorda che proprio oggi a Padova si tiene un convegno sul coordinamento dei gruppi che fanno teatro in carcere.
Ugo Bacchella (Fondazione Fitzcarraldo) Bollettino per i naviganti: ultima edizione
Spesso i dati influenzano le nostre opinioni. Se è giusto conoscerli, bisogna anche saperli leggere. A volte possono essere strumentalizzati per sostenere una tesi specifica, oppure possono essere gonfiati o artefatti.
Per esempio, si tende a dire che la spesa pubblica dell'Italia è modesta e che mancano risorse. Però è anche vero che la spesa per la cultura per famiglia è una delle più basse d'Europa: nel Nord Europa si spende l'11-12% del reddito in cultura, la media europea è del 9,4%, in Italia siamo al 6,9% e ci collochiamo al quart'ultimo posto sui 27 paesi dell’Unione Europea. In Piemonte siamo all’8%.
Nelle scelte di spesa per la famiglia italiana la cultura conta dunque molto poco. E' vero che la spesa pubblica in cultura è molto più bassa rispetto agli altri paesi europei, ma bisogna stare attenti ai confronti perché si rischiano di creare falsi miti. Si dice per esempio che la Germania risponde alla crisi investendo in cultura, ma bisogna tener conto che in quel paese la spesa statale incide per meno del 4%, mentre il resto è gestito dai Länder, che stanno invece diminuendo gli stanziamenti. In Gran Bretagna si annuncia la chiusura di 125 organizzazioni culturali di pubblica utilità sostenute dallo Stato su 875; in Olanda si segnala una diminuzione del 20% delle spese del Ministero.
In Italia sono solo le fondazioni bancarie a tenere alta la spesa per la cultura. Anche l’occupazione ne settore è in Italia (1,4%) più bassa della media europea.
Ma al di là dei dati, il problema di fondo è la legittimazione delle spese culturali.
Su questo fronte ci sono anche dati confortanti. Se oggi ci chiediamo quanti italiani sono entrati in un teatro, un cinema, un museo, considerando le persone che hanno più di 6 anni, i dati sono questi:
- il 30% degli italiani, ovvero quasi 1 su 3, è entrato in un museo,
- il 22% in un teatro;
- il 22,4% in una discoteca;
- il 26% (un dato appena superiore a quello relativo al teatro) ha assistito a un evento sportivo.
Se si confronta la situazione attuale con i primi dati storici dell'ISTAT, che risalgono al '94, si può osservare che:
- tutti i consumi culturali in Italia sono aumentati, mentre e gli altri sono diminuiti;
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- la partecipazione degli Italiani alle manifestazioni sportive a pagamento è calata;
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- la partecipazione agli spettacoli teatrali è aumentata di 5 punti
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Dunque ci sono anche motivi di ottimismo perché, nonostante le risorse limitate, c'è stato un allargamento del pubblico.
Va però fatta anche un’altra considerazione: l'allargamento della partecipazione non è stato proporzionale agli investimenti culturali realizzati. Per esempio, dal 1994 al 2010 la partecipazione del pubblico a teatro è aumentata dell'8%; in Piemonte la spesa per la cultura è quadruplicata ma l'aumento del pubblico è stato meno forte che in altre regioni.
Un altro problema riguarda la frammentazione dell'offerta: si dice per esempio che in Italia ci siano più libri che lettori. Questa realtà si percepisce anche guardando i dati piemontesi. Per esempio l'esperienza delle residenze, con un budget così modesto, non è palesemente in grado di innestare una politica di cambiamento sul territorio: dunque è davvero questa la scelta migliore?
Bacchella propone di agire su due livelli:
- valorizzare e studiare le esperienze che sul territorio stanno costruendo relazioni che vanno al di là del sostegno pubblico;
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- rendersi conto che gli italiani che si riconoscono nell'attività culturale sono decine di milioni di persone. Bisogna coinvolgerli e assieme essere più duri con loro: chiudere tutte le offerte culturali per una settimana potrebbe essere un segnale molto incisivo.
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Alessandro Riceci (ZeroPuntoTre) Insorgere per risorgere. Pratiche di resistenza, diritti e nuovo welfare, modelli di sistema
ZeroPuntoTre è nato come coordinamento di tutte le persone che lavorano nello spettacolo dal vivo, proprio perché di fatto non sono ancora riconosciute dallo Stato come lavoratori: nella discussione sui tagli del FUS, per esempio, non si è mai parlato dei lavoratori. La situazione di precarietà che spinge ai limiti della sopravvivenza li ha fatti unire dal basso.
L'associazione, che si è costituita a Roma, il 14 e il 22 dicembre è scesa in piazza a manifestare con gli studenti. Non è stata l’unica azione di lotta: i lavoratori dello spettacolo hanno occupato il cinema Metropolitan di Roma, al Festival del Cinema di Berlino hanno denunciato la situazione del teatro italiano. Tali azioni radicali nascono dalla necessità di rendersi visibili, visto che questi lavoratori, in quanto precari non possono utilizzare lo strumento dello sciopero, lo strumento più efficace per difendere i propri diritti.
La soppressione dell'ETI, la scomparsa a Napoli del Teatro Festival sono segnali di uno stato d'emergenza. L’obiettivo di zeropuntotre è quello di organizzare pratiche di resistenza e progettare un cambiamento profondo del sistema teatrale.
Per farlo serve partire da una visione alta: i diritti degli artisti e dei lavoratori sono penalizzati dalle decisioni sul welfare e dai tagli, ma questo dato di fatto non viene percepito dalla società perché tocca lavoratori invisibili, a volte anche in nero, che vedono ogni giorno di più svalutare le loro competenze.
Lo smantellamento dei fondi pubblici mette a nudo la struttura del sistema. Il teatro maggiormente finanziato non rappresenta più la totalità della proposta teatrale: nascono luoghi pubblici eterogenei, non sempre istituzionali. Questo mondo non è marcio, ma vivo e produttivo, eppure le istituzioni sembrano non accorgersene. Lo dimostrano gli strumenti legislativi elaborati negli ultimi tempi: la bozza di legge sugli ammortizzatori sociali della commissione lavoro è peggiorativa dello stato presente e non risolve i problemi strutturali della categoria (queste leggi tra l'altro non passeranno mai, e comunque non sono ancora passate).
Esistono nello spettacolo due punti di vista:
- chi difende un'identità già costruita;
- chi lavora per creare le condizioni per cui diverse identità possano essere costruite.
Assumendo questo secondo punto di vista, zeropuntotre chiede la riforma del sistema del finanziamento pubblico, aprendolo alla partecipazione dai lavoratori, basandolo sull'equa ripartizione delle risorse, su criteri di trasparenza e qualità dell’investimento del territorio, su programmi di residenza a sostegno ai nuovi talenti, sulla pluralità artistica e dei linguaggi, ricerca, trasparenza dei progetti. Zeropuntotre chiede inoltre di liberare dalle influenze politiche le nomine artistiche e di sanzionare comportamenti scorretti. Chiede infine l’ indipendenza degli strumenti di verifica.
In merito al welfare, chiede di ottenere per i lavoratori dello spettacolo gli stessi diritti che hanno gli altri lavoratori.
Chiede di dare adesione attiva a queste proposte e invita le grandi istituzioni pubbliche a sostenerle.
Propone la data del 27 marzo come data significativa per una protesta. Quel giorno si celebra la Giornata Mondiale dello Spettacolo, che però in Italia è stata annullata proprio a causa della crisi. E una situazione paradossale, che potrebbe essere utilizzata per attirare l’attenzione sulla crisi generale che sta vivendo il teatro.
Mario Martone (Direttore, Teatro Stabile di Torino) Allarme autocensura!
Martone esordisce dichiarando di apprezzare la sequenza di diapositive sugli attori risorgimentali che scorre sullo schermo. Lui stesso li aveva presi in considerazione mentre progettava la rassegna Fare gli Italiani: in un primo momento il progetto prevedeva di realizzare una mostra dedicate alla cultura militante e di raccontare l'azione politica con il linguaggio teatrale.
I tagli alla cultura, prosegue, sono tagli alla spina dorsale del paese, sono un'umiliazione per tutti gli italiani. Perché non ci sono solo i tagli al teatro, ma anche quelli alla musica, alla danza, al cinema, alla scuola, all'università, alla ricerca... Una filiera che se solo riuscisse a mostrarsi unita otterrebbe risultati molto più tangibili, e certamente si imporrebbe all'attenzione dell’intera società italiana.
Anche i teatri stabili subiranno forti tagli: avendo i costi di struttura più alti, saranno costretti a tagliare le produzioni. Il rischio è che gli artisti finiscano per limitare le loro idee e passare all'autocensura. E’ vero che purtroppo a volte i finanziamenti pubblici sono stati sprecati o usati male. Ma ora il rischio è che il teatro pubblico si adegui al modello di quello privato, che segue solo le logiche di mercato. Invece il teatro pubblico dovrebbe preservare la propria identità. Non si tratta di stabilire una scala di valori: sia il pubblico sia il privato entrambi possono produrre cose egregie, ma diverse tra loro.
A Torino si ricordano spettacoli memorabili per la loro sregolatezza e audacia. Ma cosa accadrebbe se si perdessero questi aspetti solo per riformarsi alla ricetta prestabilita?
Il rapporto tra il mondo culturale e la politica è ancora troppo forte.
Poi c’è il problema dei cartelloni: tutti sanno che da sempre i teatri si scambiano gli spettacoli. Per contenere i costi in un momento di crisi come questo dice Martone, cerco almeno di selezionare. Con il ricavato delle grande produzioni degli stabili riesce a salvaguardare quello che resta della produzione fuori dalle logiche di mercato attraverso i festival, come quello di Prospettive, e tutela gli artisti. Per concludere, Martone si chiede se questa forma di autocensura non conduca il teatro pubblico a essere meno interessante e più costoso e a cosa serva dunque un teatro pubblico se ha maggiori costi dei teatri privati.
Oliviero Ponte di Pino osserva che questi primi interventi hanno affrontato lo stato delle cose da tre punti di vista: quello del pubblico (Bacchella), quello dei lavoratori (Riceci) e quello di un artista e direttore di teatro (Martone).
Il caso Torino e il sistema Piemonte
1. Le politiche per la cultura
Fiorenzo Alfieri (Ass. Cultura, Comune di Torino) Quale futuro per noi.
Considerando la brevità dei tempi, preferisce concentrare il suo intervento su indicazioni concrete. Per far fronte al problema di un mondo culturale in cui le entrate non corrispondono alle uscita, in cui gli enti pubblici devono imparare a condividere l'idea che la cultura fa parte della civiltà e del welfare e che quindi devono compensare la differenza tra entrate e uscite, parte da tre punti:
1. la detassazione del sostegno alla cultura è la soluzione numero uno all'estero, soprattutto nel mondo anglosassone. La defiscalizzazione significa che lo Stato è disponibile a sostenere la cultura attraverso i privati;
2. la patrimonializzazione delle attività culturali. Ogni realtà culturale deve avere fondi di garanzia, attualmente non disponibili, ma che possono consentire di attivare operazioni finanziarie per coprire i deficit in caso di emergenza;
3. sicuramente la terza è la proposta meno popolare, ma anch'essa molto diffusa in altri paesi (per esempio l'Austria): per qualsiasi servizio pubblico che non ce la fa a coprire le spese, in parte è giusto che intervengano finanziamenti pubblici, ma per una parte è l'ente che ha creato il deficit a doversi impegnare nel creare un'attività redditizia e imprenditoriale parallela.
Un esempio. Il comune d Vienna ha al suo interno dei ristoranti gestiti dai dipendenti comunali, che hanno molto successo e permettono di far rientrare il deficit generando ricchezza.
Questi punti vanno presi in considerazione nel loro insieme.
Luca Cassiani (presidente V Commissione, Comune di Torino)
Cassiani vuole aiutare a comprendere il passato recente di Torino: un caso particolare, perché gli amministratori locali erano convinti di aver raggiunto i loro obiettivi.. Nel 2000 Torino viveva una fase di declino che rendeva necessaria un decisione per il futuro della città. E’ stato scelto di puntare sulla cultura, partendo dal presupposto che la città avesse sia il patrimonio sia l'attrattiva turistica.
Il piano strategico è stato diviso in due parti:
a) hardware, ovvero la struttura: nell’ambito del teatro sono stati avviati i lavori di riqualificazione della Scuola del Teatro Stabile, delle Fonderie Limone, del Carignano, del Teatro Vittoria, della Cavallerizza, del Teatro Gobetti, del Teatro Astra, della Casa del Teatro Ragazzi;
b) il software, ovvero il Sistema Teatro Torino, creato con l'obiettivo di raccogliere tutti gli attori e protagonisti sotto l'egida del Teatro Stabile, per sostenere i giovani, i nuovi progetti e investire sull'innovazione.
Il risultato? A Torino si è avuto un notevole incremento del turismo culturale (da 500.000 turisti nel 2000 a 2.000.000 nel 2010), nonostante la mancanza di risorse non abbia permesso lo svolgimento delle grandi mostre. Negli ultimi anni sono nati festival importanti come Prospettive, Teatro a Corte, Festival delle Colline e MiTo, uno dei più importanti in Italia per la musica classica.
Ora c'è bisogno di nuovo slancio guardando al 2020.
Ugo Perone (Ass. Cultura, Provincia di Torino)
Ugo Perone, che è stato anche Assessore alla cultura della città di Torino negli anni Novanta e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Berlino nei primi anni 2000), avverte subito di essere decisamente più pessimista. Il contesto nazionale è in crisi. Dopo un ventennio di politica dominata dal berlusconismo, la cultura non è più un elemento fondante. La situazione è completamente cambiata. Negli anni Novanta era forte la pressione dei giovani che premevano perché si allargassero le maglie del finanziamento e si realizzasse una decentralizzazione dell'arte. Non era una situazione facile, ma c'era il vantaggio che, pur nei conflitti, l'obiettivo veniva riconosciuto da tutti. Il problema era come e quando partecipare, distribuire e diffondere il teatro tra le tutte le classi sociali. Oggi invece non esiste più questo comune sentire. La cultura è spettacolarizzazione e successo. Ciò che fa audience produce più entrate.
Il dato positivo è che sono cresciute la partecipazione giovanile e la molteplicità di situazioni. Molti giovani vedono nella cultura una possibilità di lavoro, ma senza risorse non sappiamo come farli partecipare. Chi è dentro il sistema cerca di difendere ciò che ha con le unghie e con i denti. Ma chi si affaccia oggi? Bisogna evitare la guerra tra coloro che creano cultura.
Dobbiamo darci nuovi obiettivi: la città di Torino è molto cambiata, ma esistono zone del Piemonte che non hanno la percezione di questo cambiamento. E' dunque necessario un processo di decentralizzazione. C'è un enorme potenziale intorno alla città, Torino si può salvare solo se sviluppa anche l’hinterland. In questa direzione proponiamo che Torino e la sua provincia a Capitale Culturale Europea nel 2019.
Giordano Amato Dieci anni di residenze
Quest’anno si festeggiano i dieci anni delle residenze multidisciplinari in Piemonte, che hanno dato esiti importanti. Nascono da compagnie professionali finanziate dalla legge regionale 68. Oggi nella regione le residenze sono 19, di cui 17 sotto l’associazione Piemonte delle Residenze, di cui Amato è membro del collegio di presidenza.
Nel 2010 è stata fatta una prima ricerca statistica sui dati relativi alle residenze: 29 prime teatrali, 32 teatri gestiti, 85 comuni coinvolti, 93 corsi, 217 laboratori, 378 spettacoli programmati, 68.971 spettatori.
Tutto questo è stato realizzato con fondi regionali che negli ultimi due anni si sono quasi dimezzati, e ancora non conosciamo i dati per il 2011. Amato sottolinea il paradosso amministrativo del contributo che la Regione “sdoppia” fra attività di residenza e attività ordinaria.
E’ stato chiesto all’Assessore alla Cultura della Regione un tavolo tecnico per discutere del futuro e firmato un accordo con il Circuito Teatrale Piemonte per una collaborazione importante. Si sta valutando l’ipotesi di aprire l’associazione a soggetti che non sono residenze e si è varato un primo cartellone di attività e progetti comuni. Ma restano aperte grandi incognite sulla possibilità di sostenere progetti strategici.
Graziano Melano Torino capitale del teatro ragazzi?
Negli anni Settanta c’è stata un’azione strategica per la diffusione del teatro, nelle scuole e nelle periferie. L’animazione teatrale è nata a Torino negli anni Sessanta, ma si potrebbe risalire addirittura ai tempi di Don Bosco. Torino è anche la città di uno dei pochi studiosi di teatro ragazzi, Gianrenzo Morteo, oltre che di un sociologo come Franco Ferrarotti.
Nel corso degli anni, viaggiando come rappresentante del Teatro dell’Angolo, Melano si era sempre domandato perché a Torino non ci fosse un luogo dedicato al Teatro Ragazzi. Lo si è finalmente individuato una decina di anni fa: è nata così la Casa del Teatro Ragazzi, realizzata con fondi della città e della Regione, voluto fortemente dalla volontà di operatori privati e pubblici.
Undici soggetti-soci fondatori hanno collaborato al progetto dello spazio. A loro si sono via via aggiunte altre realtà, come il Festival Incanti e quello delle Colline.
Ha una scuola di formazione e spazi laboratorio, due sale teatrali che lavorano pomeriggio e sera. Tra animatori, organizzatori, amministratori, artisti, vi lavora una cinquantina di persone. E' un progetto di grande qualità artistica e gestionale, che ha registrato 160.000 spettatori dalla sua apertura e finora nessun deficit.
Ha creato la possibilità di instaurare progetti di partnership con le aziende del territorio facendo convivere due anime: quella pubblica e quella privata.
Melano conclude il suo intervento con una citazione di Ken Robinson: “Tra arte e scienza vi sono molti più punti in comune che differenze.”
Beppe RossoLa genesi del Sistema Teatro Torino e i suoi possibili sviluppi
Il Sistema Teatro Torino è nato da progetti e idee.
Nel 2001 il Teatro Stabile non era molto aperto al territorio, c'era stato il crollo del Gruppo della Rocca, di cui il Teatro Stabile aveva acquisito i fondi ministeriali ; successivamente lo Stabile ha accrpato anche quelli del Teatro Settimo. E’ finita così un‘epoca iniziata negli anni Settanta con le compagnie di produzione. Rosso, Cassani e Colombano hanno preso spunto dall’esperienza di Canto per Torino per dar vita al Progetto Centro Servizi, con l'obiettivo da un lato di sostenere produttivamente e distributivamente le compagnie, dall'altro lato di ridefinire le funzioni pubbliche e private dei teatri. Il progetto è stao presentato all’assessore Alfieri e da lì è nato il Sistema Teatro Torino.
L’obiettivo era dare ordine e dare regole. Sono stati dieci anni importanti, non era un sistema perfetto ma ha creato una modalità di lavoro. Nel 2008 c’è stato un grande taglio di fondi da parte del comune, pari al 40-50%. Il STT ha tenuto proprio grazie al fatto di essere sistema, anche abbassando il livello dei finanziamenti.
Adesso è importante aprire gli occhi sulla situazione della Regione: la maggior parte dello spettacolo dal vivo (il 75%) è prodotto a Torino, mentre il resto della Regione assorbe pochissimo. Bisogna pensare a un amplimento dei teatri comunali e delle residenze. Ma più in generale, andrebbe ridefinita la situazione.
Gabriele Vacis, Il canto per Torino
Vacis parte dall’esperienza dello spettacolo collettivo Canto per Torino : nel 1995è stato un gesto fondativo, che conteneva già il teatro di oggi. Pensiamo a chi ci ha lavorato: Paola Rota, Emma Dante, Serena Sinigaglia...
L’insegnamento di Giorgio Guazzotti è stato decisivo: importante era la sobrietà. Lo spettacolo costò poco, in un momento in cui era quasi un vanto sforare i budget.
Legge l’articolo del 9 novembre 2007 pubblicato sulla “Stampa”, “Pompa Magna o Necessità”.
Grazie all'insegnamento di Guazzotti, siamo riusciti ad applicare la stessa sobrietà ai Rusteghi. l’ultimo allestimento di Vacis per lo Stabile, che è costato molto meno del budget previsto senza rinunciare alla qualità artstica (a una domanda dalla sala, Vacis risponde che l’allestimento è costato 300.000 euro, rispetto ai 600.000 e lo spettacolo è già venduto per 400.000 euro).
Abbiamo razionalizzato, bisogna essere disposti anche a farsi detestare.
Con questo non voglio dire che i tagli non siano da odiare, ma diciamolo chiaramente: il mondo della cultura spreca.
Adesso ci vogliono le idee.
A sorpresa, Vacis conclude il suo intervento con un insulto al critico di “Repubblica” che ha recensito i suoi Rusteghi.
BP2011 MATERIALI Insorgere per risorgere. Pratiche di resistenza, diritti e nuovo welfare, modelli di sistema In appendice: Lo Statuto Sociale degli Artisti del Parlamento Europeo di Zeropuntotre
Chi siamo
Zeropuntotre è un movimento autorganizzato di lavoratrici/ori dello spettacolo dal vivo, attori, attrici, registi, tecnici, danzatori, danzatrici, scenografi, costumisti nato per difendere i diritti dei lavoratori, per informare, per raccogliere proteste ed elaborare proposte.
Nel 2009 abbiamo cominciato a leggere un comunicato sui palcoscenici e nei mesi attraverso la rete questo gesto è stato condiviso in modo orizzontale da molti colleghi nei teatri d’Italia.
Per la prima volta, almeno nelle nostre biografie, ci siamo presentati con l’identità che non ci viene riconosciuta, quella di lavoratrici e lavoratori: in Italia i lavoratori e gli artisti, motore principale di un “microcosmo” con un indotto estremamente articolato, sono ignorati dalla politica e abbandonati dalle istituzioni del settore.
Nelle discussione sui tagli al FUS mai si è parlato dei lavoratori. Siamo restati un numero da esibire – 250.000 – una sorta di carico da dieci sul tavolo di una partita a briscola. Spesso giocata al ribasso anche da chi i lavoratori dovrebbe rappresentare.
Certo, l'autunno ci ha mostrato un altro spettacolo: il disagio crescente e la violenza di una precarietà che spinge le nostre vite ai limiti della sopravvivenza hanno iniziato a trasformarsi in un'opposizione sociale dal basso. In questo tessuto multiforme fatto di studenti, ricercatori, docenti, lavoratori della conoscenza, precari dell'immateriale e non, abbiamo in modo naturale trovato una collocazione ed è nata così un'esperienza finora inedita in Italia: la costituzione, a Roma e in altre città, di un coordinamento di lavoratrici e lavoratori di vari settori dello spettacolo, cinema teatro danza lirica, artisti e tecnici, stabili precari e intermittenti. Siamo una soggettività potenziale, ancora lontana dalla forza contrattuale che i nostri colleghi francesi costruirono qualche anno fa – ma i diritti non sono mai concessi, bensì conquistati.
Il 14 e il 22 dicembre eravamo in piazza con studenti e ricercatori condividendo la stessa radicalità, abbiamo fatto blitz alle prime del Teatro Valle, Teatro Eliseo e Teatro dell’Opera, abbiamo occupato il cinema Metropolitan di Roma, abbiamo denunciato alla stampa internazionale la situazione italiana al Festival del cinema di Berlino: tutte azioni per renderci visibili, per costruire un peso politico senza il quale ogni difesa del settore è inefficace, azioni anche radicali come radicale è l'attacco alla cultura. Azioni che vogliono creare disagio in un settore in cui la maggior parte di noi, precari e intermittenti, non possono utilizzare lo strumento dello sciopero. Che hanno l'obbiettivo di rendere visibili i luoghi di produzioni culturale in quanto luoghi di lavoro. Non ci risulta che negli ultimi 150 anni sia stato inventato uno strumento più efficace dello sciopero per difendere e conquistare diritti: allora come trasformare e potenziare questo strumento a partire dalla atipicità del nostro settore?
Andiamo avanti. L'elenco delle “cose” teatrali scomparse o che rischiano si scomparire è lungo: l'ETI, Teatro Valle, Pergola e Duse, NapoliTeatroFestival, mancato reintegro nel Decreto Milleproroghe...
É necessaria una valutazione politica da condividere in questa giornata: o si continua a pensare che tutto andrà a posto, che pochi spiccioli rientreranno sottobanco o si ha la percezione chiara che, fuori da ogni retorica, SIAMO IN UNO STATO DI EMERGENZA.
Che non sia più possibile lavorare neanche in condizioni di semplice sopravvivenza. Che tornare indietro sarà molto, molto difficile.
Allora iniziamo da subito a condividere pratiche di resistenza da un lato e dall'altro a progettare un cambiamento profondo del sistema teatrale. Conflitto e utopia: per favore, superiamo l'immaginario portarogna dei funerali al teatro.
Serve una visione alta, prospettica, d'insieme, un nuovo punto di partenza – ovvero, la questione dei diritti degli artisti e dei lavoratori. (1. Tagli/2. Welfare)
1. Tagli al FUS e modelli di finanziamento pubblico
Portare avanti una protesta contro i tagli NON SIGNIFICA DIFENDERE L'ESISTENTE. Il sistema di finanziamento pubblico – diciamocelo - fa schifo. È da rifondare completamente.
Ma sui tagli si gioca una partita più ampia: a. SUI DIRITTI e b. SUL LAVORO.
a. La cultura è UN BENE COMUNE.
Finanziare la cultura non è assistenzialismo: l’accesso a saperi, conoscenza, ricerca e creazione in tutte le sue forme, la libera circolazione di idee e individui, il potenziamento del pensiero critico sono diritto imprescindibile di ognuno e non un privilegio di pochi.
Attraverso la politica di tagli in Italia si ridefinisce un nuovo stato di diritto, un nuovo modello di società. Questo dobbiamo saperlo comunicare a tutti – non può essere una battaglia solo settoriale. Altrimenti abbiamo già perso.
b. Ma i tagli COLPISCONO OCCUPAZIONE E POSTI DI LAVORO. Posti di lavoro invisibili perché siamo per lo più precari, intermittenti, con contratti a termine, siamo lavoratori subordinati ma costretti a lavoratore come autonomi, pagati con forfait o al nero.
Proprio noi - privi di ogni garanzia sociale - siamo più colpiti dalle condizioni di PRECARIETà, dalla SVALORIZZAZIONE SALARIALE del nostro lavoro e delle nostre COMPETENZE.
D'altra parte lo smantellamento dei fondi pubblici ci “aiuta” a vedere meglio la struttura del sistema.
Lo spettacolo dal vivo negli ultimi trent'anni è molto cambiato. Una parte del teatro maggiormente finanziato non rappresenta più la totalità della proposta: nascono nuovi pubblici, in luoghi eterogenei e non istituzionali. E questo mondo, presente qui oggi, non è marginale, è vivo e produttivo a livello sia artistico che economico.
Eppure le istituzioni sembrano non accorgersene. Ne sono dimostrazione gli strumenti legislativi elaborati:
- la bozza di legge sugli ammortizzatori sociali della Commissione lavoro, che riesce in un compito non facile: essere peggiorativa dell'esistente.
- la proposta di legge quadro tutta basata sul concetto di impresa.
Leggi, peraltro mai passate.
Due sono i punti di vista: chi difende un'identità già costruita e chi lavora per creare le condizioni per cui diverse identità possano essere costruite.
Assumendo questo secondo punto di vista chiediamo una riforma radicale del sistema di finanziamento pubblico partecipata dai lavoratori, basata su un'equa ripartizione delle risorse, su criteri di trasparenza e di qualità:
- Ridefinizione degli obbiettivi dei teatri stabili pubblici:
+ investimenti sul territorio a favore di nuove realtà artistiche
+ programmi di residenze, sostegno ai nuovi talenti
+ pluralità dell'offerta artistica e dei linguaggi (teatro classico, di ricerca, danza contemporanea...)
+ formazione del pubblico
- Trasparenza dei progetti. Vincolo dei direttori al rispetto gli obbiettivi. Turn over delle cariche.
- Liberare le nomine artistiche dalle ingerenze politiche con l'istituzione di Commissioni di Qualità elette e a termine, formate con criteri di chiara e riconosciuta competenza settoriale e nel mondo della cultura e con la presenza di lavoratori dello spettacolo.
- Indipendenza degli strumenti di verifica.
- Sostegno all'autoimprenditorialità degli artisti.
- Premio alle buone pratiche e sanzioni dei comportamenti scorretti.
- Spazi pubblici per prove, creazione e autoformazione.
- Sostegno ai linguaggi della contemporaneità e alla nuova drammaturgia.
2. Welfare
La questione del welfare non è solo una questione di diritti: riguarda un modello che pone al centro l'autonomia artistica e la libera scelta di artisti e lavoratori. È un principio di tutela che innesca anche un meccanismo virtuoso di produzione.
Invitiamo tutto il settore a riflettere sull'ipotesi di un nuovo welfare, come indicato dallo Statuto Europeo degli Artisti, in grado di compensare la natura aleatoria e intermittente della professione artistica:
- Diritti minimi dello stato sociale validi per tutti lavoratori: ammortizzatori sociali, malattia, ferie pagate, congedi parentali, liquidazione di fine rapporto, trattamento pensionistico sicuro e dignitoso.
- Maternità universale per tutte, occupate/disoccupate, stabili e precarie o intermittenti
- Riconoscimento dello statuto dell'intermittenza ovvero garanzia continuativa di reddito per i tempi di non lavoro
- Riconoscimento della formazione permanente
Appello/Proposte di azioni condivise
È necessario iniziare a costruire il futuro perché quello che costruiamo ora è quello che ci ritroveremo dopo il disastro.
Lanciamo un appello a noi tutti che siamo qui oggi e a tutto il settore ad esprimersi – da subito anche telegraficamente - e dare adesione attiva a queste proposte:
1. Costruire una rete operativa tra le diverse realtà teatrali, anche attraverso strumenti web, ad esempio un portale di raccordo in grado di monitorare anche a livello locale le conseguenze dei tagli. Invitiamo le grandi istituzioni pubbliche a mettere in comune le proprie risorse.
2. Indire il più presto possibile una giornata di mobilitazione FORTE. Sarebbe significativo farla il 27 marzo: mentre tutto il mondo festeggia, noi protestiamo.
3. Portiamo il conflitto fuori dalla stanze dei ministeri. Proviamo a costruire insieme degli stati generali del teatro, partecipati e non di rappresentanza, che coinvolgano la politica e che la impegnino senza possibilità di ritrattare.
4. Pronunciarsi pubblicamente sulla questione del Festival di Napoli e dell'ETI, su cui non c'è trasparenza e non si sa che fine faranno. Lo chiediamo ai direttori dei teatri, agli artisti conosciuti, a chi occupa ruoli di responsabilità pubblica.
Diciamo, con una frase di Rafael Spregelburd, (drammaturgo argentino)
"Ci sono motivi oggi per scendere in piazza. Quanto è triste la prudenza".
zeropuntotre
lavorat* spettacolo dal vivo
STATUTO SOCIALE DEGLI ARTISTI
Procedura : 2006/2249(INI) Ciclo di vita in Aula
Ciclo del documento : A6-0199/2007
Testi approvati dal Parlamento
Giovedì 7 giugno 2007 - Bruxelles Edizione provvisoria
Statuto sociale degli artisti
P6_TA-PROV(2007) 0236 A6-0199/2007
Risoluzione del Parlamento europeo del 7 giugno 2007 sullo statuto sociale degli artisti (2006/2249(INI))
Statuto sociale degli artisti
P6_TA-PROV(2007) 0236 A6-0199/2007
Risoluzione del Parlamento europeo del 7 giugno 2007 sullo statuto sociale degli artisti (2006/2249(INI))
Il Parlamento europeo ,
– vista la Convenzione dell'Unesco sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali,
– vista la comunicazione della Commissione dal titolo "Una strategia quadro per la non discriminazione e le pari opportunità per tutti" (COM(2005)0224),
– visto il Libro Verde della Commissione dal titolo "Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo" (COM(2006)0708),
– vista la propria risoluzione del 22 ottobre 2002 sull'importanza e il dinamismo del teatro e delle arti dello spettacolo nell'Europa allargata (1),
– vista la propria risoluzione del 4 settembre 2003 sulle industrie culturali (2),
– vista la propria risoluzione del 13 ottobre 2005 sulle nuove sfide per il circo quale parte della cultura europea (3),
– visto il regolamento (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità (4),
– visto il regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (5),
– vista la direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull'armonizzazione di taluni aspetti del diritto d'autore e dei diritti connessi nella società dell'informazione (6),
– vista la sua risoluzione del 9 marzo 1999 sulla situazione e il ruolo degli artisti nell'Unione europea (7),
– vista la direttiva 2006/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale (8),
– vista la direttiva 2006/116/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente la durata di protezione del diritto d'autore e di alcuni diritti connessi (9),
– vista la sentenza della Corte di giustizia del 30 marzo 2000, causa C-178/97, Barry Banks e altri contro Theatre royal de la Monnaie (10),
– vista la sentenza della Corte di giustizia del 15 giugno 2006, causa C-255/04, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica francese (11),
– visto l'articolo 45 del suo regolamento,
– vista la relazione della commissione per la cultura e l'istruzione (A6-0199/2007),
A. considerando che l'arte può anche essere considerata un lavoro e una professione,
B. considerando che le summenzionate sentenze e la direttiva 96/71/CE riguardano tutte in modo specifico le attività degli artisti interpreti,
C. considerando che, per praticare l'arte al più alto livello, occorre interessarsi al mondo dello spettacolo e della cultura sin dalla più giovane età ed avere la possibilità di accedere alle principali opere del nostro patrimonio culturale,
D. considerando che in numerosi Stati membri taluni professionisti del settore artistico non hanno uno statuto legale,
E. considerando che la flessibilità e la mobilità sono elementi indissociabili nell'esercizio delle professioni artistiche,
F. considerando che nessun artista è totalmente al riparo dalla precarietà in nessuna fase del suo percorso professionale,
G. considerando che la natura aleatoria e talvolta incerta della professione artistica deve essere necessariamente compensata dalla garanzia di una protezione sociale sicura,
H. considerando che ancora oggi risulta praticamente impossibile per un artista in Europa ricostruire la sua carriera professionale,
I. considerando che occorre facilitare l'accesso degli artisti alle informazioni concernenti le loro condizioni di lavoro, mobilità, disoccupazione, salute e pensione,
J. considerando che le predisposizioni artistiche, le doti naturali e il talento sono raramente sufficienti per aprire la strada ad una carriera artistica professionale,
K. considerando che non sono stati ancora sufficientemente sviluppati i contratti di formazione e/o qualificazione a vocazione artistica adattati alle singole discipline,
L. considerando che è opportuno incoraggiare la riconversione professionale degli artisti,
M. considerando che la libera circolazione dei lavoratori in generale, inclusi gli artisti originari dei nuovi Stati membri, è tuttora soggetta a certe limitazioni dovute alle possibili disposizioni transitorie previste dal trattato di adesione,
N. considerando che le produzioni artistiche riuniscono spesso artisti europei ed artisti extracomunitari la cui mobilità è spesso ostacolata dalla difficoltà di ottenere visti a medio termine,
O. considerando che il soggiorno degli artisti in uno Stato membro è il più delle volte di breve durata (inferiore ai tre mesi),
P. considerando che tutti questi problemi legati alla mobilità transfrontaliera, principale caratteristica delle professioni artistiche, mettono in luce la necessità di prevedere misure concrete in questo settore,
Q. considerando che è essenziale distinguere le attività artistiche amatoriali da quelle dei professionisti,
R. considerando che l'integrazione dell'insegnamento artistico nei programmi scolastici degli Stati membri deve essere assicurato in modo efficace,
S. considerando che la succitata Convenzione dell'Unesco costituisce un'ottima base per il riconoscimento dell'importanza delle attività dei professionisti nella creazione artistica,
T. considerando che la direttiva 2001/29/CE impone agli Stati membri che ancora non la applicano, di prevedere per gli autori un compenso equo in caso di eccezioni o restrizioni al diritto di riproduzione (reprografia, riproduzione per uso privato),
U. considerando che la direttiva 2006/115/CEE determina i diritti esclusivi di cui sono titolari in particolare gli artisti interpreti e il loro diritto irrinunciabile ad una remunerazione equa,
V. considerando che i diritti patrimoniali e morali degli autori e degli artisti interpreti sono a tal riguardo il riconoscimento del loro lavoro creativo e del loro contributo alla cultura in generale,
W. considerando che la creazione artistica partecipa allo sviluppo del patrimonio culturale e si nutre delle opere del passato, da cui trae ispirazione e materiale e di cui gli Stati assicurano la salvaguardia,
Miglioramento della situazione degli artisti in Europa
La situazione contrattuale
1. invita gli Stati membri a sviluppare o applicare un quadro giuridico e istituzionale al fine di sostenere la creazione artistica mediante l'adozione o l'attuazione di una serie di misure coerenti e globali che riguardino la situazione contrattuale, la sicurezza sociale, l'assicurazione malattia, la tassazione diretta e indiretta e la conformità alle norme europee;
2. sottolinea che occorre prendere in considerazione la natura atipica dei metodi di lavoro dell'artista;
3. sottolinea inoltre che occorre prendere in considerazione la natura atipica e precaria di tutte le professioni sceniche;
4. incoraggia gli Stati membri a sviluppare la definizione di contratti di formazione o di qualificazione nelle professioni artistiche;
5. propone pertanto agli Stati membri di agevolare il riconoscimento dell'esperienza professionale degli artisti;
La protezione dell'artista
6. invita la Commissione e gli Stati membri a creare un "registro professionale europeo" del tipo EUROPASS per gli artisti, previa consultazione del settore artistico, nel quale potrebbero figurare il loro statuto, la natura e la durata dei successivi contratti nonché i dati dei loro datori di lavoro o dei prestatori di servizi che li ingaggiano;
7. incoraggia gli Stati membri a migliorare il coordinamento e lo scambio di buone pratiche e di informazioni;
8. sollecita la Commissione ad elaborare, in cooperazione con il settore, un manuale pratico uniforme e comprensibile destinato agli artisti europei e agli organi interessati nelle amministrazioni, che contenga tutte le disposizioni in materia di assicurazione malattia, disoccupazione e pensionamento in vigore a livello nazionale ed europeo;
9. invita la Commissione e gli Stati membri in funzione degli accordi bilaterali applicabili ad esaminare la possibilità di iniziative per assicurare il trasferimento dei diritti pensionistici e di sicurezza sociale degli artisti provenienti da paesi terzi quando ritornano nei loro paesi d'origine e per garantire che si tenga conto della esperienza di lavoro in uno Stato membro;
10. incoraggia la Commissione a varare un progetto pilota al fine di sperimentare l'introduzione di una carta elettronica europea di sicurezza sociale specificamente destinata all'artista europeo;
11. ritiene infatti che tale carta, contenendo tutte le informazioni concernenti l'artista, potrebbe risolvere alcuni problemi inerenti alla sua professione;
12. sottolinea la necessità di distinguere con precisione la mobilità specifica degli artisti da quella dei lavoratori dell'Unione europea in generale;
13. chiede a tale proposito alla Commissione di fare il punto sui progressi realizzati in merito a tale mobilità specifica;
14. chiede alla Commissione di individuare formalmente i settori culturali in cui risulta evidente il rischio di una fuga di creatività e di talenti e chiede agli Stati membri di incoraggiare, mediante incentivi, gli artisti a rimanere o a rientrare nel territorio degli Stati membri;
15. chiede inoltre agli Stati membri di prestare un'attenzione particolare al riconoscimento a livello comunitario di diplomi e altri certificati rilasciati dai conservatori e dalle scuole artistiche nazionali europee e da altre scuole ufficiali delle arti dello spettacolo, in modo da consentire ai loro titolari di lavorare e studiare in tutti gli Stati membri, in conformità con il processo di Bologna; sollecita tutti gli Stati membri a tal riguardo a promuovere studi artistici formali che offrano una buona formazione personale e professionale e consentano agli studenti di sviluppare il proprio talento artistico nonché competenze generali per operare in altri ambiti professionali; sottolinea altresì l'importanza di proporre iniziative su scala europea per facilitare il riconoscimento di diplomi e altri certificati rilasciati dai conservatori e dalle scuole artistiche nazionali di paesi terzi, al fine di favorire la mobilità degli artisti verso gli Stati membri;
16. invita la Commissione ad adottare una "carta europea per la creazione artistica e le condizioni del suo esercizio" sulla base di un'iniziativa come quella dell'Unesco, onde affermare l'importanza delle attività dei professionisti della creazione artistica e favorire l'integrazione europea;
17. invita gli Stati membri ad eliminare tutti i tipi di restrizioni relative all'accesso al mercato del lavoro per gli artisti dei nuovi Stati membri;
18. invita gli Stati membri che non l'applicano ancora ad organizzare, nel rispetto della direttiva 2006/115/CEE e della direttiva 2001/29/CE, in modo efficace il pagamento di tutti gli equi compensi relativi ai diritti di riproduzione e delle eque remunerazioni dovute ai titolari dei diritti d'autore e dei diritti associati;
19. invita la Commissione a procedere ad uno studio che analizzi le disposizioni prese dagli Stati membri per assicurare in modo efficace ai titolari dei diritti d'autore e dei diritti connessi l'equo compenso per le eccezioni legali applicate dagli Stati membri a norma della direttiva 2001/29/CE e per lo sfruttamento legale dei loro diritti a norma della direttiva 2006/115/CEE;
20. invita la Commissione a procedere ad uno studio che analizzi le disposizioni prese dagli Stati membri affinché una parte delle entrate generate dal pagamento dell'equo compenso dovuto ai titolari dei diritti d'autore e dei diritti connessi sia destinata al sostegno dell'attività creativa e alla protezione sociale e finanziaria degli artisti, e che analizzi inoltre gli strumenti giuridici e i dispositivi che potrebbero essere utilizzati per contribuire al finanziamento della protezione degli artisti viventi europei;
21. ritiene auspicabile che gli Stati membri sudino la possibilità di concedere agli artisti un aiuto supplementare a quelli già in vigore, prevedendo per esempio un prelievo sullo sfruttamento commerciale delle creazioni originali e delle loro interpretazioni libere da diritti;
La politica dei visti: mobilità e impiego dei cittadini di paesi terzi
22. sottolinea la necessità di tener conto delle difficoltà che alcuni artisti europei ed extracomunitari incontrano attualmente per ottenere un visto ai fini del rilascio di un permesso di lavoro, nonché delle incertezze legate a tale situazione;
23. sottolinea altresì che le condizioni stabilite per la concessione dei visti e dei permessi di lavoro sono attualmente difficili da soddisfare da parte degli artisti in possesso di contratti di lavoro a breve termine;
24. invita la Commissione a riflettere sugli attuali sistemi per la concessione di visti e permessi di lavoro agli artisti e a mettere a punto una regolamentazione comunitaria in questo settore che possa portare all'introduzione di un visto temporaneo specificamente destinato agli artisti europei ed extracomunitari, come già avviene in taluni Stati membri;
Formazione lungo tutto l'arco della vita e riconversione
25. invita gli Stati membri a creare strutture specializzate di formazione e tirocinio destinate ai professionisti del settore culturale, in modo da sviluppare un'autentica politica dell'occupazione in questo ambito;
26. invita la Commissione a raccogliere tutte le ricerche e le pubblicazioni esistenti e a valutare, nella forma di uno studio, l'attuale situazione per quanto concerne l'attenzione prestata nell'Unione europea alle malattie professionali tipiche delle attività artistiche, ad esempio l'artrite;
27. ricorda che tutti gli artisti esercitano la loro attività in modo permanente, non limitandosi alle ore di prestazione artistica o di spettacolo sulla scena;
28. ricorda a tale proposito che i periodi di ripetizione costituiscono a pieno titolo ore di lavoro effettivo e che è necessario tener conto di tutti questi periodi d'attività nella carriera degli artisti, sia durante i periodi di disoccupazione che a fini pensionistici;
29. invita la Commissione a valutare il livello reale di cooperazione europea e di scambi nel campo della formazione professionale nelle arti dello spettacolo e a promuovere tali aspetti nel quadro dei programmi per l'apprendimento permanente e cultura 2007, nonché dell'Anno europeo per l'istruzione e la cultura 2009;
Verso una ristrutturazione delle attività amatoriali
30. insite sulla necessità di sostenere tutte le attività artistiche e culturali svolte segnatamente a favore di gruppi socialmente svantaggiati allo scopo di migliorarne l'integrazione;
31. sottolinea l'importanza delle attività artistiche amatoriali quale elemento cruciale di avvicinamento tra le comunità locali e di costituzione di una società dei cittadini;
32. sottolinea che gli artisti senza formazione specifica che aspirano a una carriera artistica professionale dovrebbero essere ben informati in merito a certi aspetti di questa professione;
33. invita a tale proposito gli Stati membri ad incoraggiare e a promuovere le attività amatoriali in continuo contatto con gli artisti professionisti;
Garantire la formazione artistica e culturale sin dalla più giovane età
34. invita la Commissione ad effettuare uno studio sull'educazione artistica nell'Unione europea (i suoi contenuti, la natura della formazione offerta – se formale o meno –, i risultati e gli sbocchi professionali) e a comunicarne i risultati al Parlamento entro due anni;
35. invita la Commissione ad incoraggiare e favorire la mobilità degli studenti europei delle discipline artistiche, attraverso l'intensificazione dei programmi di scambio fra gli studenti dei conservatori e delle scuole artistiche nazionali sia su scala europea che su scala extra-europea;
36. invita la Commissione a prevedere il finanziamento di misure e progetti pilota che consentano in particolare di definire i modelli adeguati in materia di educazione artistica nell'ambiente scolastico attraverso un sistema europeo di scambio di informazioni e di esperienze destinato agli insegnanti di discipline artistiche;
37. raccomanda agli Stati membri di intensificare la formazione degli insegnanti incaricati dell'educazione artistica;
38. chiede alla Commissione e agli Stati membri di esaminare la possibilità di creare un fondo di mobilità europea di tipo Erasmus destinato agli scambi di insegnanti e di giovani artisti; ricorda a tal riguardo l'importanza che attribuisce all'aumento del bilancio europeo destinato alla cultura;
39. chiede alla Commissione e agli Stati membri di lanciare una campagna d'informazione volta ad offrire una garanzia di qualità dell'educazione artistica;
o
o o
40. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio e alla Commissione nonché ai parlamenti e ai governi degli Stati membri.
(1) GU C 300 E dell'11.12.2003, pag. 156.
(2) GU C 76 E del 25.3.2004, pag. 459.
(3) GU C 233 E del 28.9.2006, pag. 124.
(4) GU L 149 del 5.7.1971, pag. 2.
(5) GU L 166 del 30.4.2004, pag. 1.
(6) GU L 167 del 22.6.2001, pag. 10.
(7) GU C 175 del 21.6.1999, pag. 42.
(8) GU L 376 del 27.12.2006, pag. 28.
(9) GU L 372 del 27.12.2006, pag. 12.
(10) Racc. 2000, pag. I-2005.
(11) Racc. 2000, pag. I-5251.
Ultimo aggiornamento: 13 giugno 2007
BP2011 MATERIALI Allarme autocensura! Cosa succede nei teatri pubblici, nei teatri stabili? di Mario Martone
I tagli alla cultura sono tagli alla spina dorsale del paese, che per me è costituita da asili, scuole, licei, università, ricerca, patrimonio artistico e archeologico, teatro, cinema, musica, danza, editoria e infine, certamente, televisione, una filiera che se solo riuscisse a mostrarsi unita nella lotta alla politica dei tagli otterrebbe certamente maggiori risultati e soprattutto si imporrebbe all’intera comunità italiana come una realtà decisiva per la vita di tutti i cittadini. Sentirsi descrivere da chi ci governa come corporazioni inutili da gettare beatamente al macero è la peggiore delle umiliazioni, ed è una cosa ben diversa dal venire chiamati al senso di responsabilità in un momento di crisi finanziaria, al quale nessuno pensa di sottrarsi.
Ma quello di cui vorrei parlare oggi è il modo in cui nei teatri italiani ci si attrezza per resistere ai tagli, argomento facilmente estensibile al sistema del cinema; ma restiamo all’oggetto delle buone pratiche, cioè il nostro teatro. Cosa succede nei teatri pubblici, nei teatri stabili? I finanziamenti diminuiscono vertiginosamente di stagione in stagione. I teatri stabili costano, hanno un personale più ampio di un teatro a gestione privata, le tutele dei diritti dei lavoratori, della sicurezza dei locali e di tutto ciò che un organismo pubblico è chiamato ad osservare costituiscono un blocco di costi in bilancio limabile fino a un certo punto. Resta dunque da tagliare la parte relativa alla produzione e alla programmazione, e qui entrano in ballo la creatività degli artisti, la loro disponibilità a lavorare guadagnando meno che in passato, la consapevolezza che si può far teatro anche con un una sedia, un riflettore e una pezza. Nessuno creda, infatti, che tagliando i fondi si possano ridurre gli artisti al silenzio. Ma qui si spalanca anche la vertigine dei buchi in platea, la paura che ogni poltrona rimasta invenduta venga rinfacciata come una colpa, la necessità di mostrare che l’autofinanziamento (cioè, in buona sostanza, il volume degli incassi) copra con un auspicabile quanto impossibile pareggio la vergogna di aver ricevuto dei finanziamenti pubblici, riflesso mentale ormai indotto nelle menti di tutti, a causa degli sperperi, delle clientele quando non del malaffare che hanno inquinato per decenni gli organismi pubblici italiani, e tra essi anche quelli teatrali.
Il risultato è che il sistema teatrale pubblico inizia ad autocensurarsi e ad essere attratto sempre di più nell’orbita del teatro a gestione privata, un teatro comunque finanziato con soldi pubblici, ma che mira per sua natura ad un altro rapporto con gli spettatori. Il primo dovrebbe essere teso alla problematicità delle scelte, alla complessità dei linguaggi, alla ricerca, alla valorizzazione della drammaturgia più bella e perduta o a quella contemporanea, alla formazione di attori consapevoli e alieni dalla sindrome della notorietà televisiva, al rapporto col territorio, il secondo viene invece a patti coi gusti del pubblico, gioca lì la sua partita e, quando gli riesce il colpo, ottiene il risultato di dare ad attori famosi per ragioni magari extra-teatrali il giusto contesto per esprimersi con bravura ed efficacia. Nessuna scala di valori tra i due sistemi, dunque, entrambi sono preziosi per il sistema teatrale, entrambi possono produrre cose egregie o deludenti. Ma si tratta di due cose diverse. E se il teatro pubblico ha costi di gestione superiori a quello a gestione privata, e superiori finanziamenti, è proprio perché la sua missione è più complessa, più rischiosa, dal ventaglio più aperto. Qui a Torino si ricordano memorabili spettacoli di Luca Ronconi alternati tra il Carignano e il Lingotto, e a nessuno può essere oscuro il senso della spericolatezza e della audacia di quelle proposte: che il teatro di Ronconi piaccia o no, lo Stabile di questa città deve al periodo della sua direzione moltissimo della sua statura nazionale e internazionale. Non è quello di Ronconi, ovviamente, l’unico modo di essere audaci e spericolati, e basta ricordare, come sempre è bene fare, cos’era il Piccolo e cosa facevano Strelher e Grassi nel dopoguerra per capire qual è la ragione dell’esistenza di un teatro stabile.
Ma se si perde quell’audacia e quella spericolatezza, se ci si determina a uniformarsi alla ricetta “repertorio-attori noti-allestimento funzionale”, in prospettiva cosa può accadere agli stabili italiani? All’estero, lo sappiamo, si battono tutt’altre direzioni. In Italia si danno casi come quello del Metastasio di Prato, che rinuncia autolesionisticamente a un direttore d’eccezione come Tiezzi, o come quelli, mostruosi, del Mercadante da Napoli, che, al netto dei giudizi sulle procedure violente della cacciata di De Rosa, pone oggi una questione di natura progettuale: in una città malata di autoreferenzialità, il suo stabile si appresta a varare la stagione degli attori napoletani famosi. Amatissimi attori naturalmente, a cui infatti spalancano felicissimi le porte tutti i teatri italiani a gestione privata. Ma serviva a questo far nascere lo Stabile? Non sarebbe stato meglio mettere il Mercadante in abili mani private e imprenditoriali? Almeno non avremmo assistito allo spettacolo penoso di consiglieri d’amministrazione che giocano a nascondino.
E i cartelloni? Cosa ci scambiamo? Sapete tutti che gli stabili si scambiano gli spettacoli da sempre, personalmente mi sono battuto contro questa pratica quando ero direttore del Teatro di Roma, ma in un momento di crisi e di tagli come questo cerco di utilizzarla positivamente innanzitutto selezionando le scelte (coi miei collaboratori parlo si scambi antivirus), e soprattutto perché riuscire a contenere i costi della programmazione consente di salvaguardare quel che resta per la produzione, e in particolare per produzioni fuori dalle logiche di mercato, per una rassegna di teatro indipendente come Prospettiva e per tutelare gli artisti del territorio. Ma anche negli scambi la caccia è ormai aperta non più alla proposta più innovativa o originale, ma a quella che per una ragione o per l’altra consenta la maggiore certezza di adesione del pubblico.
Siamo sicuri che questa forma di autocensura non conduca, alla fine, a una domanda che nel nostro paese potrebbe arrivare a risuonare benissimo, data l’involuzione generale, la domanda seguente: a che serve il teatro pubblico, se fa, con maggiori costi per la comunità, quello che fanno i teatri a gestione privata che costano meno? Se non altro per spirito di sopravvivenza, cari colleghi, diamoci una svegliata.
BP CHANNEL Il canale video delle Buone Pratiche Anticipazioni, conclusioni, visioni, previsioni, improvvisazioni (ovvero peperoni & champagne) di www.studio28.tv
Con questi video inauguriamo BP Channel, il canale tv delle Buone Pratiche. Un grazie di cuore a www.studio28.tv, che ha realizzato lo streaming (la diretta via web, per noi della terza età) della memorabile giornata del 26 febbraio alla Cavallerizza.
La playlist delle Buone Pratiche 2011 su YouTube.
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LE CITTA' Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie