Talmente bella da sembrare etica L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’era post-tecnologica di Andrea Balzola e Paolo Rosa di Oliviero Ponte di Pino
Per un teatro hacker Dall'introduzione a Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità di Anna Maria Monteverdi di Oliviero Ponte di Pino
Un corpo in progress Gli spettacoli della Biennale Danza 2011 di Fernando Marchiori
Nel non libro Per Alessandro Bergonzoni, in occasione dell'uscita di Nel (testo + DVD) di Oliviero Ponte di Pino
La lotta della coscienza costante Il Prometeo incarcerato con la regia di Salvo Gennuso nella Casa di Reclusione di Augusta di Jean-Paul Manganaro
La rivoluzione è un naso a cavallo William Kentridge porta in scena Il naso di Dimitri Šostakovič al Festival di Aix-en-Provence di Anna Maria Monteverdi
Smarketing per il teatro: come promuovere lo spettacolo in tempo di crisi Un corso alla Paolo Grassi di Milano di Marco Geronimi Stoll
E' una questione di sopravvivenza, dobbiamo fare tre cose: staccare gli italiani dalla televisione, farlo usando internet e il passaparola, portarli anche in teatri eterodossi e di nicchia. La scommessa è difficile ma il tempo è propizio.
Prima di approfondire, fatemi annunciare il corso di smarketing per il teatro alla Paolo Grassi di Milano.
Scuola Paolo Grassi di Milano ven 13 e sab 14 maggio 2011
Smarketing per il teatro: come promuovere lo spettacolo in tempo di crisi
docente Marco Geronimi Stoll
Rivolto a organizzatori teatrali, attori, registi, studenti, compagnie che vogliano trovare soluzioni nuove e necessarie per promuovere il loro lavoro.
Costo € 70 Chiusura iscrizioni e pagamento 09/05/2011
1. Teatro: c'è troppa offerta o poca domanda?
Povero teatro italiano in crisi di dipendenza da sovvenzioni. Pensate a questo delirio kafkiano del FUS e delle accise sulla benzina: pazzesco, no?
Eppure alla fine quanti hanno pensato “meno male” come se, dalla tavolata della Repubblica Fondata sul Tubo Catodico, qualcuno ogni tanto gettasse un pietoso osso al teatrante che magari scodinzola. Gratitudine per chi generosamente lo farà morire domani e non oggi.
No, i fondi siano basi su cui puoi fare progetti artistici solidi nel tempo, altrimenti di necessità si fa virtù e di virtù sfida.
La sfida è di farcela da soli; che non è il “farcela” imprenditoriale del vincente in cravatta anni '90, ma il suo contrario speculare, l'emancipazione conflittuale contro chi cerca di tapparti la bocca, di ucciderti per fame.
Grazie al cielo quello non è l'unico cibo che c'è in giro. Io non sono sotto a quel tavolo, e nemmeno molti di voi. Da sempre saltimbanchi e griot, cori greci e burattinai hanno dato al loro pubblico il cibo dell'anima ricevendone in cambio il cibo per il corpo. Anche quando c'era più fame in giro di oggi.
Capovolgiamo quindi la questione: perché la sera tutti i nostri concittadini si stravaccano sul divano a guardare la TV più brutta d'Europa? Perché intere generazioni non mettono piede a teatro mai una volta in vita loro?
L'Italia è piena di gente alienata che ha bisogno di dare un theatrum alla propria esistenza, che ha bisogno di pathos, disperatamente. Hanno bisogno di bellezza, perché non corrono in massa a riempire tutte le nostre poltroncine, anzi proprio loro sono gli ultimi che lo farebbero? E' la domanda che dobbiamo farci ogni volta che le sedie sono vuote, così ovvia che sembra banale, eppure ineluttabile: se non ce la poniamo, non andiamo da nessuna parte.
2. Vendere il teatro come se fossero mele biologiche
Anche la risposta sembra ovvia; ma come tutte le cose troppo vicine al nostro naso, la vediamo sfocata.
Non è solo una questione di costo dei biglietti. Non è solo una questione di scarsa alfabetizzazione di base.
E' la stessa motivazione per cui compriamo delle mele insipide e chimiche al supermarket invece che delle mele buone e sane dal contadino: abitudine, o meglio disabitudine indotta per passivizzazione. Comodità, o più precisamente pigrizia inculcata.
C'è un tandem diabolico tra TV e ipermercati. Si rinforzano a vicenda, non potrebbero vivere uno senza l'altro. Il centro commerciale è una periferica della televisione che si manifesta nel mondo reale.
Quando mettiamo qualcosa nel carrello, non vogliamo comprare concretamente quel prodotto, ci interessa la personalità artificiale che i pubblicitari hanno associato all'immaginario del prodotto. Come nella dieta dei cibi, anche la dieta mediatica riempie gli italiani di tossine, li anestetizza dalla capacità e dalla voglia di gustare i sapori veri. Soprattutto li lascia sempre famelici, insaziabili, anche se divorano tonnellate di schifezze. Li lascia sempre vuoti e inappagati qualsiasi cifra spendano. Passata la cassa e recuperato il bancomat, l'orgasmo dell'acquisto è già esaurito: nei sacchetti che scarichi dal carrello al bagagliaio adesso c'è solo roba, ormai l'hai comprata e per liberartene deve diventare prima possibile pattume; per tornare a comprare.
Si chiama marketing, induce il bisogno di un'assenza; il desiderio indotto dal consumismo non può che essere inappagabile, se no la domanda si saturerebbe e il mercato crollerebbe: che bello, bisognerebbe dire, che trionfo sarebbe il crollo di questo baraccone per tornare a un'economia sana, etica ed ecologica. E invece nessuno lo dice; tutti dicono “se c'è la crisi, aumenta la disoccupazione” invertendo la causa con l'effetto. Invece questo baraccone crea un sacco di disoccupazione; anche tra i teatranti.
Il teatro appaga bisogni reali e profondi; il teatro è anticonsumista per natura. Il teatro, come il gioco, il sesso, l'esperienza della natura, le altre arti: è un processo, non un prodotto. Quando sei felice non hai bisogno di merce, la felicità impedisce gli affari.
Il contadino che sceglie il bio non fa solo un'azione agrotecnica, compie anche un gesto etico e politico; è una ribellione oltre che un'autodifesa: difende il suo lavoro ma anche il suo territorio, noi e l'intero ecosistema. Il teatrante che sceglie circuiti laterali, programmazione via internet, autopromozione... difende il suo diritto a pagarsi il mutuo e la cena, ma anche difende tutti noi; la sua (faticosamente) conquistata autonomia economica è una sfida che serve al nostro territorio, a noi e all'intera cultura.
3. Il momento è propizio per cambiare tutto
Agenti? Assessori da arruffianarsi, critici da corteggiare? Sponsor canaglia che ci brandizzano i manifesti coi loro loghi puzzolenti? Basta: accendete il computer!
In pochi anni stanno cambiando tutti i fondamentali.
Ad esempio, le recensioni: devono servire ad avere sovvenzioni o ad avere pubblico? Se servono solo al secondo scopo, diventano più importanti quelle su internet: secondo voi, chi vuole scegliere dove andare stasera, legge davvero la critica su Repubblica o preferisce quella del pubblico di ieri sera su Facebook? E' il terziario 2.0; ogni critico intelligente lo ha già presentito da quando, dovendo scegliere una vacanza, invece di entrare in un'agenzia di viaggi è andato su Trip Advisor.
Altro esempio: quanti soldi vengono spesi ogni anno in affissioni e inserzioni? Che ritorno dei costi hanno? Spesso quello che rendono non vale neanche una piccola parte di ciò che costano in soldi, tempo, carta e, troppo spesso, anche in compromessi col buon gusto.
E le realtà più grandi, quelle che fino a ieri potevano permettersi un marketing manager, non sarebbe ora che, invece di licenziare i dipendenti, licenziassero piuttosto lui e assumessero al suo posto qualche giovane capace di fare il community manager, che costa la metà spende un ventesimo e rende il quadruplo?
Chi ha pochi soldi, è meglio che li usi bene. Poca carta e tanto internet; meno rumore e più senso; meno generalismo e migliore empatia con le nicchie. Soprattutto è il momento di approfittare dell'indebolimento della TV e dell'avvento dell'uso di massa dei personal media.
Non è fantascienza pensare, fra pochi anni, a spettacoli autoconvocati direttamente dagli spettatori col telefonino, o a gruppi d'acquisto solidale di cultura.
Già, perché oltre a tutto internet priva il teatro di quell'aura di pseudo-superiorità che tiene lontana tanta gente cosiddetta normale: se diventa una cosa strana, intrigante, curiosa, allora acquisisce un'alta quantità di informazione, è notizia, incuriosisce e avvince, fa parlare di sé. Genera passaparola.
Postulato: non è automaticamente vero che più è radicale meno è popolare, anzi se ci sai fare è vero il contrario.
Più andiamo avanti col digitale potente e fluente, più ci sarà prezioso e speciale ciò che non può essere trasformato in fiumi di zeri e uni: il corpo umano che agisce davanti a noi. Ne sono convinto, il mezzo di comunicazione più potente regalatoci da internet è il l'attore dal vivo, la sua voce, i suoi gesti, il suo occhio che vede il mio.
Quando succederà (e sta già cominciando a succedere) saremo pronti? o invece saremo ancora quel vecchio tipo di attore che sa fare comunicazione solo dal palcoscenico?
Lettera aperta e presuntuosa sulla chiusura del nostro teatro Perché cala il sipario sul Teatro a Canone di Simone Capula
E' ormai più di un mese che ho comunicato la mia decisione di smettere di fare teatro e quindi di lasciare il Teatro a Canone, ai miei due colleghi Lorenza e Luca. La fine della mia decennale esperienza teatrale avverrà a luglio, non posso lasciare prima perché fino a quella data ci sono lavori da terminare e scadenze di pagamenti, quindi dobbiamo lavorare per poter chiudere “la bottega” dignitosamente, senza debiti e portando a termine al meglio i nostri impegni di lavoro presi precedentemente.
Questa lettera serve a chiarire il perché di questa mia decisione che, credetemi, è sofferta e per niente presa alla leggera, anche perché a luglio sarò un disoccupato e questo non è facile e tanto meno piacevole. Ancora più difficile se presa a 47 anni, dopo 25 anni di carriera professionale nel mondo del teatro, prima come attore e poi come regista.
Da una parte la decisione è stata presa perché, molto semplicemente, non guadagno più abbastanza per poter vivere in modo dignitoso, insomma non si riesce più a sbarcare il lunario. Già questo sarebbe più che sufficiente per giustificare e spiegare la mia scelta, ma ho qualcosa da aggiungere. Scusatemi, ecco che sto diventando presuntuoso, ma del resto uno che da anni fa il regista non può che essere presuntuoso.
Penso che, chi ha scelto di fare questo lavoro in modo del tutto indipendente e senza scendere a compromessi, non possa fare a meno di smettere perché ormai il teatro è praticato, professionalmente, quasi e solo esclusivamente da chi scende a dei compromessi politici ed economici vergognosi. Se da una parte capisco che i politici cercano clientele non posso capire i miei colleghi che si piegano a diventare clienti e organici a politicanti meschini e disonesti. Spesso i miei colleghi si nascondono dietro a “il teatro è necessario”; ma a chi è necessario se lavoriamo solo ed esclusivamente per avere quattro soldi che sono una specie di elemosina da parte di politici inetti (senza distinzione di parte)? Si sta in attesa di essere accettati nei “salotti buoni” della cultura, quei salotti che critichiamo solo fin quando non ci vengono aperti, poi siamo pronti a rimangiarci tutto.
La scena teatrale è piena di teatranti meschini e vigliacchi, che tacciono su tutto per paura di perdere i quattro soldi che hanno in cambio del loro silenzio.
Posso fare un esempio che mi vede protagonista in prima persona, quando il sindaco di Chivasso, Bruno Matola, dimostrando tutta la sua disonestà e ignoranza, ha censurato il nostro spettacolo “A ferro e fuoco”. Solo il Teatro del Lemming di Rovigo ci ha ospitato nella propria sede per una replica, i teatranti hanno taciuto tutti anche quando sono stati messi a conoscenza di ciò che avveniva a Chivasso. Innanzitutto hanno taciuto i teatranti piemontesi che ora sono in piazza a difendere i privilegi avuti fino a questo momento. Del resto i vari direttori di teatri, residenze multidisciplinari, festival ecc... non sono responsabili di questa situazione che si è creata? Loro han creato questo sistema nel bene (molto poco) e nel male (tanto), tacendo davanti a clamorosi soprusi e clientele. Come possono lamentarsi? Come possono pensare di essere credibili? Come possono farci credere che si oppongono al fascismo della destra arrogante e violenta che c'è al governo se poi son pronti a manifestare con chi fa parte di questa destra fascista e arrogante (Barbareschi ad esempio)?
Come possono essere credibili quando han creato una vera e propria lobby culturale che ha fatto vere e proprie campagne elettorali per i politici di turno?
Questa situazione di clientele, di privilegi, ha portato alla creazione di una situazione orribile, che ha messo a tacere tutte le voci fuori dal coro, le voci non finanziate, che continuavano a lavorare malgrado tutto.
Politici e operatori culturali sono complici della morte della libertà di espressione, io non voglio essere complice della cultura asservita e serva che ha contribuito a creare il regime che governa l'Italia in questo inizio di secolo.
La lettera è presuntuosa lo so, ma credetemi è sincera.
Un grazie ai pochi che han creduto nel mio lavoro e prima ancora nelle mie capacità di regista e di operatore culturale. Grazie agli spettatori che hanno seguito i miei spettacoli (sono migliaia) e ai tanti allievi che hanno seguito i miei corsi. Tutte queste persone e i miei famigliari hanno fatto sì che in mezzo alle mille e più difficoltà io abbia potuto fare dignitosamente il mio lavoro teatrale e camparci per 25 anni.
Un grazie particolare a Lorenza e Luca che mi hanno affiancato in questi ultimi 7 anni i più complicati, ma sicuramente anche i più ricchi.
Con molta amarezza, ma senza rimpianti
Simone Capula, concedetemi, ex teatrante militante
La Ubu, il Patalogo e le leggi della Patafisica Per f.q. di Renata M. Molinari
Questo saggio verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista “Venezia Musica”.
Nell’ultima conversazione con Franco, in una situazione dolorosamente incongrua, all’improvviso, dopo un fitto e frammentato scambio di battute e informazioni sulla reciproca quotidianità, la sua bocca ha preso decisamente la parola: “…e adesso parliamo di scelte”, ha detto, schiudendosi in un sorriso, mentre lo sguardo avvolgeva di tenerezza ironica il mio stupore.
Capitava, con f.q. (così continuiamo a chiamarlo noi, “generazione Ubu”): tu andavi a parlargli, magari in Ubu, aspettavi il tuo appuntamento, o lui ti convocava - e io pensavo di sapere di che cosa dovevamo parlare - e all’improvviso, dopo qualche scambio di battute, fra una telefonata e una consegna alla redazione, ti chiedeva cosa pensavi, come stavi procedendo a proposito di una questione che sembrava scontato fosse la ragione del tuo essere lì. Tu non eri lì per quello, lui lo sapeva e il suo sguardo ironico lo confermava, ma da quel momento, da quello sguardo, sapevi che era affar tuo: quella sarebbe stata la questione da affrontare nell’immediato, anzi, era strano, quasi grave, che non fossi già all’opera. Non per niente la puntuale e temutissima affermazione “siamo in emergenza” era una delle parole d’ordine, quasi una formula patafisica, per il lavoro in Ubu.
Franco ti spiazzava, buttandoti nell’emergenza: era uno dei suoi modi di portarti diritto nel cuore delle tue scelte.
E ora che siamo oltre l’emergenza, anche ora, faccio appello a una regola aurea del nostro lavoro al Patalogo: per parlare di qualcuno, comincia col farlo parlare; per parlare di Franco, ricordarlo, salutarlo, cerco di riascoltarlo, di rileggerlo, proprio mentre parla del suo lavoro, della Ubu e del Patalogo, nel suo contributo d’apertura per lo speciale dei vent’anni dell’annuario.
“In armonia con le leggi della patafisica, è stato sempre il caso a sovrintendere ai destini del Patalogo – ma sia chiaro non del suo progetto – ogni anno incerto fino all’ultimo circa la sua fattibilità, non per snobismo nè per scaramanzia, e mai incerto come quest’anno; anzi sicuro del suo no per precise ragioni economiche, finché, quando già s’era fatto troppo tardi per l’avvio, il sì è stato deciso solo dal fato. Un fato in forma di ventennale …”
Certo il fato lo si può riconoscere in molteplici forme, ma quella più ricorrente nel lavoro in Ubulibri è accettare, quasi fosse naturale, di cominciare quando si è ormai fuori tempo massimo per l’avvio, e di ricominciare quando è scaduto il tempo della chiusura. Il fato come responsabilità nelle condizioni dell’emergenza.
In emergenza si arriva alla Ubu, o comunque si viene accolti nel lavoro: qualcuno se ne è andato, c’è una scadenza imprevista, il puntuale e sempre incontenibile ciclone Patalogo; e anche per Franco questo continuo avvicendamento ripropone ogni volta daccapo l’azzardo della scelta; come in teatro, del resto: osservare, avvicinarsi, sapere riconoscere e aiutare a crescere.
“Dovevo accettare come una circostanza normale l’avvicendamento dei ragazzi, che avevano il diritto di andare a crescere altrove. […] e io m’ ero ormai rassegnato a ricominciare periodicamente daccapo a insegnare di nuovo il mestiere, sempre con la tecnica dell’inserimento ex-abrupto, nel punto focale del lavoro, buttando subito addosso al nuovo entrato il suo carico di responsabilità, come un fatto naturale, reprimende comprese, perché risultasse acquisito che c’era una navigazione non comoda da compiere assieme senza retorica, ma con delle mete”.
La responsabilità come fatto naturale; ma quanta cura per arrivare a questa naturalezza! Solo il viaggio di f.q. dentro i teatri, vicino agli artisti, nell’intimità del lavoro e nell’implacabile meticolosità della scrittura potrebbe aiutarci a ricostruire i tempi e i modi di questa utopica cura della naturalezza.
Un naturalezza del tutto visionaria, la sua, ma gli scenari che lui aveva in mente erano decisamente concreti. Di una concretezza che aveva nella lotta contro il tempo, contro la ragionevolezza dei tempi - la loro dittatura - le condizioni stesse del fare.
Anche se solo per la durata di una redazione, di un’opera, per sperimentare e dirci che potrebbe essere possibile…
Per il resto, i tempi avanzano, eccome!
“M’è rimasta qualche difficoltà a riconoscere che i tempi da allora a oggi sono assai cambiati, esasperando l’individualismo e l’ostentazione, anche nei riguardi dell’esterno, della prima persona, e acuendo un senso di professionalità che pone in prima linea l’orario di uscita, compresi i quarto d’ora di preallarme da impiegato statale, regole che l’abbattersi del monstrum patalogico con relativa massa di lavoro può solo in parte attutire.”
In questo battaglia contro lo spirito dei tempi, la prima sconfitta tangibile è la forzata rinuncia alla doppia uscita del Patalogo Cinema e Teatro, per cause di forze maggiore, per “le citate leggi della casualità patalogica”, per la “perdita dell’interlocutore-animatore numero uno, Gianni Buttafava, uno choc e un’assenza che non ci permettevano di rimanere gli stessi”.
Ma la chiusura del Patalogo Cinema, pur accettata e decisa – quasi naturale - per i motivi suddetti, segna un allontanamento dallo spirito dell’originaria rivista “Ubu”: “una rivista bimestrale underground, ma di modi poco underground, durata solo sei numeri e otto mesi, ma che per il parlare che se n’era fatto poteva considerarsi un successo… Erano tempi in cui un dialogo interdiscipliare lo si poteva tentare.”
Cineclub, arte, concerti, politica giovanile: come se il dialogo fra le arti potesse, patafisicamente, svelare il disegno nascosto nelle cronache del quotidiano e le ricadute nella politica dei fenomeni di costume.
“Il doppio volume non produceva solo un effetto trainante, ma era la base di quell’interdisciplinarietà e del gioco dei rimbalzi per cui avevamo incominciato e che non abbiamo dimenticato, evidenziandolo nelle occasioni che meglio si prestavano al confronto diretto con la realtà: si pensi al travaglio che ha anticipato e seguito la caduta del Muro o al rotolare da Tangentopoli alla minaccia di un regime Mediaset.
Un Patacalendario in un paio di numeri ci ha permesso per esempio di mettere i fatti della scena al passo insensato con quelli della cronaca e della politica, mentre il teatro fuori dal teatro prende sempre più spazio.”
Più l’impresa è complessa, impossibile, quasi titanica, più resta aderente alla essenzialità dell’inizio, alla semplice necessità di adesione fra il fare e le intenzioni.
Il rimbalzo fra impresa impossibile e semplice, necessaria adesione alle intenzioni dà le coordinate al lavoro del Patalogo. Ma attenzione, qui scatta la particolare natura dell’emergenza patalogica: non rinunciare mai alla qualità della visione, anzi usare l’emergenza per mettere a fuoco, se non alla prova, la tenuta, la bellezza di questa visione.
Sono qui, devo fare quel che volevo fare. Non dire mai: “peccato, poteva essere così”, né, tantomeno: “abbiamo fatto quello che si poteva…” Tutti noi in Ubu abbiamo dovuto resistere - quando ce l’abbiamo fatta - alla tentazione di imboscare una foto, un documento, la battuta di un’intervista, letta da f.q. su chissà quale testata, magari lasciata in aereo, cercata per settimane e ora recuperata, riapparsa quasi a tradimento, oltre il tempo limite. Là dove chiunque avrebbe detto, e noi volevamo dire: “ peccato, abbiamo fatto quello che potevamo, ora non è il caso…”, f.q. ricominciava a impaginare con la felicità anche capricciosa di un ragazzo che l’ha avuta vinta.
E spesso a noi sembrava un capriccio, in fondo nessuno avrebbe colto la differenza, non cambiava poi molto avere proprio quella immagine lì… Per noi, ma non per chi davanti a quell’immagine si era figurato un possibile intreccio, e della realizzazione di questo intreccio aveva fatto la posta in gioco nella sua personale lotta contro il tempo.
Nell’emergenza la strategia più capricciosa – e creativa - è dilatare il tempo: quante volte ci siamo chiesti se f.q. non stesse volutamente temporeggiando per arrivare nella condizione “altra” dell’emergenza. Nella redazione del Patalogo, vera opera teatrale, come nelle prove di uno spettacolo, la lotta non è per arrivare in tempo, ma per fare retrocedere la curva del tempo.
Non rinunciare mai, anche quando sembra che il tempo a disposizione sia finito, non rinunciare mai, anche quando sembra che il nostro mondo non abbia più tempo, non rinunciare mai, mai.
Solo così puoi accettare – non a caso, più lui che noi - che il risultato presenti qualche limite, diciamolo pure, degli errori. Ma non devi accettare limiti, lasciare correre imprecisioni, mentre fai.
Non rinunciare, mai, a fare come pensi vada fatto.
Allora l’emergenza si mostra come altra faccia dell’utopia, quella che ci è dato percorrere nel' operosità del lavoro quotidiano, verso la meta prefissata.
Ma questo sogno che fa succedere le cose non può restare chiuso dentro un laboratorio - sia pure “totale” come qualcuno ha definito la redazione del Patalogo. Senza l’amore per il teatro, “l’orgoglio di amare il teatro”, come disse Ettore Capriolo, tutto questo non ha senso. Ed ecco l’intreccio del lavoro di redazione con l’incessante “andare in cerca” di f.q., il suo nomadismo attraverso le geografie del teatro: luoghi di creazioni possibili, di relazioni, di persone “osservate da vicino” nel loro fare, per il loro fare.
“Ma guai se questo discorso che si cerca di condurre e dà senso alla nostra sopravvivenza interessasse soltanto e soprattutto a noi che lo facciamo, nel deserto della solitudine mediatica, nel deserto della dispersione mediatica in cui ormai viviamo e lavoriamo. E’ il dialogo tra noi, dopo tanto affannarsi verso un altro teatro nel quale ci riconoscevamo […] a essersi smarrito nei personalismi o negl’intrichi di interessi. Se i funzionarietti e i reggicode dei potenti hanno condotto il teatro all’attuale stato di asfissia di cui gli specialisti della routine sembrano bearsi in massa rinunciando alle idee, non possiamo rimanercene in un cantuccio a piangere i nostri morti, da Trionfo a Müller, da Neiwiller a Bartolucci”.
Franco amava e ascoltava, più di tutti, le persone di teatro: nel tempo del Patalogo le uniche pause che si concedeva nel febbrile lavoro di impaginazione erano quelle dedicate ad ascoltare un attore di passaggio, un autore amico, un compagno di viaggi teatrali. Dava valore alle loro domande. “E’ una persona di cui mi potevo fidare, la sola alla quale avrei chiesto un parere vero, sul che fare, ora”, mi ha detto un’attrice, alla notizia della morte di Franco Quadri.
Non mi sembra che Franco amasse gli anniversari, le commemorazioni, semplicemente continuava ad amare, con le intemperanze proprie del sentimento, e a onorare chi l’aveva toccato, anche nel lavoro; magari li andava a trovare, o li accoglieva e li ascoltava, anche quando ai più sembrava non avessero niente di nuovo da dire.
“Abbiamo aperto questa sezione conclusiva non per uno sterile ricordo o per parlarci addosso commemorandoci, ma nella speranza che una rivisitazione del lavoro di vent’anni ci aiutasse in una spinta in avanti, aldilà della conclamata casualità d’uscita del Patalogo, ma esaltandone lo spirito, che era soprattutto di unione, nella gioia.”
“Perché il lavoro passato non sia sterile, ma serva a innestare attraverso questo recupero una continuità dell’azione creativa”.
Allora Franco parlava del Patalogo, ma che cosa possa essere, in senso più ampio, il “lavoro passato”, l’ha precisato, molti anni dopo, dedicando lo speciale del suo ultimo Patalogo ai grandi scomparsi del mondo del teatro, cercando di farli ascoltare di nuovo, di fare parlare, ancora, “queste persone con la loro voce per ricordare e ricreare un grande periodo di teatro che grazie a loro continuerà”.
“Per questo sono qua con una certa commozione”, aggiunse, introducendo la serata dei Premi Ubu, nel febbraio del 2010.
La commozione di chi, anche oggi, continua a credere che nel ricordare sia possibile ricreare, anche quando il tempo è finito, e non aiuta per niente, proprio non serve, dirsi: “abbiamo fatto del nostro meglio”.
TOTONOMINE Massimo Navone superdirettore delle Civiche Nel segno del brand l'accorpamento di Cinema e Teatro di Reazione ateatro
Con un lapidario comunicato, la Fondazione Scuole Civiche, ribattezzata da alcuni mesi "Fondazione Milano" (una questione di "brand", si è detto, non di modifica del "core business") ha comunicato l'esito dell'ennesimo bando per la direzione delle scuole d'arte. Però questa volta c’è una sostanziale novità: l'accorpamento della Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi con la Scuola di Cinema. Il ruolo d neo-direttore è stato affidato a Massimo Navone:
MASSIMO NAVONE DIRETTORE DI MILANO SCUOLA PAOLO GRASSI – TEATRO CINEMA TELEVISIONE "Milano, 19 aprile 2011 – La nomina del Direttore giunge al termine della valutazione e dell’audizione delle candidature pervenute dal 3 dicembre 2010 al 28 febbraio 2011 in risposta all’avviso per la formazione di un elenco di idonei all’incarico. Il Consiglio di Gestione ha scelto il prof. Massimo Navone, regista, docente di regia e già direttore del Dipartimento di Teatro dal 2003 al 2007 e dal 2010 a oggi. Il Consiglio di Gestione conferma con questa nomina la volontà, già espressa in altre occasioni, di valorizzare le competenze che sono maturate all’interno della Fondazione.
Massimo Navone avrà il compito, per l’a.a. 2011/2012, di guidare la Scuola, nata dall’integrazione tra il Dipartimento di Cinema e di Teatro, favorendo percorsi formativi trasversali e sinergie tra gli ambiti del Teatro e del Cinema."
Massimo Navone, cui vanno i migliori auguri di buon lavoro dalla redazione di ateatro, e che è stato nell'ultimo anno alla guida della Paolo Grassi, (dopo i due anni interrotti della direzione Schmidt e un anno di assunzione del ruolo da parte della direzione generale), assume l'incarico in un momento di grave tensione: dopo la mancata riconferma di Maurizio Nichetti in avanti il clima, soprattutto alla Scuola di Cinema, è stato particolarmente critico. Sotto accusa è la gestione stessa della FSC, stile e sostanza nei rapporti fra corpo docente, studenti e vertici della fondazione, inadeguatezza della programmazione didattica, assenza di progettualità culturale, scarsa condivisione di obiettivi e processi: un'incapacità sostanziale di rapportarsi con chi le scuole le fa e le vive sfociata recentemente in forme gravi di arroganza. In questo la funzione di Navone potrà forse essere tranquillizzante, e la sua nomina gradita, ma certo la sua posizione non sarà facile: solo pochi giorni fa un presidio davanti alla sede di Alzaia del Naviglio Grande ha duramente protestato contro i provvedimenti disciplinari particolarmente duri – cinque giorni di sospensione! - presi nei confronti di una docente rea di aver letto in una commissione del Consiglio Comunale un documento firmato dalla quasi totalità dei docenti, critico nei confronti della fondazione stessa (a questo provvedimento se ne sono aggiunti altri, e perfino denunce nei confronti di altri docenti).
Ma in particolare a Navone - incaricato per un solo anno - tocca il compito di dare contenuti (a posteriori) a un accorpamento immaginato più su basi burocratico-organizzativa che di merito (si veda il documento reso pubblico sul sito della fondazione) e pochissimo o per niente condiviso dai docenti e dagli studenti delle due scuole. Parallelamente la nuova direzione dovrebbe salvaguardare e valorizzare la tradizione e la credibilità di due istituzioni diventate una (in uno slogan recente gli studenti ironizzavano proprio sul "sommare due eccellenze per farne una"). Ci si augura che non debba anche difenderne le specificità, le articolazioni e l'autonomia: dallo stesso committente e azionista di riferimento, anzi unico (il Comune di Milano), e in un futuro molto prossimo.
Giuliano Pisapia, candidato sindaco per il centro-sinistra a Milano, si è pronunciato in diverse occasioni a favore delle Scuole Civiche d'Arte. Nelle liste che lo sostengono sono molte le personalità "amiche" delle scuole, come l'ex assessore alla cultura della Provicia Daniela Benelli, Pier Francesco Majorino, o la consigliera uscente Patrizia Quartieri, cui si deve una strenua difesa e un costante controllo - dall'interno del Consiglio Comunale - delle funzioni e prerogative delle Civiche (due anni di documenti in proposito sono reperibili sul suo sito).
Ma il programma di Letizia Moratti non è tranquillizzante: per il cinema (anzi per la televisione) si pongono sullo stesso piano la Scuola cittadina con il Centro Sperimentale recentemente sbarcato a Milano ("Prosegue la collaborazione avviata con il Centro Sperimentale di Cinematografia e Scuola Cinema di Milano e la realizzazione di progetti di sostegno e sviluppo delle professioni del settore televisivo"), mentre della Paolo Grassi, si parla in collegamento con i progetti per la danza: la Casa della Danza (progetto un po' déjà vu ma molto di punta) sarà realizzata in collaborazione con l'atelier di Teatro-Danza della Fondazione Scuole Civiche oltre che con l'Accademia della Scala. Un po' poco per una scuola da sessant'anni al servizio del teatro e della cultura teatrale della città.
La fusione delle Civiche: non voglio tranquillzzare (e grazie a www.ateatro.it per gli auguri di buon lavoro) di Massimo Navone
Ringrazio di cuore la redazione di www.ateatro.it per gli auguri di buon lavoro e anche per aver sottolineato la difficoltà del compito che mi aspetta nel dirigere due scuole diverse in una prospettiva di 'integrazione'. Ne sono consapevole, così come ho ben chiare le problematiche e le situazioni di tensione che hanno coinvolto le nostre scuole negli ultimi tre anni.
Le ho vissute in prima persona, a fianco dei miei colleghi insegnanti, di tutto il personale che quotidianamente lavora negli uffici e nei reparti tecnici, e degli studenti che vi stanno investendo anni importanti della loro formazione artistica e umana. Tuttavia se ripenso alle vicende degli ultimi 30 anni dell'attuale 'Paolo Grassi', ex 'civica scuola Piccolo Teatro', non riesco a ricordare un periodo che non sia stato in qualche modo 'critico' o perlomeno fortemente problematico.
Ogni Direttore, da che ne ho memoria, ha avuto sempre le sue belle 'gatte da pelare': di volta in volta su fronti e terreni differenti, ma non mi risulta che qualcuno abbia mai avuto vita facile. Com' è ovvio questa problematicità riflette da un lato la drammatica assenza di una politica culturale nel nostro paese, ma se vogliamo vederne anche l'aspetto positivo, sicuramente testimonia anche un'aspirazione al cambiamento, alla messa in discussione critica, caratteristiche vitali per strutture di formazione artistica come le nostre.
Sta di fatto che, ad onta di tutte le tempeste, le nostre scuole hanno sempre continuato a navigare riuscendo comunque a tenere bene la rotta. Lo testimonia il lungo elenco degli ex allievi che si sono conquistati stima e fama, così come quello degli insegnanti e degli artisti illustri che hanno continuato a lavorarci con soddisfazione. Lo testimonia il fatto che siamo ancora qua a discuterne.
Penso di interpretare il pensiero di tutti noi, insegnanti e studenti, dicendo che ora siamo davvero un po' stanchi e che ci piacerebbe navigare finalmente con un po' di vento a favore, per poterci concentrare di più, per qualche anno, sulla sostanza del nostro mestiere e meno sulla strenua difesa delle condizioni minime per poterlo esercitare. Parlo al plurale, perché una scuola artistica è una comunità di individui che condividono la stessa antica e sana ambizione: quella di contribuire a creare cultura viva e umana, cosa che si può fare solo in un ambiente sereno e attraverso una costante e quotidiana applicazione. Dico 'antica' perché questa ambizione ci viene da chi queste scuole le ha fondate e da chi, come noi oggi, ha dedicato in passato anni del suo lavoro per farle vivere e crescere. E' un patrimonio importante che rappresenta la nostra città e non va solo difeso, ma sostenuto e rilanciato perché ha grandi potenzialità ancora tutte da valorizzare.
Per questo ho deciso di accettare nuovamente questo incarico. Ma non lo faccio con l'intenzione di 'tranquillizzare', semmai con l'idea di lanciare una nuova scommessa sulla nostra capacità di reagire: forse a qualcuno sembrerà un'impresa velleitaria e vana, e non escludo che lo possa diventare se ci verranno a mancare gli strumenti e i mezzi per affrontarla, ma io penso che potrebbe anche rivelarsi un'occasione per inventare qualcosa di nuovo.
Mi piacerebbe che il dialogo tra www.ateatro.it e le scuole di Fondazione Milano restasse aperto, in modo da favorire lo scambio di opinioni e l'informazione su ciò che passo dopo passo ci riuscirà di fare. Come tutti i naviganti ci troveremo sicuramente ad affrontare nuove tempeste, (è ormai tradizione delle gloriose ex Scuole civiche di Milano), ma non è detto che il futuro debba sempre essere peggiore del presente o del passato.
Un caro saluto e buon lavoro a tutti voi
Massimo Navone
Rimediazioni tra teatro, fumetto e animazione Il convegno Bande dessinée, animation e spectacle vivant: remediation a Lione di Anna Maria Monteverdi
Il titolo del convegno internazionale e pluridisciplinare organizzato dall’Università di Lyon 2 presso il Museé des Moulages e ideato da Julie Sermon, era piuttosto intrigante: Bande dessinée, animation e spectacle vivant: remediation. Prendeva in considerazione una modalità artistica (la remediation) che oggi sempre più sta configurandosi come un vero e proprio stile, approdando anche a teatro. Termine difficile da tradurre, la remediation (rimediazione?) è entrata nel linguaggio comune grazie alla teorizzazione che ne hanno fatto nel 1999 Bolter e Grusin (Remediation: Understanding New Media, MIT Press, 1999); altro non è che la competizione tra vecchi e nuovi media (o meglio, la riabilitazione dei vecchi media), ma anche il “rimodellamento” di tutti i media (o di alcune caratteristiche di essi) solo apparentemente tra loro inconciliabili o incompatibili: “Un medium si appropria di tecniche forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o rimodellarli in nome del reale”.
Il convegno aveva come punto di osservazione centrale il teatro in questa prospettiva di apertura “rimediata” verso inedite scritture.
Gli interventi spaziavano dal contributo del fumetto manga all’evoluzione di una nuova drammaturgia teatrale alle modalità di animazione 3D approdata a teatro, dall’uso degli storyboard a fumetti per il copione teatrale all’uso “rimediato” dei dispositivi luminosi di inizio secolo o del teatro d’ombre nella scena contemporanea.
Bolter e Grusin non parlano espressamente di teatro, anche se identificano e isolano tra i principi propri dei nuovi media proprio l’immediatezza e l’ipermedialità (la moltiplicazione dei segni mediali), elementi evidentemente non estranei alla grammatica del teatro (teatro come “compresenza fisica di emittente e destinatario” secondo la semiotica; teatro come “insieme di rapporti interagenti”, primo assioma del teatro ambientale di Schechner).
Il punto dolente del convegno era forse la non chiarissima distinzione teorica tra remediation, ibridazione e adattamento, termini evidentemente non sovrapponibili, ma che in alcuni casi si confondevano. Se l’adattamento corrisponde a una modalità artistica (dal teatro al cinema o alla televisione) già sperimentata da decenni e che porta un linguaggio a forzarsi dentro le regole di un altro, l’ibridazione (ovvero, come ricordava McLuhan, “l’interpenetrazione di un medium in un altro”) corrisponde invece all’estetica del nuovo teatro degli anni Sessanta (il “mixed means theatre”), agli eventi Fluxus e agli happening: in qulle esperienze la con-fusione dei linguaggi faceva sì che si potessero mantenere inalterate le caratteristiche anche contraddittorie dei più disparati media, uniti in modo non convenzionale. La remediation rappresenterebbe invece l’assimilazione - o meglio l’imitazione - delle modalità di scrittura o dei codici di certi linguaggi emergenti (anche solo una parte di queste, ma immediatamente riconoscibili), ma rinnovati, ridefiniti, rimodellati e insieme integrati. In sostanza, la remediation sarebbe una rielaborazione interna alla scrittura, alla composizione, alla visione, alla forma della creazione artistica in una prospettiva completamente rinnovata dalle tecnologie multimediali.
Il convegno ha deliberatamente privilegiato il campo relativo alle nuove forme di scrittura popolari e di intrattenimento come l’ambito dei giochi digitali, del fumetto, del 3D inserite a vario titolo nello spettacolo attuale.
Remediation inoltre, è anche e soprattutto la possibilità di reviviscenza per vecchie tecniche che riemergono restando così al passo con la contemporaneità multimediale, rivestite di un nuovo look, contribuendo alla formulazione di una nuova estetica rétro-digitale.
In effetti forse la più logica interpretazione della rimediazione, seguendo le intuizioni di Bolter e Grusin e affiancandole ai fondamentali saggi sulla nuova estetica di Rosalind Krauss, sarebbe la reinvenzione di un dato linguaggio all’interno di una grammatica e di una tecnica assai distante ma resa meno estranea grazie alle caratteristiche proprie del digitale, che ricongiunge gli opposti e determina le mescolanze più impensabili. La contemporaneità artistica è fatta oggi di innesti paradossali e di produzioni miste, di complessi progetti che vagano indifferentemente nel web, nelle gallerie d’arte e nei teatri provenendo dai mondi più distanti. In questa generalizzata computerizzazione della cultura, la rimediazione produrrebbe una fenomenologia artistica aperta, mimetica e mutante, derivante dal web, dal fumetto, dal videoclip, dalla videoarte, dal vjing, dalla motion graphics. La più consistente qualità del multimediale è proprio la natura metamorfica: ma le immagini in movimento, le animazioni, i sistemi interattivi, i programmi informatici per una gestione live del materiale audiovisuale sono stati già da tempo assorbiti nella materia teatrale. Quale sarebbe allora, il compito della remediation?
Prendendo spunto dal fondamentale saggio di Rosalind Krauss, possiamo affermare che portare i (vecchi e nuovi) media a teatro significa assumersi la responsabilità di
reinventarli, deviandoli dagli usi normali che se ne fa, dagli scopi abituali, dalle regole, dalle convenzioni, dagli automatismi del mezzo tecnico.
Il medium di cui parla la Krauss non è semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere: medium è un linguaggio con una propria forma, una “matrice generativa” di convenzioni derivate dalle condizioni materiali, ma è fondamentalmente uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all’artista. La reinvenzione è un compito linguistico, non entra in campo solo il mero supporto tecnico: «Le condizioni materiali sono solo un punto di partenza per ciò che prende posto in o su di esso».
Jay Davis Bolter e Richard Grusin nel volume Remediation affermano che i nuovi media, ben lontani dall’essere entità indipendenti dai processi sociali ovvero, «agenti esterni che intervengono a scompaginare una cultura che sembra ignara di loro», emergono dagli stessi contesti sociali, economici, culturali operando sui vecchi media un processo da loro definito di remediation che porta cioè, un “rimedio” all’incapacità dei vecchi media di rispondere alle mutate esigenze della società dell’informazione. Secondo Bolter e Grusin, i media digitali hanno messo in crisi i vecchi media costringendoli a “reinventare” se stessi, in sostanza ad attualizzarsi, a rimodellarsi e a scendere a compromessi con le richieste di un mercato sempre più attratto dalle tecnologie avanzate. Queste “rimediazioni” continuerebbero a succedersi dal Rinascimento ad oggi: nei tempi moderni la fotografia ha operato una rimediazione sulla pittura, la televisione ha fatto altrettanto con il cinema e con il teatro:
La televisione è emersa, come forma mediale, quando il cinema hollywoodiano si era già affermato come forma culturale e aveva raggiunto uno status sociale e una stabilità sul piano economico. Durante i primi anni di trasmissione, la televisione si modellò su forme precedenti di spettacolo, come il vaudeville e il teatro, anche se ben presto iniziò a portare nelle case i film. Durante tutti gli anni Cinquanta la programmazione televisiva inizio a rimediare i classici generi cinematografici quali il film drammatico, il western, la commedia e il giallo. (Bolter, Grusin 1999, p. 162)
Alcuni artisti teatrali accettano la sfida del contemporaneo mascherando il vecchio con il nuovo (e viceversa), attingendo a soluzioni e a pratiche artistiche che mostrano l’innovazione tecnologica come naturale evoluzione di una tradizione tecnica che appartiene “geneticamente” al teatro. Una singolare forma di remediation o di reinvenzione del medium, in cui tecniche o modalità tradizionali si piegano alle esigenze della scena contemporanea.
William Kentridge, maestro di rimediazione.
L’artista sudafricano William Kentridge e il franco canadese Robert Lepage propongono un’estetica teatrale dal gusto antico che privilegia l’artigianalità delle macchine alle immagini create al computer e in cui arte e tecnica si ricongiungono felicemente nel valore e nel significato originario di techné: i loro spettacoli ricordano infatti, sia le scene mobili del Rinascimento e del Barocco (progettate da Buontalenti e dallo stesso Leonardo), sia quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla Lanterna Magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.
Se Kentridge manipola i disegni al carboncino con la tecnica dell’animazione filmica passo uno, la scena di Lepage sembra addirittura un congegno all’antica, rudimentale, arcaico e imperfetto, macchina e macchineria al tempo stesso (nel senso della mechané greca). La scena di Robert Lepage e quella di Kentridge sono costellate da una vera polifonia di linguaggi: l’effetto di ombre nel loro teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è combinato variamente con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell'attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore).
Kentridge (oggetto della conferenza di Sidonie Han, scenografa e marionettista) parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica o meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la reinvenzione del medium cinematografico attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, «non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa».
Se Lepage e soprattutto Kentridge sono emblematici di una tendenza alla rimediazione dei vecchi media che sta sempre più creando proseliti (dal mercato tornato in auge dell’analogico, al collezionismo delle tecnologie che “non ce l’hanno fatta”, ad artisti che mescolano deliberatamente vecchie tecniche, macchine e televisori a tubo catodico dentro installazioni interattive), dobbiamo riconoscere che numerosi sono i ricorsi, anche all’interno di ambiti di spettacolo commerciale (per esempi i concerti rock) a tecniche ottiche di fine Ottocento.
Gorillaz!
Un aggiornamento in chiave tecnologica del vittoriano trucco da baraccone Pepper’s Ghost è quello del gruppo rock Gorillaz (o meglio, la cartoon band che ha legato la propria immagine a videoclip ai fumetti) che ha infatti, letteralmente mandato in scena a suonare agli European Music Award i musicisti sotto forma di cartoni animati in computer graphics con tanto di asta di microfono, basso e batteria; proiettati su un impercettibile schermo suggerivano un effetto di immagine olografica, come avrebbe potuto immaginarla Dennis Gabor. L’evento è stato unanimemente salutato come punto di svolta della virtualizzazione dei supporti. Il trucco di riferimento è il “Pepper Ghost”, introdotto in teatro per la prima volta nel 1860: immagini fantasma che si materializzano sul palco. Un’immagine che non esiste realmente sullo spazio scenico ma che gli spettatori comunque credono presente, ma è una semplice illusione ottica. Inventato dal prof. John Henry Pepper e dall'ingegnere Henry Dircks infatti permetteva, tramite un gioco di specchi e l'utilizzo di una fonte luminosa, di proiettare l'immagine di oggetti o attori (non visibili direttamente dal pubblico) su una lastra di vetro posta inclinata a 45 gradi dietro il palcoscenico permettendo di materializzare queste figure dal nulla, farle interagire con gli attori e poi farle scomparire.
La fortuna di questi vecchi sistemi integrati (=rimediati) in una logica più complessa e articolata tecnologicamente, ha fatto sì che fiorissero studi storici su queste invenzioni di inizio Novecento. Ecco quindi presentato al convegno il risultato delle ricerche del giovane studioso francese Stéphane Tralongo su Anciennes méthodes, nouvelles techniques. Lo studio parte dai Décors lumineux del belga Eugène Frey ideati e allestiti nel 1909. Frey era pittore, scenografo e inventore di un dispositivo di proiezione su lastre di vetro che si è imposto nella grande scena lirica europea e che univa pittura, fotografia e illuminazione elettrica.
Notevole poi, l’intervento di Leonor Dealuny (Università di Caen Bassa Normandia) su artisti incisori e disegnatori francesi degli anni Venti (in particolare Frans Masereel) che dalla loro arte grafica di chiaro segno politico all’indomani della prima guerra mondiale, contraddistinta da figure melodrammatiche, caricaturali e grottesche, hanno realizzato le scene per un teatro fatto di inquietanti figure e processioni di ombre (l’allestimento per Liluli da Romain Rolland, regia di Louise Lara, 1926).
Liluli, regia di Louise Lara, ombre e scenografie di Frans Masereel (1926).
Una “maniera nera” che contrassegna la rappresentazione teatrale di questi anni, che sancisce lo stile del realismo e del miserabilismo del teatro sociale prima del secondo conflitto mondiale. Teatro e arti grafiche tentano insieme di restaurare un’intensità rivoluzionaria, inventando nuovi linguaggi visivi.
Rimediazione anche tra fumetto e teatro: dai lavori teatrali ispirati alle tavole a fumetti del catalano Carles Batlle, autore di una nuova drammaturgia della Catalogna postfranchista di cui ha parlato Fabrice Corrons (Università di Lione 2), alle commedie di Aristofane che trovano spazio nel lavoro a fumetti del greco Apostolidis e del tedesco Konig e di cui ha parlato Stéphane Sawas (Inalco Parigi); al fumetto guarda il regista teatrale Rodrigo Garcia per i progetti preparatori in forma di story board disegnati per gli spettacoli Giardinaggio umano e Versus (oggetto della conferenza di Marion Cousis, dottoranda all’Università di Parigi 3).
Azzardato ma pertinentissimo l’intervento di Asako Muraishi (Università di Strasburgo) che ha portato esempi di come il fumetto shojo manga (genere di fumetto giapponese) abbia contaminato la scena, addirittura la forma più tradizionale del teatro giapponese: il No. Tra gli esempi: lo spettacolo del gruppo Takarazuka composto da sole donne non sposate e tratto dal fumetto manga Berusaiyu no bara (La Rosa di Versailles).
Tra gli interventi più efficaci - in quanto mostravano nella pratica teatrale l’evidenza della rimediazione -, quelli del regista Jean Lambert-Wild che ha usato la tecnica del teatro d’ombre in alcuni dei suoi più recenti spettacoli, e quello di Ariane Martinez (Università di Grenoble) che ha mostrato come alcuni spettacoli del noveau cirque hanno preso a prestito modalità tipiche del fumetto manga e del cinema ad effetti speciali (come Matrix) nelle evoluzioni acrobatiche degli artisti, nei costumi, nella successione delle vicende, nelle fantasmagoriche sospensioni delle azioni in corsa, così come nei punti di vista insoliti per lo spettatore, grazie all’illusione congiunta di un trampolino e di un piano verticale. E’ il caso di La Syncope du 7 del Colletivo AOC.
Il convegno si è arricchito inoltre, della presenza di artisti visivi e teorici come Laurent Goldring e di giovani drammaturghi come Laurent Bazin (che ha parlato dell’influenza della nona arte - il fumetto - per il suo lavoro con la compagnia Pseudonymo). La stessa Julie Sermon, ideatrice dei colloqui, e numerosi docenti dell’Università di Lyon 2 come Claudia Palazzolo, maître de conference ed esperta di coreografia contemporanea, hanno animato i due giorni del convegno che per tematica e proposte di analisi teorica ed esempi pratici, si rivela come il primo importante appuntamento intorno alla remediazione teatrale.
Frans Masereel per Liluli (1926).
L’attore come Giano Cerimonia di e con Lorenzo Gleijeses di Dario Tomasello
Far accadere le cose senza il pudore di rappresentarle come se si appartenesse ancora al reale, come se fosse possibile appartenervi. In un mondo in cui la realtà supera continuamente la fantasia, l’unico riscatto possibile per la fantasia resta lo scacco di un tentativo continuamente frustrato e continuamente esibito. Cerimonia di Lorenzo Gleijeses (la Cerimonia per un negro assassinato di Arrabal rappresenta solo una remota scaturigine e, per fortuna, senza conseguenze), è un accadimento prezioso, destinato, ne siamo certi, a fare rumore nel disperato futuro del teatro italiano ben al di là dell’effettistica di luci al neon e suoni cavernosi che innervano la campitura buia del nostro tempo. La nuova frontiera dell’attore-artifex si staglia, in questa tranche teatrale con una capacità d’ibridazione di forza inusitata. Le coreografie ritagliano con precisione chirurgica i cerchi concentrici di un’immaginaria montagna purgatoriale, un labirinto in cui non si può se non smarrire sé stessi. Spalancata, nuda, fragile, la scena, nell’allestimento di Gleijeses, (deejay umbratile e sinistro in un milieu che ha finalmente spacciato la regia e le sue prosopopee), si offre come spogliatoio, refettorio cannibalico e divertito per il banchetto crudele dei fantasmi che lo abitano. Come quello che vive accanto (dentro), la silhouette di Manolo Muoio, visitata da una moltitudine di linee di fuga. Il corpo, scortato da una larva femminile (un indumento abbandonato), si getta in pasto al turbine metamorfico, circonda e viene circondato da infinite potenzialità mutanti, ne è assediato. La performance non è un alibi virtuosistico, ma la via d’uscita dalla trappola naturalista, per via di gesti inconsulti e rigorosissimi o di pose statuarie. Proprio da un’immobilità fuorviante, Anna Redi inaugura le sue magnifiche scorribande tra riascolti shakespeariani, follie di un trash televisivo di provincia, taciti sussulti del repertorio di Concetta Barra. Facendo tesoro della lezione beniana sull’amplificazione come desertificazione inesorabile, tensione verso un grado zero identitario, azzeramento di sé, Gleijeses ordisce tappeti sonori che sono possessioni demoniche di un passato che non torna e non potrà tornare, segna disperatamente il palcoscenico con il microfono (simulacro della voce e, dunque, del morto orale: lo scritto). Quello che sopravvive della tradizione drammaturgica è, infatti, un’eco destinata ad essere finemente triturata, decostruita in un orizzonte scandito da note distorte, barlumi di boati e urla subito implose come se fossero pronunciate dal fondo di un gelido acquario. Quando, in questo quadro, abbandonando in ultimo la consolle, compare Lorenzo Gleijeses, ha il viso tagliente e affilato di una creatura squaliforme, capace di dividere in due il mondo che osserviamo, il mondo che osserva. Come l’apparizione di un genius bifronte, Gleijeses indica, con la sua stessa figura, da una parte la persistenza ineludibile di una delle poche, autentiche, genealogie teatrali italiane (ovvero quella degli attori napoletani), dall’altra il definitivo impazzimento delle ultime schegge del Terzo teatro. L’attore come Giano ha uno sguardo di pietra, innocente ed efferato che si trasmette, per contagio, ai suoi compagni. Non si passa da questa porta se non al prezzo di una guerra atroce. Una guerra che ha le sue convenzioni, certo, ma anche la sua impietosa barbarie. Una barbarie giocosa e variopinta (fatta di parrucche in technicolor), che non ha alcuna voglia di celiare, al riparo dalla temperie ammiccante e chiaroscurale del presente. Anche in questo senso, dunque, lo spazio scenico esplicita felicemente una pulsione antitetica al reale, un desiderio di rimanere al di qua della concretezza acuminata delle cose. L’episodio della telefonata, anticipato da un frammento d’inopinata provenienza ruccelliana, lamenta (e celebra al contempo), un disguido, uno scarto incolmabile tra la finzione, il trucco, il mascheramento in cui rifugiarsi, lontano il più possibile dalla grossolanità corale di una quotidianità corriva. La comicità di questo frangente cruciale traduce in modo emblematico la caratura di un trauma privo del senso del sacro, avendo Gleijeses abbandonato la pretesa di un qualsivoglia rituale ieratico ed essendosi consegnato alla pseudo-etimologia di una cerimonia che “si rallegra” pienamente di sé e delle sue fascinose volute. In tale prospettiva, quello di Gleijeses non è più un corpo celebrante o sacerdotale, ma un fascio di nervi spiraliforme che si avvita ossessivamente, si perde in una vertigine inesausta di sé, in un raptus da rockstar ferita. Da questa consapevolezza non può che scaturire, accampandosi in un immaginario post-punk, la sinopia dell’ultima liturgia plausibile: ovvero quella del concerto che reclama, attraverso le note convulse dei Joy Division, i suoi martiri. L’ultimo respiro esalato al microfono è appunto una preghiera e una rivendicazione della parola, innamorata, nonostante tutto, della propria illusione: Don’t walk away, in silence…
Cerimonia
di Lorenzo Gleijeses
con Lorenzo Gleijeses, Anna Redi, Manolo Muoio
regia di Lorenzo Gleijeses
Una produzione: Teatro Stabile di Calabria - Teatro Quirino “Vittorio Gassman”
In tournée
La cucina, la sala, il bagno, la libreria. Il teatro, la fine Quattro spettacoli d'appartamento di Oliviero Ponte di Pino
Padre Nostro. Una preghiera da circo di e con Paola Berselli e Stefano Pasquini (Teatro delle Ariette)
Si portano dietro un’intera cucina con i pensili e il fornello. E’ la cucina povera, dai colori sbiaditi dai decenni, di un appartamento da tempo abbandonato a sé stesso. Quella stanza è anche un’aia, dove ci ruota un girotondo di oche-ballerine, ci dormicchia una cagnone e magari passa anche un asino.
Quella cucina è n’eredità, quella dell’appartamento dove viveva l’anziano padre di Paola Berselli. Quell’aia è quella delle Ariette, dove vivono lavorano Paola e Stefano. Un’altra eredità, che ha fato di loro, che erano teatranti, dei contadini, e poi dei contadini-teatranti, o dei teatranti contadini.
Paola racconta la morte di suo padre, la bandante rumena che si occupava di lui, la tribù dei parenti, la divisione dell’eredità.
E’ un racconto toccante, commosso, senza falsi pudori. C’è tutto lo struggente dolore dell’abbandono, la consapevolezza di una perdita inevitabile e insieme definitiva, irrimediabile. E’ inframmezzato dai gesti quotidiani, dai ritmi della vita casalinga, che continua a scorrere, quasi senza scosse, seguendo il flusso vitale. Il cibo, il sonno, la vita, la morte.
Viene da piangere, ad ascoltare questo rituale funebre. Ma quello che mi commuove, nel modo in cui racconta Paola, è la determinazione con cui cerca di cancellare la tragedia. Nella tragedia c’è un enigma, qualcosa che ci sfugge e che ci interroga. Nel racconto di Paola, i fatti si susseguono necessari. Ma così è andata, così come doveva andare, nel ciclo della vita.
Goethe schiatta!di Thomas Bernhard con Renato Palazzi
Una telefonata di Rossella: “Vuoi venire lunedì sera a casa nostra? Sai, Renato fa uno spettacolo.” Conosco Rossella Tansini e Renato Palazzi da sempre: lui è critico teatrale, da anni scrive ogni settimana sul “Sole-24 Ore”, mi ricordo che tanti anni fa era già salito sul palcoscenico in uno spettacolo di Tadeusz Kantor, al quale ha dedicato di recente un libro appassionato e illuminante, per illustrare quasi dall’interno il metodo di lavoro del maestro polacco. E’ un corpo a corpo con il mondo di un grande artista, Kantor. La materia e l’anima (Titivillus, Corazzano 2010), e insieme una danza al ritmo del suo pensiero.
Ma questa volta è diverso: non è una “apparizione straordinaria”, è uno spettacolo nato per sua volontà e costruito intorno a lui, con la complicità di un regista di lunghissima esperienza come Flavio Ambrosini; è prodotto dal Teatro Giocovita e sulla porta dell’appartamento Rossella, che si occupa di pr nel campo della spettacolo, ha affisso la locandina dello spettacolo).
Sono sorpreso da questa scelta improvvisa e tardiva, e forse un po’ imbarazzato. Renato Palazzi ha una sessantina d’anni, è un recensore attento e meticoloso, curioso e appassionato. Non tradisce nulla del facile esibizionismo di molti attori (e intellettuali), è piuttosto una persona introversa, e anche quando ride sembra quasi chiudersi in sé stesso. Insomma, non mi pare certo uno di quelli che hanno scelto di fare il critico come ripiego di fronte al fallimento di una vocazione d’attore o di regista, ma per amore del teatro, e per affetto nei confronti di chi lo fa, oltre che come gesto di militanza culturale e politica.
Naturalmente Renato e Flavio hanno valutato con attenzione le modalità del debutto. Un testo di Bernhard, un autore con cui Palazzi quasi si identifica. Però non uno dei bellissimi monologhi maggiori (“Non ha senso mettersi in competizione con i grandi attori che li hanno interpretati e li interpreteranno”), ma un pezzo breve, scovato su una rivista di filosofia come “aut aut”. Lo spettacolo, almeno nella fase iniziale, verrà recitato solo negli appartamenti e nelle case, casa loro e le case degli amici, per una quindicina di spettatori a sera (amici o amici di amici, come si direbbe sui social networks), in una dimensione conviviale. Anche le modalità interpretative sono attentamente calibrate: Palazzi non “recita” il monologo, ma è come se lo leggesse, o lo correggesse dopo averlo scritto, dai fogli che tiene sulla scrivania. Dunque una recitazione tra virgolette, con la ricorrente interpunzione di un gesto – uno scatto nervoso all’indietro del capo – che ricorda quello degli attori di Kantor...
E’ un’esperienza per certi aspetti rischiosa. Salire in scena, esporsi al giudizio degli altri è un gesto di grande coraggio, soprattutto da parte di chi per professione giudica il lavoro altrui, a cominciare proprio dagli attori: deve dunque rispondere a un bisogno personale profondo.
Cerco di immaginarne alcune, di carattere generale. Un’insoddisfazione rispetto all’attuale situazione della critica teatrale, sempre più marginalizzata dai mass media, e la necessità di ridefinire la posizione del critico – soprattutto da parte di un “critico militante”: nell’attuale emergenza culturale, “sporcarsi le mani” non basta più, bisogna mettersi in gioco totalmente. C’è anche il desiderio di condividere la stessa esperienza con la comunità dei teatranti, quasi a dire: “Anche se sono anni che vi guardo dalla platea, in realtà sono uno dei vostri”: anche per questo le lodi di attori e registi gli danno particolare piacere, più di quelle dei colleghi critici, forse imbarazzati a dove recensire un collega).
In passato numerosi critici si sono misurati come drammaturghi, traduttori o magari registi; a me, però, il gesto di Palazzi ricorda piuttosto quello di un drammaturgo come Giovanni Testori, che sale in scena e recita sé stesso e al tempo stesso si mette a nudo. Lo stesso Renato spiega che come critico sente maggiori affinità con la figura dell’attore che con quella del regista. Per molti aspetti, del resto, quella condotta da Ambrosino e Palazzi è un’operazione critica nei confronti del testo di Bernhard, proprio nelle modalità in cui viene condotta la rappresentazione. E quando parla della propria performance, Renato è inevitabilmente anche critico di sé stesso, del suo modo di essere in scena.
Però a sorprendermi più di tutto – più dello spettacolo, più delle chiacchiere con cena che concludono la serata in maniera conviviale, più delle lucide riflessioni dell’attore-critico sulla propria scelta, più del diario compilato meticolosamente, prova dopo prova, replica dopo replica,con i nomi degli spettatori e le loro reazioni – è l’autentica felicità di Renato, partecipata da Rossella. Ecco, questa palpabile felicità, questo entusiasmo, è il segno di un bisogno profondo, della ricerca di un altro equilibrio. Un’esperienza per certi aspetti eccezionale, nella ultradecennale carriera di un critico, ma che al tempo stesso pare centrale, quasi a dare un senso a tutto il resto della sua attività. E compensa ampiamente il mio imbarazzo, di fronte a questo outing, a questo segreto semi-pubblico, di fronte alla scrivania del salotto di casa, che diventa lo scrittoio di Berhnard e poi – forse - il catafalco di Goethe e poi il tavolo dove vengono apparecchiate, dopo gli applausi, le torte di spinaci e verdura, il salame, le bottiglie di Gutturnio, e poi piatte, posate, bicchieri...
The pleasure of Being: Washing, Feeding, Holding di e con Adrian Howells
Sono seduto, in attesa. Sto leggendo un foglietto di istruzioni. O, come leggo, alcune brevi "indicazioni", simili a quelle esposte nei centri massaggi o nei locali di lap dance:
Se scegli di stare nudo, indossare un costume da bagno o rimanere parzialmente coperto, voglio che tu sappia che non ti laverò né asciugherò i genitali."
Sapevo che si trattava di teatro: lo spettacolo era inserito nel programma di un festival di tendenza come Uovo, ha un titolo (The pleasure of Being: Washing, Feeding, Holding, ovvero più o meno Il piacere di essere: lavare, nutrire, abbracciare) e un creatore: Adrian Howells, che lavora al Dipartimento di teatro, cinema e tv dell'Università di Glasgow, e dichiara di esplorare nelle sue performance "l'idea di intimità e di rischio". E avevo dedotto che avrei assistito a un lavoro "one-to-one", cioè l'incontro di un solo attore con un unico spettatore, come mi era già accaduto in passato (a questo formato è dedicato un festival che si tiene a Londra: nella seconda edizione, ai primi di aprile al BAC, poteva capitare di restare nudi per cinque minuti in una cella buia o di prendere parte al proprio funerale).
Mi avevano comunicato via sms un indirizzo e un numero di telefono. Ero stato accolto da una ragazza ("Mi chiamo Margherita") che mi aveva accompagnato fin dentro un appartamento fatiscente e silenzioso, mi aveva indicato la sedia e consegnato il foglietto.
L'ho riletto due volte, finché Margherita non mi ha guidato nella stanza accanto e mi ha indicato un accappatoio bianco e una porta: "Quando è pronto, bussi. Le sue cose può lasciarle qui. Non entra nessuno", mi ha tranquillizzato.
Quando busso, ad accogliermi è un uomo sulla quarantina, morbidamente sovrappeso. Con ostentata dolcezza, mi informa che è lì per prendersi cura di me e del mio benessere; se farà qualcosa, qualunque cosa, che mi dà fastidio, mi dice che basta che lo avverta: ma questo era già specificato nel foglietto.
Gira la chiave nella toppa. Ora siamo soli, chiusi in una stanza da bagno bianca, ordinata e pulita, illuminata dalle fiamme di decine di candeline.
"L'acqua?", mi chiede accompagandomi verso la vasca, già odorosa dei sali e dei petali rossi che galleggiano sulla schiuma. "Per me è un po' troppo calda", gli dico.
Quando mi immergo, Adrian mi chiede di chiudere gli occhi. Inizia a far gocciolare l'acqua sul mio viso, sui miei occhi. E’ un lento rituale di purificazione, una cerimonia battesimale.
Mi lava, con delicatezza: prima il volto, le orecchie, il collo, poi le braccia e le gambe, il ventre e la schiena. Mi sciacqua, togliendo il sapone con lo stesso meticoloso affetto. Una cura materna, o come quella che si riserva ai malati o ai vecchi. Oppure ai morti.
Sto partecipando a uno spettacolo teatrale, ma non ho nulla da guardare. È un teatro della pelle, intimo e segreto. Tengo gli occhi socchiusi e mi abbandono a quella carezza. Il mio corpo è la scena su cui recitano dita, gocce e petali, che fanno riaffiorare memorie lontane, perdute, forse le origini...
Ma è anche una drammatica intrusione nella mia intimità. Quei gesti abbattono quella distanza tra i corpi che superiamo solo con i parenti, gli amanti o gli amici, oppure nell'affollamento delle ore di punta - nell'intimità anonima della massa dei corpi, che addomestichiamo con le geometrie degli sguardi e delle indifferenze.
Ma qui è diverso: il mio corpo nudo diventa oggetto delle precise attenzioni di un assoluto estraneo, alla cui volontà mi sono affidato incondizionatamente. Il patto dovrebbe essere quello del teatro. Ma dove potrei mettere, in questo caso, la quarta parete? Dove è il diaframma che salvaguarda il mio ruolo e la mia identità di spettatore? Perché forse in questo caso il vero spettatore è Adrian, che sperimenta e osserva le mie reazioni, misura la mia fiducia e i miei irrigidimenti, pesa gli abbandoni e i rifiuti... L'ha abbattuta, quella barriera invisibile, e ora mi tocca, mi sfiora, mi accarezza... In questa performance, il suo lavoro di regista-attore consiste in primo luogo nel manipolare lo spettatore: non con parole e frasi, che colleghino la distanza tra due soggetti, ma agendo direttamente su di me, sulla mia carne.
Ma in questo teatro dell'intimità, qual è il confine tra quello che è vero, reale, e la finzione? Qui è tutto vero, i tocchi e i profumi, il caldo e il freddo, le mie sensazioni e le reazioni che suscitano, i moti dell'anima che innestano e che colgo appena e non so dire, nemmeno a me stesso... Potrei solo fermare il gioco: "Basta! Questo no...", e ciò che rifiuto diventerebbe all'istante osceno e lo spettacolo finirebbe...
Quando esco dall'acqua, Adrian mi asciuga, con la stessa meticolosa premura. È solo il mio corpo. Nudo. Umido, ammorbidito dal calore dell'acqua, dai sali, dalle carezze... Il mio corpo, per quello che è, in quel preciso momento: maschio o femmina, bello o brutto, giovane o vecchio, sano o malato, grasso o magro... Ma in ogni caso, degno di attenzione, di cura, d'affetto.
Da un lato mi abbandono alle attenzioni di un perfetto sconosciuto, che ho incontrato per la prima volta pochi minuti fa e che forse non rivedrò mai più. Dall'altro, questo estraneo ora è al mio servizio: in qualche modo è schiavo del mio corpo e delle sue esigenze, esaudisce desideri che non ho neppure avuto il bisogno di esprimere.
Si sta prendendo cura del mio corpo. Non nella fredda logica di uno studio medico o di un ambulatorio. E siamo molto lontani anche dall'euforia dell'attrazione erotica e dell'incontro sessuale - anche se, almeno in teoria, qualcosa potrebbe sempre accadere...
Mi offre da bere, un bicchiere di acqua fresca. Ora sistema a terra alcuni cuscini, si siede, mi chiede di sedermi in braccio a lui. Di abbandonare il peso del mio corpo sul suo. Là dove appoggio i piedi, sulle piastrelle del pavimento, mi indica, c'è un asciugamano, affinché non senta freddo.
Cerco di mettermi a mio agio. La posa è quella di una Pietà. Adrian mi circonda del suo abbraccio, mi accarezza appena, mi accosta alle labbra, con le sue dita, un boccone di cibo.
Sento il suo respiro, il suo ventre che si gonfia ed espira. E lui probabilmente sente il mio: un respiro, che tradisce emozioni e inquietudini, magari disagio, e poi forse piano piano s'accorderà al suo.
The pleasure of Being esplora la fiducia e l'abbandono, l'attenzione e la tenerezza tra due esseri umani che non si conoscono. Parte dal presupposto che il teatro sia - nella sua essenza - incontro tra due persone (prima ancora che evento comunitario), e punta tutto su questa dimensione, e su una liveness che diventa contatto fisico, esplorazione dell'intimità, violazione del senso del pudore.
Questo teatro estremo e minimale è anche, forse, una forma di teatroterapia: per lo spettatore, al quale cerca di trasmettere benessere fisico, e forse autostima, dopo aver oltrepassato la barriera del disagio e dell'imbarazzo. Ma par di intuire che questa attività da "badante teatrale" possa essere una forma di autoterapia anche per Adrian, che dopo una serie di esperienze nel teatro d'avanguardia, e dopo alcune apparizioni come drag queen in cui raccontava ed esponeva la propria "autobiografia intima" a una platea più ampia (e dunque in una situazione in cui era difficile misurare l'impatto di questa confessione), trova in questa forma di scambio una dimensione che appaga alcuni suoi bisogni profondi (e che gli sta meritando inviti in festival prestigiosi e diversi premi).
Ogni volta che entra in teatro, lo spettatore si affida sempre agli attori, alla loro magia. Fino a sospendere l'incredulità, fino a illudersi che i personaggi a cui assiste sono veri, e dunque vale la pena di commuoversi per le loro avventure.
Qui c'è un abbandono di tipo diverso, che ricorda la fiducia con cui ci affidiamo alle mani di un massaggiatore o all'abbraccio di una prostituta. La cornice è però molto diversa: un evento teatrale in cui si paga un biglietto per essere spettatore, affidandosi alla cura di altri - gli attori - che hanno a cuore il nostro benessere (il divertimento e lo spasso immediati, o una qualche forma di emozionante catarsi oppure un ammaestramento...).
Ma se non avesse l'etichetta "teatro"? Se qualcuno ci spiasse attraverso una crepa del muro, come potrebbe interpretare questo strano spettacolo? Forse lo interpreterebbe come un rito di purificazione. Forse come una forma di terapia e di cura. Forse solo come un'attività che ha per obiettivo il benessere di uno dei due protagonisti (ma quale?). Oppure come una bizzarra pratica sessuale che ha per obiettivo il godimento di uno dei protagonisti (ma, ancora una volta, quale dei due?). Oppure vedrebbe semplicemente lo scambio tra due esseri umani, persi nell'immensità bella e terribile del mondo, che cercano di darsi reciproco conforto.
La porta del bagno si è chiusa, è come se fosse calato il sipario. Lascio l'accappatoio sulla sedia, mi rivesto. Emozioni e sensazioni continueranno a scorrere a lungo, come l'acqua che Adrian usa per sciacquare la vasca, in attesa del prossimo visitatore, e che sento scrosciare di là.
My Last Play di e con Ed Schmidt
Ed Schmidt non promette consolazione e conforto, anzi. Il suo "spettacolo d'appartamento" si intitola My Last Play, ovvero, più o meno, "il mio ultimo testo per il teatro".
Quello di Schmidt è un addio. Un addio alla sua professione di drammaturgo:
"Trentadue testi da quanto avevo sedici anni a oggi, che ne ho quarantotto. Nove testi rappresentati da compagnie professionistiche, anche se questo non vuol dire che ci abbia sempre guadagnato qualcosa. Due testi pubblicati."
E’ anche un addio alla sua biblioteca teatrale: oltre duemila volumi, per un totale di circa cinquemila pièce, più diverse centinaia di saggi. "Ho dato molto al teatro, che però mi ha restituito troppo poco. Mi sono letto tutta questa roba, diverse migliaia di pièce, e non mi è servito a molto". Dunque meglio fare piazza pulita: del teatro e dei libri.
Questo però non è il primo spettacolo che Ed Schmidt fa a casa sua: ma il precedente, a giudicare da un titolo come My Last Supper, non aveva il suo fulcro nello studio-libreria, ma in una cucina a vista accanto a una tavola apparecchiata, intrecciando tra teatro, cibo e rito.
Anche in questo caso, ho un indirizzo (a Brooklyn) e la promessa di una delle dodici-quindici sedie che Ed riesce a sistemare nel suo studio, per venti dollari. Sul giornale spiegano che ciascun spettatore avrà diritto di scegliere uno dei libri della sua biblioteca teatrale. Alla fine, quando si sarà liberato di tutti i suoi volumi, con la sua biblioteca teatrale finirà anche lo spettacolo. Con questo sistema, ha già disseminati più di seicento libri. A questo ritmo, per farla davvero finita mancano più di cento repliche...
Nello studio al piano terra della villetta dove abita, le sedie sono sistemate in tre file, in una piccola platea. Ed Schmidt - che mentre gli spettatori arrivavano e si sistemavano continuava a salire di sopra, preso nelle sue faccende domestiche - si piazza davanti al mobile-libreria che chiude la scena.
Photo by Beatrice Kilkelly-Schmidt
Inizia a recitare (in francese) una scena del Malato immaginario di Molière. Violenti colpi di tosse, nelle mani gli spunta un fazzoletto insanguinato. Ci racconta come è molto Molière, della realtà della sua malattia e della finzione del personaggio di Argante.
Verità e finzione, vita e morte, fiction e non fiction: è questa la griglia che usa per raccontare la propria vocazione teatrale, dagli anni del college e del primo bacio a una ragazza (naturalmente in scena, complice il Pigmalione di Shaw), fino alla morte del padre, lettore esclusivo di saggistica che certo non approvava le scelte professionali del figlio.
Finito il racconto, durante l’intervallo ciascuno spettatore avrà il tempo di scegliere il “suo” libro sugli scaffali: tra le file dei libri si aprono già diversi varchi, gli scaffali sembrano tristi come una bocca che sta perdendo i denti.
Ora le sedie sono sistemate in circolo, Ed raccoglie la piccola pila di libri, li prende a uno a uno, chiede chi l’ha scelto e perché, e da lì inizia ogni volta un nuovo racconto. Questa volta sono memorie puntuali, innescate da un evento preciso: il giorno in cui ha acquistato il volume, o la notte in cui l’ha letto, o l’incontro con chi l’ha scritto. Piccoli aneddoti, episodi di cui è stato davvero protagonista, episodi che gli hanno raccontato e di cui si è appropriato e che ora sono diventati suoi, altri rubati a qualche altro libro e anch’essi però raccontati questa sera in prima persona.
Per le prossime settimane, My Last Play è tutto esaurito. Di questo passo, tra pochi mesi Ed abbandonerà il teatro e forse anche questa casa (ci ha detto che sta divorziando). Non avrà nemmeno il problema di traslocare la libreria.
Forse.
Perché piano piano, dopo mille dichiarazioni d’intenti (“Voglio dirvi solo la verità... Sarò assolutamente sincero con voi, questa sera...”), Ed ha iniziato a instillare qualche dubbio. Forse non tutto quello che ci ha raccontato è vero, qualcosa ha rubato, qualcos’altro ha inventato, di certo il suo primo bacio non l’ha dato in cena, forse non ha mai lavorato come commesso alla libreria Strand, forse il suo rapporto con il “New Yorker” non è andato così... E forse il suo ultimo spettacolo non sarà affatto l’ultimo.
SPECIALE ELEZIONI Il sommario della grande inchiesta di www.ateatro.it Politica, cultura e spettacolo a Milano, Torino, Napoli, Bologna, Cagliari, Trieste, Siena, Reggio Calabria, Cosenza, Catanzaro, Varese di Redazione ateatro
LE CITTA' Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie
Rimediando il vecchio teatro (e il vecchio cinema) con le ombre a la maniére de Kentridge di Anna Maria Monteverdi
Avevamo notato (vedi Rimediazioni tra teatro, fumetto e animazione di Anna Maria Monteverdi ) che si si sta facendo largo ultimamente un ambito di studi e ricerche storiche collegate a pratiche teatrali e installattive contemporanee che, a dispetto delle tecnologie più sofisticate e interattive, si rivolgono all’indietro, al passato, alla tradizione o a macchine obsolete, a vecchie modalità artistiche e a dispositivi e programmi che “non ce l’hanno fatta”, mescolati con i nuovi formati digitali.
Il principio è quello teorizzato da Bolter e Grusin che lo hanno definito remediation (che potremmo tradurre liberamente, ricordando Stanislavskij, come reviviscenza): una opportunità di lunga vita per tecniche che oggi sembrerebbero obsolete e che invece vengono recuperate dall’oblio e dal banchetto del modernariato per dar vita a un nuovo stile multimediale che “sa di antico”. Prendendo spunto dal bellissimo testo di Roberto Casati, si può parlare di una recente “scoperta dell’ombra” da parte di artisti visivi e multimediali.
Sarà l’effetto Kentridge - un po’ come l’effetto Kulešov -, quello che sta deformando l’idea di teatro attuale, riproponendo a un pubblico dotato di Kinet, Xbox e consolle di ogni genere figurine ritagliate e animate con una vecchia macchina 16 mm, silhouette o effetti di luce artigianali?
L’onda anomala innescata da artista politico inarrivabile come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela, sta generando proseliti anche in territori non strettamente teatrali.
Come è noto, nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).
Questo komos contemporaneo sfila all’interno di tutte le sue opere, nelle sue linee essenziali per raccontare un mondo sotterraneo e invisibile venuto improvvisamente alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario. I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo, come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell'attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore).
Alle ombre è dedicata una delle più significative installazioni della giovane artista multimediale indiana Shilpa Gupta: in Shadows #1 e Shadows #3 (2007), le silhouette del visitatore, grazie a un sistema video interattivo, si mescolano alla folla inquietante di fantasmi in nero video proiettati.
Imparentato alla Gupta anche nella colonna di suggerimenti di you tube l’installazione video ludica interattiva Shadows Monster di Philip Worthington.
Impossibile non riconoscere in queste opere la mano (o l’ombra...) di Myron Kruger con la sua serie di installazioni videointerattive degli anni Ottanta Videoplaces, in cui è proprio la silhouette del visitatore catturata dalla videocamera a giocare con le immagini video e piccoli oggetti animati e grafica colorata.
Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker (attualmente in mostra alla Fondazione Merz di Torino). Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo, come ben illustrato da Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom alla proclamazione dell’emancipazione femminile.
L’aspetto multimediale è legato alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale, servendosi di piccoli bastoncini, delle figurine nere ritagliate a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.
Terminiamo questa prima carrellata sull’arte teatrale e tecnologica che si ispira alle ombre con lo spettacolo musicale Sade Song di Jean Lambert-Wild, direttore artistico della Comédie di Caen. Lo spettacolo che ha diretto, tratto liberamente dalle opere del marchese De Sade, è impostato su silouhette e straordinari giochi d’ombre e luci colorate in un’atmosfera di musica dal vivo di fortissimo impatto.
La ricerca al tempo del copiaincolla ovvero come incrementare l'impact factor di www.ateatro.it (grazie!!!) di Perfida de Perfidis
centone
componimento letterario formato con versi di autori famosi, raccolti a volte con intento parodistico (Enciclopedia della Letteratura, s.v.)
Nella Parte prima della nostra ricerca, abbiamo dissezionato il testo, cercando di evidenziare la sua struttura.
Nella Parte seconda della ricerca, abbiamo effettuato una valutazione quantitativa dei vari tipi di scrittura presenti nel testo sotto esame (senza dimenticare che ci sono citazioni anche nelle note).
Nella Parte terza della ricerca, a partire da questa analisi, abbiamo cercato di dedurre le modalità compositive seguite dall'autore, che ringraziamo di cuore: infatti le numerosissime citazioni da www.ateatro.it hanno dato un notevole impulso all'impact factor della nostra rivista.
Speriamo di ricambiare il favore, fiduciosi che questo articolo possa dare una spintarella anche all'impact factor dell'aurtore e della rivista che l'ha pubblicato, grazie a una ampia citazione (pari a circa il 100% del testo), effettuata naturalmente per motivi di studio.
Parte prima
Nella tabella che segue, nella colonna di sinistra, abbiamo riprodotto il corpo del saggio, mettendo in risalto:
1. Le citazioni con virgolette (in rosso).
2. Le citazioni di citazioni con virgolette (in arancione).
3. Le citazioni camuffate (in verde).
4. Il testo originale (in nero).
Ovviamente è possibile che qualche citazione (palese o mascherata) ci sia sfuggita: vi saremo grati se ce la voleste segnalare.
Nella colonna di destra, abbiamo inserito:
1. Le nostre annotazioni (in grassetto).
2. Le note originali, precedute dal [numero di nota tra parentesi quadre].
Il compito ci è stato facilitato dalla consuetudine della nostra webzine con Robert Lepage, al quale abbiamo dedicato numerosi saggi, consultabili s.v. nella ate@tropedia.
Attore e macchina scenica nel teatro di Robert Lepage
Attore-specchio-macchina
.
.
Il rapporto tra tecnologia e teatro rappresenta una questione nodale nell’opera di Robert Lepage. Partendo da tale rapporto, spesso percepito da molta critica come sbilanciato sul versante della tecnologia, il regista ha sviluppato e affinato nel corso di oltre un ventennio una personale poetica scenica ‘polivisuale e policronica’(1),
[1] B. Picon-Vallin, Hybridation spatiale, registres de présence, in Les écrans sur la scène, a cura di B. Picon-Vallin, Lausanne, Editions L’Age d’Homme, 1998, p. 33.
combinando la purezza dell’arte performativa all’automazione postindustriale’(2).
[2] Cfr.: C. Innes, Machines of the Mind, http://moderndrama.ca/articles/machines_mind
Ogni suo spettacolo può infatti essere definito come un’opera ipertestuale, un vero e proprio testo multimediale. Come evidenziato da Thais Flores Nogueira Diniza,
.
Combinando diverse strategie visive, verbali, linguistiche e musicali con le nuove tecnologie che arricchiscono l’esperienza teatrale, Lepage ha creato un teatro intermediale i cui effetti dipendono dai rimandi intertestuali e dai continui passaggi multimediali (3)
[3] T. Flores Nogueira Diniz, Intermediality in the Theatre of Robert Lepage, pp. 1-15: 2, http://www.letras.ufmg.br/nucleos/intermidia/dados/arquivos/SIM3_Diniz_proof.pdf
Inebriante e seducente “fantasmagoria di luci colorate, proiezioni, scritte luminose, suoni e musica” (4),
[4] R. Giambrone, Robert Lepage: il teatro ad orologeria, «The Rope», n. 2-3, marzo-ottobre 2008, pp. 101-110: 102, http://www.falsopiano.com/TheRope2-3.pdf
quello di Lepage è un “magico teatro di superfici, dove l’immagine si fa racconto e seduzione pura”(5),
[5] Ivi.
nel quale “si fa largo uso di azioni fisiche, prospettive multiple, giochi di luci e di ombre, mentre la drammaturgia procede rapsodicamente per ellissi e flashback, in una scrittura di impianto cinematografico” (6).
[6] Ivi, pp. 101-110: 101.
Ibridazione e ipertestualità, sperimentazione video, ricerca sul suono digitale sono alcuni degli elementi fondanti la scrittura scenica messa a punto spettacolo dopo spettacolo, a partire da La Trilogie des dragons (1985).
Ibridazione e intertestualità sono le cifre di questo nuovissimo teatro giovane (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage).
Nonostante il regista si definisca un formalista –in quanto per lui l’utilizzo della tecnologia permette di creare nuove forme
Lepage in un’intervista a Radio Québec risponde alle accuse definendosi un formalista: "La tecnologia implica chiaramente una forma, e io mi sono sempre definito un formalista (…). La tecnologia è interessante perché modifica la forma. Inventa nuove forme Gli scultori diranno che si fa una scultura con la pasta da modellare, si fa una scultura con il gesso, si fa una scultura con il marmo; è chiaro che è la materia che vi informa su come fare la vostra scultura, come raccontare quello che avete da raccontare. Trovo che le tecnologie siano proprio questo, cioè che i nuovi strumenti, le risorse che ci sono oggi pongono una sfida su come raccontare le cose".
- va precisato che “la tecnologia nel teatro di Lepage non è mai fine a se stessa>”(7).
[7] Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Pisa, BFS Edizioni, 2004, p. 83.
I supporti tecnologici rappresentano, infatti, per l’artista i moderni strumenti che ha a disposizione per sperimentare nuove possibilità di comunicazione, nuove strutture narrative:
la tecnologia –afferma- è interessante perché inventa nuove forme. Gli scultori diranno che si fa una scultura con la pasta da modellare, si fa una scultura con il gesso, si fa una scultura con il marmo; è chiaro che è la materia che vi informa su come fare la vostra scultura, come raccontare quello che avete da raccontare. Trovo che le tecnologie siano proprio questo, cioè che i nuovi strumenti, le risorse che ci sono oggi pongano una sfida su come raccontare le cose (8)
Per Lepage le tecnologie sono i nuovi mezzi a disposizione dell’artista contemporaneo, un po’ come un nuovo strumento (…) (Anna Maria Monteverdi; citazione da Lepage, traduzione di Anna Maria Monteverdi).
[8] Citato in A. Balzola, Anna Maria Monteverdi, Le arti multimediali digitali, Milano, Garzanti, 2004, p. 494.
Non è affatto in discussione l’impianto teatrale nel suo complesso (rappresentazione, recitazione, racconto), quanto le ricadute sul piano drammaturgico-narrativo prodotte dall’uso delle tecnologie a teatro. Siamo di fronte infatti a una ‘tecnologia’ che non intende stupire o spiazzare lo spettatore ma al contrario rassicurarlo (9).
Afferma Lepage:
La tecnologia nel teatro di Lepage non mette affatto in discussione l’impianto teatrale nel suo complesso (il concetto di rappresentazione, la funzione dell’attore, la narrazione) (Anna Maria Monteverdi, Attore specchio macchina, www.ateatro.it n.46.8).
La tecnologia scenica di Lepage non vuole suscitare meraviglia. Non vuole stupire lo spettatore ma al contrario rassicurarlo (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di R. Lepage).
[9] Cfr.: Anna Maria Monteverdi, Metamorphosis of the stage. Robert Lepage and La face cachée de la lune, http://www.digitalperformance.it/?p=1539
Sono accusato di imprigionare me stesso con la tecnologia, ma la tecnologia è uno strumento che mi permette di esplorare le cose. Oggi abbiamo a che fare con un pubblico che ha un vocabolario narrativo molto sofisticato. Non sto dicendo che stiamo diventando più ‘cinematici’ o più televisivi ma che abbiamo trovato un modo per invitare quel pubblico a teatro (10)
Citazione e traduzione di Anna Maria Monteverdi
[10] Anna Maria Monteverdi, Il laboratorio teatrale delle avanguardie, in A. Balzola, Anna Maria Monteverdi, Le arti multimediali digitali, cit., p. 84.
Vale la pena soffermarci sui riferimenti al cinema e alla televisione fatti in questo passaggio, per approfondire successivamente le questioni più squisitamente legate all’uso drammaturgico-espressivo della tecnologia.
.
Il cinema è un riferimento fondamentale per Robert Lepage. Oltre a sottolineare l’influenza –da lui spesso dichiarata – della cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva sul suo teatro, va ricordato che Lepage è anche attore e regista cinematografico (11).
Il cinema è un riferimento fondamentale per Robert Lepage, il quale spesso ha dichiarato che la cultura audiovisiva, cinematografica e televisiva ha da sempre influenzato il suo teatro portandolo a “réinventer le vocabulaire narratif” (Anna Maria Monteverdi, Attore specchio macchina, www.ateatro.it n. 46.8).
[11] Il suo primo film è l’hitchcockiano Le Confessional (1995) le cui eco riverberano in Les sept branches de la rivière Ota. Segue Le Polygraphe (1996), tratto dall’omonimo spettacolo teatrale. Il 1997 è la volta di Nô ispirato a Les sept branches de la rivière Ota. Possible Worlds (2000) è tratto invece da un dramma di John Mighton. Nel 2003 gira La face cachée de la lune, adattamento cinematografico dell’omonimo spettacolo del 2000.
Rovesciando i termini utilizzati da Jean-François Caron nel suo Robert Lepage cinéaste: vers une nouvelle écriture, si può tranquillamente affermare che non è possibile analizzare il teatro di Lepage senza tenere conto delle sue produzioni cinematografice. (12).
[12] «Il semble impossible d’analyser ses films sens tenir compte de ses productions théâtrales qui lui on valu une renommée internationale» (J. F. Caron, Robert Lepage cinéaste: vers une nouvelle écriture, in Le cinéma au Québec, a cura di S. A. Boulais, Québec, Fides, 2006, p. 141).
Al di là del medium impiegato le due esperienze condividono, infatti, immaginario, temi, stile e scrittura nel segno di una pratica artistica originale e multidisciplinare. (13)
[13] Cfr.: Ivi.
Per il regista il cinema (come la televisione) è innanzitutto un modello drammaturgico oltreché narrativo:
.
In Québec non c'è tradizione letteraria. Il nostro Molière è ancora in vita, ha cinquant'anni e si chiama Michel Tremblay. La tradizione letteraria non è presente come in Europa. La nostra tecnica di scrittura deriva effettivamente dalla televisione o dal cinema. Il teatro non è ufficializzato dalla scrittura: non si parla di scrittura teatrale ma piuttosto di uno spazio di scrittura cinematografica affiliata al teatro. Per quanto mi riguarda trovo la scrittura cinematografica più teatrale del teatro, risponde veramente alle regole della tragedia greca: le sceneggiature sono strutturate, sono dei sistemi shakespeariani. Mi stupisco dunque molto che la gente di teatro rifiuti questa scrittura. Con lo zapping, ciascuno può seguire una storia senza che venga raccontata in maniera lineare. Davanti al suo televisore uno spettatore può guardare contemporaneamente il calcio e un dibattito. E finisce per trovare il filo di ciò che guarda. E' come a teatro, è in grado di trovare il filo tutto da solo, sa che questo è un flashback (...) Troppa gente considera il teatro qualcosa di superato (14).
Citato e tradotto da Anna Maria Monteverdi
[14] Citato in Anna Maria Monteverdi, Robert Lepage tra cinema e teatro, http://www.digitalperformance.it/?p=1529
Oltre ad essere un modello drammaturgico privilegiato, il cinema è spesso anche fonte di ispirazione tematico-narrativa. Ad esempio:
.
In Les sept branches de la riviére Ota un’equipe di cineasti americani sta filmando un documentario su Hiroschima; in Les aiguille set l’opium il protagonista è a Parigi er un lavoro di postproduzione di un film, in Le Polygraphe la protagonista è un’attrice che dopo molti provini è stata scelta per girare un film . (15)
[15] Anna Maria Monteverdi, Integrazione tecnoespressiva e métissage artistico nel teatro di Robert Lepage, www.ateatro.it 87.50, http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=87&ord=50
Le qualità di sintesi, scarto e il ritmo di stampo cinematografico scandiscono l’impianto drammaturgico spettacolare costruito dal regista, facendo ricorso in chiave teatrale all’immaginario tecnico del grande schermo: flashback, primo piano, carrelli.
Il racconto scenico è diviso in vere e proprie sequenze in cui spazio e tempo diversi e lontani vengono rappresentati in maniera fluida grazie a un montaggio parallelo di azioni e situazioni (16).
[16] Cfr.: J. F. Caron, Robert Lepage cinéaste: vers une nouvelle écriture, in Le cinéma au Québec, cit., p. 144.
Suddiviso in ventidue brevi sequenze, Le Polygraphe fa esplicito riferimento al linguaggio dello specifico cinematografico portando in scena dissolvenze, flashback, primi piani, proiezioni, slow motion, accelerazioni, alternates scene. (17).
(Le Polygraphe) suddiviso in ventidue brevi sequenze con soluzioni di vera “cineficazione”: dissolvenze, flashback, primi piani, proiezioni, slow motion, accelerazioni, alternate scenes, con richiami espliciti al linguaggio cinematografico (Anna Maria Monteverdi, Integrazione ….ateatro n 87).
[17] «Alla fine degli anni Ottanta Robert Lepage portava in teatro con Le Polygraphe un vero e proprio "spettacolo cinematografico": simulazioni di riprese, punti di vista insoliti come fossero inquadrature di una macchina da presa, applicazione del montaggio alternato alla drammaturgia, uso frequente del flashback e del flashforward» (Anna Maria Monteverdi, Nuovi media, nuovo teatro?, www.ateatro.it 101.12, http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=101&ord=12).
La narrazione
Costituita da una successione di quadri (alcuni dei quali esclusivamente visivi) solo apparentemente slegati tra loro e aventi continui spostamenti di tempi e di luoghi, mette il pubblico teatrale nella condizione di dover indagare il senso, ricostruendo l’enigmatica vicenda (18)
[18] Anna Maria Monteverdi, Integrazione tecnoespressiva e métissage artistico nel teatro di Robert Lepage, www.ateatro.it 87.50,
http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=87&ord=50
In Le Polygraphe il regista realizza una scena “integrata” dove cultura e linguaggio visivo dei media si fondono perfettamente nella pratica teatrale.
Con Le Polygraphe si preannuncia l’interesse di Lepage verso una scena “integrata”, che attinga con disinvoltura al linguaggio e alla cultura dei vari media (Anna Maria Monteverdi, Integrazione tecno espressiva www.ateatro.it n. 87)
Come evidenziato dalla Monteverdi Il teatro di Robert Lepage
maschera un universo cinematografico che influenza narrazione interpretazione e scenografia, prendendone a prestito, al di là dei limiti dei generi e dei linguaggi, forme e modalità. (19).
[19] Anna Maria Monteverdi, Attore-specchio-macchina, www.ateatro.it 46.8,
http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=46&ord=8
Il cinema funge addirittura da fonte di ispirazione per scrivere il teatro ‘con la luce e con le ombre’ (20). E’ il caso di Les sept branches de la riviére Ota (1994) nel quale
[20] O. Ponte di Pino, Una tecnica del destino, in Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, cit, p. 8.
Lepage porta con disinvoltura sulla scena teatrale un montaggio parallelo di tipo cinematografico grazie anche all’introduzione del video: la scenografia, che ad un primo livello ricostruisce la tipica casa giapponese formata da porte scorrevoli semi-trasparenti è composta in realtà da sette pannelli di spandex che oltre ad “inquadrare” i personaggi, isolandoli dal resto dell’azione, fungono da schermi di proiezione. (21).
[21] S. Russo, La confessione cinematografica di un fan di Alfred Hitchcock, www.ateatro.it 86.48,
http://www.trax.it/olivieropdp/mostranew.asp?num=86&ord=48
Oltre ad ispirarsi ai tagli, alle inquadrature, all’impostazione visiva del cinema nel suo complesso, il regista “struttura la scena stessa come se fosse un grande schermo” (22):
[22] Anna Maria Monteverdi, Attore-specchio-macchina, www.ateatro.it 46.8,
http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=46&ord=8
“i sette pannelli che compongono la casa giapponese in Le sept branches de la riviére Ota, il muro in Le Polygraphe, la parete scorrevole in La face cachée de la lune, l’enorme cornice televisiva in Apasionada” (23).
[23] Anna Maria Monteverdi, Integrazione tecnoespressiva e métissage artistico nel teatro di Robert Lepage, www.ateatro.it 87.50,
http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=87&ord=50
In tutti questi spettacoli
La trama è spesso suddivisa in sequenze e quadri che ritagliano e isolano la scena letteralmente incorniciandola, ricreando vere e proprie inquadrature e movimenti della macchina da presa, mentre la storia procede attraverso originali raccordi imitando le modalità e le tecniche del film secondo un procedimento narrativo non linare, con distorsioni temporali in forma di analessi (flashback) e prolessi (flashforward) che mettono in crisi la cronologia stessa del racconto (24).
[24] Ivi.
Nell’impianto scenico-spettacolare predisposto da Lepage un ruolo fondamentale è affidato agli schermi ( di diversa forma e dimensioni). Su di essi (plasma, lcd, spandex) vengono proiettati video (registrati e live) diapositive, istantanee fotografiche, sequenze cinematografiche, immagini 3d generate al computer, effetti cromatici e giochi di ombre.
La scena di Lepage è costellata da una vera polifonia di linguaggi e di immagini: video (live o registrate), diapositive, istantanee fotografiche, immagini in 3 D generate al computer, o semplici luci colorate o effetti creati con la tecnica delle ombre. (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage)
Come acutamente sottolineato da Anna Maria Monteverdi, tali immagini assolvono una funzione drammaturgica ben precisa:
Nel teatro di Lepage le immagini assolvono una funzione drammaturgica ben precisa (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage):
evidenziano –scrive- un sottotesto, creano un contesto e l’atmosfera emotiva, mostrano l’interiorità o la memoria del protagonista, diventando suo ‘deuteragonista’ immateriale (soprattutto negli spettacoli ‘solo’) o specchio autoriflessivo; le immagini rivelano nel senso fotografico (dunque ‘chimico’) del termine, cioè fanno venire alla luce (25)
[25] Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, cit., p. 97.
Vale la pena soffermarsi su questo punto ricostruendo l’impianto scenico di alcuni spettacoli di Lepage.
In La face cachée de la lune (2000) la scena progettata da Carl Fillon
.
Costituita da semplici pannelli scorrevoli su binari, può aprirsi e scoprire il suo lato interno ‘nascosto’ ed è attraversata dall’attore grazie a un’apertura circolare che in base alle esigenze narrative, diventa oblò della lavatrice, astronave o apparecchio per la TAC; quando il corpo dell’attore è nella parte ‘nascosta’ della scena, viene ripreso da telecamere invisibili e le immagini vengono restituite in diretta, ma con effetto rallentato, sulla parete frontale, dando l’impressione di un cosmonauta che viaggia nello spazio in assenza di gravità (26).
[26] Anna Maria Monteverdi, Attore-specchio-macchina, www.ateatro.it 46.8, http://www.ateatro.org/mostranew.asp?num=46&ord=8
La proiezione mostra, concretandola in immagine, l’esperienza interiore del personaggio, permettendo all’autore di mostrare l’invisibile.
Il teatro in questo senso produce un nuovo sguardo, un'inedita "esperienza" visiva, sollecitando lo spettatore a guardare come normalmente non si guarda, perché il teatro mostra l'invisibile (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage)
Effetti di straniamento prodotti da un processo di frammentazione e moltiplicazione dell’immagine vengono letteralmente ‘incarnati’ dalla scena –sempre ideata da Fillon- in Elseneur (1995). Qua come ricordato dalla Monteverdi
.
Un enorme pianale metallico quadrato può alzarsi in verticale a 180°, sollevarsi parallelamente al palco, diventando indistintamente muro, soffitto o parete. Il dispositivo (detto “la macchina”) contiene, invisibile, un disco circolare, che permette, solidale con la parete o autonomamente, ulteriori rotazioni, lente o veloci; quest'ultimo dispositivo circolare ricorda l'enciclema, la piattaforma rotante che nel teatro greco veniva usata per mostrare quanto avveniva all'interno di un ambiente.
Esattamente collocato al centro del disco, un varco rettangolare usato come una porta, finestra o tomba. Alla struttura furono aggiunti due schermi laterali e un fondale. La scena, oltre alla struttura mobile, era così costituita da tre enormi pareti modulari; quelle che affiancavano la scena furono ricoperte di spandex e servivano per proiettare le immagini (in movimento e fisse) in diretta, raddoppiando Amleto, ingigantendolo o sezionandone una porzione del volto, producendo l'effetto di una visione stereoscopica (la visione contemporanea ma separata dei due occhi).(27)
[27] Ivi (Anna Maria Monteverdi, n.d.r.). Vedi anche: A. Lavander, Hamlet in pieces, New York, Continuum, 2001, pp. 93-150.
Lo spettacolo è strutturato come una ‘solo performance’ con un unico attore (Lepage stesso nella prima edizione) ad interpretare tutti i ruoli. In quest’ottica le proiezioni video hanno una funzione fondamentale in quando ‘agiscono’ come personaggi virtuali in rapporto con l’attore in carne ed ossa.
.
Emblematico il quadro in cui Amleto incontra Rosencratz e Guilderstein. Immerso in un blu soffuso il protagonista è al centro della scena. Alternativamente ‘indirizza’ la sua recitazione alla destra e alla sinistra del palco dove sono posizionate due microcamere. Le immagini che queste catturano proiettandole sulle pareti laterali sono in pratica i primi piani alternati di Rosencrantz e Guilderstein che dialogano con Amleto in scena.
Di particolare intensità la scena dell’incontro con Rosencratz e Guilderstein che altro non sono che la parte destra e la parte sinistra del suo volto ripreso in diretta da due microcamere. (Anna Maria Monteverdi, attore specchio macchina, www.ateatro.it 46)
Allo stesso modo il duello finale tra Laerte e Amleto è reso attraverso un gioco di soggettive, alternativamente proiettate sulla scena, riprese da una piccola telecamera montata alla base dell’impugnatura della spada (28).
Nel duello finale, una microcamera posizionata sull'elsa della spada di Laerte e di Amleto, riprende alternativamente quello che nel gergo televisivo si definisce il campo e il controcampo (Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage)
[28] Cfr.: C. Innes, Gordon Craig in the multi-media postmodern world: from the Art of the Theatre to Ex Machina, http://www.moderndrama.ca/articles/ gordon_craig_multimedia_postmodern_world_art_theatre_ex_machina_christopher_innes
Gli apparati elettronici, pannelli, schermi, sono sempre -in Lepage-
Metafora di uno sguardo, interno o multiplo, e intervengono per mostrare il rimosso, il lato nascosto dealla realtà, esattamente come i personaggi, storici o immaginari, che hanno il ruolo di testimoni-antagonisti, non sono altro che proiezioni (specchi o riflessi) di un interno di sé, manifestamente diviso e letteralmente spezzato in due, che reclama la propria esistenza. (29).
[29] Anna Maria Monteverdi, Metamorphosis of the stage. Robert Lepage and La face cachée de la lune,
http://www.digitalperformance.it/?p=1539
Come suggerito da Cristopher Innes, gli schermi sono fondamentali per le performance multimediali del regista così come lo sono gli screens nel teatro di Gordon Craig: (30)
[30] Cfr.: C. Innes, Gordon Craig in the multi-media postmodern world: from the Art of the Theatre to Ex Machina,
BP2011@Torino Orizzonti e visioni: Santarcangelo 2009/2011 L'intervento alle BP 2011 di Silvia Bottiroli, coordinamento critico-organizzativo di Santarcangelo 2009/2011
In questi giorni il Festival di Santarcagelo ha presentato il programma dell'edizione 2011, cuata da Emanna Montanari.
Per l'occasione, pubblichiamo l'intervento di Silvia Bottiroli alle Buone Pratiche del Teatro (Torino, 26 febbraio 2011), na riflessione sul triennio 2009/2011 del festival.
Santarcangelo 2009/2011, un’idea di teatro
L’idea che sta alla base del progetto triennale Santarcangelo 2009/2011 è quella di un festival consegnato a un gruppo, composto di artisti e di critici: Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, Enrico Casagrande di Motus ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe, con Silvia Bottiroli, Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci.
Si tratta di un sistema articolato, in cui artisti/gruppi si succedono alla direzione artistica del festival, affiancati da tre critici/organizzatori, da loro scelti, che con loro discutono le linee di ricerca e che si incaricano poi, insieme a un gruppo di lavoro più ampio, di renderle reali.
Quindi la questione non è tanto sulla “direzione agli artisti” quanto sulla forza, sulla tensione e sulla scommessa di tenere insieme la potenza di esplosione di tre visionarietà artistiche forti e inconciliabili e la potenza di ritmo, di apertura, di invenzione di scenari della critica, intesa come funzione intellettuale e come pratica.
E cioè il porre al centro la creazione come paradigma, lavorare con la dismisura e con la contraddizione; intendere la “critica” come pratica di rischio, di avventura fuori dai limiti del proprio pensiero, nella convinzione che non sia necessario tanto riflettere e discutere sull'esistente, quanto portare l'attenzione su ciò che oggi chiede di essere pensato, per la prima volta.
E rivendicare, al contempo, un pensiero all’organizzazione e una concretezza alla riflessione teorica, tenendo insieme un pensiero critico che si sporca le mani e un’organizzazione che cambia abitudini, per un gioco al rialzo dell'ideazione del festival. E sullo slancio verso una “eresia della felicità”, per dirla con il titolo di uno dei progetti di Santarcangelo 41 che si terrà il prossimo luglio, che sappia reinventare i termini del nostro lavoro...
Orizzonti
Gli orizzonti fondamentali su cui si è lavorato, in termini di obiettivi e di tensione, e su cui stiamo verificando ora, alla vigilia del suo terzo “movimento”, forze e criticità di questa modalità di lavoro sperimentale, sono:
- il rapporto con la località, il paese, i suoi cittadini, questa comunità inesistente che l'arte può inventare, questo luogo che gli artisti possono insegnare a guardare con altri occhi;
- l’incontro con gli stranieri: artisti, che sono stranieri sempre al di là della nazionalità; spettatori che arrivano da lontano. In questo senso ripensare anche i termini della internazionalità: non solo ospitalità e presenza di programmatori europei, ma relazioni approfondite e investimenti progettuali con dei nostri “simili” in Europa e nel mondo, anche diversissimi per misura (ad esempio Theater der Welt nel 2010) ma vicini per visione, etica, estetica;
- cittadinanza e partecipazione: forse sono questi i due termini di un festival che si pensa come costruttore di democrazia, di pluralismo, di pensiero, in relazione con le tensioni del presente;
- l’autonomia del gruppo di lavoro tecnico e organizzativo, che sia forte, che sappia essere carne e voce di una visione di teatro e non già esecutore di un progetto: la nostra è un’utopia comunitaria, di pluralità e di orizzontalità, che ci sta creando tante difficoltà ma che è una delle forme necessarie all'incarnazione dell'idea di arte e di festival che abbiamo. Non ci sarebbe Santarcangelo senza la militanza di tante persone, che lavorano tutto l’anno o pochi mesi per continuare a trasformare in realtà il sogno di un festival impossibile (e con loro, anche gli artisti, la cui militanza è altrettanto importante).
Visioni di futuro
Questa tensione, questo esperimento, possono continuare ora rimettendo in gioco il rapporto tra artisti e funzione critica, rilanciando l'idea di un collettivo e portandovi dentro aria nuova, perché non diventi una chiusura ma un prisma in movimento che scompone la luce in molti colori, e che si lascia attraversare da molte voci, comprese quelle dei cittadini, per creare un festival che abbia senso qui e ora, che sia un punto di riferimento per la collettività teatrale ma anche per altre “minoranze etiche”.
Lo speed date teatrale Una buona pratica made in Meda? di Fabio Ferretti e Michela Marelli
"Copiare è da stupidi, rubare da genietti." (Paolo Rossi)
In questi tempi culturalmente poveri - e non certo per mancanza di risorse intellettuali - cercare modi, soluzioni e possibilità nuove è una necessità. E una buona regola.
Quindi capita che per procurarsi quel lavoro che a casa spesso manca si giri un po' in Europa e si abbia - a volte - la fortuna di scoprire nuove prassi: retaggi di culture e sistemi teatrali in apparenza così diversi, ma poi nella pratica non così tanto.
Quando questo accade si torna indietro con qualcosa in più oltre alla costante, sconsolante sensazione di essere il fanalino di coda dell'Europa teatrale che conta.
Che vendere i propri spettacoli sia un dramma antico è un problema estremamente contemporaneo: il rimando ai soliti giochi di palazzo, amicizie di primo letto e parentele geneaologiche stratificate è pratica in uso per chiunque voglia liquidare in fretta l'impossibilità di circuitare adeguatamente. Aggiungiamo una sana incertezza nell'affrontare il macro-cosmo della distribuzione, una decisa mancanza di tempo ed energie mentali e il numero delle produzioni auto-prodotte che collezionano un debutto più due repliche sale vertiginosamente.
Mettici anche che "alla mail non rispondono mai" e che "figurati se guardano il video" e il quadro è completo.
Una sconsolante prospettiva.
Quindi, noi che di mestiere facciamo "le residenze teatrali lombarde", abbiamo pensato d'importare una prassi straniera, nordica per lo più: lo speed date, appunto.
Inventato per l’approccio uomo-donna, è presto stato traslato nel mondo degli affari: è una soluzione pratica che consente di moltiplicare le presentazioni, ottimizzando il tempo, per mettere a frutto al massimo la giornata.
Due squadre: programmatori da un lato, produttori dall'altro. I primi seduti al tavoli, i secondi pronti a spostarsi. Poco tempo, otto minuti a testa, poi un gong che ti costringe a cambiare posto.
In quella frazione abilità al massimo e creatività spinta per proporsi e convincere, guardandosi in faccia con la tranquillità di avere un ruolo già dato e di non doverselo guadagnare.
Pregiudizi in guardaroba, please.
Ti guardo in faccia e ti do del tu, e se vendi o compri è lo stesso, è il tuo lavoro e non c'è niente di male se il prodotto è uno spettacolo.
L'abbiamo fatto ospiti di Teatro in-folio, socio di Etre e animatore della Residenza Carte Vive, nella bella sala civica di Meda, con il sindaco Giorgio Taveggia e l’assessore Luca Santambrogio venuti a portare il saluto della città e rimasti decisamente colpiti da tanto impegno agonistico e partecipazione.
Anche noi di Etre ci siamo sorpresi: che il bisogno ci fosse lo sapevamo eccome, così tanto no. Alla fine più di 60 compagnie e 28 teatri presenti, con l'ultimo gong alle 18.00, ma l'ultimo teatro lasciato veramente libero alle 19,40. Nel mezzo tutti a pranzo insieme alla trattoria di fianco al teatro, a concludere gli affari più piacevoli.
Risultato positivo oltre le aspettative: tutti, ma proprio tutti, a dirci che di cose così se ne devono fare a non finire, perché ce n'é un gran bisogno. Anche i poveri programmatori, sottoposti a un fuoco di fila di quasi sei ore, si sono arresi all'evidenza che il territorio c'é, le compagnie scalpitano, gli artisti macinano e hanno bisogno di parlare a qualcuno. Non si può far finta di niente e continuare a fare gli operatori culturali.
Solo in un paio a borbottare che "è una roba troppo commerciale".
Forse sì ma intanto cominciamo a guardarci tutti in faccia sapendo cosa siamo venuti a fare, se poi scopriremo che qualcuno ha venduto e qualcuno ha comprato, si stappa una bottiglia: visti i tempi che corrono è un bel risultato no?
Meda, 16 maggio 2011
Abbiamo ripristinato il FUS, però Alcune riflessioni e qualche link di Redazione ateatro
Il ripristino dei fondi del Fus, che ha portato i sindacati a revocare lo sciopero del 25 marzo e ha fatto rientrare - ma non del tutto - la mobilitazione del settore, è stato senza dubbio un risultato positivo. Così come ci pare positivo l’interesse per la cultura emerso nell’ultima campagna elettorale per le amministrative, che abbiamo documentato nello speciale elezioni di www.ateatro.it.
Si è insomma segnata una battuta d’arresto nella politica punitiva nei confronti dello spettacolo e della cultura: un processo che pareva inarrestabile, e connesso a un più generale degrado della vita civile nel nostro paese.
Però...
Però il FUS, gloriosamente ripristinato ai livelli del 2010, ha perso il 20% rispetto al 2008 (solo per citare un dato recente, guardando più indietro lo svuotamento è ancora peggiore).
Però molte realtà minori rischiano già di chiudere, o hanno già chiuso silenziosamente.
Però nessuno si preoccupa più degli sprechi e delle storture del sistema teatrale italiano, che lo rendono vulnerabile a qualunque crociata ignorantesco-populista (per non parlare delle sovvenzioni a cinema, o della costosissima rete dei teatri lirici...).
Però la scandalosa gestione clientelare e discrezionale di ARCUS (ben più scandalosa della gestione dell’ETI) continua imperterrita, malgrado i moniti della Corte dei Conti.
Però non si parla più del sistema della rappresentanza all’interno del mondo della cultura e dello spettacolo.
Però la piattaforma della mobilitazione (a opera di sindacati, organizzazioni di spettacolo, movimenti) era ben più alta e ambiziosa del semplice reintegro del FUS, come dimostrano i documenti e le prese posizione dei primi mesi dell’anno, e l’ultima sessione Buone Pratiche, assai ricca di stimoli: si parlava anche di qualità della ricerca, tutela del lavoro, patto fra generazioni, e di riformulare e rinnovare profondamente, dall'interno, le funzioni, le modalità di gestione, il sistema di relazioni.
Però nel 2011 gli enti locali, che erano intervenuti per tamponare l’erosione del FUS, si trovano alle prese con tagli di bilancio, che spesso implicano drastici tagli all’investimento in cultura e spettacolo.
Però non si parla più della riforma del “fronte unico” della cultura e dello spettacolo (una delle acquisizioni delle lotte d’inizio anno), e neppure del “sistema cultura” in Italia (a cominciare dalla legge sul teatro, dal nuovo patto post-federalista Stato-Regioni).
Però nessuno ha fatto davvero i conti: quanto costa ai consumatori l’aumento della benzina e quanto effettivamente arriverà alla cultura e allo spettacolo?
Però non solo è più parlato del rapporto con il pubblico, o meglio con i cittadini: se non sono loro a riconoscere e rivendicare per primi il loro diritto alla cultura, le lotte dei lavoratori, gli appelli delle star, le prese di posizione dei politici, gli scioperi e le manifestazioni, rischiano di apparire solo la lotta di una casta di intellettuali che difende i suoi privilegi, in u momento di grande difficoltà per l’intero paese.
Però è stata accantonata la necessità di ritrovare le ragioni di fondo del rapporto fra cultura e Stato (anche con riferimento all'articolo 9 della Costituzione), per rifondare gli indirizzi e i criteri del sostegno pubblico e i meccanismi di selezione.
Però c’è un Però anche a questi Però.
Però la riflessione continua.
www.ateatro.it propone alcuni interventi, che offrono diversi spunti di riflessione sulla situazione attuale. Intrecciando queste analisi con i dati che emergono dallo Speciale elezioni e con le proposte emerse dalle Buone Pratiche, possiamo provare a rilanciare il dibattito.
Altrimenti il rischio è che al prossimo Brunetta (di destra o di sinistra), al prossimo Bondi (di destra o di sinistra) ci ritroviamo daccapo. E con altre occasioni perdute...
Lo spettacolo: un presepe o un'industria? L’intervento al convegno “L’opera lirica: un futuro possibile?” di Renato Quaglia
Qui di seguito, l’intervento di Renato Quaglia al convegno “L’opera lirica: un futuro possibile?” organizzato dall’Associazione per l’Economia della Cultura e da Federculture, svoltosi a Roma il 3 maggio 2011.
L'articolo che il "Giornale dello Spettacolo" ha dedicato all'incontro.
Non credo che il mio intervento debba ribadire quello che prima di me altri hanno già ripreso: riduzione delle risorse pubbliche, il tema della Scala in rapporto agli altri enti lirici, la specificità di ognuno, la necessità di una maggiore qualità manageriale, il tema degli organici eccessivi, dell’elevatissimo costo del lavoro, dei corpi di ballo… Sono tutti aspetti di una criticità che ha radici profonde, ma non è irrisolvibile.
Vi vorrei proporre invece un punto di vista diverso, particolare, che sono convinto accomuni anche le altre componenti dello spettacolo dal vivo.
Per farlo, inizio raccontandovi un aneddoto significativo e attinente al tema che stiamo trattando. Con Alessandro Leon ci siamo trovati nel 2006 in una Commissione mista promossa dai Ministri dell’Economia Padoa-Schioppa e della Cultura Rutelli. La Commissione aveva ricevuto l’incarico di studiare e proporre “misure volte all’incentivazione del sostegno finanziario privato a favore del patrimonio culturale e dello spettacolo”. Eravamo tre componenti esterni, in una commissione composta da dirigenti e funzionari dei due ministeri. I lavori rimasero per settimane incagliati tra veti contrapposti, di fronte a una architettura che sembrava far reggere l’intera economia italiana su minimali percentuali di accise, detrazioni di imposta, calcoli iva applicati a cifre irrisorie nelle poste di bilancio nazionali. Tant’è.
Elaborammo con grande fatica una serie di proposte, organizzate su alcune linee-guida, una delle quali partiva dal presupposto e dalla necessità di non solo facilitare l’intervento privato verso la cultura, ma di rimettere in moto, rilanciare i consumi culturali, incentivando il cittadino alla partecipazione e alla spesa culturale.
Tra le proposte ve ne era una (che cito per gli esiti, non per l’originalità della proposta) che era riuscita, dopo infinite discussioni con le parti rappresentative del Ministero dell’Economia, ad avere tutte le adesioni riguardo la possibilità che gli abbonamenti alle stagioni degli enti lirici, dei 12 enti lirici, abbonamenti nominali, potessero andare in deduzione, non per l’importo intero, ma per il 19% del costo. Un’inezia, forse solo significativa per il valore simbolico. Un po’ per cercare l’effetto che agevola l’acquisto di medicinali, o di occhiali da vista … Questa proposta entrò nel Consiglio dei Ministri di metà settembre di quell’anno e ricordo che rimanemmo il giorno dopo in attesa di leggere sui giornali l’esito. Ebbene, il CdM aveva discusso la proposta, era piaciuta, ma nel dibattito l’aveva spuntata il Ministro dello Sport Melandri: quella deduzione si sarebbe applicata non per gli abbonamenti alle stagione degli enti lirici, ma per quelli alle palestre ginniche. Infatti da quel momento e ancora oggi, chi si abbona a una palestra può consegnare al suo commercialista la ricevuta del costo sostenuto, per una insignificante detrazione dalla cartella delle tasse.
Non credo meriti discutere il fatto in se, né trovare vincitori e vinti tra i diversi protagonisti di questa vicenda.
Più interessante è porci il problema di come mai sia potuto accadere; ci può aiutare a comprendere che non possiamo derubricare la sottovalutazione delle questioni che interessano lo spettacolo dal vivo con semplici affermazioni riguardo “l’incapacità della politica a comprendere le nostre ragioni”.
Non basta. Non basta più.
Quel contesto era avvertito, quella compagine governativa era attenta. Dobbiamo porci il problema di quale sia stato (e continui spesso a essere) il meccanismo che ha portato a questa inattesa deviazione, a questo inaspettato esito. Imprevedibile se visto dal punto di vista di chi fa questo mestiere, comprensibilissimo se visto dal resto del Paese. Si, certo, è la cultura del “non si mangia con la cultura”, di chi ritiene che il confronto sia soprattutto una questione muscolare. Ma è anche, se non di più, l’indicazione della distanza che permane, anche in un contesto colto, politicamente avvertito, tra i diversi valori in campo. E’ emblematico di una incompetenza, di una non conoscenza, di cui siamo in larga parte corresponsabili.
Anche la vicenda del reintegro del FUS spero si sia tutti d’accordo: non è una vittoria. Se lo è ha il sapore di quelle di Pirro. E’ un ministro che passato oltre, torna sui suoi passi e messa la mano in tasca, ne estrae i denari per l’elemosina. Convinto dalla moral suasion di una star del palcoscenico, non dalle ragioni di centinaia di imprese, o dalle potenzialità e dalla crisi di un intero sistema produttivo, di cui quello lirico è unico al mondo, non dal dovere di non dismettere patrimoni su cui anche si fonda la convivenza, la tradizione, la rinomanza, l’offerta, la riconoscibilità, la produttività, la specializzazione professionale, l’innovazione creativa e di prodotto italiana.
Dicevo, è utile comprendere le ragioni di questa sottovalutazione, di questa sminuizione, di questa non considerazione. Non credo sia solo e tanto una questione politico-ideologica. E’ troppo facile attribuire alla maggioranza i guai di questa fase. Certo, la destra è storicamente meno attrezzata e interessata alla cultura odierna. Ma anche questo è un luogo comune, non so se l’elenco delle occasioni perse o degli errori dimostrerebbe una differenza così schiacciante nel confronto tra le parti. Si tratterebbe semmai di qualità del personale culturale disponibile – ma questa è un’altra questione, che ci porterebbe lontano.
Quello che credo influisca è una reale non conoscenza del fenomeno. Non basta che le associazioni di categoria annuncino in conferenze stampa unificate numeri e dati di occupazione, impatto economico, dimensioni e ricadute, se questo accade solo nel momento dell’estrema rivendicazione pubblica.
Il Paese maggioritario, quello vero, non quello che frequenta le sale o che frequentiamo, non i 5 milioni che una recente indagine calcolava leggono i giornali, comprano i libri, sono abbonati a Sky e la7, hanno una vita culturale curiosa e partecipe... Il paese maggioritario, gli altri 51 milioni non sanno che questo non è “un gioco per fannulloni”. Non sono tutti e solo “centri di spesa inefficienti e clientelari, nei quali non c’è trasparenza e non si giustificano gli occupati”, luoghi dove “la borghesia paga solo il 20% del costo dello spettacolo se va a vedere l’opera, mentre l’operaio la partita se la paga per intero”, esempi di una cultura che “è attualmente un pannolone un po’ indecente, con il quale si coprono rendite personali” (Ministro onorevole Renato Brunetta, Ravello-Lab, ottobre 2008).
Quei 51 milioni di cittadini sanno che ci sono (conoscono e riconoscono) le star della direzione d’orchestra, i grandi registi, i primi attori, qualche etoile. Ma non sanno che un buon teatro non è il presepe dove questi pochi grandi artisti si esibiscono, non sanno che un buon teatro è una industria, un luogo dove si concentrano eccellenze professionali, managerialità complesse, artigianato dai saperi antichi, tecnologie avanzate, organizzazione del tempo liberato delle comunità e gestione dell’offerta di alta gamma nazionale.
Non lo sanno perché il sistema della produzione e della gestione dello spettacolo in Italia, a differenza del cinema e della televisione, non ha saputo rappresentarsi anche come industria. Ha accettato di affidarsi esclusivamente a una o due delle sue componenti costitutive: il regista (o il direttore d’orchestra) e l’interprete (l’attore, il cantante, il danzatore). Ha costruito solo su di loro il racconto di se stesso e non ha coltivato una parallela rappresentazione (ma soprattutto: una parallela qualità professionale) delle altre componenti del suo sistema produttivo .
Mentre il cinema e la tv coltivavano un racconto complesso, esaustivo di se stesse, facendo comprendere cosa fossero i centri di produzione, i set, la complessità, l’articolazione, l’interdipendenza delle professionalità necessarie a produrre un film, una trasmissione televisiva, a garantire un palinsesto, e come ciò fosse in grado di esprimere la cultura nazionale e una identità italiana non retorica… mentre cinema e televisione rappresentavano la necessità della segmentazione di ruolo dell’industria, il loro essere industria culturale, il valore occupazionale, economico, il ciclo produttivo; valorizzavano le eccellenze delle funzioni diverse da quelle degli interpreti, come la scenografia, la fotografia, il montaggio…; mentre restituivano la reale dimensione non semplice, ma strutturale del processo di produzione dello spettacolo, facendone un pilastro su cui reggere l’architettura di valore e lavoro nazionale… Lo spettacolo dal vivo ha accettato di farsi raccontare solo dal gesto d’arte dell’interprete o del direttore. Ha accettato di rinunciare al suo racconto e ha lasciato nell’ombra la sua complessità, portando in proscenio solo i campioni, incapaci di rappresentare l’industria che anche lo spettacolo dal vivo rappresenta.
Lo spettacolo dal vivo non ha saputo aggiornare la propria rappresentazione. E’ rimasto ancorato alla centralità delle figure pubbliche che ne hanno retto le sorti nell’ottocento e nel novecento: l’attore o il cantante, e il regista o direttore. Al massimo si affida alla divisione di compiti che Strehler e Grassi rappresentarono a metà del secolo scorso: un tempo (e un modo, un contesto) troppo distante
Non è solo un problema di “racconto”, di comunicazione. Anzi: il racconto è solo la conseguenza ineluttabile del principio di realtà. Lo spettacolo dal vivo non ha saputo valorizzare la propria complessità, non ha saputo riconoscere di essere un sistema articolato, che chiedeva e chiede altissime professionalità non solo nelle figure pubbliche illuminate sul palco dai riflettori, ma anche ai molti altri livelli della catena produttiva: i sovrintendenti, i direttori di produzione, di distribuzione, gli scenografi, i costumisti, i direttori di scena, i direttori amministrativi, i responsabili della promozione, della comunicazione … Non solo non ha riconosciuto e raccontato la propria complessità, ma in molti casi non ne ha coltivato nemmeno la qualificazione professionale, perché molte funzioni sono rimaste di poco livello, accettate nella mediocrità, lasciate nell’ombra di una produttività accessoria, terze o quarte file rispetto a quanto si rendeva visibile e sottoposto al controllo pubblico. Le terze e quarte file sono rimaste linee non valorizzate, a volte affidate a straordinari professionisti (noti solo nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori, spesso militi ignoti sconosciuti anche ai propri Consigli d’Amministrazione), altre volte area per uomini senza qualità, alla Musil. Uomini senza qualità che indeboliscono le strutture industriali, ne fiaccano la spinta.
Troppo poca attenzione è posta a far crescere la struttura produttiva, a migliorare i profili professionali di chi ricopre i ruoli di progettazione, gestione, amministrazione, realizzazione; troppo poca la consapevolezza che è la qualità dell’intero ciclo produttivo a determinare la qualità finale. Lo sforzo, la spesa, la contrattazione è tutta ancora solo concentrata a garantirsi i campioni della scena: direttori, cantanti, attori, registi … Indispensabili, senza dubbio. Che saranno sempre al centro di ogni progetto culturale e d’arte. Ma sulle cui spalle non ricade, né possiamo pensare di affidare tutto il peso dei destini di enti produttivi, di fabbriche complesse, seppur creative e di valore.
Se riflettete sulla rappresentazione che i cittadini o i cosiddetti stakeholder, o se preferite: i nostri ministri, ma anche i cronisti e i critici dello spettacolo, hanno del lavoro e del mondo dello spettacolo, non sarà difficile riconoscere quanto il racconto della complessità di ogni arte della scena sia oggi affidato esclusivamente al gesto pubblico dell’interprete. Gesto singolo, soggettivo, di talento, che non potrà mai rendere la complessità e l’articolazione dei moltissimi gesti, delle moltissime professionalità, della necessità di parallela e ulteriore eccellenza che quel gesto di talento (d’artista) chiede per potersi esprimere al suo meglio.
E quanto manchi, anche tra i più attenti osservatori della scena, una benché minima consapevolezza di cosa deve accadere e con quali professionalità, con quanto lavoro, con che costi, perché alla fine quella bacchetta si alzi in aria o quel sipario si apra. Non è casuale che poi le questioni politiche, economiche, strategiche, di nomine o del lavoro, non vengono comprese nel loro valore effettivo, non vengono percepite, paiono accessori di un mondo che pare ridursi all’atto volontario del talento personale dell’artista principale.
Il secolo di cui abbiano inaugurato gli anni Dieci deve essere un nuovo secolo di sviluppo del sistema dello spettacolo dal vivo: se il Novecento è stato il secolo della regia, che ha modificato e articolato diversamente le forze e i poteri della scena; questi nuovi decenni devono preparare una diversa consapevolezza nell’opinione pubblica dei valori e del lavoro che lo spettacolo dal vivo esprime; che ponga attenzione, valorizzi, si prenda cura, investa professionalmente e solo alla fine, quindi, racconti la reale strutturazione di industrie e attività produttive complesse, che sull’eccellenza di tutti i comparti basano le proprie fortune o le proprie difficoltà.
Le star continueranno a brillare, senza dubbio. Ma meno sole e con la consapevolezza che, come diceva Flaubert: le perle splendono, ma è il filo che fa la collana.
Una sfida alla crisi: compagnia stabile e affinità elettive Che cosa è successo al convegno di Prato di Mestastasio-Teatro Stabile di Toscana - Teatro Stabile di Sardegna (a cura di)
Una giornata di lavoro a Prato
Ridotto del Teatro Metastasio
Sabato 26 marzo, 10/13,30-15/19
Dal documento di convocazione
E’convinzione diffusa se non comune che il lavoro di ensemble, e quindi la costituzione di un gruppo di attori riuniti intorno a un progetto o a un programma di lunga durata, costituisca il principale strumento del lavoro teatrale, ma la pratica del teatro italiano dal dopoguerra ad oggi non ne ha favorito l'affermazione. (...) Anche per questo il Teatro Metastasio di Prato e il Teatro Stabile della Sardegna (che a partire da questo obiettivo hanno avviato un progetto di collaborazione), lanciano un primo appuntamento a Prato sulle problematiche artistico-pedagogiche e organizzativo-amministrative che questa scelta pone. La necessità di favorire la formazione di un nucleo permanente di attori come cuore del lavoro teatrale, strumento imprescindibile di qualità e di crescita, è importante anche per il significato occupazionale che riveste, come tassello fondamentale di una "riforma" globale del teatro italiano, resa ancora più necessaria dai tempi di crisi. (...)
Un iniziativa del Teatro Metastasio di Prato-Stabile della Toscana (direttore Paolo Magelli, direttore organizzativo Massimo Luconi) e del Teatro Stabile della Sardegna (direttore artistico Guido De Monticelli)
Coordinamento: Mimma Gallina
Intervento introduttivo Andrea Porcheddu
Organizzazione: Teresa Bettarini/Teatro Metastasio
L’incontro si articola sui seguenti temi:
Esperienze e ipotesi di stabilità
Metodo e metodi, riflessioni sulla formazione
Pratiche e politiche organizzative
Sintesi della giornata di studio
(e proposte operative)
Il Teatro Metastasio di Prato-Stabile della Toscana e il Teatro Stabile della Sardegna hanno organizzato il 26 marzo scorso una giornata di studio e discussione sul tema della “stabilità” delle compagnie teatrali: esperienze, ipotesi, metodi e economia del lavoro di ensemble. La partecipazione - più di 100 fra registi, attori, organizzatori e giovani studenti di teatro - e la qualità della discussione ha confermato l’importanza che gli operatori attribuiscono a questo tema, che riacquista centralità nella fase di difficoltà economica e politico-organizzativa che stiamo attraversando, in cui più che mai è necessario ridefinire regole e avviare una riforma complessiva del sistema teatrale.
Ha introdotto i lavori il critico Andrea Porcheddu (intervento integrale e altri documenti su http://www.teatrostabiledellasardegna.it/index.php/component/content/article/19-2010/203-prato-26-marzo-2011.html), sono intervenuti i presidenti e i direttori dei teatri promotori (Umberto Cecchi, Paolo Magelli, e Massimo Luconi per il Metastasio, Maria Grazia Sughi e Guido De Monticelli per il Teatro Stabile della Sardegna), l’assessore alla cultura del Comune di Prato Anna Beltrame, Alessio Bergamo (regista), Giancarlo Cauteruccio (regista, Kripton-Teatro Studio Scandicci), Ivana Ceccherini (regista), Maria Grazia Cipriani (Regista-Teatro del Carretto) Alessia Corniello (regista), Veronica Cruciani (attrice, autrice e regista), Angelo Curti (presidene teatri Uniti), Mimma Gallina (organizzatore teatrale, che coordinava l’iniziativa), Alessandro Garzella (regista, Sipario Toscana-TS di Innovazione, Cascina), Sonia Kovacic (Teatro Gavela, Zagabria), Cesare Lievi (regista, Teatro Giovanni da Udine), Riccardo Mallus (regista), Michele Mele (regista, Nuovo Teatro Nuovo Napoli-TS di Innovazione), Marcella Nonni (Le Albe Ravenna, TS di Innovazione), Angelo Pastore (direttore CTB, TS di Brescia), Cristina Pezzoli (Regista), Armando Punzo (regista, Compagnia della Fortezza, Volterra), Carmelo Rifici (regista), Maurizio Schmidt (regista), Franco Ungaro (direttore Koreja, TS di Innovazione) Massimo Verdastro (attore), Pamela Villoresi (attrice). Erano presenti in sala fra gli altri anche Marcello Batoli, Patrizia Coletta, Massimo Castri, Angelo Savelli, Luisa Schiratti.
Si sintetizzano di seguito alcune indicazioni emerse, che ci si augura possano costituire suggerimenti operativi e offrire spunti di riflessione per i tavoli di discussione politico-sindacali delle prossime settimane, anche con riferimento alle modifiche dei decreti ministeriali e alla discussione sull’utile dell’ENPALS.
Il Teatro Metastasio di Prato-Stabile della Toscana e il Teatro Stabile della Sardegna sottopongono tali considerazioni per discussione e approfondimenti alle rispettive associazioni (dei Teatri Stabili Pubblici e Privati) e alle altre associazioni aderenti all’AGIS, oltre che trasmetterle ai partecipanti e divulgarle via web.
La stabilità delle compagnie, ieri e oggi
Il tema in discussione non era la “stabilità” nel suo significato più articolato (intesa come intreccio complesso di attività produttiva e di gestione in un rapporto organico col territorio e in una logica di promozione del pubblico e di funzione pubblica), ma la “stabilità della compagnia” – la continuità dell’impegno professionale e la “durata” dei percorsi e dei progetti quindi- che dovrebbe esserne una componente sostanziale. Non è raro invece che si riduca a un aspetto secondario, se non formale e burocratico dell’attività delle organizzazioni formalmente riconosciute come “stabili”, mentre è spesso perseguita con maggiore convinzione e risultati – se pure con grande fatica - nelle organizzazioni indipendenti.
Eppure l’importanza del nucleo artistico si ricollega ai fondamenti e ai momenti più significativi del teatro e alla tradizione italiana e – secondo la critica più attenta - trova una nuova vitalità in tendenze e esperienze recenti. Nell’introduzione e nel corso della discussione si è accennato all’evoluzione che ha attraversato, nel corso di molti anni, il metodo della “regia critica” che ha accompagnato la nascita e la maturazione dei Teatri Stabili in Italia; non si tratta di contrapporre artificiosamente regista e attore (o mettere in discussione il ruolo dei maestri della regia), ma di constatare un progressivo ritorno alla centralità dell’elemento performativo, che riguarda molte esperienze recenti interne agli Stabili, l’evoluzione dei registi emersi negli anni Settanta e Ottanta, come gli esiti più originali del lavoro dei nuovi gruppi, secondo la critica più attenta.
Nonostante tanto l’evoluzione del gusto che l’economia sembrino spingere in questa direzione, queste esperienze convivono con una diffusa, perdurante tendenza alla “confezione” di spettacoli in senso spesso molto convenzionale, tanto dal punto di vista dell’impianto scenotecnico che della formazione (e della logica) del “cast”. La difficoltà di modificare i modi di produzione è strettamente dipendente dall’impossibilità di orientarsi nelle dinamiche di un sistema e di un mercato troppo disturbati per poter essere correttamente analizzati e indirizzati (si pensi alla difficoltà di definire la specificità delle funzioni dei diversi soggetti, alla valutazione degli elementi di chiamata, al peso della convenzione nella formulazione dell’offerta, all’assenza di valutazioni socio-economiche nella definizione dei prezzi, all’iperproduttività e ipertrofia dell’offerta), ma è una delle cause che allontana il teatro dalla collettività e dalla realtà.
Modelli, differenze, rischi
Nell’incontro (come nella relazione e nei materiali introduttivi), sono state portate esperienze interne a teatri stabili (il Metastasio di Prato, il Teatro Stabile della Sardegna, Il CTB, il Teatro Nuovo di Napoli, Koreja di Lecce, Sipario Toscana di Cascina, le Albe di Ravenna) e testimonianze di compagnie (Teatri Uniti, Kripton e il Teatro Studio di Scandicci, il Teatro del Carretto) e di singoli registi e operatori (come Cesare Lievi, Carmelo Rifici, Veronica Cruciani, Crisitina Pezzoli, oltre a un contributo scritto di Gabriele Vacis). Tentando una sintesi di pratiche molto diverse fra loro:
- i modelli di stabilità realmente perseguiti (che offrono occupazione, se non esclusiva, prevalente agli elementi coinvolti: ed è il caso dei due teatri promotori), riguardano tendenzialmente nuclei quantitativamente ristretti, da 4 a una decina di elementi al massimo con possibili eccezioni;
- a questi si affiancano in alcuni casi aree più vaste di riferimento: attori o altri collaboratori individuati formalmente, attraverso provini o percorsi formativi, e che possono essere interpellati in via prioritaria per specifici progetti. (Questa modalità può essere interpretata come l’evoluzione di una tendenza diffusa, e che ha in gran parte sostituito la compagnia propriamente detta dagli anni ’80: la tendenza di singoli registi di basare la propria attività su un “parco” più o meno vasto di attori –una compagnia informale ma spesso molto caratterizzata- composta da elementi interpellati di volta in volta in rapporto alle necessità di progetto);
- non sono mancati ensemble numerosi che hanno operato con continuità per più stagioni, ma soprattutto in quanto funzionali alla realizzazione di precisi e articolati progetti artistico-registici (è il caso di esperienze anche recenti del Piccolo, che ha praticato in diverse forme e con diverse composizioni la costruzione di nuclei relativamente continuativi). Sono davvero rari invece i casi di progetti teatrali che si fondano su nuclei numerosi, impegnati in prospettive di continuità;
- le compagnie – o i progetti di compagnia! - dichiaratamente “stabili” possono coinvolgere elementi prevalentemente giovani e selezionati ad hoc e non solo di attori (ma registi, drammaturghi, scenotecnici, o anche artisti provenienti da altre discipline): è il caso dell’esperienza tentata da Antonio Latella al teatro Nuovo di Napoli e in parte del Metastasio, o caratterizzarsi come complessi consolidati nel tempo: le testimonianze in questa direzione (Teatri Uniti, Il Teatro Stabile della Sardegna, Le Albe, il Teatro del Carretto, Koreja), hanno sottolineato la maggiore flessibilità, la forza (ma anche la fragilità) originarie dei gruppi e i percorsi attraverso cui hanno potuto consolidarsi, soffermandosi sulla necessità di individuare modalità di ricambio, rinnovamento, circolazione;
- si sono ricordati i casi – frequenti: a volte nati per valutazioni di opportunità, poi sviluppatisi con convinzione, altre volte costitutivi di progetti artistici complessi- in cui teatri stabili pubblici, privati e di innovazione hanno scelto di sostenere, spesso farsi totalmente carico di nuclei/gruppi pre-esistenti (ne ha parlato Angelo Pastore per il CTB)
- una forma analoga (o più leggera), può essere considerata quella della residenza, una possibile sintesi fra la necessità di indipendenza, ma anche di sostegni produttivi e logistici che offrano prospettive di continuità; le residenze “artistiche”, costituiscono anche la possibilità di vitalizzare luoghi periferici, moltiplicare le occasioni di confronto.
Al di là dei modelli, una riflessione rilevante potenzialmente anche sul piano operativo, ha riguardato le funzioni di direttore artistico, direttore di compagnia e regia, che non sempre coincidono o dovrebbero coincidere in un apolitica “di compagnia”.
Se questa distinzione sembra pertinente nelle strategie di un’istituzione (della stabilità riconosciuta), fra le particolarità che segnano qualche punto a vantaggio della forma del gruppo indipendente (che spesso permane in organizzazioni più strutturate), è la possibilità di lavorare su convinzioni e contenuti condivisi; un intreccio indissolubile di scelte ideali e pratiche teatrali è alla base di sodalizi di lunga durata, come di esperienze recenti: il lavoro con le comunità, nelle periferie, sulla differenza, sulla e nella società che cambia (l’accento su questi temi ha caratterizzato numerosi interventi). E’invece molto difficile che in un teatro pubblico si cerchino e accettino artisti scomodi, in grado di interpretare la realtà al di là di conformismi e compromessi.
Sono stati elencati anche i possibili e frequenti rischi insiti nelle diverse forme di stabilità: i limiti che impone alle scelte di regia (che trovano in un organico definito risorse ma anche vincoli), la possibile impermeabilità dei nuclei (assenza di ricambio e di esperienze diverse per i componenti), la ripetitività e prevedibilità degli esiti con possibili ricadute negative sul pubblico e sul mercato. Si è anche segnalato il rischio (un’arma a doppio taglio) che si aggreghino elementi giovani e giovanissimi per motivi puramente economici.
Ma mettere l’accento sui rischi non significa rinunciare all’obiettivo, tanto più per un teatro stabile pubblico, che nella scelta decisa e prioritaria di dotarsi di un nucleo stabile non esaurisce i propri progetti artistici.
Sintetizzando, e senza ritenere che esistano modalità uguali per tutti, è convinzione comune che – in un’organizzazione teatrale stabile e in una compagnia indipendente che intenda proiettare la propria missione nel tempo - debba essere praticata la continuità del nucleo artistico come condizione imprescindibile di qualità nel risultato scenico, costruzione progressiva di un’identità artistica, formazione del pubblico.
La continuità della compagnia offre inoltre la possibilità di praticare politiche di repertorio (altrimenti precluse), con una serie di vantaggi nelle strategie organizzativi e economiche: razionalizzazione dei tempi di prova/recita, flessibilità nelle teniture in sede, rapporti più equilibrati e flessibili col mercato, maggiori possibilità di accesso al mercato estero, possibili contenimenti sostanziali dei costi del lavoro.
Malgrado queste valutazioni, le esperienze italiane di effettiva stabilità sono estremamente fragili e ancora incredibilmente lontane dai modelli stranieri. Quelle riferite sono infatti in gran parte esperienze a rischio, minate dalla povertà del sistema italiano, inaccettabile e incompatibile con qualunque processo di crescita e valorizzazione del teatro italiano.
Stabilità e formazione permanente
La formazione teatrale in Italia presenta gravi vizi strutturali: a una “formazione di base” diffusa e confusa (in un sistema di intrecci fra accademie e laboratori che tende a mischiare professionalità e amatorialità), corrisponde l’incapacità di accompagnare il giovane attore nel suo percorso professionale. Queste contraddizioni sono inevitabilmente recepite all’interno dei gruppi. Nel processo di costituzione e crescita progressiva di un gruppo è imprescindibile attivare pratiche di ricerca e forme di apprendimento avanzato. Su questo punto le normative ministeriali e regionali hanno contribuito ad alimentare squilibri e equivoci, spingendo gli stabili pubblici verso la costituzione di scuole di formazione di base, cui si sovrappone la pratica diffusa di laboratori. Tutto questo in assenza di adeguati approfondimenti e di una discussione sulle metodologie, le finalità, i destinatari.
Ma a teatro – in particolare in un teatro che torna alla centralità dell’attore - la formazione non può mai considerarsi completa, deve essere una pratica permanente e necessaria, e non può caratterizzarsi solo come percorso individuale, ma anche e soprattutto come consapevolezza di gruppo. E’infatti il gruppo il luogo di possibile approfondimento non solo delle tecniche proprie del singolo attore, ma anche delle poetiche. Dalla discussione (Schmidt, Bergamo, Mallus, De Monticelli, Magelli, Rifici, Cruciani), è emerso come prioritario il problema della formazione e dell’aggiornamento continuo dei nuclei già professionalizzati, è in questa direzione che si dovrebbe orientare in via prioritaria la politica formativa delle strutture stabili.
In concreto: proposte per la valorizzazione della “stabilità della compagnia”
La riforma generale di cui il teatro italiano ha assoluta necessità, deve ricostruire un’alleanza fra lo Stato, gli operatori e i cittadini, siano essi spettatori attivi o potenziali, e fondarsi su una profonda discussione sul significato del teatro nella nostra società, come valore e come servizio.
Il ritorno alla “stabilità della compagnia” può essere forse il tema centrale intorno al quale costruire metodologie artistiche, organizzative ed economiche virtuose (aperte a tutte le variabili che la combinazione dei fattori consente).
Centralità della compagnia (quindi degli attori, ma anche dei tecnici, dei registi, di scenografi e costumisti, degli organizzatori: del fattore umano insomma), significa che il “lavoro” deve essere considerato uno dei nodi principali di qualunque riforma.
Su questo punto ci sono alcuni equivoci da sfatare e qualche equilibrio da ristabilire. Il lavoro in teatro, da parte degli enti, dei politici, anche dell’opinione pubblica, è spesso considerato un “non” lavoro (soprattutto se si riferisce a elementi giovani), associato a grandi apparati e a ipotesi di spreco (se si tratta di istituzioni) o a guadagni individuali spropositati (se si pensa al singolo artista di fama). E’necessario costruire una consapevolezza diffusa (da parte della pubblica amministrazione e dei cittadini) rispetto ai giusti costi di una produzione teatrale di qualità.
E’ necessario stabilire criteri per la definizione di rapporti equilibrati nei costi del lavoro, che tengano conto dei fattori anzianità/qualità e compenso/durata dell’impegno. Le forme tradizionali dei rapporti di lavoro in teatro (non solo CCNL ancorati a un unico possibile modo di produrre e organizzare teatro, ma le consuetudini, il “mercato degli attori”, la definizione dei cachet), non hanno né ricercato né favorito questo equilibrio, nel corso di decenni.
Anche le disposizioni ministeriali, assieme generiche e gravose, non hanno spinto verso un’effettiva “stabilità”. Le prescrizioni dei decreti MIBAC di fatto certificano la “non” stabilità dei nuclei artistici e tecnici (recepiscono un dato di fatto), mentre prescrivono un numero particolarmente impegnativo (soprattutto per le realtà medio-piccole), di giornate lavorative: l’accento – e i parametri - non sono tanto sulla qualità dell’occupazione (che non può prescindere da una almeno relativa continuità di impegno per ciascun lavoratore e si traduce in qualità degli esiti), ma sulla quantità, tradotta in giornate contributive. Questo parametro, recepito come principale o esclusivo indicatore della consistenza occupazionale, è una delle cause indirette delle tendenze dispersive e iperproduttive che caratterizzano il sistema.
In rapporto alla centralità del lavoro, si ritiene che possano e debbano essere introdotti precisi incentivi alla stabilità. Alcune idee:
- sul piano contrattuale: attraverso una messa a punto degli aspetti normativi e salariali, che favorisca tempi lunghi di impiego e, fatti salvi compensi minimi adeguati, consenta la sperimentazione di nuove modalità di rapporto;
- sul piano dei contributi ministeriali e regionali: attraverso una revisione del parametro delle giornate lavorative, a favore di una precisa valutazione della effettiva continuità e qualità del lavoro artistico e di corretti equilibri fra costi del lavoro e costi di allestimento;
- la discussione interna alle organizzazioni teatrali dovrebbe costruire un contesto favorevole alla trasformazione dei modi di produzione e distribuzione: per esempio con la condivisione e al confronto di modelli e esperienze (anche sul piano contrattuale ed economico), la differenziazione delle figure direttive, l’immissione negli organici di professionalità funzionali al consolidamento della stabilità, come quella del dramaturg e altro.
Fra le "nuove regole" che si ritiene vadano meditate, un aspetto fondamentale è costituito dalla necessità che si pratichi la formazione continua, con veri e propri piani di aggiornamento tecnico, l’approfondimento di metodi e discipline (secondo le necessità e le vocazioni di ciascuno), dedicate non solo all'integrazione di elementi giovani, ma all'aggiornamento permanente anche dei professionisti più esperti, alla mobilità e a scambi a scopo formativo.
Un aspetto irrinunciabile di una riforma complessiva del lavoro a teatro, è inoltre costituito dall’estensione ai lavoratori dello spettacolo, sia stabili che precari, degli strumenti di protezione sociale (richiesta comune di sindacati e AGIS). Non solo perché i lavoratori (e le imprese) dello spettacolo hanno diritto come gli altri a forme di sostegno alla precarietà nei momenti di crisi, ma perché è una condizione per riorganizzare il lavoro nel settore.
L’ENPALS. Per quanto riguarda questi ultimi due punti - formazione e ammortizzatori sociali - come per possibili incentivi alla continuità occupazionale, un sostegno concreto non dovrebbe competere tanto al Ministero e gravare sul FUS, quanto all’ ENPALS. L’equilibrio gestionale (e la dispersione contributiva), ha portato l’ENPALS ad accantonare un utile che qualcuno stima in un miliardo e mezzo di euro (o, da altre fonti, un miliardo e trecentomila euro). Come ha sostenuto anche il presidente dell’AGIS, Protti al convegno “Enpals, le tre facce della medaglia” (Roma, Cnel, 18 febbraio 2011), è giusto oggi che queste risorse tornino almeno in parte nelle disponibilità dei lavoratori e delle imprese. E’ importante che nelle trattative che le associazioni di categoria avvieranno con l’ENPALS, la promozione del lavoro sia al primo posto.Suggerimenti precisi – da verificare sul piano delle modalità - possono consistere nell’abbassamento progressivo di oneri contributivi rapportato alla durata del contratto (o in premi che “restituiscano” risorse a chi pratica contratti di lunga durata), e nel sostegno ai progetti di formazione interna ai teatri stabili e alle compagnie (per esempio nella concessione di borse di studio ai lavoratori – come avviene i Francia e in altri paesi europei - e in contributi finalizzati alle imprese). Va inoltre messo a punto un pacchetto di incentivi fiscali e previdenziali, e vanno definiti criteri certi nel decreto ministeriale, finalizzati all’occupazione e a progetti di accompagnamento al lavoro di elementi giovani.
Infine, è importante all’interno del sistema teatrale, ripensare al senso profondo delle coproduzioni, che si è perso negli anni con il ricorso eccessivo, spesso solo alla rincorsa di “parametri”. Il titolo della giornata di studio rimandava ad “affinità elettive”: il senso profondo della coproduzione sta nella conoscenza e nella stima, nel confronto fra artisti e metodi, nella crescita artistica e, certo, anche nelle maggiori possibilità che la condivisione di costi offre. Una coproduzione non strumentale, fondata sulle compagnie, può favorire l’incontro fra professionisti e operatori e costituisce un antidoto alla possibile chiusura dei gruppi.
I temi trattati non riguardano solo l’area della Stabilità, ma tutte le organizzazioni teatrali che basano le proprie modalità operative sulla centralità del lavoro e la continuità della compagnia. Si auspicano altre occasioni di incontro, e la costituzione di un gruppo di lavoro trasversale, in sede AGIS, che posso approfondire a portare avanti queste indicazioni.
Un congegno estremamente affascinante: Stifters Dinge Le installazioni-performance di Heiner Goebbels e i nuovi formati del teatro mediale di Anna Maria Monteverdi
Automa: macchina che si muove da sola, o con cui la forza motrice è insita nel meccanismo stesso. (Encyclopedia Britannica)
Heiner Goebbels, compositore e musicista tedesco, sperimentatore e creatore di installazioni tecno-performative, è arrivato a Modena con un concerto per macchine sonore e visive dal titolo Stifters Dinge, un evento quest’ultimo che ha catalizzato l’attenzione di un ricco e interessante festival, L’altra musica: un congegno a mo’ di orchestra che non sembra celare al suo interno un manovratore umano - come invece il falso automa, il giocatore di scacchi detto Il turco inventato da von Kempelen nel 1770 - ma esibisce tutta la bellezza dell’apparato macchinico di luce e movimento senza interpreti.
Il turco di von Kempelen.
Una prima nazionale che molti attendevano dopo la presenza di Heiner Goebbels al Festival di Santarcangelo due anni fa, quando l’artista tedesco aveva raccontato davanti a una numerosissima platea, la sua poetica, menzionando i suoi maestri (Heiner Müller) e le sue matrici culturali, e commentando le immagini documentarie dei suoi lavori da palcoscenico. Un po’ come enunciato nei principi chiave del Manifesto Fluxus redatto da Maciunas sulla necessità di fare un’arte che spezzi definitivamente ogni distanza tra le arti, Goebbels attraversa linguaggi e sistemi, spazi e contesti in una strategia di aggregazione che rende conclamato il concetto di ambivalenza proprio del nuovo teatro, in cui i confini risultano sempre meno definiti non tanto in una direzione di ibridazione dei linguaggi, quanto di mantenimento delle proprie specificità e variabili in un contesto (o se vogliamo, in un paesaggio) multimediale “diversamente performativo”.
Ecco la risposta piuttosto emblematica di Goebbels a chi gli chiede quale sia il territorio di appartenenza del suo lavoro (musica? teatro? arti visive? videoarte?):
Io mi auguro di riuscire a dare a tutte le istanze espressive un'eguale importanza. Una cosa che mi piace molto è quella di non dare al pubblico la certezza di ciò che accadrà, di disattendere insomma, le aspettative. Sarà un concerto? Una performance? Un'installazione? Una piéce teatrale? Ogni format richiede un diverso approccio percettivo. È già una gran differenza, ad esempio, quella che passa tra l'ascolto musicale e quello di un testo verbale. I Went to the House But Did Not Enter (spettacolo musicale multimediale del 2007 ispirato a Blanchot, Beckett, Eliot nda) ruota proprio attorno all'incertezza tra queste due categorie - testo letterario o musicale -, specialmente nella sezione tratta da Beckett.
Sono profondamente convinto che in questi momenti di “piacevole irritazione” il pubblico si disponga meglio nei confronti dell'esperienza artistica, perché in questi momenti cambiano decisamente le nostre convenzionali gerarchie percettive. Puoi trovarti a non sapere con precisione cosa fare: è più importante ascoltare la qualità musicale di un discorso invece che comprendere un testo, o le due cose si intrecciano? Come decidere? A cosa affidarsi: al contenuto o alla forma? La parola o l'intonazione con cui viene detta? Il compositore o il poeta? Il suono o l'immagine? (Intervista ad H. Goebbels a cura di di Andrea Ravagnan, “Il giornale della musica”, novembre 2008)
Proprio in questo “no borderline between arts” (che corrisponde, appunto, al concetto di intermedia, termine ideale per definire il “Fluxism”), in questa indeterminatezza di confini e di generi sta l’importanza del lavoro di Goebbels: le installazioni diventano macchine sonanti e rispecchianti, vere macchine celibi di duchampiana memoria, o meccanismi di luce come nelle spettacolazioni futuriste (Feu d’artifice di Balla, 1917).
La scenografia di Giacomo Balla per Feu d'artifice di Igor Stravinskij.
E il gesto dell’artista sembra proprio quello di scomparire, di lasciare che la creazione (automatizzata o robotizzata) prosegua da sola la propria corsa: Maciunas parlava proprio dell’utopia di creare una “automatic machine” in cui la forma d’arte potesse essere determinata attraverso processi naturali e casuali, indipendentemente dall’artista.
Stifters Dinge (ovvero Le cose di Stifter) è dedicato allo scrittore, poeta e pittore boemo di inizio Ottocento Adalbert Stifter, specializzato in paesaggi tardo romantici, molto apprezzato da Thomas Mann); così Goebbels nel videodocumentario L’esperienza delle cose di Marc Perroud racconta di essere stato colpito dalla descrizione di Stifter della natura, una descrizione a suo avviso non naturalistica ma astratta:
“Stifter dà ritmo al paesaggio in un modo rituale, lavora con ripetizioni, c’è molta astrazione nei suoi testi e questo mi interessa, perché è solo in questo modo che la natura può essere comunicata”.
Stifters Dinge si presenta a prima vista come un aggregato (un “Merzbau”) di oggetti sonanti assemblati insieme, con un richiamo non incidentale, a prima vista a certe installazioni décollage di Wolf Vostell.
In alto, un'installazione di Wolf Vostell; un'immagine di Stifters Dinge.
5 amplificatori, 5 pianoforti disposti in verticale i cui martelletti sono guidati meccanicamente per produrre suoni, oppure rovesciati, aderenti a piastre di metallo, insieme a sacchetti di plastica che si riempiono con getti d’aria, e poi rulli, ventole, piatti, il tutto all’interno di una piattaforma che si muove avanzando impercettibilmente su rotaie verso il pubblico. In posizione ravvicinata rispetto al pubblico tre vasche di eguali dimensioni che vengono riempite di sale e poi d’acqua, diventando ruscelli, pozzanghere, cristalli riflettenti luci e ospitanti al loro interno evocative immagini in movimento.
Dall'alto, Henri Cartier-Bresson,Behind the Gare St Lazare, un'immagine di Stifters Dinge (foto di Klaus Gruenberg).
Impalpabili superfici che accolgono ombre, riflessi, parole, paesaggi mossi dalle vibrazioni acustiche. In alcuni momenti l’installazione ricorda la famosa fotografia di Henri Cartier-Bresson Behind the Gare St Lazare, con il bambino che corre e la sua ombra è catturata da una pozzanghera.
A fianco, altre piccole macchine ed ingranaggi generatori di suoni concreti, contenitori di acqua riflettenti luci azzurre. E ancora, schermi che accolgono ombre e forme indefinite a offrire il commento visivo a un testo recitato off che parla di boschi e luoghi mentali; qua il regista mette in campo tutta una gamma di effetti rètro digitali davvero commuoventi nella loro semplicità e nella loro efficacia: ombre di rami e di alberi insieme a paesaggi di verzura vecchio stile vengono retroproiettati e grazie alla luce mutevole diventano poeticamente evocativi dei diversi tempi della giornata ma anche dei diversi stati d’animo: la luce piena e lo schiarire del giorno sono l’energia della giovinezza e il crepuscolo della vita, oppure se vogliamo, il sonno, la veglia, la ragione, l’immaginazione.
Dall'alto, Paolo Uccello, La caccia nottuna; un momento di Stifters Dinge (foto di Klaus Gruenberg).
Criptica la sezione in cui un piccolo schermo riporta immagini che sembrano indagare i particolari di un quadro rinascimentale italiano (La caccia notturna di Paolo Uccello); cani, cervi, cavalli immersi in paesaggi bucolici catturati da un occhio meccanico che sembra seguire lentamente la composizione e le linee prospettiche offerte dal pittore fiorentino. Ma forse è proprio la frase citata prima di Goebbels a darci qualche indicazione: egli afferma di apprezzare di Stifter la capacità di descrivere il paesaggio secondo un ritmo. Quanto di più vicino a un pittore come Paolo Uccello legato come altri artisti rinascimentali ai trattati di aritmetica, musica e geometria e affascinati dalla costruzione prospettica e dall’equilibrio creato dai rapporti musicali. Charles Bouleau dedica un capitolo del suo famoso testo La geometria dei pittori (1a ed. 1963; ed. italiana 1988, Electa, Milano) alle consonanze musicali degli artisti del primo Rinascimento fiorentino e al cosiddetto “albertismo”, cioè l’effetto sui pittori rinascimentali delle letture di due libri di Leon Battista Alberti, De re aedificatoria e De perspectiva pingendi.
Un'immagine di Stifters Dinge (foto di Klaus Gruenberg).
Paesaggi evocati dai racconti di Stifter con il commento sonoro della musica di Bach (per piano senza uomo), e con la voce di Claude Lévy-Strauss che racconta il suo piacere del viaggiare ma anche il suo desiderio di solitudine e la sua assoluta mancanza di fiducia nei confronti dell’uomo. E in questo spettacolo, l’uomo non c’è: come annuncia il sottotitolo dello spettacolo, questo è un “no-man show” in cui l’attore in carne ed ossa è scomparso per lasciare spazio alle macchine animate che hanno sostituito, appunto, l’umanità.
Terminata la performance, il pubblico è invitato a percorrere l’universo delle macchine come fosse un’installazione: dopo il live, l’apparato macchinico-scenico ritorna ad essere installazione, configurata questa volta, senza tempo, senza azione, senza musica, senza parole. Gli attori (le macchine) tornano a essere inanimati.
Uno spettacolo infinito in un teatro in fuga Un’intervista a Luca Ronconi sul teatro di Rafael Spregelburd di Oliviero Ponte di Pino
Rafael Spregelburd (foto di Fernanda Romero).
Il prossimo 24 giugno debutta al Festival dei Due Mondi di Spoleto La Modestia di Rafael Spregelburd con la regia di Luca Ronconi, protagonisti Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi. Lo spettacolo poi al Mittelfest e nel gennaio 2012 al Piccolo di Milano.
Il testo è uno dei sette “pannelli” della Eptalogia di Hieronymus Bosch, pubblicata in due volumi a cura di Manuela Cherubini da Ubulibri.
Nel ciclo della Eptalogia il drammaturgo argentino esplora i peccati capitali della post-modernità. Luca Ronconi aveva in animo di portarla in scena nella sua integrità: al regista abbiamo chiesto le ragioni del suo interesse per l’opera di Spregelburd.
Luca Ronconi.
Hai lavorato moltissimo sui classici, ma nella tua carriera non mancano le incursioni nella drammaturgia contemporanea. Anche se poi a volte pare quasi che la drammaturgia contemporanea non ti soddisfi del tutto, visto che spesso senti il bisogno di utilizzare testi non teatrali.
Non è affatto vero che non mi interessa la drammaturgia contemporanea, e non solo in questi ultimissimi anni. Nel 1978, quando ho fatto Calderón, Pasolini era contemporaneissimo...
...Wilcock, di cui nel 1971 hai portato in scena XX, pure...
Anche Infinities era drammaturgia contemporanea. In realtà il termine “drammaturgia” mi pare troppo generico. Ci sono scrittori per il teatro contemporaneo, e ce ne sono sempre stati, che però non chiamerei “autori”: sono piuttosto fornitori di copioni, secondo le regole teatrali vigenti in quel momento. Altri scrittori per il teatro sono invece propriamente “autori”: possiedono un linguaggio particolare, hanno un modo singolare di organizzare i materiali teatrali: sono gli autori che mi interessano di più.
Dunque è in primo luogo un problema di linguaggio.
Certo. Prendi in esame gli “ultimissimi”. Un autore come Jean-Luc Lagarce (di cui ho allestito Giusto la fine del mondo nel 2009) ha il suo linguaggio. Anche Botho Strauss, che ho messo in scena due volte (Besucher, 1989, e Itaca, 2007) ha una sua fisionomia, come Edward Bond, un altro autore che ho messo in scena due volte (Atti di guerra, 2006, e La compagnia degli uomini,2011). D’altra parte, perché devo dire che non è un autore contemporaneo l’autore di Infinities, John Barrow? O Giorgio Ruffolo, di cui ho portato in scena Lo specchio del diavolo? E’ vero, hanno scritto due saggi, che però hanno avuto una forte resa teatrale...
La forza del linguaggio si coglie già alla lettura, sulla pagina, oppure è necessario aspettare di vederla incarnarsi in scena, nella parola degli attori?
Si vede subito, dalla pagina. Quando ho letto l’epistolario di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti, mi sono detto: “Questo lo posso benissimo fare”, non tanto perché si tratta di testi scritti in prima persona, ma perché sono tre forme di linguaggio molto precise e diverse una dall’altra.
Quando metti in scena un classico sei sempre molto consapevole di tutte le varie messinscene di quel testo. Nel caso di un testo contemporaneo, questo non è possibile.
Infatti l’approccio è abbastanza diverso. Sui classici gioca molto la memoria che ne hai, le frequentazioni... Il lavoro su un testo contemporaneo mi piace molto e mi è sempre piaciuto, perché è sempre un lavoro di scoperta. Un testo contemporaneo lo puoi fare in vari modi. Per esempio, c’è chi va a vedere una commedia inglese al Festival di Edimburgo, e poi la riproduce più o meno uguale da in Italia, con gli opportuni accorgimenti. Un’operazione del genere non sarei capace di farla, per un motivo molto semplice: per me, a parte il linguaggio del testo, anche la lingua che parlano gli attori non è facilmente trasferibile in un’altra lingua. Ecco, mi interessa lavorare su testi contemporanei dove la scrittura presenta dei problemi. La stessa cosa sarebbe accaduta se fossi nato quarant’anni prima e mi fossi trovato a mettere in scena una commedia di Pirandello.
Quando dici che il linguaggio pone dei problemi, che cosa intendi?
Si tratta ogni volta di capire, non solo dal punto di vista drammaturgico, perché l’autore usa quella cadenza, quel ritmo, quel giro di frase... Insomma, non si tratta di leggere il testo come uno spartito che va in qualche modo ripercorso, e poi alla fine lo spettacolo viene fuori da solo. Si tratta invece di capire le ragioni che stanno dietro alle scelte dell’autore.
Quindi si tratta di andare a vedere quello che c’è aldilà e sotto il testo. Ma questo lo fai anche con Pirandello e con Shakespeare...
Il presupposto è cercare di entrare nella mente di chi ha fatto una cosa, e questo vale sia per i classici sia per i contemporanei...
Arrivando a Rafael Spregelburd, che cosa ti ha interessato quando hai incontrato i suoi testi?
Mi sono subito sentito un suo parente. Una volta mi hanno chiesto: “Qual è il tuo spettacolo ideale?”. Io ho risposto, e risponderei ancora, che è uno spettacolo infinito in un teatro in fuga. Lo sguardo un tantino scettico che mi viene quando si parla di “profondità”, e la curiosità che mi si sveglia immediatamente quando si parla di “estensione”, li ritrovo perfettamente in Spregelburd. E poi, come gli ho detto quando l’ho incontrato, il motivo per cui mi piace il suo teatro è che mi sembra che scriva commedie che si fanno da sole.
In che senso le commedie di Spregelburd “si fanno da sole”?
Sono organismi che proliferano quasi indipendentemente dall’autore. Anche se poi in realtà l’autore c’è, ed è presente in ogni cerniera. Tuttavia i suoi testi ti danno questa impressione: tanto è vero che in parecchie commedie, compresa La modestia, hai l’impressione che l’autore non riesca a trovarne la fine. E non lo considero un difetto o una mancanza.
Infatti Spregelburd è autore di testi molto lunghi, a puntate, che proliferano...
E questo mi piace molto.
Ma secondo te qual è il meccanismo generativo che porta a questa proliferazione infinita?
Le mie sono solo illazioni, ma credo che nel caso di Spregelburd sia il frutto di un senso storico molto preciso, da una forte consapevolezza della contemporaneità – e con questo non voglio certo dire dell’attualità. E’ un senso delle simultaneità contemporanee. In varie occasioni mi sono trovato a fare degli spettacoli in cui c’era una sincronia strutturale, con diverse azioni che accadono simultaneamente. Spregelburd parla addirittura di “struttura frattale”.
Quindi ti ha interessato il lavoro sul tempo, sulla durata e sulla simultaneità...
Nella sua drammaturgia si sentono anche le ascendenze della sua formazione matematica. E possiamo trovarci anche tantissimi antecedenti letterari, anche perché molto spesso la sua drammaturgia si rifà a topoi drammaturgici e narrativi molto riconoscibili.
Ed è argentino come Borges... Tuttavia lo scheletro logico-matematico che sostiene la sua drammaturgia, e questo intreccio di citazioni colte, poi si contaminano con l’aspetto pop, perché c’è una grande capacità di usare i linguaggi contemporanei...
E’ anche molto ludico...
...e molto ironico: nella Modestia ci sono varie stratificazioni ironiche. Ma questo, forse, per un regista come te pone un ulteriore problema. Hai detto che di fronte a un testo, vai a scavare quello che c’è dietro, o sotto. Di fronte a una scrittura di per sé così stratificata, che cosa puoi trovare?
Devi giocare anche temporalmente, prima una cosa, poi l’altra, poi un’altra ancora, per ricostruire la stratificazione che c’è nel testo.
Come ti poni di fronte ai meccanismi ironici della scrittura di Spregelburd?
Nella Modestia ci sono anche elementi patetici...
Tutta la vicenda russa lavora sul patetico...
E’ straziante!
Come i grandi romanzi russi dell’Ottocento... Ma con tutte queste suggestioni presenti nel testo, come riesci a richiudere il cerchio, a far quadrare l’aspetto logico di cui si parlava prima?
E chi lo sa? Vedremo...
Anche perché, di fronte a un testo di questo genere, il lavoro con gli attori non può certo andare verso l’approfondimento psicologico, lo scavo nell’interiorità dei personaggi...
Non avrebbe senso. L’idea stessa di identità individuale viene messa radicalmente in discussione. C’è un aspetto che mi piace molto della Modestia: questi personaggi – anzi, questi attori, perché c’è la condizione del personaggio e quella dell’attore... Ecco, quello che mi piace è che gli attori non dovrebbero mai sapere con precisione se stanno in una storia o nell’altra. Quella sensazione di essere sempre profughi, di vivere continuamente le vite degli altri, mi pare che sia una caratteristica dei personaggi di Spregelburd. Molte delle sue commedie – penso a Il panico, a La paranoia – sono “bilocate”: si svolgono in più posti, in due luoghi se non in quattro. Dunque emerge la sensazione di essere un po’ i fantasmi di altri: nella Modestia questa sensazione è fortissima, si usano gli attrezzi di altri, i personaggi si siedono dove altri si sono seduti, si sdraiano su letti che appartengono ad altri, perché sono nell’altra storia... E’ una cosa bella e interessante: la riflessione sul rapporto tra l’attore e il personaggio si moltiplica all’ennesima potenza.
Su Spregelburd avevi un piano più ambizioso rispetto alla messinscena di un unico testo.
Sarei partito quest’anno portando in scena io tre testi suoi, e poi in futuro mi sarebbe piaciuto allargare l’esperienza anche ad altri colleghi, per presentare tutti i sette testi della Eptalogia.
Forse ci si riuscirà, con il tempo.
Farò di tutto per riuscirci, perché mi pare che si tratti di un autore che merita di essere conosciuto. Molto teatro contemporaneo prende i suoi temi dal giornalismo, dall’attualità, dalla cronaca: a volte questo dà origine a testi belli, altre volte a testi meno belli, ma sempre un po’ precotti. Spregelburd è invece un autore che si è affidato a una percezione della contemporaneità che corrisponde al nostro tempo ma non è cronachistica, lavora sull’immaginario. Ho sempre pensato che in teatro un tema contemporaneo, se lo cali nelle forme e nelle strutture consuete (il personaggio, il dialogo, la trama, l’intervallo, eccetera), alla fine tanto contemporaneo non risulta. Gira e rigira, quei testi sembrano tutte commedie dell’Ottocento: quelle forme non riescono più a contenerci, non ci stiamo più dentro...
Un altro aspetto che ti ha incuriosito è che questi testi non sono scritti da un letterato, ma da un uomo di teatro.
Lo senti subito! Una battuta di Schiller o di Ibsen può essere recitata bene o recitata male, ma resta, ha una sua autonomia. Invece una battuta di Spregelburd pretende di essere recitata.
Perché non è letteratura?
E’ anche letteratura, e questo è il suo bello. Però va in due direzioni diverse: da una parte c’è un gioco letterario, e infatti il testo, se lo leggi, funziona benissimo; d’altra parte, però, se il gesto e la voce non se ne fanno carico, improvvisamente quel gioco sparisce e rischia di restare solo una lettera piatta. Tenendo presente che il gesto e la voce dell’attore apparentemente possono dare molto, ma possono anche togliere molto.
Un altro aspetto che conferma la forza di questo testo è la precisione dei rapporti tra gli attori, tra i personaggi, tra gli spazi, tra i tempi... E’ una consapevolezza che un autore può raggiungere solo se è abituato a fare teatro, a muovere gli attori in scena.
Del resto le didascalie che costellano il testo sono fatte sulla rappresentazione. Le ripropongo tutte, perché fanno parte del testo.
A volte nel caso dei classici sei andato “contro” il testo. Nel caso di un autore contemporaneo si può fare? Ha senso farlo?
E’ un po’ difficile. I classici ormai sono diventati una terra di nessuno. Però con un testo contemporaneo, invece, è possibile in qualche modo sbagliarsi, cadere in qualche equivoco, non capire.
Stai facendo lavorare duramente gli attori. Anche perché non devono sbagliare...
Non è facile. Devono capire bene perché ci sono quelle parole, perché quella parola ne chiama un’altra... La maggior parte degli attori ha sempre la tendenza alla psicologia, alla ricerca della verità. Con questo testo diventa molto difficile.
A quel punto, però, se gli attori non si possono agganciare a questo, che cosa resta?
Devono trovare qualcos’altro a cui agganciarsi. Per esempio, c’è una scena in cui un personaggio – quello che interpreta Fausto Russo Alesi – gioca a carte un gioco che non conosce e contemporaneamente tratta un affare. Potrebbe diventare una specie di cliché comico, ma in realtà viene molto meglio, ed è più divertente, se senti che l’attore si mette in una specie di bilocazione reale: può ascoltare e giocare, controllando contemporaneamente due codici completamente diversi. E’ una facoltà che esiste, c’è qualcosa di reale, di fisiologico. Sono procedimenti mentali e cognitivi che possiamo seguire, una situazione in cui le parole ti vengono da sole e non devi andarle a cercare...
Questo meccanismo è già presente nel testo?
Sì, e l’attore deve eseguirlo. Questo non vuol dire che non ci deve mettere del suo: però può metterci qualcosa di suo solo sopra questa cosa, solo dopo aver restituito quello che c’è nel testo: per l’appunto questo essere perennemente bilocati.
La bilocazione è una qualità che attribuivi in senso generale alla drammaturgia di Spregelburd, e che si riflette anche nel lavoro dell’attore.
La nostra tendenza “italiana” consiste nel recitare sempre per convincere l’altro. L’attore cerca di essere convincente, vuole avere ragione. Invece in questa commedia l’obiettivo è frastornare, deviare...
Tutto questo sullo spettatore che effetto può o deve avere?
Nel migliore dei casi, dovrebbe accadere quello che capita con certi film di Hitchcock, come Marnie o La finestra sul cortile: capisci che tutto quanto ha una regola, però fatichi un po’ a trovarne la chiave.
Il pericolo è che la chiave venga fuori troppo facilmente?
Oppure che non venga fuori affatto...
L’altro aspetto interessante della drammaturgia di Spregelburd, come abbiamo visto, è che offre diversi livelli – e dunque chiavi – di lettura. C’è lo spettatore a livello – diciamo così – di telenovela, che viene catturato dalla trama, dalle vicissitudini dei vari personaggi. C’è lo spettatore in grado di decodificare i riferimenti più o meno colti, teatrali, letterari e cinematografici, e quindi si diverte ironicamente a smontare il meccanismo... Ma sotto c’è ancora qualcos’altro?
Beh, qualche ambizione filosofica c’è. Vuole essere un teatro scientifico, in qualche modo.
Talmente bella da sembrare etica L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’era post-tecnologica di Andrea Balzola e Paolo Rosa di Oliviero Ponte di Pino
L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’era post-tecnologica di Andrea Balzola e Paolo Rosa (Feltrinelli, Milano, 2011) vuole essere in primo luogo una ricognizione sullo stato attuale e sulle prospettive delle arti.
E’ la radiografia di una situazione di crisi: crisi di identità e di rapporto con il pubblico per le arti e per gli artisti, imprigionati in logiche distorte di mercato e di autopromozione pseudo-pubblicitaria. E’ crisi anche nel rapporto con la Storia e con la storia delle arti, logorato dall’ansia della contemporaneità – ribattezzata nell’occasione “attualismo”. E’ per di più una fase confusa, in cui codici e generi, alto e basso, arte e “non arte” si mescolano e si confondono, sospinti anche dalla convergenza verso il digitale: Balzola e Rosa parlano di “esplosione di riferimenti” (p. 11) e della “mobilità e aleatorietà dei confini tra generi, specie, discipline, linguaggi, dimensioni reali e virtuali” (p. 12).
Al tempo stesso, il momento è straordinariamente ricco di opportunità, grazie proprio alle innovazioni “nell’ambito dei nuovi media, delle nuove tecnologie interattive e della rete”. Ma per far tesoro dell’occasione, “l’arte deve dimostrare di essere capace di cambiare rotta, ripensarsi radicalmente, andare ‘fuori di sé’” (p. 9).
Questo “fuori di sé” viene declinato nelle sue varie sfaccettature. A uscire fuori di sé è l’opera d’arte, che attraverso i meccanismi dell’interattività si emancipa dal proprio statuto di oggetto di contemplazione (visiva e/o uditiva), per diventare gesto, azione, processo... A uscire fuori di sé, per entrare in una rete di relazioni, è anche l’artista, non più genio solitario ma “artista plurale (...) capace di relazionarsi creativamente con altri artisti e collaboratori” (p. 12). Lo stesso accade per il pubblico, che esce dalla sua condizione di passività: “il ruolo dello spettatore è ripensato radicalmente: la sua partecipazione è una condizione necessaria per dare senso e compimento all’opera e al progetto artistico nel suo insieme” (p. 13).
“Fuori di sé” allude anche alla follia, un incontro che si rivela particolarmente fecondo (e si citano alcuni esempi, da Pippo Delbono ad Alessandra Panelli). Ma “fuori di sé” allude anche – e prima di tutto – alla dimensione politica, a un’arte che – come si legge nel titolo dell’ultimo capitolo – “si fa politica”: invitando esplicitamente, fin dall’inizio, a “incrociare le sensibilità collettive e le esigenze territoriali” (p. 14),
La ricognizione sullo “stato dell’arte” di Balzola e Rosa assume ben presto il tono del manifesto programmatico, che invoca una sorta di rivoluzione, indica quello che non bisogna fare e quello che bisognerebbe fare. Perché Balzola e Rosa sono persone perbene, che preferiscono il condizionale all’imperativo dei proclami avanguardistici, e usano spesso un’espressione come “l’artista dovrebbe...”.
Nella pars destruens il manifesto attacca le “patologie”, sia quelle attuali (il mercato dell’arte, la situazione delle rete, con i suoi imperscrutabili oligopoli), sia alcune di quelle “ulteriori”. Soprattutto parla spesso di opportunità, occasioni, sfida, rischi... E di responsabilità, e addirittura di “rifondazione”. Non è un manuale, e non ci sono consigli pratici o “tecnici”, piuttosto linee di sviluppo che sono frutto di una esperienza insieme artistica, teorica e pedagogica: Andrea Balzola è teorico delle nuove arti ma anche drammaturgo, sceneggiatore e regista impegnato sul fronte del multimediale, oltre che docente a Brera e collaboratore di www.ateatro.it; Paolo Rosa è membro fondatore di Studio Azzurro, impegnato anche lui come docente a Brera, dove è preside di dipartimento.
Centrale in questa puntigliosa “rifondazione” è l’aspetto performativo, il “teatro inteso come laboratorio antropologico” (p. 21), al quale è dedicato l’intero capitolo 9, “Performatività interattiva e drammaturgia dell’habitat”. La teatralizzazione delle arti ha segnato molte interessanti esperienze moderne: il passaggio dal segno al gesto di molta pittura novecentesca, la scoperta della multimedialità come incontro tra diverse arti e l'invenzione della performance, l’enfasi sull'aspetto performativo (e addirittura rituale) dell’esecuzione musicale (da Cage a Fluxus), i “computers as theatre” di Brenda Laurel sono solo i primi esempi di una tendenza destinata ad accentuarsi e affinarsi sotto la spinta dei meccanismi interattivi. Molte installazioni sono per certi aspetti forme di “teatro senza attori”, dove il visitatore-spettatore diventa anche attore.
Quello che “porta la performatività fuori e oltre il teatro” è solo uno dei versanti dello stretto rapporto tra il teatro e l’“arte fuori di sé”: l’altro è “interno al linguaggio propriamente teatrale, ma secondo modalità che superano il teatro di rappresentazione” (p. 117) e riguarda l’uso di nuove tecnologie digitali e interattive in un contesto teatrale (ma questi sono temi ampliamente esplorati da www.ateatro.it, e dunque in questa sede è inutile dilungarsi).
Ma che cosa impone una riflessione così ampia e radicale? Qual è il cambiamento che richiede la “rifondazione” dell’arte, e dunque delle arti?
Per almeno 2500 anni, e forse di più, l’arte ha avuto uno statuto preciso, basato sulla distanza, o meglio sulla separazione – anche fisica – dell’oggetto artistico dal suo fruitore. Schematizzando all’estremo, un soggetto (ovvero l’artista creatore) produce un’opera (ovvero un oggetto, un insieme di segni portatore di molteplici significati) e la offre alla contemplazione di un altro soggetto (il lettore, lo spettatore, l’ascoltatore). Questo soggetto-fruitore può entrare in contatto con l’opera del soggetto-creatore attraverso i “sensi della distanza”, ovvero la vista e l’udito. (Inutile sottolineare che la frattura tra soggetto e oggetto riflette quella tra mente e corpo, altrettanto fondamentale nell’esperienza del pensiero occidentale, e ugualmente messa in crisi da alcune recenti installazioni e performance.)
L’intero percorso dell’arte è stato fondato su questo tabù. In un moderno museo, se ci avviciniamo troppo a un quadro o a una scultura, scatta la sirena dell’allarme. Persino nei locali della lap dance si intima ai clienti che “è vietato toccare le ballerine”. E’ possibile far slittare il tabù, ma non lo si può cancellare del tutto, tanto è vero che riemerge anche quando meno ce lo si aspetta, anche quando il confine del contatto fisico è stato ampiamente superato: Adrian Howells, in una performance che esplora fino all’estremo l’intimità dello spettatore, promette che non laverà né asciugherà i suoi genitali.
L’arte classica è sempre stata consapevole dell’esistenza di questo tabù: infatti ci ha spesso giocato, con i vari meccanismi della mise-en-abîme: il teatro nel teatro, ovvero il temporaneo superamento o il vertiginoso raddoppiamento della quarta parete che separa attori e spettatori; e il trompe-l’oeil, ovvero il quadro che esce dalla cornice.
Le arti del Novecento hanno cercato con tutte le loro forze di abbattere il tabù, di uscire dal frame, di superare la distanza tra “arte” e “vita” (qualunque cosa si intenda con questa dicotomia). Paradossalmente, proprio facendosi scudo di questa separatezza e di questo tabù, molti artisti del Novecento hanno puntato sulla provocazione, sulla trasgressione, sullo scandalo: épater les bourgeois è stata a lungo una efficace parola d’ordine. Ma la provocazione e la trasgressione però non toccavano mai il corpo dello spettatore (recettore passivo), ma agivano solo a livello dei segni (meriterebbero a questo punto una parentesi le “arti applicate”, ovvero intrecciate a oggetti di uso quotidiano, che si possono indossare o usare, e dunque pressoché irrilevanti rispetto alla purezza delle autentiche opere d’arte; e l’eccezione costituita invece dall’architettura a questo schema; e un’altra parentesi meriterebbero i meccanismi di empatia innescati dai neuroni specchio).
Per la tradizione delle arti, l’uscita dal frame rappresentava dunque un’eccezione che confermava la regola; o meglio una linea di tendenza, una aspirazione che però difficilmente avrebbe potuto compiersi appieno.
Semplificando, il tabù impone una regola, che ha immediate conseguenze: vengono “fortemente premiati i sensi rapidi come la vista e l’udito, e sono più penalizzati i sensi lenti come il tatto, il gusto, l’olfatto” (p. 63); ma nell’ambito della regola, è possibile fruire di ampi margini di libertà espressiva e creativa: la provocazione, la trasgressione possono arrivare a punte estreme, volutamente scandalose, a partire dall’Origine del mondo di Gustave Courbet per arrivare – solo per fare un paio di esempi – al crocifisso immerso nell’urina e fotografato da Andres Serrano, o Giovanni Paolo II abbattuto da un meteorite nell’installazione di Maurizio Cattelan; per quanto riguarda il corpo dell’artista, il tabù era già stato abbattuto: basti pensare al celebre soggiorno di Joseph Beuys in una gabbia con un coyote, l’autolesionismo di una body artist come Gina Pane, gli interventi di chirurgia plastica di Orlan; ma sempre all’interno di una precisa cornice (anche qui si possono trovare eccezioni, che prevedono un contatto fisico tra performer e attore: ma anche qui si tratta di esempi estremi, “scandalosi”, che lavorano a ribadire l’esistenza del vincolo).
L’arte “fuori di sé” si fonda invece sul coinvolgimento, sull’interattività, e in molti casi sull’apporto attivo dello spettatore-fruitore, compreso il suo contatto fisico con l’opera, o con il performer.
Ma se cade il tabù, su quale base è possibile fondare una nuova moralità dell’arte? Fino a che punto è lecito spingersi, nel coinvolgimento dello spettatore? O invece, se cade il tabù, lo stesso termine “arte” perde il proprio significato?
Nel primo rito di Paradise Now, lo spettacolo-mito del Living Theatre che debuttò al Festival di Avignone nel maggio del 1968,
“quando il pubblico si è quasi completamente riunito, gli attori entrano nel teatro, mescolandosi con gli spettatori in platea, sulla scena e nel ridotto. Ogni attore si avvicina a uno spettatore e rivolgendosi individualmente gli dice direttamente la prima di cinque frasi”.
Una delle cinque frasi di questo “Rito del Teatro di Guerriglia” è “Non posso togliermi i vestiti di dosso”. All’inizio viene appena sussurrata, poi gli attori la ripetono in crescendo per due minuti finché,
“arrivati alla finale assurdità umana che il corpo è un male (...) gli attori non gridano, ma passano all’azione togliendosi i vestiti fintanto che la legge permette. Come raggiungono il punto massimo dell’agitazione cominciano a strapparsi i vestiti di dosso, in un momento di parossismo, urlando: Non ho il diritto di togliermi i vestiti di dosso”.
Una scena di notevole impatto teatrale e ideologico, che apriva uno spettacolo che voleva dare inizio a un processo liberatorio e alla scalata al paradiso rivoluzionario. Finché una sera – nel frattempo l’ondata liberatoria del ’68 aveva proseguito nel suo corso – uno spettatore non iniziò tranquillamente a spogliarsi e rimase completamente nudo. Quello strip tease segnò la fine di Paradise Now e contribuì a spingere il Living Theatre verso una svolta radicale: dal tentativo di coinvolgere il pubblico all’azione politica diretta (e infatti poco tempo dopo il gruppo finì in una galera brasiliana).
L’impatto delle nuove tecnologie, l’avvento dell’interattività, la diffusione di ambienti immersivi, annullano la “distanza dalle cose, tra le persone”, “la distanza dall’esperienza”. Insomma, per la sua stessa natura l’arte interattiva abbatte il tabù su cui si è fondata da sempre la moralità dell’arte “dentro di sé”, e dunque “separata”.
Balzola e Paolo Rosa sono pienamente consapevoli della necessità di un limite dell’agire artistico: “in che modo e sino a che punto si possono indurre le reazioni delle persone con cui desideri interloquire? Fino al limite di interrogarsi sull’opportunità di realizzare davvero un’idea o un progetto, o rinunciarvi” (p. 104).
Il problema riguarda ovviamente la natura stessa di questo confine, di questo tabù, e il suo fondamento. La definizione di un’etica dell’interazione diventa oltretutto una necessità per motivi che vanno molto aldilà dell’orticello delle arti. Perché l’interattività è il meccanismo su cui è fondato il web 2.0, quello dei blog, di youtube e dei social network. La Rete, scrivono Balzola e Rosa, “non è rappresentativa, cioè non riproduce, non simula, non emula, ma genera azioni, relazioni, dinamiche sociali” (p. 83). E ribadiscono che la rete, con i suoi potenti padroni, è la prima ad aver bisogno di nuove regole e di una nuova etica.
Il meccanismo che vale per le arti si applica infatti anche alle interazioni in rete. “L’interattività è una interazione intercettata” (p. 93), ovvero una interazione che lascia una traccia e diventa segno. Ma diventa anche valore, tanto che finisce per essere quotato in borsa: è stato calcolato che ogni iscritto a Facebook vale per Zuckerman e gli altri azionisti del social network da lui creato un centinaio di dollari.
I social networks e in generale il web 2.0, ma anche l’algoritmo di ricerca di Google e i vari sistemi con cui i siti danno valutazioni su ogni cosa, è fondato sul bene comune, diffuso e pulviscolare, delle preferenze, delle curiosità e delle relazioni interpersonali. Ma se ne appropriano, li ingabbiano e li trasformano in segno. Il soggetto – o soggetti – che danno origine a questi processo sociali perdono il controllo e ne vengono espropriati (in tutto o in parte). Finora la moralità delle rete si è fondata sulla fiducia (piuttosto ingenua) degli utenti e sugli appetiti dei grandi oligopolisti della Rete: è evidente che il rapporto appare squilibrato.
Nel loro ottimismo, Balzola e Rosa quasi suggeriscono che i confini di una nuova moralità della Rete possano (o meglio “dovrebbero”) essere esplorati nel laboratorio della sperimentazione artistica. Ribaltano così, almeno nelle conseguenze se non nelle intenzioni esplicite, il postulato della “a-moralità” (e dunque della irresponsabilità) dell’arte contemporanea.
Forse chiedere all’arte post-tecnologica di trovare il proprio fondamento “fuori di sé”, per poi imporlo al popolo e ai signori della Rete, è sperare troppo. Piuttosto, singole opere possono portare alla luce e mette in discussione i presupposti impliciti delle nostre azioni, provocare e mettere in crisi meccanismi consolidati, svolgere una funzione pedagogica. Sarebbe bello immaginare che da questo insieme di numerosi “casi particolari” (perché in fondo ogni opera e ogni percorso artistico fanno storia a sé), dall’impegno, dalla curiosità, dal coraggio di una moltitudine di individualità artistiche, possano emergere regole di carattere e validità generale...
Per un teatro hacker Dall'introduzione a Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità di Anna Maria Monteverdi di Oliviero Ponte di Pino
Nuovi media, nuovo teatro. Teorie e pratiche tra teatro e digitalità (Franco Angeli, Milano, 201, in libreria dal 15 giugno 2011) è un libro bello e importante. E’ bello perché in ogni pagina si avvertono la competenza e la passione. Ed è importante perché getta nuova luce su alcune questioni che hanno attraversato il teatro del Novecento e continuano a riproporsi ancora oggi, con urgenza ancora maggiore, in un panorama mediatico e artistico profondamente trasformato dalla convergenza digitale e dall’avvento di internet.
Certo, il teatro può continuare a far finta di essere quello di sempre: un miracolo espressivo e civile nato oltre 2500 anni fa ad Atene, nella culla della civiltà occidentale – o meglio, nato insieme alla civiltà occidentale, tanto da costituirne un elemento fondante e insostituibile. Ma tutto intorno il contesto è mutato e continua a evolvere con vertiginosa rapidità. Nella “mediasfera” – il complesso reticolo di comunicazione, informazione e, perché no, anche arte nel quale siamo immersi come individui e come collettività – il ruolo dello spettacolo dal vivo è cambiato e sta cambiando. Nel Novecento il teatro ha dovuto fronteggiare l’avvento del cinema e della televisione, che hanno allargato a dismisura le possibilità di “riproducibilità tecnica” del reale, raggiungendo platee di decine di milioni di spettatori a sera, contro le poche migliaia del più ambizioso kolossal teatrale. Negli anni zero, il “qui e ora” planetario della rete e dei social networks ha lanciato nuove sfide, e al tempo stesso offerto nuove opportunità.
Sono sfide in primo luogo pratiche, perché le nuove tecnologie consentono per la loro stessa natura pratiche inedite; ma nello stesso momento offrono anche nuove modalità espressive da esplorare, sperimentare, inventare. Allo stesso tempo, pongono questioni teoriche ineludibili, che possono trovare risposte diverse a seconda dei particolari momenti storici e nelle diverse fasi dell’evoluzione dell’arte teatrale, anche in rapporto alle altre arti.
Il nodo centrale è il rapporto del teatro con la modernità. Se il teatro incarna e condensa il nocciolo profondo della nostra civiltà (qualunque cosa essa sia), che rapporto deve avere con i frutti più radicalmente innovativi di quella stessa civiltà, ovvero con le nuove tecnologie? Viceversa, se il progresso tecnico-scientifico sta erodendo qualche aspetto fondante della nostra identità di esseri umani, il teatro non farebbe meglio a rifiutarlo?
Attraverso Heidegger, il nodo del rapporto con la tecnica è diventato centrale nella riflessione filosofica (e politica) novecentesca. Dal canto suo, la pratica teatrale si è trovata in diverse occasioni a fare i conti con la medesima questione, a tratti senza averne piena consapevolezza, a volte portando la riflessione allo scoperto, a volte trovando soluzioni innovative sulla scena. Perché la storia dello spettacolo nella seconda metà del secolo scorso è stata anche una “riflessione pratica” su questa linea di frizione, ma in una situazione e con presupposti teorici che oggi appaiono superati.
(...)
Il teatro è nato nell’antica Grecia insieme alla democrazia. Alla polis ateniese ha offerto uno spazio in cui riflettere collettivamente – a partire da un mito condiviso, da un racconto - sui valori fondanti della comunità: la tragedia nasce intorno a dilemmi etici (al limite religiosi) e civili (prima ancora che politici).
Nel corso della sua storia il teatro è spesso stato strumento di emancipazione e democrazia, in costante rapporto dialettico con il potere e l’immagine che il potere vuol dare di sé. Ha avuto dunque una costante funzione critica, magari attraverso la satira e la parodia.
Fino a poco tempo fa, produrre e diffondere contenuti era assai complesso e costoso. La comunicazione era dominata da potenti corporations: i grandi produttori di televisione, cinema, dischi, giornali e riviste, eccetera. Il teatro consentiva invece forme di autoproduzione a costi molto bassi e il successivo accesso all’attenzione dei media (almeno finché si è praticata la critica teatrale su giornale e riviste). Oggi le tecniche e i costi della produzione audiovisiva si sono praticamente azzerati, e il teatro ha (fortunatamente) perso l’esclusiva della libertà d’espressione a basso costo.
La rete sembra ora garantire anche la possibilità della diffusione di massa dei contenuti a bassi costi – anche se la situazione attuale non sembra mantenere la promessa: le fonti di informazione sono rimaste per ora più o meno le stesse.
Di più. Il web 2.0 propone il gran teatro del mondo di Google maps, il proliferare di telecamere piazzate ovunque nel pianeta, le varie forme di “realtà aumentata” (anche la scena teatrale è per molti versi una “realtà aumentata”, stratificata di possibilità e di significati). La nuova interattività si fonda su un esibizionismo di massa che dai reality e dai talent show tracima su tutta la mediasfera. E’ una trasformazione che ha drastiche conseguenze sull’immagine che c facciamo di noi stessi e del mondo in cui viviamo, e che innesca ovvie implicazioni politiche.
Il teatro può avere una salutare funzione conoscitiva e critica, se fa ricorso alla propria consapevolezza dei confini tra realtà e rappresentazione (o rappresentazione), tra cornice e quadro, tra scena, platea e retropalco (insomma, tra pubblico e privato), tra volto e maschera, se attingerà alla sua sapienza nel gestire i punti di vista, nel creare prospettive, nel generare e plasmare l’immaginario.
Annamaria Monteverdi sta esplorando da anni questi diversi fronti. Ha censito le ibridazioni più interessanti, compilando tassonomie vertiginose ed esilaranti degli ibridi tecnoteatrali attualmente in voga. Li ha storicizzati, identificando gli antecedenti e i precedenti. Ha identificato i nodi problematici e le linee di faglia su cui sono cresciute queste ricerche, approdando a volte a spettacoli memorabili, in altri casi fermandosi allo stadio di prototipo. La sensazione, leggendo queste pagine, è che stia succedendo qualcosa di importante: qualcosa che non riguarda solo il teatro, ma la capacità del teatro di parlare all’intera società, penetrando come una sonda nel corpo più vivo e pulsante della mediasfera, creando frizioni con i luoghi comuni martellati dall’informazione e dalla propaganda, praticando un salutare détournement (un utile abuso) dei nuovi talismani digitali. Possono essere a volte esperimenti marginali, destinati a un rapido oblio. Oppure possono essere ripresi e rilanciati all’interno del mainstream.
Nell’ecologia fortemente dinamica della mediasfera, questi nuovi teatri geneticamente modificati hanno una duplice compito: in primo luogo creare forme avanzate, in grado di replicarsi in questo nuovo ambiente; in secondo luogo, fornire anticorpi il grado di resistere alle inevitabili patologie innestate dalle nuove forme di interazione e comunicazione.
Fermo restando che il “teatro-teatro”, medium da tempo a costante rischio di estinzione, continuerà a vivere. A restare necessario.
Un corpo in progress Gli spettacoli della Biennale Danza 2011 di Fernando Marchiori
Gli spettacoli del settore danza della Biennale di Venezia, dal 2005 diretto da Ismael Ivo, sono ormai quasi un’appendice di quello che è diventato il principale impegno del coreografo brasiliano in Laguna, ovvero l’Arsenale della danza, un vero e proprio centro di perfezionamento nell’arte del movimento corporeo che si pone al livello delle più avanzate esperienze internazionali di pedagogia e ricerca.
Da gennaio a maggio, infatti, 25 giovani selezionati tra Venezia, Vienna e San Paolo del Brasile, sono stati impegnati in sette cicli di masterclass tenuti da coreografi e danzatori di fama internazionale.
Più che nei due anni precedenti, l’esperienza pedagogica nata per dare impulso alla creatività giovanile che si affaccia al professionismo, sembra aver trovato omogeneità e affiatamento tra i bravissimi danzatori approdati a Venezia da mezzo mondo, formando una vera e propria compagnia che ha portato in tournée il nuovo spettacolo firmato da Ivo, Babilonia. Il terzo paradiso, al debutto proprio in apertura di festival al Malibran di Venezia.
«Possiamo immaginarci il corpo come un’orchestra unica nel suo genere, che deve far suonare ogni sua singola parte, esattamente come le diverse sezioni degli strumenti a cui corrisponde l’intera gamma dei movimenti – ha scritto Ivo –. Ma quando il corpo-orchestra inizia ad accordare i suoi strumenti e a prepararsi per una sinfonia, ecco che ha bisogno di un’esperienza determinante per poter rispondere a un compito tanto alto. È questo il momento in cui il danzatore ha necessità di saper individuare lo spazio e di avere la competenza per disporne, sperimentando e affinando le abilità già acquisite.»
Sotto il titolo complessivo di Body in progress Arsenale della danza ha dunque proposto in successione alcune esperienze formative destinate a creare un repertorio di tecniche, forme e stili ai quali una nuova generazione di danzatori si potrà rivolgere nella ricerca del proprio linguaggio coreutico: la “nouvelle danse” fiamminga di Anne Teresa De Keersmaeker portata all’Arsenale da Marion Ballester; il funk e la breakdance americani con Niels “Storm” Robitzky; il metodo Forsythe secondo Francesca Harper; la danza contemporanea latinoamericana e la capoeira di Fernando Machado e Plínio Ferreira dos Santos; la danza afro-americana con l’eccezionale presenza dell’ottantacinquenne Othella Dallas; il teatro danza tedesco di Kenji Takagi, danzatore di Pina Bausch, e quindi l’eredità della ricerca di Rudolf von Laban e Kurt Jooss. Il seminario di conclusivo tenuto dallo stesso Ivo ha poi coinvolto tutti i danzatori in una creazione che, come gli anni scorsi con The waste land e con Oxygen, ha sugellato l’intensa sessione dell’Arsenale.
Porte aperte
Un grande e ambizioso investimento, insomma, sulla formazione di un danzatore «che non sia un semplice interprete, ma possa condividere il processo creativo con il coreografo, fino a sviluppare una propria autonomia di scrittura e una propria identità di artista». Ma anche un dialogo aperto con le energie culturali di una città che la Biennale di Ivo ha saputo in questi anni conquistare. A confermarlo è la curiosità suscitata dalle performance dei danzatori nei vaporetti della linea 1, lungo il Canal Grande, e soprattutto gli Open Doors, appuntamenti gratuiti di presentazione al pubblico dei lavori in corso, a conclusione di ogni ciclo di masterclass, che hanno spesso registrato il tutto esaurito, coinvolgendo un pubblico giovane e attento.
Babilonia è una riflessione sulla realtà multiculturale e sulla possibile liberazione del corpo dal dualismo soffocante tra potere e sottomissione. Una scena bianchissima, fondale e pareti di stoffa increspata, arie barocche di castrati, una testa di cavallo indossata da un danzatore, una successione di scene che mettono in risalto le abilità dei singoli danzatori e sembrano risolte soprattutto nei passi a due, nei quadri poco affollati, nei momenti in cui non prevale un intento narrativo, magari con elementi che ritornano da altri spettacoli (gli specchi, il lunghissimo tavolo coperto dalla tovaglia bianca). Tra gli altri spettacoli, tutti provenienti da interessanti esperienze di formazione e ricerca, si segnala Talent on the move della Rotterdam Dance Academy, con un programma assai composito comprendente un frammento del bellissimo A way a lone di Jiri Kylián e gli intensi 7 van de 24, sui Preludi di Chopin, e Master of Puppets con la coreografia di Jérome Mayer.
Coreografie sportive
Ma le performance più innovative sono senza dubbio altre. Project, don’t look now del Performing Arts Research and Training Studios è un lavoro di grande interesse sul piano dell’indagine del movimento, anche se non troppo accattivante per il pubblico, forse a causa degli equivoci concettuali di un’operazione in realtà solida e organica.
La coreografia di Xavier Le Roy, che con Màrten Spangberg firma anche il ciclo di ricerca del P.A.R.T.S. da cui nasce lo spettacolo, sviluppa infatti una serie di partiture corporee ricavate sulle strutture fisiche e dinamiche delle discipline sportive e “sovrapposte”, senza mai combaciarvi totalmente, ai quartetti d’archi di Webern. Lo spazio danzato sembra espandersi in un esperimento di interazione fisiologica (non a caso Le Roy è laureato in biologia molecolare. Le relazioni (dei performer tra loro e con la musica, lo spazio, le reazioni degli spettatori) sono indagate attraverso il gioco e le sue regole, la tattica e la strategia che coinvolgono, escludono, fanno interagire. In quanti modi, per esempio, si può colpire un pallone con la testa? E qual è la soglia del loro riconoscimento in quanto coreografia (e viceversa)?
I 12 danzatori intervengono spesso suddivisi in gruppi. In quattro, sei o tre alla volta tracciano nello spazio i segni di una pratica sportiva astratti da ogni contesto, risolti in puro gesto, movimento, relazione prossemica. A volte uno di loro scende dal palco e guarda i compagni, quasi dirigendo con lo sguardo i loro movimenti. Loro continuano a spostarsi, cercano la posizione, riprovano, in una danza degli aggiustamenti spaziali che ci fa vedere lo sguardo di chi è giù, ci fa percepire il punto di fuga, la messa a fuoco. Altre volte i giovani performer creano quadri plastici, elaborando momenti di “sats”, di istanti di tensione prima dell’agire. Project è infatti anche uno studio sull’attesa, la prontezza, lo slancio. Sull’ascolto corporeo della musica.
La vitalità colorata delle favelas
Completamente senza musica è invece Pororoca, della compagnia brasiliana diretta da Lia Rodrigues.
Lo spettacolo nasce dalle favelas di Rio de Janeiro, dove la coreografa ha creato uno spazio dedicato alla danza e aperto a tutta la comunità, una preziosa realtà dalle molteplici attività, totalmente gratuite, di produzione, formazione e azione pedagogica. Pororoca è l’incontro di correnti contrarie, il tumultuoso confluire del Rio delle Amazzoni nell’Oceano Atlantico. Un’immagine forte per indicare il necessario rimescolamento culturale che, in scena, è testimoniato con gioiosa vivacità da undici giovanissimi danzatori. Nei loro indumenti colorati, lanciando e spostando oggetti di riciclo (sacchetti, vestiti, oggetti, un tavolo di plastica) danno vita a un brulichio forsennato di azioni che sembrano seguire un ritmo interiore collettivo. Si attraggono in orbite sudate, scivolano, si strattonano, mimano amplessi orgiastici, seguendo i rimi del fiatone, i mugolii, il battito cardiaco accelerato. Respiri pesanti, strusciare di piedi, salti reiterati fino al parossismo, allo sfinimento. Ci sono degli stop, dei brevi assoli, sguardi alla platea, lento svaporare di forse. E poi di nuovo il vorticare di forze centrifughe e tensioni centripete. Una bellezza insperata, di una delicatezza che ferisce, prende infine forma nel caos governato di questa partitura coerente fino in fondo con la terra da cui nasce, con i corpi di cui è fatta.
Appuntamento finale il 24 e 25 giugno al Teatro Piccolo Arsenale per la prima mondiale di Brilliant corners, il nuovo lavoro di Emanuel Gat che chiuderà l’attività 2011 del settore danza. Lo spettacolo nasce nell’ambito del programma European Network of Performing Arts che la Biennale condivide con il festival londinese Dance Umbrella e il centro Dansen Hus di Stoccolma. Per un purista come il maestro israeliano, l’incontro con Thelonious Monk (Brilliant corners è il titolo di un celebre album del grande musicista jazz) porta a una riflessione sulla danza come arte effimera, continua scoperta ed elaborazione di strutture che cercano l’armonia nella dissonanza.
SPECIALE (DOPO)ELEZIONI Milano: quale sarà il destino del Teatro Lirico? Le prime scelte strategiche della giunta Pisapia-Boeri per la cultura di Redazione ateatro
Qui sopra e nella miniatura della homepage, Al gran sole carico d'amore di Luigi Nono, al centro di una memorabile stagione di spettacoli al Teatro Lirico di Milano.
Milano ha un nuovo sindaco, Giuliano Pisapia (evviva!!!), e un nuovo assessore alla cultura, Stefano Boeri, candidato sindaco alle primarie dal PD (sconfitto proprio da Pisapia), eletto a Palazzo Marino con un altissimo numero di preferenze. Dunque una scelta di alto profilo per l’assessorato, anche perché Boeri ha una delega delicatissima a «politiche per la cultura, grandi eventi, promozione, valorizzazione, diffusione della manifestazione prevista nel 2015 e condivisione dei suoi risultati, moda e design». Dell'Expo del 2015, l’architetto Boeri è stato peraltro uno dei progettisti.
La progettazione dell'Expo è ovviamente il boccone più ghiotto del nuovo assessorato, anche per la risonanza mondiale e la mole degli investimenti previsti (sui quale dovranno vigilare l'assessore al Bilancio Bruno Tabacci e magari una commissione antimafia). L’Expo rientra però nel filone degli “eventi” che Paolo Mereghetti, sul “Corriere della Sera” di sabato 11 giugno, ha fortemente criticato.
Nelle prime dichiarazioni, Boeri si è peraltro attenuto alla "linea Pisapia", a cominciare dall’attenzione alle periferie.
Al di là delle buon e intenzioni, a Milano sono necessari anche alcuni interventi strutturali che riguardano il teatro milanese. Il più urgente è decidere il futuro del Teatro Lirico, una delle tante "incompiute" delle giunte Albertini-Moratti, al centro di una penosa vicenda “alla milanese”.
Quando il teatro andò distrutto a causa di un incendio la notte del 9 febbraio 1938, ci volle poco più di un anno per restituirlo alla città: venne infatti ricostruito secondo il progetto dell'architetto Antonio Cassi Ramelli e inaugurato l'11 maggio 1939.
Oggi il Teatro Lirico - che non ha subito alcuna catastrofe, se non il bacio della morte della burocrazia politica - è chiuso da una dozzina anni e rischia di restarlo ancora a lungo, come documenta un dossier dal titolo beckettiano, Aspettando il Teatro Lirico di Milano, pubblicato dalla rivista "Stratagemmi" (n. 17, 2011). Nel 1999 un bando aveva affidato la ristrutturazione e la gestione del teatro alla cordata guidata dal fervido Gianmario Longoni (già patron a Milano dello Smeraldo e del Ciak, oltre che del Teatro Creberg a Bergamo). Garante culturale dell'operazione, il senatore Marcello Dell'Utri: la scelta aveva prevedibilmente scatenato di feroci polemiche (salvo poi registrare la silenziosa ritirata dello stesso DellUtri, ormai impegnato su altri fronti: come la pubblicazione dei “veri e presunti” Diari di Benito Mussolini, che proprio davanti al Lirico fece il suo ultimo comizio).
Il 16 dicembre 1944 Mussolini tornava a parlare in pubblico per la prima volta dopo il 25 luglio 1943. Il discorso venne pronunciato a Milano il 16 dicembre 1944, al Teatro Lirico gremito, e fu l'ultimo discorso pubblico significativo del Duce. Dopo lasciato il Teatro Mussolini venne acclamato lungamente per le strade di Milano dalla folla.
Da dodici anni, una raffica ricorsi e rinvii, accuse e controaccuse, sopralluoghi e controperizie, risse e pasticci; tra i protagonisti, all'epoca in cui fu assessore alla Cultura del Comune, Vittorio Sgarbi, fieramente avverso al progetto, con l'appoggio della Sovrintendenza ai Beni artistici e culturali.
Alla fine, il progetto Longoni è ingloriosamente evaporato e il boccino è ritornato nelle mani del Comune, appena prima delle elezioni.
Intanto Longoni ha iniziato a chiedere una sorta di risarcimento, magari la gestione di un’altra sala di proprietà comunale dall’incerto destino, il Teatro degli Arcimboldi; sul piatto Longoni mette anche il danno subito per gli eterni lavori in corso per il parcheggio sotterraneo davanti allo Smeraldo; ma qui bisognerebbe ricordare anche che la kermesse elettorale di Boeri e Pisapia è passata proprio da alcuni mega-eventi allo Smeraldo.
Milano ha una specie di record nei ritardi del lavori di costruzione e ristrutturazione dei teatri. Bastano alcuni esempi:
- le discussioni durate decenni e i lavori infiniti (compresi gli schizzi di Tangentopoli) per costruire la nuova sede del Piccolo Teatro, quella che ora è il Teatro Strehler (ma dove il maestro non fece in tempo ad allestire nemmeno uno spettacolo);
- il Teatro dell'Arte (all’interno del Palazzo della Triennale progettato dall’architetto Muzio), chiuso nel 1988 per una risistemazione durata nove anni, che l’ha imbottito di marmi, contro ogni buonsenso acustico;
- la ristrutturazione del Cinema Eolo (sala a luci rosse), chiuso per una decina d’anni e diventato nel 2004 la nuova sede dell’Out Off;
- il Teatro Puccini, acquistato dal Comune nel 1990 e riaperto nel 2009 (con un investimento i 13 milioni di euro e dopo la soluzione di diversi problemi strutturali) e ora rilanciato con trascinante vitalità dal Teatro dell'Elfo.
In questo scenario va invece segnalato come modello virtuoso la splendida reinvenzione (architetto Gian Maurizio Fercioni) della nuova multisala del Teatro Franco Parenti (Andrée Ruth Shammah, anima del teatro, ha spiegato, festeggiando i 35 anni di storia del teatro qualche settimana fa, di voler festeggiare anche “la chiusura dei debiti per la realizzazione della grande opera (anche se in bilancio resta un rosso di 2,7 milioni di euro accumulato in quarant'anni di attività)”.
Insieme all’Elfo-Puccini, il Franco Parenti testimonia nella maniera più evidente la vitalità del sistema teatrale milanese, sia sul versante dell'offerta sia su quello della domanda.
Intanto anche il vivace Teatro i di Renzo Martinelli e Federica Fracassi (ristrutturato nel 2003-2004) sogna un ampliamento-innalzamento innovativo ed ecosostenibile.
Una delle prime scelte che dovrà fare la nuova giunta Pisapia-Boeri sul fronte teatrale riguarda proprio il destino del Lirico, concepito dal Piermarini alla fine del Settecento come secondo palcoscenico per la Scala, che lo usò come sede provvisoria dal 1943 al 1946, e che nel 1964 era diventato il secondo palcoscenico del Piccolo, in attesa di più degna sistemazione; di recente avrebbe potuto tornare a ospitare gli spettacoli della Scala in ristrutturazione, se non fisse diventato “necessario” costruire il Teatro degli Arcimboldi.
La decisione riguarda il tipo di ristrutturazione dell’immobile. Longoni & Co. volevano una ristrutturazione radicale, con la creazione di un ambizioso centro polifunzionale con ristorante e altri servizi; Sgarbi chiedeva invece di salvaguardare il lavoro dell’architetto Cassi Ramelli (e dunque prevedeva con un investimento minore). Ovviamente il tipo di intervento va commisurato alla futura destinazione del teatro. Ma prima ancora il Comune dovrà decidere il livello del proprio impegno: affidare pressoché totalmente ristrutturazione e gestione ai privati, o farsene carico in prima persona. Tenendo presente che l’Expo è vicinissima, che la scelta di schierare Boeri implica l’impegno della città e della giunta (ma anche del PD) a onorare al meglio l’impegno che Milano ha preso con il mondo intero. E che, nella ristrutturazione del Lirico, sono già stati persi dodici anni...
La situazione dl Lirico è oggi molto intricata, dal punto di vista culturale, politico e giudiziario, tanto che capirci qualcosa è diventato impossibile. E naturalmente non si tratta di un singolo “caso”, che è possibile risolvere a prescindere dal contesto. La decisione sul Lirico assume dunque un valore emblematico.
Così come diventeranno emblematiche dell’idea di città che ha in mente Pisapia (e impegnative per il futuro della città) le decisioni su due interventi strutturale - e assai costosi - di cui molto si è parlato e sparlato nell’era Albertini & Moratti. La Giunta Pisapia dovrà infatti decidere che fare di due ambiziosi progetti: la BEIC, la grande biblioteca europea “a scaffale aperto” che dovrebbe sorgere a Porta Vittoria; e la Grande Brera, un’idea da 30 milioni di euro promessi ma che di fatto non si trovano.
La rivoluzione dello spettacolo lo spettacolo della rivoluzione Continua l'occupazione a Roma del Teatro Valle: la mobilitazione si allarga di Oliviero Ponte di Pino
Da più di una settimana il Teatro Valle è occupato, a oltranza, in una sorta di assemblea-spettacolo permanente, allegramente partecipata, con frenetica produzione di documenti, idee, progetti, programmi per la serata. Perché ogni sera c'è spettacolo, con un variegato rullo di partecipazioni, comprese molte star del cinema e della musica.
La mobilitazione sta progressivamente allargando gli obiettivi e il raggio d'azione, con scambi di solidarietà con altre realtà in tutta Italia, e sconfinamenti dal teatro alle altre arti e in generale all'ambito della cultura.
Per capire il successo e l'energia di questa lotta, val forse la pena di ripercorrere brevemente gli eventi degli ultimi mesi.
Nell'estate del 2010 il governo (con Sandro Bondi ministro dello Spettacolo) decide di chiudere l'ETI, senza alcuna discussione preventiva e senza alcuna prospettiva per il futuro. Il Ministero, guidato di fatto da Salvo Nastasi, centralizza (superando i controlli di un consiglio di amministrazione) le funzioni dell'ETI, abbandonando al loro destino i teatri che gestiva, tra cui il glorioso Valle, dove negli ultimi anni aveva trovato spazio una significativa fetta fetta di "nuovo teatro". Il destino del Valle, così come quello della Pergola a Firenze e del Duse a Bologna, diventa un mistero.
Le proteste che si levano contro questa decisione sono timide, anche perché da sempre la gestione dell'ETI è stata scadente e poco trasparente: la mobilitazione non ha grande effetto, e tuttavia lascia un primo segno.
La cancellazione dell'ETI si inserisce nel quadro dei tagli imposti dal ministro Tremonti, nell'ambito della legge di stabilità. Particolarmente penalizzati lo spettacolo (con i tagli al FUS), la cultura, la ricerca. Il ministro Bondi non riesce a difendere il portaoglio del suo ministero, e all'inizio del 2011, dopo dure contestazioni, decide di dimettersi. Contro i tagli alla cultura parte infatti un'ampia mobilitazione, che - forse per la prima volta con questa evidenza - raccoglie l'intero fronte della cultura, che si presenta come settore strategico nello sviluppo del paese. Nel quadro di questa mobilitazione, si rafforzano forme alternative di organizzazione, al di fuori dei tradizionali organi di rappresentanza (Agis e sindacati). Particolarmente attivi sono i giovani, penalizzati da una condizione di "precariato sempre più precario", bloccati dalla mancanza di prospettive di un paese che non riesce più a immaginare e progettare il proprio futuro (vedi l'attività di zeropuntotre).
Alla fine i tagli rientrano (almeno in parte) e si insedia il nuovo ministro Galan. Il collasso finanziario del settore e stato evitato (o rinviato, anche se molti teatri e festival rischiano ugualmente la chiusura, visti anche i taglia agli enti locali). Il contentino pare quietare all'improvviso gli animi.
A giugno, le elezioni e il referendum sono il chiaro indizio che il vento può cambiare, e che (a volte) le lotte pagano.
Nelle stesse settimane del voto, sale all'ordine del giorno la decisione sul destino del Teatro Valle, che il Ministero dovrebbe cedere al Comune di Roma. Ma per farne che? E con quali risorse?
Forse l'obiettivo è darlo in gestione al Teatro di Roma, che già controlla diverse sale nella capitale; allora, si ipotizza, verrà sacrificato il Teatro India, sul quale peraltro in questi anni si è investito molto in ristrutturazioni (però oggi quell'area sta diventando interessante dal punto di vista immobiliare: a qualcuno forse è venuta la voglia di dare all'India una destinazione d'uso più redditizia...). I pessimisti pensano che qualcuno vuole affidare il centralissimo Teatro Valle ai privati, che ne potranno fare un uso più "commerciale".
Sono solo ipotesi, o pettegolezzi perché come spesso accade la trasparenza dei meccanismi burocratici è quasi nulla. Tuttavia il Valle è un luogo simbolico, e l'affronto è troppo grave. E nel paese il clima è cambiato. La prima esigenza è proprio la trasparenza: che sta succedendo? Perché i cittadini non vengono informati? Di chi è davvero la proprietà dell'immobile? Che cosa ne vuole fare il Comune? Chi decide? Con quali meccanismi e controlli?
E' a questo punto che scatta l'occupazione: obiettivo iniziale, capire che succede, e naturalmente salvare il Valle dagli abusi e assicurargli un futuro rispettoso della sua vocazione, facendo pressione su Comune, Ministero, Teatro di Roma...
Non si tratta solo di salvare uno dei più antichi teatri italiani da una eventuale speculazione immobiliar-commerciale. L'impressione che hanno molti italiani è che la "cosa pubblica" finisca troppo spesso nelle grinfie di comitati d'affari che poi ne fanno un uso privato (e spesso ispirato a una totale e offensiva ignoranza), magari con la scusa che il mercato è "più efficiente" mentre il "pubblico" sarebbe clientelare e lottizzato (anche se poi in realtà queste "cricche" sono in genere un mix di pseudo-politici corrotti e pseudo-imprenditori arraffoni, con qualche aggancio finanziario-bancario). L'accento sulla cultura come "bene comune", dopo il successo dei refererendum sull'acqua, è il frutto di questo atteggiamento.
Tornando al Valle, si tratta anche di capire che cosa farne, e come scegliere chi lo deve gestire o dirigere. Riemerge il dibattito sulla (buona?) pratica dei bandi e sul senso delle direzioni artistiche, e in generale sul corretto rapporto tra cultura e politica. Insomma, il procedimento con cui scegliere cosa fare del Valle può diventare un modello da applicare altrove.
Fin dall'inizio si avvicinano al movimento del Valle - che in origine riguarda soprattutto il popolo del teatro - i popoli della musica, del cinema, della letteratura, dell'università... La protesta tende ad allargarsi, con la proposta di occupare un teatro in ogni città (nella "Milano liberata" il Lirico sembra aspettare solo una iniziativa del genere).
L'occupazione ha obiettivi concreti, imnediati: la difesa di uno spazio pubblico e della sua tradizione. Sta cercando insieme di costruire una piattaforma di rivendicazioni (ma anche di proposte) che vanno molto al di là del "caso particolare" e hanno prospettive più ampie.
Ma è anche un gesto di forte valore simbolico: se n'è accorto anche il "Corriere della Sera", che gli ha dedicato un pezzo in prima pagina. Perché quello che sta accadendo, giorno dopo giorno, al Teatro Valle, non riguarda solo i ragazzi che l'hanno trasformato in un grande incubatoio di idee, ma interessa tutti noi. E dunque è importante che le proposte che emergono ed emergeranno da questo "laboratorio politico" vengano discusse, approfondite e rilanciate anche altrove.
Mike Tyson a Santarcangelo Una mail a www.ateatro.it di Andrea Porcheddu
Caro Oliviero,
seduto in un bar di piazza Ganganelli, il cuore di Santarcangelo, ti vedo passare, correndo veloce per non perdere - forse - il canto della poetessa-muezzin Gualtieri; poi ecco con passo svelto e perenne entusiasmo Goffredo Fofi, burbero benefico innamorato di questo Festival, accompagnato da Rodolfo Sacchettini, uno dei tanti (quanti sono? Venti? Trenta?) giovani critici che stanno restituendo pulizia e entusiasmo al nostro mestiere. E poi ecco Laura Mariani, Silvia Bottiroli, Piero Giacchè, Marco De Marinis tanti altri ancora.
Sono passati quasi vent'anni. In un salottino dell'Hotel Della Porta, con gli eterni occhiali da sole, Leo de Berardinis si divertiva a fare del pugile Mike Tyson un eroe shakespeariano, un nuovo Riccardo III.
Lui, il pugile selvaggio, aveva quasi staccato un orecchio a Evander Holyfield, reo di numerose e scorrette testate, braccandolo sul ring con ogni mezzo. Fu uno scandalo, tutti pronti a condannare il gesto inconsulto e violento del criminale Tyson, già sul viale del tramonto. Ma disperatamente quel pugile dai denti d'oro voleva lottare, combattere ancora: "Il mio regno per un cavallo" commentò ridendo Leo de Berardinis. Era sempre e ancora il grande Leo, con quella voglia feroce di mettere assieme Shakespeare e Totò. In quegli anni, con la sua direzione artistica, il Festival di Santarcangelo era davvero un momento fondante, un punto di snodo, di riflessone, di incontro. Anni vivaci, di libertà e lotta, di creatività e di scoperta. Complice la presenza sorniona di Paolo Ambrosino, e l'entusiasmo di tanti, nel piccolo borgo romagnolo si davano appuntamento generazioni intere di teatranti, all'insegna della militanza e della passione per un "Teatro d'arte per tutti" che ha fatto scuola.
Ed è bello, a distanza di tempo, ritrovare quel clima, quell'affollamento, quella trasformazione del paese in una Cannes del teatro di ricerca italiano e non solo. Allora qualche considerazione si potrebbe fare in questo senso. Tre edizioni fa, Piergiorgio Giacchè dichiarava, con il consueto acume: "Il festival è morto" e lanciava la lungimirante proposta di affidarlo - non per i funerali di rito, ma per dare nuova vita - alle compagnie locali. Chiara Guidi della Raffaello Sanzio; Enrico Casagrande di Motus; e ora Ermanna Montanari delle Albe, hanno a dir poco non solo assolto il compito, ma addirittura superato, se possibile, quelle "mitiche" edizioni legate a Leo. Mi piace, allora, sottolineare - naturalmente è già stato fatto: basti citare il contributo fondamentale di Claudio Meldolesi in questo senso - all'eredità pratica, diretta e indiretta, di Leo de Berardinis in queste terre. Non solo nel triennio di direzione del festival di Santarcangelo, ma anche con la guida del Teatro San Leonardo a Bologna, Leo ha innervato gli anni migliori della Romagna felix, ponendosi come punto di riferimento (culturale, umano, teatrale, politico) delle generazioni a venire. Anche Silvio Castiglioni, che succedette a Leo alla direzione del Festival, mantenne e rinforzò certi aspetti, pur nella indipendenza di scelte, lanciati da de Berardinis. Ed è intrigante constatare che, nelle ultime tre edizioni, a Santarcangelo sia stato messa sotto i riflettori la figura dell'Attore, in tutte le sue sfaccettature e potenzialità tecniche. Attore e musica per la Guidi; attore e "piazza", ossia società, per Casagrande; infine attore e poesia per Ermanna Montanari. E come non citare, allora, quei "Cento attori" convocati in un folle e bellissimo sogno lirico da Leo?
In questo luglio 2011, in un paese devastato dalla malapolitica, dall'indifferenza e dall'arroganza dei nostri governanti e dalla rabbia feroce dei molti esclusi, ritrovarsi a Santarcangelo ha allora un senso bello, pulito, commovente, di riconoscersi attorno a una passione, all'idea vaga, utopica, di un futuro anche migliore, o almeno meno peggio del presente. Così si chiude, in modo struggente - per riaprirsi certo in una spirale continua e viva - un percorso iniziato allora, tanti anni fa, parlando di Shakespeare e Mike Tyson. E mentre il,sole scende, caldo, illuminando la piazza con le tante sedie e poltrone che arrivano dai teatri italiani, Marco Martinelli fa risplendere Majakovski negli occhi innocenti di adolescenti: viene da dire, allora, che anche quel teatro ostinatamente "politttttttico" delle Albe, sia un bellissimo proseguimento del teatro "poetico-politico" di Leo de Berardinis. Non è forse sbagliato pensare che le Albe abbiano svolto, già dagli anni Novanta, quel ruolo catalizzante e aurorale, attivatori di discorso e di energie, che era stato di Leo de Berardinis. E il festival di Santarcangelo, per atmosfera, qualità della proposta, sorrisi e entusiasmi, quest'anno lo dimostra. Viene da sorridere, con un pizzico di felicità, a pensarlo. Manca solo un Mike Tyson per continuare a giocare...
Frammenti di critica della ragion comica da Forme del pensiero che ride a cura di Margherita Rubino, Genova, 2011 di Oliviero Ponte di Pino
Allor le risa Margutte raddoppia,
e finalmente per la pena scoppia.
Luigi Pulci, Morgante Maggiore
I.
Qualche tempo fa sarebbe stato impensabile.
Clown attivi nei reparti ospedalieri riservati ai bambini, a cominciare da quel Patch Adams che nel 1998 ha ispirato il film omonimo, protagonista Robin Williams. E sulla scia di Patch Adams, in Italia ci si muove da Torino, con i “Clown-Volontari del sorriso”, a Reggio Calabria, con i “Clown in corsia”. Clown come il francese Miloud, che recuperano dall’abbandono e dalla disperazione i bambini di strada di Bucarest e di altre città della Romania.
Il comico invade anche la pedagogia. Da anni Moni Ovadia riempie i teatri con le sue barzellette teologiche. S’impara la filosofia con Thomas Cathcart e Daniel Klein, in volumi come Platone e l’ornitorinco. Le barzellette che spiegano la filosofia (Rizzoli, Milano, 2007), e il sequel Heidegger e l’ippopotamo. Le barzellette sull’aldiqua che spiegano l’aldilà (Rizzoli, Milano, 2009); oppure con Risosofia.Aristotele, Kant, Hegel, Marx, Freud e altri burloni di Pedro González Calero (Ponte alle Grazie, Milano, 2010). Libri come questi, inconcepibili ai tempi di Immanuel Kant o di Benedetto Croce, sono tra i frutti dell’“edutainment”, sintesi di “education” ed “entertainment”, che significa più o meno “educare divertendo”, cioè senza fatica, con leggerezza, in maniera ludica: con una premessa del genere, il passo verso il comico è molto breve. Lo stesso vale per l’“infotainment” che contamina informazione e intrattenimento: ne sono un sintomo le prime pagine di quotidiani come “il manifesto” e “La Voce”, costruite su collage visivi e titoli a volte irresistibilmente comici; di recente sulla loro scia si sono mossi, anche se in maniera meno sistematica, “Libero”, “il Giornale” e “l’Unità”. Forse non è un caso che sia stato un giornalista, Norman Cousins (1915-1990), a divulgare per primo il concetto che ridere fa bene alla salute, in diversi best seller ispirati alla propria esperienza (tra tutti La volontà di guarire. Anatomia di una malattia, ed. or. 1976, Armando, Roma, 1982). La sua cura consisteva in tre-quattro ore di film comici al giorno (a cominciare dai fratelli Marx) conditi con 15 grammi di vitamina C: questa dieta gli permise di guarire dalla una malattia devastante come la spondilite anchilosante, aumentando le sue difese immunitarie.
Recenti studi della Loma Linda University in California hanno confermato le intuizioni di Cousins. A venti volontari sono stati somministrati ogni giorno, per diverse settimane, venti minuti di spezzoni di film comici. I ricercatori hanno rilevato che ridere riduce la produzione di ormoni come cortisolo ed epifrenina, legati allo stress; riduce nel sangue il livello del colesterolo e di una serie di proteine collegate a uno stato di infiammazione del vasi sanguigni che portano all’arteriosclerosi; abbassa la pressione; stimola l’appetito; genera endorfine, gli ormoni del buon umore e della resistenza al dolore (“la Repubblica”, 28 aprile 2010).
Studi come questo rientrano in un nuovo campo di ricerca, la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), che studia “olisticamente” gli effetti degli stati d’animo sulla salute, e più precisamente il rapporto tra attività cerebrale e sistema immunitario. A questa scienza nuova si affianca la “gelotologia” (dal greco ghelos = riso e logos = scienza), la disciplina che studia la risata, il buonumore e il pensiero positivo come rimedio a numerosi disturbi e malattie psicofisiche. Inevitabile, dopo la pubblicazione di libri come quelle di Mario Farné, Guarire dal ridere. La psico-biologia della battuta di spirito (Bollati Boringhieri, Torino, 1995), e di Sonia Fioravanti e Leonardo Spina, La terapia del ridere. Guarire con il buon umore (Red, Como, 1999), l’approdo alla “terapia della risata” e alla “risoterapia”, che viene presentata così:
Attraverso la partecipazione ad esercizi, giochi, improvvisazioni e performance ogni allievo imparerà a liberare il proprio Clown ed a utilizzare la propria creatività umoristica come risorsa per il proprio benessere.
- Occhio Comico, Senso dell’Umorismo e Umorismo
- sblocco condizionamenti e “corazze” caratteriali
- la dimensione del gioco
- la nascita del proprio Clown
- la deformazione comica della realtà
- iperboli e paradossi
- la creatività “anticonformista”
- trasformazione del negativo in positivo
- distacco emotivo dalla problematicità del quotidiano
- allontanamento dello stress
- gestione dei conflitti
- gestione dei rapporti sociali conflittuali
- ironia ed autoironia
- satira e parodia come sublimazione dell’aggressività
- autostima ed equilibrio
- liberare e far vivere il proprio Clown nel quotidiano
(da sito www.morinibros.it, maiuscole nell’originale)
Si organizzano su questa base week end con corsi di “gestione comica dei conflitti”, che si sperano tanto intensi quanto spassosi.
Non viene risparmiata nemmeno la sfera del lavoro. Nel 1994 la British Airways ha nominato un suo dipendente, Paul Birch, “corporate jester”, ovvero “giullare d’azienda”, con il compito di evidenziare i problemi dell’organizzazione e proporre soluzioni. La pratica si è diffusa ad altre multinazionali. La bibbia dei buffoni aziendali si intitola The Secret Life of the Corporate Jester: A Fresh Perspective on Organizational Leadership, Culture and Behavior (ovvero “La vita segreta del giullare d’azienda: una nuova prospettiva nella leadership, nella cultura e nel comportamento delle organizzazioni”) di David T. Riveness (Jardin Publishing, Santa Clara, CA, 2006). In Italia è attivo il “giullare d’impresa”® Gianni Ferrario, mentre la tecnica manageriale della buffoneria d’azienda viene approfondita all’Università di Torino:
La tecnica del buffone di corte o del buffone sapiente è un recupero in campo aziendale della figura storica del giullare presso le antiche corti (...) Questa tecnica è oggi utilizzata in riunioni particolarmente delicate, per fare emergere i sottintesi e il “non detto” oppure per stimolare – attraverso opportune provocazioni – l’uscita dai cliché consolidati e suscitare l’adozione di un approccio più creativo alla soluzione dei problemi.
(Roberto Micali, Associazione Culturale ArTeMuDa, dal sito www.teatrosocialedicomunita.unito.it dell’Università di Torino)
Anche le arti, che già l’avevano nel codice genetico, sono state sempre più infettate dal virus del comico, nelle sue varie sfumature. Dopo che Flaubert ha cantato le gesta di due immortali “eroi stupidi” come Bouvard e Pécuchet, dopo che Kafka, leggendo le proprie opere, faceva sbellicare dalle risate i suoi ascoltatori, molta della migliore letteratura contemporanea è diventata per sua stessa natura ironica. Le arti visive – con il loro gusto della provocazione – tendono piuttosto al grottesco, più precisamente al “comedic”, per dirla con il sottotitolo di Black Sphinx. On the Comedic in Modern Art (a cura di John C. Welchman, jrp|ringer, Zurigo, 2010, che raccoglie gli atti del quarto simposio del SoCCAS, il consorzio delle scuole d’arte della California Meridionale). In campo musicale, Giangilberto Monti si è inventato il termine “comicanti” per identificare gli artisti che coniugano musica e risata: per esempio Renato Carosone ed Enzo Jannacci, Rino Gaetano ed Elio e le Storie Tese, fino a Flavio Oreglio. “Il design italiano di oggi? Spiritoso, anzi spiritosino” titolava un’intervista ad Alessandro Mendini. Il guru del postmoderno spiegava: “I giovanissimi designer italiani, oggi? Fanno al massimo cose spiritose, anzi spiritosine: ‘allegretti ma non troppo’, li definirei” (“il Venerdì di Repubblica”, 10 marzo 2010).
L’ironia – e persino l’autoironia – hanno superato le resistenze degli inserzionisti pubblicitari, che tendono sempre a prendere i loro prodotti molto sul serio: lo ha notato Annamaria Testa, grazie al successo delle sue campagne (dalla Golia che “sfrizzola il velopendulo” al golfino “nuovo o lavato con Perlana”), e ne ha parlato ampiamente nei suoi libri.
Sono solo alcuni segnali sparsi, raccolti con una rapida indagine. Tuttavia paiono registrare una tendenza più ampia: il comico, nelle sue diverse forme, è tracimato. Invade il terreno del “serio”, dai luoghi di lavoro alle aule scolastiche. Penetra nelle trincee più angosciose del dolore: nei reparti pediatrici e tra i malati terminali di tutto il mondo circolano dottori con il naso da giullare.
Un tempo il riso era regolamentato molto più rigidamente, anche se non sempre in maniera esplicita. Il comico veniva considerato “basso” e volgare, fisico e plebeo, “locale” e deperibile (“Una battuta è come il pesce: dopo tre giorni puzza”). Per alcuni era addirittura demoniaco e sovversivo: se non era possibile eliminarlo del tutto dai rapporti sociali, andava controllato e neutralizzato. Così il comico si è ritrovato a lungo confinato in ambiti spaziali e temporali abbastanza precisi: storicamente l’esempio più tangibile è la stagione teatrale del Carnevale, prima della triste Quaresima in cui gli attori restavano disoccupati.
Anche nella cultura dello spettacolo (quella che avrebbe dovuto essere più sensibile al tema) il comico veniva considerato un’espressione di serie B: basti pensare alla fortuna di Totò, in vita amatissimo dal pubblico e ignorato dagli intellettuali (quasi tutti), salvo poi essere assunto post mortem nell’empireo dei grandi. Nel 1996 il critico d’arte Achille Bonito Oliva gli ha addirittura reso omaggio con un documentario, Totòmodo: l’arte spiegata anche ai bambini, un montaggio di spezzoni in cui il celebre attore fa l’artista o parla d’arte.
II.
Ma se davvero la nostra società è preda di questa progressiva deriva verso il comico, che cosa può averla determinata?
In parte – e se n’era accorto Guy Débord – la società contemporanea si è andata sempre più mediatizzando e spettacolarizzando. Lo slittamento verso il comico è una conseguenza di questa trasformazione. Un’altra ragione di questo slittamento, collegata a questa, è la commistione (o la confusione) tra “alto” e “basso” che caratterizza la cultura contemporanea.
Tuttavia il ricorso alla “pratica comica”, e in particolare l’onnipresenza di ironia e autoironia, riflette forse una trasformazione più profonda.
In passato la nostra identità sociale, sessuale, professionale, religiosa, ideologica, generazionale, era determinata in maniera assai rigida e stabile (con una mobilità sociale ridotta). Si esprimeva con segni espliciti, spesso rigidamente codificati: basti pensare al sistema di regole che regolava il vestiario e i suoi colori nelle società medievali; ma anche, in tempi più recenti, all’immediata riconoscibilità delle persone in base al loro abbigliamento, o al loro accento e linguaggio, in un mosaico di diversità cancellato da quella che Pier Paolo Pasolini ha definito “omologazione”.
Il Novecento è stato invece “l’età del sospetto”. Marx, Freud e i maestri dello strutturalismo ci hanno insegnato che la realtà sociale e dunque la nostra identità sono assai più complesse di quanto riusciamo a percepire: l’alienazione marxiana, la scissione freudiana in Io, Es e Super Io, la scoperta di strutture che governano a nostra insaputa i nostri comportamenti (il linguaggio e “le strutture elementari della parentela”), rivelano che siamo attraversati e determinati da fratture e stratificazioni che possono generare conflitti interiori, a volte drammatici, e si riverberano nella società.
Nell’“età del sospetto” era possibile utilizzare complessi strumenti ideologici (il marxismo, la psicoanalisi, lo strutturalismo) per smontare il meccanismo e identificare le linee di faglia che attraversavano la nostra soggettività, e dunque i suoi diversi livelli, quelli espliciti e quelli rimossi, con i loro rapporti reciproci; a quel punto, si potevano trasformare i conflitti nascosti in “discorso”, in “narrazione” ed eventualmente passare all’azione (terapeutica o politica).
Nel corso del Novecento, da questa “età del sospetto” siamo passati, per dirla Zygmunt Bauman, a una “società liquida”. La nostra soggettività si è ulteriormente frammentata, sfrangiata, sciolta, liquefatta. Non abbiamo più un’unica identità, ma siamo un reticolo di possibili identità che attiviamo a seconda delle circostanze e dei contesti.
Alcune identità (o meglio, alcune schegge di identità) ci sono in vario modo imposte da vincoli sociali, ma altre le possiamo scegliere in base alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri. Possiamo sempre più spesso smettere una maschera per indossarne un’altra, e a volte lo facciamo più di una volta nel corso della stessa giornata. Sempre più spesso emigriamo, per i motivi più diversi, e cambiamo paese. Ci possiamo convertire a un’altra religione. Scegliamo un hobby o una squadra per cui tifare. “Non sapevo che tu facessi anche questo”: può essere uno sport, una pratica religiosa, una perversione... Ormai il vecchio tormentone “Ci sei o ci fai” ha una risposta obbligata.
Nell’“età del sospetto” si poteva pensare di “aggiustare” la struttura alienata dell’io e ricomporre la struttura sociale divisa in classi, rimettendo in sesto i rapporti tra i diversi piani. Nella “società liquida” si tratta piuttosto di regolare il flusso delle identità e di renderlo per quanto possibile armonico, omogeneo, evitando eccessivi sbalzi di pressione: quelli che creano i gorghi e mulinelli nella corrente turbinosa della soggettività.
Questo meccanismo lo si può subire, lasciandosi trascinare da pulsioni e affinità, per quanto lo consentono i diversi contesti sociali. In alternativa, possiamo diventare dei “fanatici” e “fondamentalisti”: fissarci su un’unica identità-pulsione, sprofondarci un’ossessione che riempia tutto il nostro io. Ma con queste opzioni non si governa certo il flusso della soggettività.
Esiste però un’altra opzione. Cercare di vedersi per quanto possibile dall’esterno, oggettivarsi o meglio – seguendo Bertolt Brecht – “straniarsi”, per diventare consapevoli del nostro gioco di maschere identitarie e cercare in qualche modo tenerle in equilibrio. Lo strumento che promette di reggere questo difficile gioco è l’autoironia: perché ci dà la consapevolezza del mosaico che siamo, e ci permette di scaricare le tensioni
Il segreto del successo dei comici di cultura ebraica, spesso esuli (testimoniato dal saggio di Lawrence J. Epstein, Riso Kosher: Risata per risata, l’ incredibile storia dei comici ebrei americani (prefazione di Moni Ovadia, Sagoma, Vimercate, 2010), è forse questo: perché il cuore della loro comicità è un’autoironia che nasce da un’identità complessa, stratificata. Presuppone la consapevolezza di essere minoranza, radicata in una diversità che rende impossibile ricondurre l’identità personale a un unico denominatore, a una stabilità che sarebbe solo consolatoria.
Le possibili metafore per capire la nostra identità “liquida” non possono più essere quelle dell’archeologia e della geologia (gli strati sommersi da riportare ala luce, le placche che si scontrano e confliggono), e nemmeno quella della geografia e della conquista (“Là dove c’era l’Es, ora deve esserci l’Io”, ovvero la missione che si era data Freud). Siamo più vicini ella dinamica dei fluidi, all’idraulica, ai vasi comunicanti: con correnti che a volte si organizzano il lamelle che scorrono in maniera omogenea e relativamente ordinata, e poi gorghi improvvisi, vortici di carattere caotico. L’autoironia forse ci aiuta a tornare da un flusso turbolento a un flusso stazionario. E’ così che, grazie alla lezione di Lenny Bruce, Woody Allen e soci, siamo (quasi) tutti diventati autoironici.
Questo cambiamento della nostra struttura personale profonda ha conseguenze di carattere generale.
Siamo (almeno in teoria) diventati tutti uguali, e questo ci spinge a cercare di diventare tutti diversi (o almeno a illuderci di esserlo), costruendo la nostra identità pezzo per pezzo, in un collage postmoderno. Siamo una società di uguali che cercano invano di rendersi diversi, speciali per trovare una idenità.
III.
In passato uno dei dispositivi più complessi per regolare il comico nei rapporti sociali era la coppia formata dal re e dal suo buffone, che trova l’espressione più tipica nel rapporto tra il Lear e il Fool nella tragedia di Shakespeare. In questo dispositivo, la critica comica al potere poteva essere esercitata, ma in un quadro ben definito: la satira era prerogativa esclusiva del Fool, l’unico suddito privo di un preciso ruolo – e dunque privo di identità – all’interno del corpo sociale.
Non sorprende che nelle società contemporanee il ruolo della satira politica sia diventato cruciale, sotto la spinta di due processi paralleli che però interagiscono tra loro.
Da un lato il potere è diventato via via più democratico. Non siamo più governati da un sovrano “per grazia divina”, dal quale dipende l’intera struttura sociale. A governarci sono – per fortuna – cittadini come tutti gli altri, cittadini come noi, che noi stessi abbiamo eletto. Insomma, a governarci è un leader, ma uguale in tutto e per tutto ai suoi governati-elettori. E’ un paradosso: il politico da un lato deve sostenere: “Sono come voi”, anche se in realtà non lo è, perché il potere porta sempre con sé qualcosa di sacro e di terribile: un’aura che l’oscena risata del buffone insieme riconosce e nega.
Nell’era dell’autoironia di massa (testimoniata da infiniti post sui social network), il politico ha un grosso handicap. Nel momento in cui smette di essere un “unto del signore” o un “tecnico” che ha imparato l’arte del governo, deve dimostrare di poter indossare tutte le maschere e di essere il più bravo: il più ricco, l’imprenditore di successo internazionale, l’intellettuale in grado di scrivere la prefazione ai capolavori della filosofia, un campione dello sport (o in alternativa il presidente-allenatore di squadre vincenti), un cantante ammaliante (meglio ancora se cantautore), un bravo padre di famiglia ma anche un irresistibile seduttore (con performance erotiche degne di una pornostar), il più giovane (o almeno “giovanile”) e insieme il più saggio (cioè ammaestrato dagli anni), e poi presidente-operaio, presidente-ferroviere, presidente-soldato, presidente-guardia giurata (con tanto di giubbotto e stemma)… Questo trasformismo potrebbe ricordare le esibizioni di Mussolini, con il suo superomismo da Maciste paesano: all’epoca le masse potevano prenderlo sul serio, oggi è meno probabile.
Dall’altro lato, come abbiamo visto, il comico ha allargato il proprio ambito. Divertirsi da morire è l’apocalittico titolo del profeta dell’Avvento Comico, Neil Postman, che già nel 1985 ci avvertiva del pericolo:
La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley, non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato delle informazioni; Huxley, quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la nostra sarebbe stata una civiltà di schiavi; Huxley, che sarebbe stata una cultura cafonesca, ricca solo di sensazioni e bambinate. Nel Ritorno al mondo nuovo, i libertari e i razionalisti – sempre pronti ad opporsi al tiranno – “non tennero conto che gli uomini hanno un appetito pressoché insaziabile di distrazioni”. In 1984, aggiunge Huxley, la gente è tenuta sotto controllo con le punizioni; nel Mondo nuovo, con i piaceri.
(Neil Postman, Divertirsi da morire, ed. or. 1985, Marsilio, Venezia, 2002)
Il riso offre ovviamente la migliore delle distrazioni: il comico ci sorprende, causando un’immediata reazione fisica.
Postman ci metteva in guardia dai falsi miti offerti dalla tv, dalla priorità data alle immagini piuttosto che ai contenuti, dalla logica dello logica dello spettacolo che ci abbindola e ci trascina nel “mondo del cucù!” (p. 84) che ci viene costruito intorno, un mondo fatto di piccole sorprese che si susseguono a ripetizione, sconnesse e slegate tra di loro, che non riescono ad offrirci nulla di più di un discorso povero, superficiale, frammentario e poco approfondito, ma purtroppo quasi sempre divertente.
(ibid., dalla prefazione di Mauro Bonocore)
Inevitabilmente, il comico ha infettato anche la politica. Nella società dello spettacolo, e della “politica spettacolo”, l’uomo politico diventa anche “entertainer”. Come i bravi intrattenitori, usa le armi del comico in varie maniere. In primo luogo, le usa per sedurre e allietare i suoi spettatori – o meglio, i suoi elettori: deve risultare “simpatico”, evitare a ogni costo di apparire noioso; e deve continuamente sorprendere un pubblico volubile e distratto, che altrimenti rischia di dimenticarlo, attratto da più pimpanti ed estrose soubrettes politiche. La battuta azzeccata serve anche per infilzare gli avversari, e controbattere i loro sarcasmi, appoggiandosi spesso più a caratteristiche fisiche o psicologiche che a idee, programmi, progetti: si creano così duetti, magari protratti nel corso del tempo, degni della Commedia dell’Arte.
In questo scenario, “dettare l’agenda della politica” non significa tanto imporre al dibattito pubblico i temi cruciali, in vista delle decisioni da prendere: è più importante, e anzi è indispensabile per la sopravvivenza politica, occupare la scena mediatica (il che consente tra l’altro di sfuggire alle responsabilità, alla “accountability”, in una girandola di trovate “notiziabili”). Anche per questo la “politica dello scandalo”, con il suo strascico di caricature e barzellette, caratterizza la scena politica contemporanea. La parabola del bunga-bunga è esemplare: all’inizio era una barzelletta vagamente scollacciata da cabaret o da convention aziendale; poi è diventata un rituale iniziatico, con riferimento a precise pratiche sessuali; infine è esplosa come scandalo erotico-politico. Sul piano dell’immagine pubblica, l’indescrivibile bunga-bunga è costato molto più caro delle accuse di collusione con la mafia, di evasione fiscale, di corruzione dei giudici...
Oggi il comico e il politico paiono sempre più vicini, fin quasi a confondersi. Il caso italiano non è certo unico, solo estremo, radicale, e dunque esemplare: apre uno spiraglio sul futuro. Da quasi vent’anni la scena politica del nostro paese è dominata da un imprenditore che conosce alla perfezione i meccanismi dello show business: ha iniziato come intrattenitore sulle navi da crociera e poi ha fondato e gestisce un impero televisivo commerciale, che rospera su indici d’ascolto e introiti pubblicitari. Conosce dunque alla perfezione caratteristiche e desideri dei telespettatori (in pratica di tutti). Non è tutto: “Se avesse le tette, farebbe anche l’annunciatrice”, come diceva Enzo Biagi. Perché ha un gusto istrionico, prova un piacere esibizionistico nel sedurre il suo pubblico e sa come si tiene la scena. Si è costruito un repertorio molto ampio, degno di uno stand up comedian: “Conosco più di duemila barzellette”, si vanta. In Il re che ride. Tutte le barzellette raccontate da Silvio Berlusconi (Marsilio, Venezia, 2010), Simone Barillari ha raccolto 97 storielle raccontate nell’arco di vent’anni.
Molte delle barzellette e delle battute berlusconiane sono “politicamente scorrette”. Oltre agli avversari politici (primariamente “i comunisti”), nel mirino di questo umorismo identitario e aggressivo sono finite varie categorie: le donne (a cominciare da Rosy Bindi), i neri (Obama, il presidente degli USA, e Marysthelle, che con il premier ha “fatto sesso ma senza bunga-bunga”, sono entrambi “abbronzati”), gli ebrei (la terribile battuta sul kapò al parlamento europeo), gli omosessuali (del resto l’interessato tiene a precisare: “Meglio puttaniere che gay”).
“L’Osservatore Romano” giudica uscite di questo tenore “deplorevoli”, ma solo gli ingenui possono pensare che le scorrettezze politiche “gli scappino”. Al contrario, grazie alla facciata comica è possibile tirare il sasso e nascondere la mano (“Era solo una battuta… Scherzavo…”), inviando all’elettorato messaggi precisi, che ne interpretano gli umori e le pulsioni profonde e li fanno emergere, proiettandoli sulle prime pagine. Insomma, riscattano gli pseudo-pensieri vagamente razzisti e discriminatori dalla chiacchiera da bar, per legittimarli e inserirli nell’agenda politica, rinsaldando i meccanismi di riconoscimento e identificazione tra il leader e i suoi fan.
La vena giullaresca del nostro premier ha allietato anche i vertici internazionali, per lo sconcerto dei grandi leader mondiali e della stampa, ma trionfano su Youtube: dalle corna al ministro degli Esteri spagnolo Josep Piqué in occasione di una foto di gruppo (a Caceres nel 2002) al cucù al cancelliere tedesco Angela Merkel (a Trieste nel 2008). Ovviamente l’azione politica di un leader non si esaurisce in questi episodi marginali: tuttavia fanno parte della sua immagine. Chi si esibisce così si differenzia da tutti i suoi predecessori, che della politica interna e internazionale avevano un’idea più seria (o seriosa) e meno “personalistica”.
Per simmetria, al politico-giullare corrisponde il giullare-politico. Ci sono diversi precedenti di uomini di spettacolo prestati alla politica: dal regista italiano Guglielmo Giannini, che nel 1946 alla guida del Partito dell’Uomo Qualunque ottenne il 5,3% alle elezioni per l’Assemblea Costituente, a Ronald Reagan (da attore di western di serie B a presidente degli USA) e Arnold Schwarzenegger (da campione di culturismo e Terminator cinematografico a governatore della California). Nell’ottobre 2010 il clown brasiliano Tiririca (all’anagrafe Francisco Silva) è stato eletto alla camera bassa con 1.350.000 voti (un record), dopo una campagna centrata sullo slogan:“Cosa fa un deputato federale? Veramente non lo so, ma votami e te lo spiego”.
Dal canto suo l’Italia, oltre a numerosi parlamentari provenienti dallo show business, può vantare la prima pornostar e il primo transgender eletti in Parlamento: per merito di Ilona Staller, in arte Cicciolina, candidata nel 1987 dal Partito Radicale, e di Wladimiro Guadagno, in arte Vladimir Luxuria, candidata nel 2006 da Rifondazione Comunista e vincitrice nel 2008, a furor di tele-popolo, dell’Isola dei famosi, quasi a dimostrare che la trasformazione non è irreversibile, anzi.
E’ inutile ricordare, attingendo alla storia dello spettacolo leggero, i numerosissimi comici censurati per le loro prese di posizioni politiche: dal triestino Angelo Cecchelin (incarcerato prima dall’Italia fascista e poi da quella Repubblicana) a Dario Fo e Franca Rame. Sono numerosi anche i comici italiani che si sono inventati una candidatura o addirittura un partito politico da lanciare nei loro spettacoli e nei loro film. Primo tra tutti l’irresistibile Antonio La Trippa, il candidato del PNR interpretato da Totò in Gli onorevoli (1963). Nel 1995, all’alba della Seconda Repubblica, ci aveva pensato anche Claudio Bisio:
Quando eravamo a Viterbo, sui muri della città c’erano manifesti del mio spettacolo Tersa Repubblica, dove mi si vede in una immagine bella patinata, vestito di tutto punto, sorriso a trentadue denti, lo sguardo rassicurante. Un po’ in stile seconda Repubblica, insomma. Quando il sindaco, credo democristiano, li ha visti si è allarmato: “Bisio? Chi è ‘sto Bisio? Sarà mica il candidato di Forza Italia?”, pare abbia chiesto ai suoi collaboratori. “Che fa? Comincia già ora la campagna elettorale? E’ sleale!”
Bisio aggiungeva di avere già pronte “alcune risposte per l’Italia”, tra cui “Sì”, “No”, “Come no”, “Certamente”, “Neanche da chiederlo”, “Sì al meglio”, “No al peggio”, “Sì al nuovo”, “No al nuovo”. La strategia delle affissioni (con l’aggiunta di gazebo e raccolta firme nelle piazze) l’ha seguita nel gennaio 2011 il marketing del film Qualunquemente, in cui Antonio Albanese interpreta una delle sue fulminanti macchiette televisive, il politico “sudista” Cetto Laqualunque, carismatico leader del Partito du Pilu: al culmine della campagna pubblicitaria per il film, la formazione politica “laqualunquista” secondo i sondaggi aveva raggiunto il 9% delle intenzioni di voto.
Qualcun altro ha provato a lanciare il suo partito direttamente in tv. Per esempio Pierfrancesco Loche a Tunnel (1994), con lo slogan “Per un futuro, un presente e un passato migliori... Salvitalia! Il paese che io amo”. Anche Roberto Benigni, ospite di Enzo Biagi a Il Fatto il 21 febbraio 1995, ha presentato un ticket elettorale: “Io vorrei tanto metter su un partito con lei, Biagi. Ora va di moda gli alberi, si prende per simbolo un bel pero. Slogan: fate una pera, e come va a finire va a finire”.
Anche Beppe Grillo ha pensato per tempo alla “discesa in campo”, almeno dal 30 giugno 1994: “Domani fondo un partito, il partito del ‘Come va? Bene, grazie’, e alle prossime elezioni mi candido. Scommettiamo che batto tutti?”, dichiarava al “Corriere della Sera”.
Beppe Grillo però è l’unico comico italiano che poi un partito l’ha fondato per davvero, e con successo: un partito che ha un progetto e un programma politico, e che ha ottenuto significativi consensi elettorali.
Il suo modello, inarrivabile prototipo dei moderni giullari-politici, è il francese (ma di origine italiana) Coluche, nome d’arte di Michele Colucci (1944-1986), che si candidò nel 1980 alle elezioni presidenziali francesi: raccolse nei sondaggi una percentuale così alta da mettere in allarme l’establishment transalpino, ma si ritirò dopo l’omicidio di un collaboratore e dopo aver ricevuto una serie di minacce (morì pochi anni più tardi in un incidente motociclistico). Una delle sue battute più celebri: “Smetterò di fare politica quando i politici smetteranno di farci ridere!” (La politique, album Coluche: l’intégrale, vol. 3, Carrère, Parigi, 1989).
Beppe Grillo aveva debuttato come cabarettista e intrattenitore televisivo; poi ha inanellato una serie di fortunati monologhi teatrali di controinformazione, centrati soprattutto sui temi dell’ambiente, della difesa dei consumatori e dello sviluppo sostenibile. Cacciato dalle reti nazionali (anche a causa dell’imbarazzo degli investitori pubblicitari di fronte alle sue invettive contro alcune multinazionali), ha continuato a esibirsi dal vivo, nelle piazze e nei palasport. Nel 1995 ha aperto un blog, beppegrillo.it, che è tra i siti più frequentati al mondo. A partire dal 2007 ha iniziato a sostenere una serie di liste civiche (per Comuni “a cinque stelle”, come quelle che segnalano gli spettacoli e i film da non perdere), che hanno conquistato diversi seggi nei consigli comunali. Pur senza candidarsi in prima persona (a differenza di Coluche), nell’ottobre 2009 ha fondato il Movimento Cinque Stelle, che è risultato decisivo nelle elezioni regionali piemontesi del 2010 e ha ottenuto il 6% dei voti in Emilia-Romagna. Un altro attore-politico, Giulio Cavalli, protagonista di spettacoli che attaccano e sbeffeggiano la criminalità organizzata, è stato eletto consigliere regionale in Lombardia, nella lista dell’Italia dei Valori.
La compresenza di un politico-giullare e quella di un giullare-politico alla guida di due partiti di rilievo nazionale segna forse un punto di non ritorno. Per completare il triangolo politica-cabaret-informazione, va aggiunto un altro dato. Un giornalista politico come Marco Travaglio si è rivelato anche un impareggiabile attor comico, in televisione e in scena, con ritmi e toni di assoluta efficacia e precisione. Questi perfetti tempi comici, collaudati in centinaia di presentazioni e incontri pubblici, gli permettono di utilizzare i documenti giudiziari come efficaci copioni: nel suo Promemoria (uno one man show che tiene inchiodati gli spettatori per più di tre ore senza intervallo), il pezzo forte, comicamente irresistibile, è l’interrogatorio in cui il banchiere Giampiero Fiorani racconta la sua visita a Villa Certosa per donare un cactus al premier (sul versante drammatico, il modello del giornalista-entertainer è ovviamente Roberto Saviano).
IV.
Nell’era dei politici-giullari e dei giullari-politici, la censura che colpisce i comici (e chi li ospita) rischia di assumere nuove valenze. Dietro ogni censura c’è ovviamente l’eterna e ottusa arroganza del potente che non sopporta critiche e sberleffi, e cerca di zittire ogni dissenso. Ma c’è anche la sensazione che oggi la vera opposizione non sia più quella tradizionale dell’avversario politico, ma quella del guitto che coglie all’istante, “di pancia”, gli umori degli spettatori-elettori e dunque è in grado di rubare la scena mediatica con un lazzo, una battuta, una gag.
Senza questa premessa, diventa difficile capire l’editto bulgaro dell’aprile 2002 contro un giornalista che aveva ospitato un buffone, e contro un buffone che aveva ospitato un giornalista: ovvero Enzo Biagi (perché aveva ospitato Benigni) e Daniele Luttazzi (perché aveva ospitato Travaglio), e in generale l’ostinazione contro i “satirici”.
L’azione giudiziaria intentata contro Sabina Guzzanti è sintomatica. La sua trasmissione, Raiot. Armi di distrazione di massa, venne bloccata immediatamente dopo la prima puntata (andata in onda il 16 novembre 2003) con l’espediente di una querela, innescata dal presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e corredata da una gigantesca richiesta di risarcimento.
La querela redatta dagli avvocati Stefano Previti e Pieremilio Sammanco contiene una pregevole definizione della satira, sulla quale è opportuno riflettere:
E’ noto, in verità, che la satira sorge per l’innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprudenza più volte sul punto ha infatti espresso che “il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l’informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)” (Dir. Inform., 1989, 520).
Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contribuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall’intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell’esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l’arma incruenta del sorriso assolve la funzione di “moderare i potenti”, di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E’ allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione.
Secondo gli avvocati, Sabina Guzzanti, invece di limitarsi a far satira, aveva tentato di informare i telespettatori. Insomma, aveva provato a dire la verità – o almeno qualche brandello di verità. Secondariamente, se avesse avvero fatto satira, la sua funzione avrebbe dovuto essere, più o meno, quella di “vaselina del potere”. In quest’ottica, la satira può esistere solo e finché non ha alcuna efficacia. Deve limitarsi a intrattenere, e non può “formare la pubblica opinione”.
All’inizio del 2004 il procedimento è stato archiviato: per Giuliano Turone, procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, le battute sulla legge Gasparri “scritta da qualcuno molto vicino a Confalonieri”, su “Retequattro abusiva”, o sul ministro Gasparri (“Tutte le volte che si critica la sua legge risponde l’ufficio stampa di Mediaset anziché il suo”), “trovano un riscontro nei contenuti delle due sentenze della Corte Costituzionale e nella memoria dell’Antitrust”, oltre che in “fatti, avvenimenti e circostanze” non soltanto “socialmente rilevanti” ma anche “obiettivamente veri nei loro elementi essenziali”. Ma a quel punto la trasmissione della Guzzanti era ormai stata cancellata e dimenticata.
In molte sagre paesane che allietano il Belpaese (ma anche altrove, dalla Spagna al Brasile) sopravvive una antichissima tradizione, quella del Re di Carnevale: è il sovrano della festa e il suo regno dura quanto durano i bagordi. Il suo effimero regno è un “mondo alla rovescia”, fatto di inversioni (a essere incoronato dovrebbe essere lo scemo del villaggio, il Fool), di travestimenti, di eccessi, di godimenti senza freno.
E’ l’ultima traccia di antichi rituali, che in origine si concludevano probabilmente con il sacrificio del “re dei matti”. Ora che siamo civilizzati, ci accontentiamo di bruciare il fantoccio del “re del Carnevale”, con un rogo che viene ancora celebrato in alcune località al termine della festa, quando il “mondo alla rovescia” rientra nella norma.
Oggi la censura ai satirici rischia di assumere una valenza sacrificale, uccidendo l’esistenza mediatica, l’unica che davvero conti, delle presenze “scomode”: perché la censura – l’esercizio del potere nella sua forma più primitiva – resta l’ultimo meccanismo con il quale il potere si può distinguere dal contropotere.
Molta della comicità contemporanea nasce dal seme dell’autoironia. Un atteggiamento che l’uomo politico, nella sua volontà di potenza, non si può permettere: sarebbe già l’ammissione di una sconfitta. I satirici sono da sempre moralisti, perché la molla che li fa scattare è l’indignazione. E devono essere cinici, perché solo così è possibile conquistare e tenere vivo l’affetto del pubblico. Se deve affrontare questo mix di autoironia, moralismo e cinismo, il politico-giullare avverte di avere un arsenale troppo scarso: si sente dunque costretto a ricorrere alla censura, alla prova di forza.
Ma forse questa è solo l’ultima conferma di un altro fenomeno, ancora più inquietante: il potere vero, quello che determina le nostre esistenze, è diventato invisibile. Si è smaterializzato in entità astratte e intoccabili, indiscutibili leggi economiche, tecnologie arcane, sigle misteriose, paradisi fiscali, follie dei grandi numeri, capitali che si muovono alla velocità della luce. Il potere visibile, quello che si manifesta sul piccolo schermo e s’azzuffa nei Parlamenti, è solo una maschera del Nulla, ora buffa ora patetica ora tragica.
V.
Le barzellette politiche sono le stesse da sempre, e vengono riciclate e adattate a seconda dei regimi.
Ce n’è una che era valida ai tempi sia di Mussolini sia di Kruscev, e di molti altri.
“E’ meglio essere calvi o cretini?”
“Cretini, si nota meno.”
Se il potente di turno è dotato di una folta chioma, basta sostituire la calvizie con un’altra caratteristica: “E’ meglio essere bassi, oppure avere le orecchie a sventola, o cretini?”
O magari ladri, coglioni, mafiosi, corruttori, evasori, puttanieri, eccetera eccetera.
Oggi hanno inventato il trapianto dei capelli, il lifting, le scarpe con la zeppa e il tacco…
Parliamo ormai solo di questo. E ridiamo, ridiamo, ridiamo...
Una volta era tutto diverso In anteprima dal dossier Produrre teatro ieri, oggi e domani ("Hystrio" 3_2011) di Oliviero Ponte di Pino
Produrre teatro ieri, oggi e domani è il titolo del dossier del nuovo numero di "Hystrio" (luglio-settembre 2011), tema assai spinoso e poco indagato. Dal dopoguerra a oggi il sistema produttivo italiano ha subito infatti ben pochi cambiamenti. Certo, ci sono stati due geniali e generosi innovatori come Giorgio Strehler e Paolo Grassi, ma anche la loro “invenzione”, ossia il concetto di Teatro Stabile, pare essersi trasformata in un monumento anziché in un organismo dinamico capace di dialogare con il territorio e di intercettare e promuovere le novità. Il panorama, tuttavia, non è una terra desolata perché stanno emergendo nuove realtà produttive, desiderose di conquistare spazi sempre più ampi ed eterogenei (a cura di Laura Bevione e Albarosa Camaldo, con interventi di Mimma Gallina, Giuseppe Liotta, Oliviero Ponte Di Pino, Nicola Viesti, Matteo Torterolo, Renzo Francabandera, Gerardo Guccini, Andrea Porcheddu, Pier Giorgio Nosari, Domenico Rigotti, Sandro Avanzo, Giuseppe Montemagno, Giorgio Finamore, Roberto Rizzente e Diego Vincenti).
Ma ad aprire la rivista è un ampio reportage sul Premio Hystrio 2011, che si è trasformato in un micro festival della creatività giovanile (di Roberto Rizzente), a cui fanno seguito un ritratto di Filippo Timi (di Fausto Malcovati), un’indagine sui cambi della guardia in quattro Stabili (di Andrea Porcheddu), il Premio Europa 2011 (di Roberto Canziani), il meglio del teatro ragazzi a Maggio all’Infanzia (di Nicola Viesti) e un focus su Claudio Cinelli, outsider del teatro di figura (di Sergio Lo Gatto). Le corrispondenze dall’estero arrivano da San Pietroburgo, Londra, Parigi, Bruxelles, Berlino, e dalla Slovacchia (di Fausto Malcovati, Margherita Laera, Giuseppe Montemagno, Elena Basteri, Davide Carnevali e Pino Tierno).
A questo si aggiungono le consuete rubriche sulle recensioni di teatro, danza, lirica e teatro di figura (oltre 100), le novità editoriali (a cura di Albarosa Camaldo) e il notiziario (a cura di Roberto Rizzente). Infine, il testo: I due fratelli di Alberto Bassetti, vincitore del Premio Vallecorsi 2011. La copertina e l’immagine di apertura del dossier sono state appositamente realizzate per noi da Joey Guidone.
C'era una volta un teatro in cui le cose sembravano molto più semplici. In quel tempo felice, il produttore (impresario, capocomico, compagnia, teatro, festival...) investiva una certa somma, fissava un periodo di prova e la data del debutto... e poi sperava di recuperare l'investimento e magari guadagnarci anche qualche soldo.
Poi le cose hanno cominciato a complicarsi. Seguendo la legge di Baumoll (che segnala la tendenza all’aumento dei costi di produzione nei settori come lo spettacolo dal vivo, nei quali la tecnologia produttiva non può essere migliorata o aumentata senza snaturare il prodotto), i costi di produzione hanno continuato a salire. Oltretutto i tempi di prova, anche a causa delle diverse modalità di lavoro, si sono allungati: basti pensare alla durata delle prove dei primi e degli ultimi spettacoli di Giorgio Strehler.
Con la svolta degli anni Sessanta, con il Living Theatre e il Teatr Laboratotium di Grotowski, si inizia a parlare di "ricerca" e "laboratorio". A rigore, se si sperimenta davvero, predeterminare i tempi di prova (e relativi costi) diventa insensato, impossibile. Per fortuna, il problema si è rivelato anche la soluzione, almeno in parte: la “pedagogia selvaggia” laboratori, workshop, seminari, master in cui diffondere le nuove tecniche e al tempo spesso proseguire nel percorso di ricerca, sono diventati una importante fonte di reddito per compagnie e artisti. Molti dei lavori del Bread & Puppett, ma anche per esempio l'Enrico V di Pippo Delbono, presuppongono una breve esperienza laboratoriale in loco, da rinnovare in occasione di ogni nuovo allestimento.
In un caso estremo come quello di Danio Manfredini, la pedagogia è diventata pressoché l'unica fonte di reddito per un grande artista che, per il suo metodo di lavoro, non si lascia ingabbiare dalle "abituali" logiche produttive.
A partire dagli anni Settanta, all'atteggiamento sperimentale si è intrecciata l'esperienza dell'animazione: ovvero l'uso di tecniche teatrali all'interno di contesti non immediatamente spettacolari, con obiettivi di socializzazione, terapia, integrazione, autoconsapevolezza, formazione... Queste "scuole elementari del teatro" (un'espressione di Tadeusz Kantor) svolgono un'importante funzione di riattivazione della consapevolezza individuale e collettiva, in particolare nel luoghi del disagio, e di autorappresentazione nello spazio pubblico.
Molte compagnie hanno iniziato a lavorare nelle carceri, nelle comunità psichiatriche, tra immigrati e anziani, con adolescenti problematici.
Altri gruppi operano nelle scuole, non solo e non tanto con spettacoli per bambini e ragazzi, quanto piuttosto per far vivere in prima persona ai più giovani l'esperienza della teatralità (la consapevolezza di sé, del proprio corpo, degli altri, il personaggio, la maschera...).
Altre realtà hanno privilegiato il teatro d'impresa: non solo per allietare le convention aziendali, quanto piuttosto nella selezione e nella formazione del personale. Per non parlare del mix di agriturismo, azienda agricola e teatro che ha sorretto ai suoi inizi il Teatro delle Ariette.
Diverse compagnie sfruttano il know how teatrale nella moda (in sfilate e show room), o per spettacolarizzare eventi, visite a musei e mostre, serate in discoteca. Non è difficile immaginare sbocchi in forme di marketing innovativo (virale): l’unico limite è l'inventiva di teatranti e sponsor.
Questa insistenza sul valore d'uso del teatro nel corpo sociale - rispetto a un teatro che si esaurisce nell'evento spettacolare - si sovrappone e si intreccia alla crescente enfasi sul processo rispetto all'opera, sull'esperienza partecipata rispetto alla fruizione passiva.
E’ innegabile che questa diversificazione delle fonti di reddito abbia cambiato profondamente l'economia di molte compagnie. Per loro, la produzione dello spettacolo non è più una attività esclusiva. Nell'economia della penuria che caratterizza da sempre il teatro (che negli ultimi tempi di crisi pare essersi cronicizzata), il "core business", ovvero produrre spettacoli, diventa quasi un lusso. L’investimento non si ripaga, la compagnia si indebita per realizzare un lavoro che avrà scarsa circuitazione. Queste realtà sopravvivono grazie alle attività "collaterali" che garantiscono introiti meno aleatori rispetto all'altalena del successo degli spettacoli. Alcune compagnie hanno addirittura abbandonato la produzione di spettacoli: non solo Grotowski, a cui la logica dello spettacolo d'arte era diventata insopportabile, ma anche per esempio gli aquilani di A Bocca Aperta: delusi dalle storture del mercato teatrale, hanno rinunciato al finanziamento pubblico.
Tuttavia la produzione di uno spettacolo, con i relativi riconoscimenti critici, resta cruciale: porta la legittimazione culturale che rende credibili le iniziative "collaterali". Anche i criteri ministeriali per l'accesso al FUS privilegiano da sempre gli spettacoli, e le attività a essi connesse: i parametri riguardano da sempre i borderò, il numero di repliche, le giornate lavorative e relativi contributi...
Tuttavia questa strada appare sempre più impervia. Il dibattito sui costi d'accesso ai contributi pubblici riemerge regolarmente: "I requisiti necessari per essere sovvenzionati, tra commercialista, borderò, ENPALS, eccetera, non ci costano più di quello che dà il finanziamento pubblico? Non ci impongono vincoli eccessivi? "
La produzione di un nuovo spettacolo diventa sempre più lunga, complessa, costosa e difficile. E' molto difficile - per non dire impossibile - inserire queste modalità creative nelle strutture “tradizionali”: non solo per i tempi di produzione e prova, ma anche per le abitudini progettuali e produttive, la necessità di minimizzare i rischi, le modalità di circuitazione, la rigida segmentazione delle figure professionali...
Così ci si ingegna. Per chi s'inventa nuovi percorsi, uno spettacolo non si limita più alle due fasi canoniche, prima ideazione e prove, poi debutto e repliche. Può coinvolgere una sfilza di co-produttori (festival, teatri, eccetera), che magari richiedono occasioni di visibilità, con dimostrazioni di lavoro, studi, performance, installazioni, versioni beta, anteprime... Ci possono essere periodi di residenza (con eventuali richieste da parte degli ospiti o del loro territorio), laboratori e workshop. Il confine si fa a volte ambiguo: in alcuni casi gli attori-allievi si sono lamentati perché alcuni laboratori erano in realtà "provini a pagamento".
In situazioni del genere, il rapporto tra artisti e committenti (non spettatori paganti) cambia radicalmente - così come cambiano gli obiettivi nel caso di un progetto di animazione o di teatro sociale. Si altera anche il rapporto tra queste attività "alimentari" e gli spettacoli, influenzando la "poetica" del gruppo. Spesso queste contaminazioni, a partire dal confronto con la realtà sociale, portano a un arricchimento sul versante creativo: come nell'esperienza di Armando Punzo nel carcere di Volterra, o in quella di Nanni Garella con i pazienti psichiatrici. In altri casi, il rischio è quello di prostituire la propria vocazione artistica: un sospetto del genere è inevitabile, vedendo la Fura dels Baus inventare spot teatrali per La Fornarina o la Mercedes; ma anche nel caso di committenti istituzionali (la direzione del carcere, un preside), le condizioni sono vincolanti.
A evitare il rischio di un’espropriazione della poetica della compagnia, può forse essere un'altra caratteristica di queste esperienze. Nel "teatro sociale" non si tratta di confrontarsi con un pubblico passivo, gli spettatori comodamente seduti sulle proprie poltrone (o appollaiati su avanguardistici sgabelli). Gli "utenti" partecipano infatti in prima persona, il loro corpo si mette in gioco, con tutti i rischi che questo comporta, ma anche con un senso di necessità. A loro il teatro serve, è uno strumento di consapevolezza e (forse) liberazione di cui avvertono l’utilità.
Anche questo teatro sociale e partecipato valorizza la liveness, la compresenza dei corpi nel “qui e ora” che caratterizza l’esperienza teatrale rispetto ad altre forme d’arte e comunicazione, e che molte delle attuali progettualità teatrali sottolineano e valorizzano, e a volte estremizzano. Basti pensare al festival “One-on-One” (un attore per uno spettatore), o alle forme sempre più numerose di teatro d’appartamento. Anche nel caso di questi “teatri di guerriglia”, le modalità produttive sono molto diverse da quelle tradizionali; come la distribuzione, che si può appoggiare al circuito delle associazioni o al passaparola tra gli amici, o (seguendo due intuizioni di Elena Guerrini) ai gruppi d’acquisto solidale al baratto. L’apparente eccentricità (o forse solo la capacità di adattarsi ai nuovi scenari) non impedisce che alcune di queste esperienze possano rivelarsi economicamente redditizie.
Ma in fondo cosa è cambiato? I modi di produzione dominanti, ieri e oggi In anteprima dal dossier Produrre teatro ieri, oggi e domani ("Hystrio" 3_2011) di Mimma Gallina
Qui di seguito, la versione integrale del saggi di Mimma Gallina per il dossier Produrre teatro ieri, ogi e domani", pubblicato su ìl "Hystrio" 3_2011.
Tragedia Engodonidia della Societas Raffaello Sanzio). In altri capitoli di questo dossier si analizzano queste forme.
Ma cosa succede intanto nel teatro dominante? Cioè in quello maggioritario, cui è destinata la quasi totalità dei finanziamenti statali, degli spazi nelle programmazioni, del pubblico? Con una produzione in bilico fra tradizione e convenzione, vocazione culturale e pragmatismo commerciale, in questo teatro punte espressive alte convivono con una diffusa mediocrità, e vere e proprie rivelazioni interpretative con appiattimenti commerciali-televisivi.
Cosa è cambiato in questo teatro negli ultimi quarant'anni? Le catene di montaggio fordiste non esitono più: ma come si è trasformata la "filiera" teatrale, ovvero tutti i passaggi dalla "materia prima" al "consumatore"?
Impresa
Senza "impresa" non si produce teatro a livello professionistico. La mappa del sistema ha visto innovazioni significative fino agli anni '80 e possiamo ripercorrerle attraverso le politiche ministeriali, studiando il riconoscimento e le oscillazioni nei confronti dei diversi settori: ricerca e ragazzi, cooperative e circuiti negli anni '70, stabili privati, poi di innovazione fra '80 e '90, etc. Le indicazioni dei tempi Prodi/Veltroni poi Melandri - fra il '96 e il 2000 - hanno avuto invece vita più dura: la parola d'ordine delle residenze non è mai stata davvero recepita (ma le residenze si sono affermate nei fatti come pratica alternativa), come non è andata a sistema l'indicazione di progettare almeno con prospettive triennali e l'intenzione di pianificare la rete della stabilità (uno stabile per tipologia in ciascuna regione): queste innovazioni avrebbero potuto portare a trasformazioni davvero incisive nel sistema. L'ultima vera riforma è precedente, e riguarda gli stabili pubblici: è il "decreto Tognoli" (applicato dal '92 in avanti), cui si deve un relativo consolidamento del settore, che tuttora regge (sul piano economico-organizzativo).
Non va infine dimenticata l'affermazione di nuovi modelli di imprese dedite alla produzione di teatro ad alta densità commerciale: dalle agenzie di distribuzione che diventano anche produttori di comici, o attori di grande popolarità già dai primi anni Novanta (con modalità più simili all'organizzazione musicale che alla tradizione della prosa), all'insediamento anche in Italia delle multinazionali del musical.
Spazi
Con pochissime significative eccezioni, la nostra edilizia teatrale è ottocentesca, non solo perchè la forma del teatro "all'italiana" costituisce - purtroppo e per fortuna - la spina dorsale del sistema (dal punto di vista dell'hardware), ma perchè i teatri realizzati negli ultimi decenni ripropongono punti di vista frontali e rapporti spaziali sostanzialmente simili e gli spazi "alternativi" sono pochissimi. Dunque è all'interno di e per questi spazi all'italiana che si produce. Qualcosa di nuovo si è verificato su questo fronte: per esempio, le frequenti "seconde sale" degli stabili (che riflettono la consapevolezza di dover differenziare almeno un po' la produzione e la necessità di una maggiore presenza in sede), qualche centro-multisala nuovissimo (Franco Parenti e Puccini a Milano, per esempio), e qualche recupero di strutture industriali, ma si sta verificando anche un accanimento nell'applicazione delle normative di sicurezza che blocca questo processo quando le disponibilità economiche sono minori. Su questo terreno restiamo insomma incredibilmente arretrati, come arretrata resta la gestione, anzi la concezione degli "esercizi".
Drammaturgia
Passando ai processi di produzione veri e propri, in principio era il verbo (e l'autore), e tuttora è così (nei modi di produzione dominanti). La prima tappa del processo di produzione è la scelta del testo. L'innovazione qui si misura nella capacità di stimolare o trovare nuovi autori (italiani e stranieri), di accogliere linguaggi diversi, tematiche corrispondenti all'evoluzione della società. Ovviamente molti lavorano in questa direzione, ma in questo campo la situazione è probabilmente arretrata negli ultimi vent'anni: sul piano promozionale nazionale, a parte qualche premio più o meno illustre, il nostro paese non fa assolutamente niente (l'Istituto del Dramma Italiano - che pure era non poco corporativo - ha chiuso diversi anni fa e l'ETI, che pure non faceva un gran che, l'anno scorso, la SIAE non svolge il ruolo promozionale, un compito che pure avrebbe per statuto, per non parlare di istituti italiani di cultura, agenti o centri privati: basta aprire qualche sito estero per farsi prendere dallo sconforto). E per quanto riguarda la metodologia delle singole organizzazioni, quanti uffici drammaturgia, dramaturg o comitati di lettura esistono in giro per l'Italia? il sistema si regge anche qui sulla curiosità e la buona volontà dei singoli, o sul caso.
Regia
Come si usava fare, si fa: si sceglie il regista per quel testo (modello impresariale), o è il regista a proporlo (ma è la regola solo se regista e direttore artistico si identificano). Se supponiamo che dalla regia soprattutto dipenda la capacità di dare spessore critico, coerenza, stile alle singole scelte e all'attività di un'organizzazione teatrale, bisognerebbe domandarsi se è questo che chiede il teatro dominante al regista. E’più frequente che l’impresa (anche pubblica) veda nel regista un onesto artigiano, capace di rispettare le condizioni e i tempi concordati per la consegna del prodotto. Si crea all'interno di precise condizioni, e rispondere a questa aspettative forse non è poco. Ma di certo non è quello che "noi credevamo".
Collaboratori artistici e allestimento
Che siano fra i fattori dati di una produzione (se interni), oppure che siano scelti dal regista o suggeriti dall'impresa, scenografi, costumisti, datori luce etc.sono elementi chiave per la qualità di un risultato. Erano - e qualche volta ancora sono - la continuità dei rapporti, l'affiatamento, l'affinità, oppure la novità e la curiosità reciproci e il desiderio di trovare assieme chiavi interpretative, i presupposti per creare quelle speciali alchimie che ci fanno ricordare a distanza di decenni gli spettacoli per la sintesi delle componenti. Succede molto spesso però - nel nostro teatro dominante e da sempre - che questi professionisti si riducano a confezionare pacchi dono, con fiocchi più o meno appariscenti e funzionali a giustificare il prezzo del biglietto: scene inutili, o francamente brutte, o del tipo "vorrei ma non posso" che, nel sistema impresariale, corrispondono alla convinzione che lo spettatore voglia un po' di scena (più che una scena giusta) e, nella logica del teatro pubblico, alla difesa di una certa grandeur intesa come fattore identitario. Sono questi a mio parere gli sprechi (e le cadute di gusto) più gravi, più delle sperimentazioni visive, che pure il nostro teatro non si può permettere ai livelli di una volta. E' inevitabile che l'allestimento scenotecnico sia il settore più colpito dalle minori disponibilità economiche: eppure è proprio quando i mezzi sono minori che creatività e affiatamento sono determinanti. Invece di essere penalizzata, quest'area potrebbe e dovrebbe essere rinnovata. E segni di rinnovamento qua e là si notano, sul piano generazionale e nel quadro di percorsi (rari) attenti al rapporto con le arti visive o alle nuove tecnologie.
Compagnia e cast
Rimando al documento del convegno di Prato dedicato alla "stabilità della compagnia": considerata cosa buona e giusta da tutti o quasi, ma che pochi praticano, preferendo la composizione caso per caso (la formazione del cast). In questo, e nel privilegiare lo star system e le sue evoluzioni, la logica privata ha contaminato il teatro pubblico fin dalle origini: non è un fenomeno recente ma (in una logica di filiera), si potrebbe discutere caso per caso se si privilegi materia prima di qualità per il bene del consumatore (e sarebbe stupido nella tradizione italiana sottovalutare la funzione del "grande" attore) e/o si preferisca immettere nel prodotto un colore più accattivante. Restano inoltre empirici i criteri di valutazione della "chiamata" e la conseguente stima dei cachet degli attori (che però stanno calando). Le politiche di compagnia, la continuità, il ricambio generazionale: la centralità del lavoro è tra i nodi principali di una riforma tutta da fare.
Tempi e durata delle prove
Esistono precise consuetudini sui tempi di prove nei modi di produzione dominanti: un gruppo di professionisti, con un testo di media durata e un regista buon artigiano, con le idee chiare e senza grilli per la testa, va in scena in 30/35 giorni. Sono tempi collaudati e proabilmente consoni a produzioni "mainstream": ho visto spettacoli rovinarsi per eccesso di prove (almeno a mio parere).
Certo, questi tempi e modi escludono la ricerca o pratiche pedagogiche nel corso della preparazione di uno spettacolo, e con il tempo hanno sostituito i modi propri della continuità e dei sistemi a repertorio che caratterizzavano le compagnie fino al primo Novecento (e anche i primi anni del teatro pubblico): l'intersecarsi di prove e recite (e la razionalizzazione dei costi che comporta), e l'alternarsi di tempi di lavoro e tempi di decantazione e riflessione.
Ma oggi anche la durata standard delle prove è penalizzata, e si tende a provare perfino meno. Oppure, anche nel teatro dominante - che sia per selezionare elementi giovani o per risparmiare o tutti e due le cose - si è diffusa la tendenza a finalizzare percorsi formativi a esiti spettacolari.
Formulazione dell'offerta
Cosa è cambiato nel modo di comporre e prospettare i cartelloni dei teatri, ovvero il "contenitore" che per tradizione compone l'offerta al pubblico? E nella logica dell'abbonamento? Poco, a mio parere: certo, è entrato in gioco il marketing, qua e là si sperimentano forme più aperte, ma sono piccoli assestamenti.
Anche gli stabili che operano preferibilmente in sede e con continuità non osano per esempio alternare gli spettacoli secondo il modello dei teatri di repertorio centro europei. Le modalità organizzative che pongono a contatto l'offerta con la domanda si sono appena un po' modernizzate.
Distribuzione
E' il maggior paradosso: il mercato è sempre più inconsistente (e sarebbe lungo dire qui perchè), fatta eccezione per alcune tipologie di spettacolo market oriented (il musical, per esempio), che attraversano però a loro volta alti e bassi, con rischi non indifferenti per i produttori.
Eppure il sistema è iperproduttivo e frammentato, e la maggior parte delle imprese produce tuttora anche o soprattutto per il giro. Le maggior o minori chances di salvarsi per un'impresa, malgrado i costi che la gestione di uno spazio comporta, stanno nel disporre o meno di una propria sede: per le prove, per i propri spettacoli e come leva per la distribuzione (secondo il sistema degli scambi: che è una necessità, qualche volta gestita con equilibrio e coerenza, qualche volta no).
Non per tutti, certo, ma per molti uno spazio proprio è l'ancora di salvezza, e non da ora: stupisce la lentezza con cui il sistema si sta adeguando. Ma sarebbero praticabili altre strade: una migliore gestione della distribuzione pubblica (circuiti e teatri comunali), un generalizzato sforzo promozionale, politiche statali e locali adeguate a sostegno della qualificazione degli esercizi e della domanda.
Se questo excursus è corretto, i modi di produzione sono mutati molto poco, a volte sono visibilmente peggiorati, e solo negli ultimi anni in collegamento con la crisi politico-economica. La progressiva riduzione di disponibilità economiche (con riferimento alla contrazione dei contributi pubblici e ai problemi del circuito distributivo ufficiale, soprattutto pubblico), porta a contenere i budget per le produzioni. Ma la "crisi" potrebbe essere un motore di cambiamento nel teatro dominante?
Un primo effetto da valutare è l'accentuazione della stabilizzazione (nuovi insediamenti) e della stabilità (permanenze più consistenti in sede).
Questo porterà a trasformazioni consistenti nella mappa del teatro italiano. La stabilità dovrebbe spingere a sforzi più intensi e articolati rivolti alla crescita quantitativa, all'articolazione, alla formazione del pubblico (l'ambito dove è più statisticamente possibile prevedere significativi risultati economici).
Quanto ad altre trasformazioni di fondo, dipenderanno dalle capacità di ciascuna organizzazione, e del teatro "ufficiale" nel suo complesso, di trarre riflessioni strutturali e di sistema, quelle che più potrebbero influire sui modi di produzione dominanti e determinare cambiamenti poetici e estetici. E di premere sulla classe politica e incidere per l'affermazione di nuovi assetti e quadri normativi.
Nel frattempo, anche se ciascuna esperienza è unica, si notano segni di trasformazione, a volte risposte strategiche. Le piccole o grandi innovazioni suggerite dalle aree periferiche o esterne stanno penetrando nel cuore del sistema, anche solo per il fatto che rappresentano altrettanti potenziali mercati (la formazione, il teatro sociale, le reti...). Qualcuno tenta di ridare un senso non solo economico alle pratiche di coproduzione, altri cercano all'estero sbocchi di mercato e momenti di confronto.
Ma ai più forse basta che il taglio del FUS sia rientrato, purchè tutto resti così, e che ciascuno abbia la propria fettina di contributo pubblico, per i secoli dei secoli
Lettera aperta sul futuro di Santarcangelo Alcune domande e alcune risposte sul senso del festival di Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino e Altre Velocità
«A CHI SI RIVOLGE DAVVERO UN FESTIVAL? UN FESTIVAL HA UNA COMUNITÀ? CHE DIALOGO ESISTE FRA GLI ARTISTI E UN FESTIVAL? CHE RAPPORTO CON IL TERRITORIO HA UN FESTIVAL? CHE RUOLO HA LA CRITICA IN UN FESTIVAL? UN FESTIVAL DEVE MOSTRARE UNA O PIÙ DIREZIONI NELLA SCELTA CURATORIALE? UN FESTIVAL SI CONSUMA IN UNA STAGIONE? COME SI SCEGLIE UN DIRETTORE DI UN FESTIVAL? UN FESTIVAL È UN'OPERA D'ARTE? (…)»
Queste sono alcune delle domande che si ponevano pubblicamente nel 2008, quando con Potere senza potere compagnie, critici e pensatori si trovarono a investire forze, entusiasmo, risorse poetiche, economiche e intellettuali nel tentativo di far fronte a un grave momento di crisi di un festival che è sempre stato percepito, dall’interno e dall’esterno, come il festival fatto dagli artisti. Questo festival è l’unico forse in Italia ad aver sempre coltivato, tra varie vicende, questo profilo così particolare, questa vocazione fortemente plurale, comunitaria e condivisa. In quella circostanza molti artisti e pensatori, unitamente a un gruppo critico, hanno voluto sottolineare la necessità di una militanza artistica da parte delle compagnie ospiti e l’esigenza di interrogare dall'interno il contenitore festival ponendosi come una parte dialogante, libera e vitale, né in contrapposizione, né integrata.
Da quello sforzo collettivo, che si poneva come pura indicazione culturale, pensiamo che abbia ricevuto impulso e stimolo quest’ultimo triennio, che ci ha mostrato quanto forte possa essere la cooperazione di un gruppo misto, fatto di artisti, critici e curatori, nella creazione di un modello culturale condiviso. I gruppi artistici, non solo quelli del triennio, hanno sostenuto il progetto con tutte le loro forze, partecipando ai tre anni con le loro opere, adoperandosi in forme dirette e indirette di promozione e comunicazione di un fenomeno culturale assolutamente meritevole di essere divulgato, e alla cui vita hanno fortemente creduto. E l’indicazione che il triennio ha fornito alla comunità culturale ci sembra importante, e in certa misura spiazzante. Il modello iniziale infatti, ideato dall’antropologo teatrale Piergiorgio Giacchè, prevedeva un’idea tripartita di relazione culturale: artista/critico/organizzatore. Il gruppo di lavoro costituito da tre forti compagnie della regione e da tre figure di accompagnamento estremamente varie per capacità, sensibilità e provenienza, ha saputo incarnare e reinventare le tre funzioni in una formula molto intelligente e anche inaspettata. È nato un terreno critico che ha agito sull’onda lunga del triennio senza rinunciare alla vocazione plurale di alternanza tra gli artisti e tra le visioni che caratterizzava fondamentalmente e strutturalmente il progetto.
È per questo che, dopo aver frequentato come spettatori, o con i nostri atti e le nostre opere, il festival negli ultimi tre anni, nel sottolineare l’importanza di questo modello culturale, non avendo avuto altre occasioni per esprimere la nostra visione, ci sentiamo di mettere in comune con le persone che in questo momento si stanno interrogando sul futuro del festival queste poche riflessioni, sperando possano contribuire in qualche misura ai pensieri che sono in corso.
L’indicazione che ci sentiamo di dare è la stessa che questo triennio ha fornito con la sua vita: un nucleo curatoriale dal profilo critico, che tenga vivo l’esercizio di pensiero e di dialettica necessario al festival, in relazione con artisti singoli o gruppi, intellettuali e figure di cultura che siano ad esso associati di anno in anno in maniera sempre nuova, e che diano la possibilità a questo festival di esprimere e confermare davvero la sua vocazione ampia e plurale attraverso progetti artistici inediti ma fortemente condivisi.
Fanny & Alexander
Teatrino Clandestino
Altre Velocità
La lettera è stata finora sottoscritta da:
Menoventi
Goffredo Fofi
Teatro Sotterraneo
Elena di Gioia
Francesca Mazza
La Pesatura dei Punti
Laura Mariani
Gruppo nanou
Cosmesi
ErosAntEros
Masque Teatro
Città di Ebla
Dewey Dell
OPERA
Massimiliano Civica
Fuochi
Roberto Latini/ Fortebraccio teatro
Maurizio Braucci
Debora Pietrobono
Anna Amadori/ Reon future dimore
Vega Partesotti
Redazione “Gli Asini”
Punta corsara
Dario Zonta
Graziano Graziani
Renata Molinari
Pathosformel
Cristina Rizzo
Orthographe
hanno inviato la loro adesione via mail:
Giacomo Trevisan
Alessandro Leogrande
Luca Marchiori / GUVIproduzioni
Mara Cassiani
Tahar Lamri
Sonia Bergamasco
Per aderire, inviare una mail a
info@fannyalexander.org
Per una fenomenologia dell'attore (con risata) Due week end a Santarcangelo 41, con una divagazione sulla Modestia a Spoleto di Erica Magris e Oliviero Ponte di Pino
Erica Magris: il primo week end
Foto di Claire Pasquier.
Un centinaio di poltrone, sedie e sedili provenienti dai teatri d'Italia disposte nella piazza principale di Santarcangelo a comporre un insieme arlecchino di forme e colori: questa è la scena di sapore felliniano che accoglie lo spettatore del festival e diviene un punto di riferimento nel suo girovagare fra i numerosissimi spettacoli, incontri, installazioni, eventi che animano la città.
Un'immagine simbolica forte, che racchiude gli elementi per me più significativi di questa edizione. Unire il teatro e la piazza, ritrovare, affermare o rinforzare il legame fra la scena e la società mi sembra infatti la cifra comune degli spettacoli, degli eventi e dell'organizzazione complessiva di Santarcangelo 2011.
Il festival è ovunque, abita il tessuto della città con un'impressionante ricchezza e varietà di iniziative che aprono i confini del teatro e in molti casi riconducono alla questione centrale del rapporto dell'arte con il mondo, come gli incontri sulla poesia araba, il convegno promosso da “Lo straniero” sulla rivoluzione, la videoconferenza dell'autore e disegnatore Igort sulle possibilità documentarie del fumetto. Si tratta però di un richiamo all'impegno non univoco e non ideologico, che è accostato al sacro, alla poesia, e che sviluppa soprattutto un discorso artistico più che politico. Come la varietà delle poltrone in piazza, la programmazione del festival pare rivendicare che il teatro non vive in un altrove separato, ma in una moltitudine di forme e di linguaggi in dialogo permanente con espressioni artistiche differenti come la musica, la danza, le arti elettroniche, la letteratura. Durante il primo fine settimana festivaliero, non ho potuto quindi che costruire un percorso parziale attraverso le numerose proposte, privilegiando le creazioni degli artisti italiani.
Foto di Claire Pasquier.
Ha aperto il "mio" festival The Plot is the Revolution, l'incontro fra Silvia Calderoni e Judith Malina, di nuovo in Italia dopo diversi anni d'assenza grazie al ritorno dei Motus alle origini del loro percorso. Dopo una residenza nel nuovo spazio del Living New York, i Motus hanno preparato questo dialogo fra generazioni in cui confrontare gli ideali politici e teatrali che hanno guidato la ricerca di Malina con gli interrogativi sull'oppressione, la rivolta e l'azione che ha sollevato il loro recente progetto su Antigone. Nel teatro di Longiano inondato dalla luce del tramonto, su un pavimento di cartone bianco su cui verranno via via lasciate con nastro adesivo e pennarelli le tracce e i pensieri dell'incontro, Judith Malina racconta e Silvia Calderoni chiede, agisce, interpreta, riprendendo momenti chiave delle creazioni del Living, da The Brig alla peste di Mysteries. È sempre commovente ascoltare le parole appassionate di Malina, percepire nell'energia delle sue parole la sua fiducia profonda e inesauribile nell'uomo e nel teatro, e cogliere a lampi, nei suoi gesti, il divenire dell'attore sulla scena. E l'aspetto che mi provoca maggiormente del dialogo è proprio il discorso sulla forza della trasformazione indotta dalla scena, sulla capacità dello spazio teatrale di rendere l'uomo diverso costringendolo a mostrarsi e a guardarsi senza difese. Alla fine un urlo collettivo che Silvia chiede di liberare tutti insieme dovrebbe sfondare le pareti del teatro e creare un passaggio diretto fra la scena e il mondo. Urliamo forte, all'unisono, ma quando le voci si spengono e veniamo sollecitati a completare l'incontro scrivendo sul cartone bianco della scena, si insinua l'impressione che nonostante tutto le pareti rimangano ben salde, e il teatro resti preso in una riflessione che riguarda più sé stesso che la realtà.
L'elemento autoriflessivo esercitato in particolare sull'attore si ripropone anche negli spettacoli di Fanny e Alexander, T.E.L, e Claudio Morganti Una lettura del Woyzeck.
Foto di Claire Pasquier.
Morganti, in piedi davanti a un leggio in mezzo a una scena nera e nuda, racconta l'opera di Büchner alternando analisi drammaturgica e interpretazione, permettendo agli spettatori di entrare nel laboratorio dell'attore-regista e di osservare come il testo drammatico arriva a prendere vita sulla scena. Nel video d'animazione che segue la lettura, Morganti offre un'ulteriore narrazione, per immagini, sintetica e ironica, della tragica vicenda del soldato e della sua compagna. Anche durante questo spettacolo, ad affascinare è soprattutto la modalità con cui l'attore entra e esce dai personaggi, provocando con un solo sguardo, con una modulazione della voce, con un cambio della postura l'immaginario dello spettatore e rendendo presente e vivo l'universo del dramma.
Foto di Claire Pasquier.
Se nel caso di Morganti, l'attore è padrone assoluto del suo corpo e creatore unico della scena, Fanny e Alexander lavorano invece sull'attore-marionetta, legato meccanicamente agli ordini impartiti da una voce misteriosa. T.E.L è basato sulla comunicazione a distanza, sulla messa in relazione tramite il suono di due luoghi lontani e separati. Da un lato, il pubblico riunito nel suggestivo spazio industriale dell'ex-cementificio Buzzi, e disposto su tre lati intorno a un'area oblunga delimitata sul fondo da un massiccio tavolo di legno. Dall'altro, l'allestimento al Ravenna Festival, che irrompe a Santarcangelo attraverso un grande megafono bianco appeso in alto, dietro il tavolo. Davanti a noi, Marco Cavalcoli presenta un Lawrence d'Arabia affetto da tic nervosi, che oscilla continuamente fra lo status di marionettista e di marionetta. Quando si pone dietro al tavolo, diviene infatti il lo stratega e il manovratore di battaglie e di grandi eventi politici: colpendone la superficie interattiva, scatena suoni e rumori che invadono aggressivamente lo spazio e rievocano scenari di distruzione e di lotta. Ma non appena lascia lo spazio protetto dietro al tavolo e si dirige al centro dell'area scenica è sottoposto alle istruzioni secche che Chiara Lagani impartisce dal megafono. Ogni ordine corrisponde a un gesto semplice – dare un calcio, esprimere stupore, voltarsi a destra, eccetera – compiuto correndo sul posto, e dalla successione sempre più rapida degli ordini si compone una coreografia meccanica e frenetica che sottopone l'attore a una prova fisica estenuante. Citazioni sonore evocano il tormentato presente del Medio Oriente, tessono un filo sottile, implicito, con le rivolte arabe dell'epoca di Lawrence, e suggeriscono una messa in questione del ruolo dell'Occidente. Come sempre nel lavoro della compagnia, lo spettacolo, che è la prima tappa di un nuovo progetto creativo, è un incastro di scatole cinesi di senso in cui la ricerca estetica si combina in questo caso con l'allusione all'attualità politica. Sarà molto interessante osservare come ogni scatola sarà aperta e sviluppata nel seguito del progetto.
Foto di Claire Pasquier.
La concentrazione sulla creazione sonora digitale tramite sistemi di interazione, deformazione e amplificazione del suono e della voce da un lato, e l'apertura evocativa sull'attualità dall'altro, caratterizzano anche la performance di Fiorenza Menni insieme al compositore e violoncellista Francesco Guerri, Hello Austria, presentato nello scenario affascinante della salita dei Cappuccini affacciata sulla pianura punteggiata di luci vibranti. Il musicista e l'attrice, il suono e la parola dialogano, e la loro conversazione inframmezzata anche dalle azioni sonore della Menni su strumenti elettronici disposti intorno all'area scenica, compone il quadro frammentato di un'esistenza individuale sradicata e sospesa, che rimane per me oscura e distante. Vengo però rapita dalla scena quando da una canaletta di scolo della strada di alza un fuoco, e dietro la barriera di fiamme l'attrice, seduta, bendata e senza voce, cerca di raccontare con i gesti una storia che non riusciamo ad ascoltare. Quest'immagine poetica, forte, teatrale di cecità e afasia apre uno squarcio nell'incomunicabilità, e rivendica la possibilità di un dialogo asimmetrico, muto ma immaginifico.
È la sensazione che alla fine mi hanno lasciato le creazioni scoperte in questo fine settimana: che, per un complesso di condizioni economiche, politiche e culturali, fare teatro e riuscire a parlare con il pubblico sia sempre più difficile. Anche quando l'azione teatrale affronta in modo diretto e attraverso la parola i problemi concreti dell'Italia di oggi, come nel Discorso tenuto da Sonia Bergamasco nella sala consiliare del comune, lo scollamento fra teatro e società persiste. Il breve intervento di Bergamasco sulla situazione drammatica della cultura e del teatro è intelligente, ironico, ed è condotto con un virtuosismo attoriale impressionante, ma forse comunica efficacemente con il circolo di coloro che vorrebbero fare cultura piuttosto che con coloro a cui l'attività culturale dovrebbe essere rivolta.
Mi pare quindi – ma si tratta appunto di una visione parziale e provvisoria - un teatro che riflette più che un teatro che fa, che apre interrogativi e che tenta nuove strade per riappropriarsi della facoltà di parola in questa fase particolarmente critica, ma che forse ancora non riesce a elaborare un immaginario capace di riunire un pubblico che sia autenticamente il vicario della società, o anche di una parte di essa.
Foto di Claire Pasquier.
Un fare autentico e limpido è invece il motore del laboratorio Eresia della felicità che il Teatro delle Albe ha tenuto per tutta la durata del festival nel vasto spazio dello Sferisterio con duecento adolescenti provenienti da diversi parti d'Italia e del mondo. Come incantata, non avrei mai voluto smettere di osservare il lavoro di Martinelli e delle giovani "guide" con questi ragazzi dalle maglie gialle fatte con il "metro di tramonto" di Majakowskij. Sentendo questi ragazzi urlare sempre più convinti i testi del poeta russo, vedendo il loro lasciarsi guidare insieme per meglio imparare a esprimere la loro individualità, e percependo il loro piacere contagioso nel partecipare a questo gioco, sì, ma importante, sentito, collettivo, ho ritrovato in modo semplice, immediato quello che per me è il valore insostituibile del teatro e della sua avventura. E quando, dopo un lungo esercizio sulla lotta fra demoni e angeli che alla fine si riscoprono tutti uomini e avanzano insieme al suono dell'Internazionale, Martinelli decide in maniera inaspettata di infrangere i confini dello spazio teatrale e di condurre le maglie gialle attraverso le strade della città, colpendo improvvisamente i passanti con la forza della poesia, ho provato commozione e gratitudine per tutti coloro che non smettono di credere alla forza dell'incontro e del riconoscimento, allo stesso tempo individuali e collettivi, che il teatro, quando appare, è capace di liberare.
Foto di Claire Pasquier.
Oliviero Ponte di Pino: il secondo week end
Lo Sferisterio si trova ai piedi della rocca su cui si erge Santarcangelo, appoggiato a una ampia parete. Marco Martinelli, nelle vesti di sciamano, allenatore e maestro del coro (o meglio, è il boss di una mega-crew di giovanissimi rappers), anima una tribù di 200 ragazzi che arrivano dai quattro angoli del pianeta: è uno sciame di adolescenti in maglietta gialla che ci mostra, ancora una volta, la nascita del teatro. Quelle parole, dette nel corso della storia milioni di volte, è come se venissero dette per la prima volta, perché per chi le dice è davvero la prima volta.
Foto di Claire Pasquier.
Sono seduto a un tavolino al Caffè Commercio, davanti a me c’è una ragazza. Ci hanno consegnato due iPod, uno a testa, e ci spiegano che dobbiamo seguire le indicazioni che ci arriveranno attraverso le cuffiette. Quel tavolino – sul quale è stata sistemata una lavagna nera - diventa il palcoscenico. I personaggi sono due minuscole statuine, lui e lei. Lì accanto, gli altri oggetti che, ci dicono, dovremo usare seguendo le istruzioni: una pallina di plastilina, un gessetto per disegnare i muri del soggiorno di casa Helmer, una casetta, un albero, due bicchieri, un quadernetto, una boccetta piena di liquido rosso... Dalla cuffia una voce indica i gesti che dobbiamo fare, le parole che dobbiamo pronunciare ad alta voce. Per gli altri avventori, siamo una coppia di amici che chiacchierano, nella finzione – dice l’iPod - io sono un filosofo e la ragazza che ho di fronte è una prostituta. Le stratificazioni si moltiplicano: ci siamo noi due, che diamo spettacolo a chi origlia dai tavolini vicini. C'è la storia che io e lei stiamo raccontando, e vivendo , come quando i bambini giocano a fare il teatro ("facciamo che io ero un filosofo e tu una puttana"). C'e il gioco tra noi due, persone vere, che si toccano e si parlano, anche se diretti dalle parole di altri. C'è che io non saprò mai se le nostre due storie coincidono, se anche nella sua storia lei è una puttana e io un filosofo, perché potrebbe anche essere il contrario… C'è forse la possibilità che io - o lei - invece di obbedire alle istruzioni, ci inventiamo una nostra partitura. C'è il gioco del teatro nel teatro, sulla scena di quel tavolino. Si intitola Etiquette, l'hanno creato i Rotozaza, ovvero Ant Hampton e Silvia Mercuriali.
Foto di Claire Pasquier.
Una stanza vuota, una sedia davanti a un tavolino su cui è sistemato uno specchio. Mi siedo, indosso la cuffia. Rumore di passi che si avvicinano, alle mie spalle. Ma dietro di me, nello specchio, non vedo nessuno. L'uomo - perché è una voce maschile - inizia a parlare. Si muove nella stanza, mi sussurra all'orecchio. Mi racconta come sia cambiato il mio volto, con il passare degli anni. Sono le parole che sussurra Erland Josephson a Liv Ullman in Sussurri o grida di Ingmar Bergman.
Ma chi mi parla, chi mi invita a guardare attraverso lo specchio dentro di me, con un impressionante effetto di realtà grazie all’accurata calibrazione della registrazione stereofonica rispetto a quello spazio, è un'assenza, un vuoto.
Entro nella Sala Wenders del Supercinema. E’ quasi tutta piena, c'è gente seduta per terra lungo le pareti. Curiosamente però molte delle poltrone al centro della platea - i posti migliori per assistere allo spettacolo - restano vuote, gli spettatori preferiscono restare vicino ai corridoi. Davanti allo schermo c'è un lungo tavolo, coperto da un panno rosso, come se fosse un convegno. Ma i relatori hanno messo le sedie davanti al tavolo, per non avere barriere rispetto al pubblico. Chi si siede lì sopra, parla per una decina di minuti, poi si alza e cede il posto. Si discute di qualcosa che forse c'era e adesso non c'è più, di qualcosa che forse deve arrivare ma forse non arriverà mai. Se possiamo fare qualcosa per farlo arrivare, e se davvero è un bene che arrivi. Goffredo Fofi, seduto in prima fila, ogni tanto si alza e invita uno degli spettatori a prendere la parola, incalza, aizza, provoca. E' stato lui a scegliere il tema dell'incontro, che occupa buona parte della giornata di sabato: Un'idea di rivoluzione.
Mentre li ascolto parlare di teatro e rivoluzione, mi torna in mente una frase della Missione di Heiner Müller: "la rivoluzione è la maschera della morte la morte è la maschera della rivoluzione".
Foto di Claire Pasquier.
La scena è un appartamento abbandonato da tempo. Nel silenzio, entrano in scena, infagottati in tute protettive, alcuni tecnici che iniziano a ispezionare l’ambiente e a repertare alcuni oggetti. Si riconoscono il celebre ritratto del Che e una bandiera rossa. Quando li vede, uno dei tecnici non può resistere alla nostalgia e alla commozione, scoppiando in un pianto dirotto. I suoi colleghi cercano di rincuorarlo. Un antico giradischi intona L’Internazionale. Un altro sbocco di commozione, il tecnico veterocomunista viene confortato per l’ennesima volta dai colleghi. E’ il grottesco inizio alla messinscena – firmata dal Teatro degli Artefatti – di Orazi e Curiazi, uno dei più seri e tragici “drammi didattici” di Bertolt Brecht, dedicato a uno degli episodi più noti della storia romana. Affrontare – con tutto il realismo e il cinismo possibili – la guerra e la politica. Nella sua regia, Fabrizio Arcuri sceglie di applicare puntigliosamente il metodo registico brechtiano al testo dello stesso Brecht, con inventivo rigore, triturandolo scena dopo scena con il metodo della straniamento. In pratica, ogni battuta del testo viene letta e messa in scena andando al di là del significato letterale, quello immediatamente apparente, e quasi contro, attraverso la sistematica applicazione di un filtro ironico. "Straniante", per usare la terminologia brechtiana. Quello che era nelle intenzioni di Brecht una sorta di manualetto di pratica politica diventa così un balletto grottesco, un meccanismo sadico e insensato. Come aveva fatto Heiner Müller con Mauser, portando alle estreme conseguenze le premesse ideologiche di Brecht, Arcuri fa lo stesso con questi Orazi e Curiazi, con effetti demistificanti e spesso esilaranti.
Foto di Claire Pasquier.
L'epilogo di questo riso dolceamaro e volutamente inquietante, anche nel suo faticoso e insistito grottesco, è un frammento della Dramaturg dello spettacolo, Magdalena Barile, una riflessione sul senso del comico, oggi:
Proviamo a immaginare un mondo dove non c’è niente da ridere.
Facciamo ridere?
Piangere? Non si capisce.
(…)
Siamo stanchi delle nostre risate. Abbiamo esagerato.
Perché abbiamo così paura di stare seri?
Certo, con tutte le cose che succedono, cose brutte come queste che succedono adesso… a stare seri, finisce che ci facciamo paura da soli.
E la paura ci paralizza, la paura ci fa paura?
Siamo seri! guardiamoci in faccia,
facciamo molta più paura se continuiamo a ridere.
Basta ridere!
"Basta ridere" sembra anche la chiave applicata da Luca Ronconi nel mettere in scena La modestia, uno dei “sette peccati” capitali teatralizzati da Rafael Spregelburd, visto di recente in Italia nella messinscena di Emanuela Cherubini, protagonisti Hervé Guerrisi, Alessandro Quattro, Gaia Saitta, Simona Senzacqua.
I testi di Rafael Spregelburd hanno diverse armi di seduzione, anche perché offrono molteplici livelli di lettura: basta leggere appunto la Heptalogia di Hyeronimus Bosch, di recente pubblicata dalla Ubulibri per la cura della stessa Cherubini, che comprende anche La modestia.
La modestia nella messinscena di Daniela Cherubini.
C'è un primo livello di lettura, che potremmo definire "ingenuo", che richiede allo spettatore di seguire semplicemente il plot e i personaggi, in situazioni movimentate e sorprendenti, che spesso fanno riferimento a generi ben riconoscibili a chiunque abbia familiarità con le fiction televisive e cinematografiche (cioè a chiunque, oggi).
Questo universo di riferimento - l'immaginario delle telenovelas, delle serie tv, del cinema di genere - apre un secondo livello di lettura: perché i testi di Spregelburd non sono affatto ingenui, e sono costruiti attraverso un sapiente montaggio di citazioni esplicite o implicite, di topoi narrativi, di situazioni emblematiche o addirittura di cliché a volte esasperati fino al grottesco, all'inverosimile. Questo secondo livello interagisce costantemente con il primo: generando nello spettatore ingenuo un rischio di frustrazione - perché si crea uno slittamento costante tra le attese innestate da questi agganci a grammatiche narrative collaudate e condivise, e i loro esiti narrativi, che approdano sempre all'incertezza, al "non detto", alla sospensione del senso ultimo. Ma suscitano invece un indubbio godimento nello spettatore più smaliziato, che si diverte a identificare e decodificare le diverse fonti e i diversi livelli riproposti sulla scena da questi feuilleton contemporanei. E' Spregelburd è bravissimo a giocare sulla distanza e le risonanze e dissonanze tra questi due livelli di fruizione.
Affiora poi spesso una ulteriore stratificazione, perché questa drammaturgia ha spesso una struttura volutamente problematica, soprattutto nel rapporto con il tempo e nel vincolo tra personaggio e attore. Nel caso della Modestia, si intrecciano per esempio, alternando scene dell'uno e dell'alto plot con gli stessi quattro attori nei due cast, due vicende del tutto autonome e senza alcun legame apparente, che si svolgono in luoghi diversi: un Sudamerica che fa da scenario a una vicenda vagamente poliziesca e una Europa balcanica che ospita l'agonia di uno scrittore senza ispirazione; e forse addirittura in epoche diverse. Ma possono essere anche cinque atti che raccontano uno dopo l'altro lo stesso lasso di tempo, con gli stessi personaggi, con la stessa scena che si ripete, con le variazioni del caso, per diverse volte: e solo alla fine si scopre che tutto si svolge nella mente di uno dei personaggi (come accade in Lucido, portato di recnte in scena dalla compagnia Costanzo-Rustioni, con divertimento degli attori (con Milena Costanzo e Rberto Rustioni, Maria Vittoria Scarlattei e Antonio Gargiulo) e del pubblico.
In questo senso, i testi di Spregelburd sono una variazione post-moderna (e dunque elaborata e labirintica) sul tema barocco del Gran Teatro del Mondo: da qui si può intuire il fascino che la sua drammaturgia esercita su un abituale frequentatore del barocco teatrale come Ronconi.
La modestia secondo Luca Ronconi: Maria Paiato e Paolo Pierobon.
In apparenza (o meglio, a una seconda o terza lettura), La modestia sarebbe un divertissement post-moderno, in grado di mixare abilmente cultura bassa e cultura alta, costruito per citazioni e ricomposizione dei frammenti in cui si sono sminuzzati il nostro rapporto con la realtà, ma anche la nostra stessa identità. Non a caso, riemergono nella Heptalogia alcuni dei temi esplorati da una filmografia filosofeggiante, che va da Sliding Doors a Matrix (anche se forse l'antecedente di Spregelburg sono piuttosto i racconti del connazionale Borges).
La modestia secondo Luca Ronconi.
Ronconi si esercita invece su una quarta lettura, che forse è la prima. Prende questo gioco in contropelo, proprio leggendolo per quello che è, battuta dopo battuta, per farne riemergere - da questa distanza ravvicinata - un senso forse più profondo, o più vero: porta in scena il testo per quello che è, scena dopo scena, battuta dopo battuta, affidandosi a quello che il testo dice in quel preciso momento, utilizzando il suo formidabile e minuzioso metodo di lettura, stretto da un quartetto di attori straordinari (Francesca Ciocchetti, Maria Paiato, Paolo Pierobon e Fausto Russo Alesi).
L'esito è sorprendete e spiazzante. Restano, è vero, numerosi spunti ironici, o a tratti grotteschi. Ma quella che emerge, nell'insieme, è piuttosto una tragica sensazione di spiazzamento. L'ironia permette di giocare, distaccandosene appena, da una situazione di crisi. Ma appena si scava oltre questo piacere culturale - perché questo è in fondo l'ironia - restano solo la disperazione, il senso di vuoto e di inutilità, una vertigine che brucia. E il finale "catastrofico", che in letture più leggere potrebbe apparire solo come l'ultima piroetta ironica, qui diventa la conclusione logica di una partita distruttiva, la profezia di un destino inevitabile.
Insomma, di cosa ridiamo? E perché? La coreografa Antonia Baeher porta in tournée da qualche anno una esercitazione esemplare, Ridere/Laugh/Lachen, un assolo in cui ride - in tutte le maniere possibili - per quasi un'ora. La risata diventa una partitura musicale, sempre sospesa tra la corporeità e l'eccesso di senso da cui nasce il riso. Viene in mente un celebre (e forse apocrifo) aneddoto che ha per protagonista Totò. Alla fine dello spettacolo, prima di prendere gli applausi, ricevette in quinta i complimenti di un ammiratore, al quale ribatté: "Adesso li faccio ridere con la i". Tornò in scena, e dopo pochi secondo la platea esplose: "Hi-hi-hi-hi". Di nuovo in quinta: "Adesso li faccio ridere con la a". Di nuovo in scena: "Aha aha ah-ah-ah". E naturalmente Totò finì il giro delle risate in cinque vocali, con gran gioia del pubblico e l'accresciuta ammirazione del suo fan.
Foto di Claire Pasquier.
La riflessione sul comico era peraltro uno dei temi scelti da Ermanna Montanari per questa terza tornata del festival affidata ai gruppi romagnoli (dopo Socìetas Raffaello Sanzio e Motus). Spettacolo manifesto di questo filone è probabilmente Homo Ridens_Santarcangelo del Teatro Sotterraneo, che si presenta come un parodistico esperimento scientifico sul comico: gli spettatori diventano un campione, il test riguarda le reazioni agli stimoli che provocano il riso. Ci sono riferimenti alle teorie sul comico, ma soprattutto - attraverso uno sgangherato numero di clownerie intriso di humour noir - vengono rilevate le reazioni degli spettatori (magari confrontate con quelle di precedenti repliche, come quelle di Castiglioncello, dove lo spettacolo aveva debuttato). Anche se alla fine di solito spiegare le barzellette è la cosa meno divertente del mondo. E qualsiasi spettacolo comico è, in ogni minuto, un test: il pubblico riderà o no, a quella battuta? Ricordando che a far ridere non è solo "cosa", ma anche "come" e "quando". Perché il comico, con le sue molteplici stratificazioni, con i suoi intrecci e i suoi cortocircuiti, chiama in causa tutta la complessità del lavoro dell'attore e del suo rapporto con il pubblico, fatto anche di violenza e complicità.
Non a caso, il tema del comico si intreccia intimamente con il vero tema del festival, ovvero "l'immagine-guida" evocata da Ermanna Montanari nel testo di presentazione: "l'attore come emblema concreto del fare-disfare-rifare, l'attore che chiama in causa lo spettatore". E in effetti Nei due week-end dell'edizione numero 41 del festival romagnolo la pratica attoriale è stata esplorata con una notevole ricchezza di angolazioni e prospettive. C'erano, come abbiamo visto, gli attori inconsapevoli, gli spettatori promossi - più o meno consenzienti - al ruolo di attore di alcune performance.
Ma c'erano anche attori allo stato nascente, i ragazzi animati (per usare un termine caro a Claudio Meldolesi) da Marco Martinelli, e per certi aspetti anche i carcerati animati da Armando Punzo, anch'egli presente a Santarcangelo con la sua testimonianza. Sono tribù che attraverso il teatro cercano e trovano la loro identità, e incidono sull'assetto sociale "invadendo" lo spazio pubblico.
Foto di Claire Pasquier.
C'erano naturalmente i virtuosi, gli artisti che hanno saputo costruirsi una maestria di interprete (e prima ancora di creatore), raggiungendo una padronanza totale del proprio strumento (corpo & anima), affinando una tecnica in grado di emozionare lo spettatore con il gesto clamoroso ma anche - e forse ancora di più - con la microvariazione: per esempio Claudio Morganti, o Roberto Latini, con il suo Noosfera Titanic. Autori-attori nel senso pieno del termine, in grado di inventare lo spettacolo, ma anche di inventare se stessi, la propria figura all'interno dello scenario teatrale, estreme propaggini del grande attore della tradizione italiana, ma destrutturati e ristrutturati dalla lezione di Carmelo Bene e Leo De Berardinis.
Foto di Claire Pasquier.
C'erano poi gli attori professionisti e i non attori che l'ungherese Kornél Mundruczó ha raccolto nella sua compagnia per spingerli - a partire dal gioco metateatrale di una finta produzione cinematografica - verso un realismo estremo, attraverso situazioni limite, volutamente provocatorie (esemplare in questo senso la scena di stupro), offrendo al tempo stesso una riflessione sul potere ricattatorio della violenza e del sesso sul nostro immaginario. Anche se poi il suo ambizioso Frankenstein-Project scivola presto nel grand guignol, con un accumulo di eccessi grotteschi.
C'era un'attrice (e non solo) che è diventata un'icona del Nuovo Teatro (e non solo) come Judith Malina, in duetto con una giovane attrice carismatica come Silvia Calderoni, in un passaggio di testimone tra generazioni, e tradizioni, diverse. E proprio lei, icona della "bella rivoluzione anarchica non violenta" del Living Theatre, regala una delle risposte più folgoranti del festival.
"Judith, qual è per te la parola più rivoluzionaria?"
"NOW!". Ora.
Foto di Claire Pasquier.
Sulla vetta del borgo di Santarcangelo si erge la Torre Civica. Ogni sera, poco prima del tramonto, iniziavano a suonare le campane. Chi si era raccolto nelle diverse piazze e piazzette della cittadina, chi saliva lungo le strette stradine o le scalinate, alzava lo sguardo. Da una delle finestre si affacciava Mariangela Gualtieri, per declamare Bello mondo, il suo poetico canto di gratitudine.
POST SCRIPTUM. Volendo tracciare un parziale bilancio di queste ultime tre edizioni, dopo il flop della direzione precedente, il bilancio è senz'altro positivo. Il festival è stato senz'altro rivitalizzato, e ha ritrovato un proprio senso - e una propria identità - nella formula del "festival laboratorio", destinato in primo luogo a un popolo del teatro attento e curioso. Anche se per lo spettatore "comune" non era certo facile co
Dal video mapping alla performance (e ritorno) Il Kernel Festival a Desio (con interviste a Andrea Carpentieri e Marco Donnarumma) di Anna Maria Monteverdi
Prima edizione del Kernel Festival a Desio (Mb), dove l’arte digitale dialoga con natura e architettura e dove l’intrattenimento si unisce alla computer art più evoluta. Grandi numeri di presenza (soprattutto in serale) per una kermesse che in questa prima timida edizione di inizio luglio ha mostrato tutte e sue potenzialità - e forse qualche pecca nella smania di eccedere nelle proposte. Ma in sostanza, tre giorni ricchi di iniziative con workshop, incontri, installazioni, audiovisual live, con la presenza come special guest, della regina incontrastata delle tendenze tecnoartistiche attuali: il digital mapping, ovvero la proiezione architetturale 2D e 3D.
Si tratta della versione up-to-date degli spettacoli di sons et lumiéres: per l’occasione Villa Tittoni Traversi di Desio è diventata un fondale straordinario per i colorati voli tecnopindarici degli artisti internazionali invitati. Alcuni di loro sono stati selezionati a “chiamata” sulla base di pochi minuti di concept inviati alla commissione e tra questi c’è il collettivo italiano Insynchlab formato da giovani ex allievi della Scuola di Nuove tecnologie dell’Accademia di Brera, che con la loro proposta di videomapping non hanno certo sfigurato di fronte ai giganti francesi e spagnoli Paradigme e Telenoika.
Insynchlab sono Andrea Carpentieri, Marco Pucci, Matteo Inchingolo, Lorenzo Piovella, Matteo Gatti, Alex Cayuela e si sono specializzati in fotografia, animazione, interattività, video. Alcuni continuano la loro esperienza a Brera come tutor favorendo una dimensione di “lab” per gli iscritti al triennio e al biennio della Scuola di Tecnologie diretta da Ezio Cuoghi e che ha come docenti nomi prestigiosi come Paolo Rosa, Antonio Caronia, Giuseppe Baresi, Franco “Bifo” Berardi; altri hanno vinto prestigiosi concorsi artistici nazionali come Marco Pucci con Milano in digitale (il suo albero digitale dalla crescita virtuale era davvero strepitoso). Una bella sorpresa, insomma, quella di Insynchlab che ha incantato la numerosa folla rimasta fino alle 5 del mattino a godersi la nottata di video e musica, e che vale la pena di conoscere più fondo (vedi intervista), per capire come si passa dalla formazione (e autoformazione) al professionismo vero e proprio.
Dunque è stato proprio lo storico Palazzo ottocentesco di Villa Tittoni (peraltro sede di un Museo e di una Biblioteca) con tanto di timpano, colonne, sculture addossate, e scarsamente conosciuto anche da quelli che provengono dalla vicina Milano, a essere assunto come simbolo del Kernel Festival, un festival di eventi e di architetture liquide ed effimere che ha intrecciato vari media partner (tra cui il portale e webmag Digicult di Marco Mancuso, sempre attivo per manifestazioni legate al live media) e ha unito le forze con altre manifestazioni più consolidate (Live Performance Meeting a Roma di Giuseppe Del Gobbo). Un po’ deludente la parte delle installazioni digitali e interattive, alcune francamente incomprensibili sia nel funzionamento sia nel concept, altre elementari o già viste o semplicemente non funzionanti. Straordinaria però, la macchina roteante o scultura cinetica con luci a led rgb dello spagnolo Alex Posada dal titolo The Particle.
Quest’opera intrinsecamente performante, apre a considerazioni che riguardano il livello di teatralità delle macchine: come per Heiner Goebbels, il protagonista è il congegno macchinico di luce e suono, che con il suo movimento nello spazio, crea effetti cromatici e persistenza retinica, dando vita a una suggestiva narrazione cosmologica.
Nel parco della Villa erano stati montati due palchi per i live e per la gestione dell’audiovisual mapping con i mastodontici videoproiettori dalla potenza di lumen con molti zeri: ogni gruppo intervenuto aveva ovviamente, un proprio marchio estetico e questo vale anche per il videomapping: e così i mostri transformer, le televisioni, gli svolazzamenti di bandiere virtuali e grande dispendio di un’effettistica strepitosa, hanno felicemente occupato la sezione di Roberto Fazio, Luca Agnani, Paradigme, Telenoika.
La sezione live media (Vj mapping, audiovisual mapping) che è andata avanti a notte tarda, a parte alcuni casi, lasciava forse un po’ a desiderare sulla parte visuale, piuttosto monotona e commerciale; un’atmosfera più da club che non da ricercato festival, che però la folla di ragazzi accorsa soprattutto dalle 23 in poi, ha apprezzato comunque, considerato il livello dei Vj intervenuti (da Tonylight degli Otolab a Dj Spooky…).
Insinchlab: da Brera a Desio. Intervista al gruppo
Insynchlab per EVE ha lavorato sul racconto del palazzo nel tempo, passato attraverso vicende atmosferiche e storiche (con atmosfere tipo Via col vento…) guerre comprese, mentre i segni del tempo erano sottolineati anche dalle germinazioni rampicanti che lo avvinghiavano. Una costruzione drammaturgica coerente anche nella musica. Un ottimo lavoro che colloca il giovane gruppo tra i pochissimi collettivi italiani da annoverare tra i realizzatori di un vero videomapping creativo, quello che sfrutta le potenzialità di ogni singolo oggetto architettonico della struttura e gioca sulla costruzione di un breve racconto che sorprende visivamente.
Chiediamo ad Andrea Carpentieri il portavoce del gruppo che oggi ha un contratto come tutor alla Scuola di Nuove Tecnologie dell’Accademia di Brera, qualche parola sull’esperienza di Kernel e sulle fasi di preparazione del lavoro:
“L’intervento inziale è stato di gioco, ludico insomma. Poi abbiamo voluto raccontare in un mapping di dieci minuti, la storia del palazzo: la drammaturgia non è altro che il tempo, la pietra attaccata dal tempo e dagli agenti atmosferici, e poi l’edera rampicante animata, implacabile nella sua crescita verso l’alto che è l’intrusione della natura nell’architettura. Abbiamo cercato di far capire il senso del passaggio del tempo riprendendo la luce solare, seguendone il movimento in un time lapse.
Quindi c’è tutto l’armamentario narrativo costituito da crepe del palazzo, deperimento strutturale, guerra, con esplosioni annesse, finestre spaccate uccisioni e defenestramenti. Il gruppo Insynchlab preesisteva già dall’inizio dell’anno: nel laboratorio di Brera 2 in Viale Marche (stanza 110) facciamo un po’ di sperimentazioni e il primo nostro lavoro di mapping, molto semplice con dei cubi e una porta virtuale realizzata proprio alla Scuola di Brera è stato molto visitato in rete; ovviamente per Kernel abbiamo creato un mapping fatto apposta, abbiamo sviluppato animazioni, video, suoni, aperture, puzzle di immagini, composizioni”.
Come avete operato sul modello digitale?
L’organizzazione ha messo a disposizione una mappa della facciata che abbiamo sviluppato autonomamente e creativamente; abbiamo seguito una camera preimpostata data dall’organizzazione del Festival, c’era un tecnico che ha disposto i potenti proiettori e abbiamo potuto fare dei test di prova. Esiste un software del videoproiettore stesso che mediante una griglia, assesta tutto quanto coerentemente. L’obiettivo era creare una sorta di short film chiuso; quindi per far capire il senso, c’era bisogno di un minimo di drammaturgia. Abbiamo trovato un filone iniziale che poteva funzionare per cercare di stupire il pubblico, essere in linea con le aspettative delle persone del Festival e poi abbiamo steso una piccola drammaturgia. Il titolo è Evo, è un’evoluzione del palazzo nel tempo e attraverso una serie di azioni compiute da agenti estranei alla struttura architettonica. Abbiamo usato Cinema 4D; per il montaggio sono serviti quattro giorni e altri due per registrare.
Vi siete confrontati con artisti come Area Odeon Telenoika Paradigma
Abbiamo seguito alcuni workshop con gli artisti invitati al Festival, per esempio con i Telenoika che sono vicini anche alla nostra estetica; Luca Agnani girava già con le sue produzioni e lo conoscevamo. Il Festival ci ha portato un sacco di contatti, tra questi anche il Live Performance Media. I francesi Paradigme hanno apprezzato il nostro lavoro e ci hanno invitato al loro Festival CONTACT. Certamente la contaminazione con il fenomeno Vjing in queste kermesse è forte, si tratta in sostanza, di un artista audio che viene accompagnato dal video, e il mapping non è la priorità.
Siete cresciuti a Brera: cosa vi ha dato quest’esperienza formativa?
Il collettivo artistico si è assemblato naturalmente per competenze e abilità tecniche di vario genere e che si può posizionare su varie altre cose, produrre video, interazioni, animazioni, mapping. A Brera possiamo fare ricerca…per esempio stiamo sviluppando progetti interattivi con Kinect, lavoriamo con Arduino, vogliamo unire l’aspetto teorico alla ricerca vera e propria.
Una performance di bio feedback: intervista a Marco Donnarumma
Nel pomeriggio del sabato sul palco del giardino della Villa si sono alternati alcuni concerti di musica elettronica e una performance interattiva sonora particolarmente originale: è Marco Donnarumma a catalizzare l’attenzione del pubblico di questo assolato sabato. Collocato in un contesto forse non adeguato alla tipologia di performance che proponeva, Marco Donnarumma, giovanissimo ricercatore legato allo studio di interattività e suono, attualmente di stanza all’Università di Edinburgo, sviluppatore del programma libero Pure Data, ha dato vita a una breve ma molto significativa dimostrazione artistica del suo studio sulle tecnologie che amplificano sulla scena, il corpo umano. La sua performance si intitola infatti Music for Flesh. Interactive music for enhanced body (Xth Sense Biosensing Wearable Technology).
Con due biosensori collocati sull’avanbraccio collegati a un computer centrale, Donnarumma amplifica e gestisce interattivamente i suoni provenienti dall’interno del suo corpo: il suono prodotto dai muscoli quando le braccia sono contratte e poi rilasciate. Un concerto per muscoli e sensori in cui l’uomo dirige abilmente se stesso, suonando il proprio corpo senza altra intermediazione/interfaccia. I gesti delle dita, la contrazione delle braccia modulavano accordi e suoni di sintesi rilasciando al pubblico un’emozione infinita. Il gesto espressivo “parlava”, emetteva suoni e raccontava stati d’animo immediatamente percepibili perché provenienti da un organismo vivente e subito amplificati: ecco la “biomusic” a cui lui si riferisce come pratica e filosofia artistica; l’applicazione al teatro di questo sistema, con una gestione arricchita di multimedia, potrebbe davvero creare un valore aggiunto e di questo Marco Donnarumma è assolutamente consapevole, avendo provato a usarlo anche in ambiti legati per ora, alla danza.
Nessun datasuite, nessuna accensione on/off, solo un puro segno nello spazio vuoto che apre a mondi concretamente visibili e tangibili nel loro suono quadrifonico. Originali anche i titoli delle performance di Donnarumma: Audiovisual concert for augmented electric bass guitar, self-designed software and butterfly; Multi-channel generative sound installation for censored Internet Protocol (IP) addresses; Autonomous system for permanent, real time, cinematic representation of worldwide stock prices.
Chiediamo a Marco Donnarumma di raccontarci qualcosa della sua ricerca e di come sia approdato a questa insolita forma di spettacolo.
Porto avanti una ricerca artistica da diversi anni focalizzata sull'interazione fra uomo e macchina, nasco come musicista nel 2000 e lavoro con il live video dal 2004; il progetto che fino ad ora ha avuto più riscontri positivi è I C::ntr::l Nature (2009), un concerto audiovisuale interattivo basato su un software che ho sviluppato in Pure Data: un sistema di pitch tracking riconosce le note suonate da un basso elettrico e quindi permette di controllare effetti audio e video in tempo reale semplicemente suonando lo strumento musicale, senza bisogno di interagire fisicamente con un computer. E’ stata un'esplorazione durata tre anni. L'aspetto fondamentale di questa ricerca è sempre stato l'integrazione di sistemi interattivi che permettessero da una parte di sottolineare l’atto performativo durante un concerto e dall'altra di offrire al performer maggiore libertà di comunicazione espressiva. Nonostante questo, dopo tre anni di performance in Europa e in Sud America, mi sono reso conto che suonare uno strumento musicale classico, anche in modo non convenzionale, implica l'adottare delle posizioni, dei movimenti pre-definiti, che a volte può addirittura constringere l'aspetto performativo; quindi ho sentito il bisogno di un nuovo tipo di interazione creativa sul palco, e ho deciso di uscire da questo schema.
Nell'estate del 2010 ho cominciato a studiare pubblicazioni che mi offrissero spunti di riflessione, ho analizzato il lavoro di Michel Waisvisz, che è stato direttore artistico dello STEIM ad Amsterdam, una figura seminale nella scena musicale sperimentale; ho studiato soprattutto il suo progetto The Hands, un originale strumento musicale per il controllo gesturale di suoni e musica basato su dei guanti dotati di diversi sensori che trasmettevano al computer informazioni dettagliate riguardo il suo comportamento fisico sul palco; nelle sue performance il computer era completamente assente, mentre il suo corpo, l'atto performativo riempiva in maniera inequivocabile lo stage. Io cercavo un approccio di questo tipo, delle modalità che mi permettessero di controllare e interagire con un computer in maniera fisica, naturale e istintiva, ma allo stesso tempo ero attratto dall'idea di poter comunicare ad un computer qualcosa di più intimo e più strettamente connesso alla specificità del mio corpo, che dei semplici movimenti nello spazio.
Così ho ricercato pubblicazioni su sistemi di biofeedback, una metodologia utilizzata nell’ambito medico per migliorare la coscienza di un individuo rispetto ad una malattia o una specifica condizione del suo corpo; diversi tipi di sensori vengono utilizzati per permettere al paziente stesso di monitorare la temperatura corporea, il ritmo del battito cardiaco o la resistenza elettrica prodotta a livello epidermico dalle contrazioni muscolari. Già nel 1965 il compositore Alvin Lucier aveva creato una performance Music for solo performer utilizzando le onde alfa prodotte dal cervello in stato di meditazione. Da allora la ricerca artistica in questo campo si è sviluppata molto, soprattutto grazie al lavoro di ricercatori come Ben Knapp e il gruppo di ricerca del SARC di Belfast, Atau Tanaka e Eduardo Miranda. Grazie anche al loro lavoro ho trovato l'ispirazione per creare il mio sistema biofisico Xth Sense.
Ti sei dedicato a queste tecniche per motivi di ricerca universitaria e poi l’hai applicata alla performance o viceversa?
La ricerca è supportata dell'Università di Edimburgo, dove sperimento applicazioni biofisiche per il sound design di performance e sistemi interattivi, e ho sviluppato l'hardware grazie anche all'aiuto del Hacklab di Edimburgo, Andrea Donnarumma e Marianna Cozzolino.
Nonostante stia lavorando in un ambiente accademico, il progetto per me rappresenta una naturale evoluzione della ricerca personale che ho descritto prima. Inoltre, un aspetto fondamentale di questa investigazione, e della mia pratica artistica in generale, è l'utilizzo esclusivo di strumenti free e open source. Tutto il sistema è stato sviluppato su Linux, soprattutto in Pure Data. Anche il design del wearable biosensor è stato creato in maniera da poter essere costruito da chiunque, anche chi non ha esperienza in elettronica; il costo di produzione del sensore è di meno di 6 euro. Il framework e la sua documentazione verranno rilasciati l'anno prossimo con licenza free. Questo è molto importante perchè ad oggi l'Xth Sense è l'unico sistema per l'interazione biofisica fra uomo e macchina basato su tecnologie libere. Esistono altri progetti simili, ma sono diventati prodotti commerciali, abbastanza costosi e soprattutto "chiusi" (non modificabili). Per me rimane fondamentale e indispensabile produrre nuove tecnologie che siano re-distribuibili, gratuite e completamente modificabili, specialmente nell'ambito artistico.
Qual è la filosofia di fondo di questa ricerca?
Il mio approccio alla tecnologia è minimale; sul palco la tecnologia è assente: il computer è invisibile e indosso solo i sensori, che non sono altro che due braccialetti neri. Questo è un altro aspetto fondamentale dell'intero progetto: spesso, ciò che vedo intorno a me è un abuso della tecnologia; molte volte mi sembra che il risultato artistico di un lavoro non sia assolutamente bilanciato rispetto alla quantità e complessità delle tecnologie utilizzate. Si possono ottenere sistemi interattivi e performance altamente tecnologiche senza utilizzare tecnologie ermetiche e astruse. A me non mi interessa questo approccio, abusare della tecnologia è sottovalutare le qualità creative di ognuno; la creatività umana non deve essere dato in pasto alla tecnologia, ma questa deve essere un mezzo.
Su cosa si basa la tua performance Xth Sense?
Su un processo estremamente semplice, ma efficace: quando performo i miei muscoli producono delle micro-oscillazioni meccaniche che possono essere catturate con dei microfoni particolari. Queste vibrazioni non sono altro che suoni a bassa frequenza. I suoni vengono trasmessi in tempo reale ad un computer; la macchina sviluppa una comprensione del mio comportamento biofisico "ascoltando" i suoni dei miei muscoli. Poi estrae le caratteristiche più importanti della mia performance, come il ritmo, la forza che applico ai miei movimenti e i pattern di gesti e movimenti, quindi questi dati guidano degli algoritmi che modificano in tempo reale i suoni dei miei muscoli creando una composizione, una soundscape unica perchè prodotta dalle fibre dei miei muscoli in ogni istante della performance.
La parte più difficile non è stata l'implementazione tecnica, ma piuttosto lo studio di una strategia che permettesse al computer di CAPIRE cosa sto facendo, ascoltando la frizione dei miei muscoli delle diverse parti del mio corpo.
La cosa più interessante è la possibilità di definire un gesto espressivo non solo dal punto di vista visuale, ma anche da quello sonoro. Nello spazio vuoto del palcoscenico devi dare un significato quello che fai. Il sistema permette di costruire un vocabolario di gesti e movimenti che rimangono unici anche per quanto riguarda l'aspetto sonoro; infatti, con adeguato esercizio ho sviluppato una serie di gesti che producono un suono specifico; questi, composti secondo un'improvvisazione semi-strutturata, danno vita ad un ambiente sonoro particolarmente ricco e ad una performance unica anche dal punto di vista fisico.
Il mio intento è oltrepassare il concetto che vede il corpo umano come un'interfaccia che guida le operazioni di un computer; invece intendo definire un "enhanced body", un corpo aumentato, che impiega delle caratteristiche intrinsiche e naturali per diventare un vero e proprio strumento musicale; qui la materia sonora viene creata grazie ad un processo meccanico, ed è inscindibile dal corpo che lo produce, esattamente come in uno strumento classico.
Dove possiamo trovare i risultati delle tue ricerche, oltre che sul palco?
Fino ad ora i risultati della mia ricerca sono stati pubblicati nei proceedings di 3 conferenze internazionali: la Linux Audio Conference, l'ICMC, International Computer Music Conference e la Pure Data Convention. Nella sezione Publications del mio portfolio on-line è possibile accedere a questa documentazione. Per del materiale più informale consiglio di visitare il mio blog, mentre un'intervista riguardo il progetto è stata pubblicata recentemente da Weave, un interaction design magazine; un'altra intervista sarà presto pubblicata in occasione di The Biological Canvas, una mostra on-line a cui partecipo insieme a Stelarc a altri artisti che utilizzano il corpo come mezzo artistico.
A Drodesera si impara a parlare cinese C’est du chinois! di Edit Kaldor alla Centrale Fies di Mimma Gallina
Drodesera comunica con caratteri gotici, nero su nero, il tema dell’edizione 2011: CARACATASTROFE. Titolo amaro e autoironico, dalle molteplici chiavi di lettura.
Epocale e generazionale – con prospettive (non solo teatralmente) rivoluzionarie - quella suggerita da gruppi residenti e ospiti come Motus e Anagoor: “l'abbiamo creata, affrontata, vissuta, attraversata tutti assieme, questa CARACATASTROFE, dagli inizi alla fine. Non ci resta che canalizzare in scenari futuri la vostra e la nostra energia. E siamo già il domani”. (http://www.marcadoc.it/2011/Motus-Anagoor-la-rivolta-adolescente.htm)
Oppure esoterica: secondo la definizione che Francesca Grilli da della sua performance -inquietante non senza ironia - con uccellacci che sfrecciano e volteggiano sulla testa degli spettatori.
Analizzando il programma, si potrebbero individuare molti altri punti di vista teatrali sul tema, mentre un contributo in catalogo di Mario Tozzi dedicato ai terremoti suggerisce una riflessione parallela e disincantata su scala geologica: se le diverse culture possono adattarsi e reagire, niente ci salva dalla ineluttabilità dei terremoti, incluso quello probabile finale (insomma, il big one di cui dovremmo essere tutti consapevoli, non solo in California o in Giappone). E la prova è molto vicina, basta camminare qualche minuto a nord di Dro, sulla frana delle Marocche (o guardare le suggestive foto teatrali scattate sul posto, in catalogo): si tratta di un disastro colossale di qualche milione di anni fa, più o meno al tempo dei dinosauri, il cedimento catastrofico di quel paesaggio di rocce granitiche che fa di questa zona il paradiso del ree climbing (e “camminare sulla frana” era anche il tema di un laboratorio).
Ma se la catastrofe aleggia sui nostri tempi e nell’arte contemporanea, qui è soprattutto un’onda di energia – forse non quella rivoluzionaria evocata dai gruppi, ma semplicemente quella allegramente elettrica dei festival vivaci - ad accomunare spettatori e operatori, in prevalenza giovani. E’ una comunità coesa e partecipe quella che anima e affolla gli spazi dell’imponente Centrale Fies: un monumento di archeologia industriale di grande valore funzionale e simbolico, un luogo nato per la produzione di energia, appunto, quasi una cattedrale laica sul fiume Sarca.
Per i giovani (e non solo) teatranti e appassionati di teatro contemporaneo, questo luogo è diventato in pochi anni un punto di riferimento. Dal 2000 – dopo il trasferimento dal piccolo paese alla centrale - il festival si è progressivamente affermato grazie alla presenza ricorrente di artisti e gruppi come Pippo Delbono, Emma Dante, Virgilio Sieni, Valdoca, Motus, Fanny & Alexander. Nel 2007, al festival si è affiancato il progetto Fies Factory, che ha sostenuto “in residenza” numerose compagnie italiane under 35. I costi sono stati inizialmente coperti grazie al famigerato “patto” Stato/Regioni (impunemente rotto dallo Stato), poi al sostegno dell’ETI. Venuta meno anche questa risorsa, l’idea non solo non ha smesso di crescere, ma è pienamente decollata grazie all’appoggio in primo luogo della Provincia Autonoma di Trento (che ha consentito e consente anche un piano di ristrutturazione progressivo degli spazi e dell’area nel suo complesso: una condizione ideale e invidiabile), di Hydro Dolomiti Enel, della Regione Trentino Alto Adige, e ultimamente di Arcus spa, il cui impegno su un progetto come questo potrebbe essere di buon auspicio, in attesa che la società operi il più presto possibile in modo limpido e che il Ministro Galan la rilanci come preannunciato.
Drodesera e Fies Factory esprimono in effetti una rara capacità di relazionarsi con i massimi livelli istituzionali e muovere risorse pubbliche (e private), nella direzione di un sostegno reale e continuativo a gruppi giovani. Quelli attualmente residenti sono:
Anagoor
Codice Ivan
Dewey Dell
Francesca Grilli
Marta Cuscunà
Pathosformel
Teatro Sotterraneo.
Ma anche altri ne abitano con sostanziale regolarità gli spazi e alimentano il progetto. La tradizione costruita negli anni e la scelta di « accompagnare» i gruppi (sul modello francese), favorisce anche l’identità del festival: agli esiti delle realtà residenti, si aggiungono presenze coerenti (tendenzialmente «di casa», fratelli maggior e non), con proposte articolate.
Sul piano internazionale, il progetto Centrale Fies aderisce a un network di performing art, APAP, che grazie a un bando europeo offrirà ai gruppi residenti, nei prossimi tre anni, nuove prospettive. Per ora Drodesera – che non sembra ancora intaccato dalla bulimia molto diffusa fra i festival che tendono a privilegiare la quantità sulla qualità - presenta pochi, selezionati spettacoli stranieri.
Foto di Tom Croes.
Ed è una coproduzione internazionale la scoperta dell’ultimo week end del festival.
Dai materiali avrebbe potuto sembrare un’idea brillante, o non molto di più, una riedizione in chiave global di un tema caro al teatro dell’assurdo: una lezione «teatrale» di lingua mandarina, ovvero come imparare il cinese basic in un’ora.
C’est du chinois! di Edit Kaldor (un po’ come dire “Parli arabo!” in italiano) mantiene la promessa di un’ora divertente, ma è molto di più. In scena una famiglia cinese di cinque persone: una madre con due figli, un padre (che scopriremo ottimo attore, interprete delle tecniche tradizionali dell’Opera di Pechino) con una figlia, sposata a sua volta al figlio maggiore. Sono i bravi e simpatici Nu Cheng Lu, Siping Yao, Aaron Fai Wan, Lesley Wang, Qi Feng Shang. Ci dicono all’inizio che sono arrivati in Italia da pochi mesi e intendono restarci (nella realtà sappiamo che abitano in Olanda e non sono una famiglia). La lingua non può essere un problema! Infatti ci illustrano – attraverso un foglietto letto, in italiano, da uno spettatore - la loro intenzione di insegnarci la loro lingua, il mandarino.
Foto di Tom Croes.
Il metodo è il seguente: si parla solo cinese, il significato delle parole è mostrano da oggetti o gesti, al comando di un fischietto gli spettatori dovranno ripetere tutti ad alta voce le ultime parole dette in scena: per memorizzarle e quindi impararle. Il pubblico aderisce divertito, con calore e grande disponibilità. Fra palco e platea si stabilisce una relazione chiara: ci salutiamo, capiamo i rapporti di parentela, impariamo a dire birra e cioccolato, riso e caffè, mentre oggetti e gruppi di oggetti emergono dai classici borsoni, creando sul palco un tipico bazar cinese. Ma se - con l’uso di stereotipi come questo - l’accento sembra inizialmente posto sulla differenza fra le civiltà, a poco a poco, a partire dal rapporto con gli oggetti, cominciamo a conoscere i protagonisti, si introducono parole che designano desideri e gusti, si insinuano e si intuiscono i problemi e le relazioni.
E’ la parola “bambino” – un bambolotto - più o meno amato e desiderato, forse non nato, o che forse non nascerà, a rompere lo schema della lezione e a rivelare rapporti delicati o tesi fra le generazioni, fra i fratelli, fra i coniugi. E se termini che trascinano il riso in sé, come “rutto” o “scoreggia”, riportano la serenità (e spostano la riflessione sulle affinità, più che sulle differenze, culturali), sarà soprattutto la parola “soldi” e il rapporto con il lavoro e con il denaro a far esplodere tensioni e frustrazioni. In un crescendo continuo, ma senza che mai si perda il divertimento di fondo, quelle facce-maschere cinesi sorridenti si increspano, il ritmo della lezione si spezza, per poi riprendere sempre un po’ più faticosamente.
Il problema della comunicazione, quello fra le lingue o fra le comunità, si può affrontare con ottimismo, determinazione e un po’ di ingenuità. Con qualche parola di cinese -imparata come promesso nell’ora di questa lezione-spettacolo - abbiamo intuito molto di quello che è successo in scena, dinamiche semplici, universali: impossibile non capirle.
Il problema della comunicazione non è tanto nella lingua, l’”incomunicabilità” è altrove, sta nelle questioni di fondo della convivenza fra le persone. Come spettatori-studenti ci siamo trovati progressivamente a cogliere e prender parte a conflitti tanto noti quanto difficili da dirimere, più Bergman che Ionesco, ben al di là della lingua e della lezione: che naturalmente è disponibile in DVD alla fine dello spettacolo (€ 5,95).
Foto di Tom Croes.
Edit Kaldor è un’ungherese emigrata negli Stati Uniti a 13 anni; ha lavorato in teatro e a sceneggiature cinematografiche con Peter Halasz (Squat Theater/Love Theater, New York). Successivamente si è trasferita in Olanda, dove ha frequentato i master di DasArts a Amsterdam, dove attualmente vive. Nei suoi spettacoli, rappresentati negli ultimi anni presso numerosi festival europei e non solo, il tema della comunicazione e della incomunicabilità è costante, spesso affrontato attraverso l’uso dei media digitali, come in Or Press Escape (2002), New Game (2004), Drama (2005), Point Blank (2007).
La condizione di emigrante è certo familiare alla Kaldor: lo spettacolo parla anche di questo, ribaltando con umorismo e raffinata semplicità la relazione didattica fra la comunità ospitante e ospitata. E' significativo che questa lezione ci arrivi da un’ungherese approdata in terra fiamminga – la lingua madre più ostica e quella di adozione fra le meno parlate in Europa - e che allo spettacolo abbiano partecipato alcune delle organizzazioni più vivaci del panorama europeo.
C’est du chinois! è prodotto da Productiehuis Rotterdam (Rotterdamse Schouwburg) e Stichting Kata (Amsterdam) e coprodotto da Alkantara Festival (Lisbon), Kunstenfestivaldesarts (Brussels), Göteborgs Dans & Teater Festival, Steirischer Herbst Festival, Graz con il contributo dell’Unione Europea. Nel corso del 2010 e 2011 è stato presentato un po’ in tutta Europa, a Dro la prima per l’Italia. Prossimamente la Kaldor sarà a Modena-Vie.
Nel non libro Per Alessandro Bergonzoni, in occasione dell'uscita di Nel (testo + DVD) di Oliviero Ponte di Pino
È forse la prima volta che in uno dei suoi torrenziali monologhi Alessandro Bergonzoni trova in scena un partner con cui dialogare. Un antagonista in grado di resistergli.
Ma attenzione: questa sua «spalla» non è un altro essere umano, e neppure un animale più o meno fantastico o antropomorfo.
Il deuteragonista di Nel è un libro.
Una didascalia lo descrive come «un volumetto bianco», dall’aspetto dunque piuttosto dimesso. Bergonzoni lo trova in quinta poco dopo essere entrato in scena (p. 12) e inizia subito a intessere con le sue pagine un dialogo che dura in pratica per l’intero spettacolo. Lo consulta infatti senza sosta, trovando molte risposte – o molte domande – ed evocando misteri e paradossi, in un confronto divertente e pieno di sorprese.
Questo libriccino così poco appariscente ha molte delle caratteristiche di un libro «vero», oltre alla forma fisica.
Tanto per cominciare, ha un titolo. Un titolo davvero lungo, come quelli che si usavano anticamente: «Enciclopedia, guida, prontuario propedeutico filosofico antropologico e pratico con esercizi base, istruzioni di tutto lo scibile anche se non ha nevicato e su concetti, dottrine, argomenti, tesi, saperi infiniti, saperi gerundi e sapremo futuri...» (p. 12). La lettura del titolo prosegue, o forse diventa lettura del «compendio trattato e ritrattato aggiornato poi cambiato e adottato da tutte le scuole di pensiero» (p. 13).
Viene subito il dubbio che possa trattarsi di un titolo infinito, così come probabilmente dev’essere infinito il volume che battezza, con le sue ambizioni onnivore e onnicomprensive.
Peraltro questo non è l’unico libro di cui si parla nello spettacolo. Appena prima era stata evocata un’intera biblioteca: «Alla fine del camino il fuoco e sopra il fuoco la libreria di una vita. Tutti i libri della mia esistenza...» (p. 12). Con ogni probabilità tutta quella biblioteca «sopra il fuoco» ha finito per concentrarsi in questo unico volumetto, che è insieme il libro della vita e il libro dei libri.
Per quanto riguarda la struttura del volume, anche questo libretto-librone presenta un indice ed è suddiviso in capitoli: si parla per esempio di «Capitolo 2 pagina 161».
Tuttavia emerge una struttura alternativa, parallela. Anche se il volume è diviso in capitoli, il formato risulta assai strano: «120 volumi da una pagina, con 18.000 illustrazioni inedite e inutili di difficile consultazione sfuocatissime di importanza assoluta» (p. 13). Ma se sono in tutto 120 pagine, come può esistere una pagina 161?
Insomma, si coglie subito la natura destabilizzante dell’opera, confermata poco dopo da un fatto curioso: il Capitolo 2 contiene «l’appendice che nega il Capitolo 1, nega l’appendice stessa e se può nega anche il Capitolo 2!» (p. 13).
Oltre al titolo e alla suddivisione in capitoli, tra i paratesti spicca anche la dedica del volume, o dello spettacolo, che viene recitata dall’attore in quinta, come una sorta di prologo estraneo allo spettacolo vero e proprio. O meglio, quello che si sente riecheggiare nella scena deserta è una vera e propria alluvione di dediche: quelle esilaranti con cui iniziano per l’appunto sia lo spettacolo sia il libro (pp. 7-8).
Non mancano i dati bibliografici: già all’inizio si spiega che questo è un «numero zero [...] copia prova omaggio, bozza incompiuta, minuta, malacopia, rilegata a un palo perché è già la quarta che provano a portarci via». Troviamo persino alcune indicazioni di marketing: chi si procurerà il volume avrà «in omaggio un odiario... e un paio di occhiali per sordi... in omaggio anche un segnalabbro...» (p. 13).
Più incerto l’autore di questo labirintico capolavoro: a un certo punto si accenna al «famoso libro dell’autore da indovinare» (p. 18), per lanciare uno sconclusionato e (quasi) interminabile quiz sul nome incriminato (e anche sul soprannome, o magari pseudonimo, dell’autore in questione).
Non mancano, come abbiamo visto, le immagini, accompagnate dalle relative didascalie.
A volte – in uno dei numerosi meccanismi circolari, o autoreferenziali, intorno a cui è costruito Nel – la foto è addirittura «la foto della pagina»: ma questo inutile e assurdo raddoppiamento irrita persino il lettore-monologatore (p. 15).
I meccanismi circolari vengono enfatizzati dall’aspetto ipertestuale, che in questa enciclopedia è molto sviluppato. L’opera pare infatti infarcita di rimandi interni: «Vai alla figura A» oppure «Vedi al complesso di Edopo»…
O ancora, «Vai subito alle istruzioni a pagina 9»: ma è una trappola, che precipita il lettore in un loop infinito, perché a pagina 9 si trova l’indicazione «vai a pagina 13», mentre a pagina 13 si ritrova un implacabile «vai a pagina 9» (p. 14).
Perché l’enciclopedia è corredata – l’abbiamo visto – di numeri di pagina. Anche se in realtà sembra consistere per lo più di una pagina-contenitore, che ritorna ossessivamente: è la fatidica pagina 161, in pratica quasi l’unica che viene consultata. Tanto è vero che a un certo punto lo stesso monologante lettore si lascia sfuggire un’altra annotazione critica: «Tanto è tutto a pagina 161. Son trecento pagine, ma le notizie son tutte raggrumate» (p. 56).
Bergonzoni allora potrebbe avere in mano una sorta di lettore per e-book, dove un’unica pagina (magari con un moderno touch screen) mostra via via tutte le pagine del libro. Del resto questo libro dei libri, questo libro che si contraddice, questo libro fatto di pagine che svaniscono una nell’altra, questo libro pieno di link che si rimbalzano a vicenda, potrebbe anche essere il labirinto della rete…
O forse questo libro infinito è già più avanti dell’attuale situazione della rete: è una specie di ologramma, o un frattale, dove ogni frammento – per esempio, pagina 161 – riflette la struttura dell’intero.
Per quanto riguarda il genere, abbiamo visto che il volume si presenta come «enciclopedia». Però «non in ordine alfabetico, ma in ordine etico, caotico, sismico» (p. 13). Per esempio, «sotto la U c’è “Consolato degli insetti”», un errore che ispira una annotazione perplessa: «sotto la U...» (p. 13). «Sotto la G, “figlio che uccide il padre perché è innamorato della madre”»: e quella G riecheggia forse l’iniziale di Giocasta, madre incestuosa di Edipo, perché subito dopo c’è il beffardo rimando al «complesso di Edopo» (p. 14).
O ancora: «Andiamo a cercare la malattia cuore... Sotto la q non c’è niente perché cuore non si scrive con la q... sotto la c c’è ciuore, e be’ è c, ...» e via delirando (p. 56).
Come in un buon dizionario enciclopedico, vi si possono trovare alcune etimologie. Anche se in effetti sono soprattutto false etimologie: vedi i giochi di parole innestati dall’accostamento di «chiodi» e «pianto» (p. 16).
Questo super-libro si presenta a tratti come una surreale guida turistica, con i suoi assurdi itinerari; a tratti anche come un manuale, che dà al lettore precise istruzioni. Che poi si possano effettivamente eseguire, è un altro problema... In effetti, l’istruzione più credibile pare essere quella che «ti spiega come complicare», visto che qui tutto sembra diventare inestricabile… (p. 17).
Insomma, l’opera ha molti pregi. Tuttavia apprendiamo anche che «qui probabilmente ci sono delle cose da correggere» (p. 58). A questo fa forse riferimento l’accenno agli «erroristi… che hanno costituito il movimento dello sbaglio» e forse si sono intrufolati tra gli autori della non-enciclopedia…
Come si conviene a un e-book, questa anti-enciclopedia è anche vivacemente interattiva. Infatti interroga chi la consulta con un interminabile quiz-censimento (p. 58). Ma il lettore era stato avvertito: «Vedi, si interessa a te, proprio. Di solito noi siamo interessati all’enciclopedico. Qua è l’enciclopedico che è interessato a noi» (p. 15).
Ci sono paradossi ancora più radicali. Abbiamo visto che si tratta di un libro (o non-libro) infinito, e per di più con diversi tipi di infinito al proprio interno. E dove il verbo «infinire» (p. 31) viene coniugato in molteplici modi. È un libro in cui, almeno potenzialmente, c’è tutto quello che ci serve sapere, su qualunque argomento. È un libro che potrebbe contenere tutti gli altri libri, e dunque qualunque affermazione ma anche la sua negazione, la verità e l’errore. È un libro che contiene loop infiniti, con i suoi rimandi circolari. È un libro che potrebbe far collassare la propria natura infinita all’interno di un’unica pagina, la 161 (che dunque sarà anch’essa infinita...).
Al tempo stesso, e qui sta il paradosso, è un libro incompiuto. Infinito e incompiuto…
Ma la sua infinitezza si espande anche in un’altra dimensione. Perché il significato del volume – il significato delle sue frasi, e persino delle parole – non è univoco. O meglio, il significato apparente, quello che emerge da una lettura ingenua, può essere fuorviante. Allora bisogna «vedere cosa c’è scritto sotto! Se noi osservassimo l’invisibilità di certa scrittura, scatacombando, stombando la benedetta realtà e leggessimo altre grammatiche…» (p. 32).
Non basta dunque leggere quello che c’è scritto. Dobbiamo «leggere l’invisibile codice». Dobbiamo «interpretare»…
Da questo punto di vista, si tratta di un libro sovversivo, che insegna a leggere la realtà con un altro sguardo, e che dunque può anche avere effetti sulla realtà: «Spranga quando è solo una parola fa più male? Si dice che le parole fanno più male dei fatti» (p. 32).
Questa potenzialità viene riecheggiata e amplificata da una metafora centrale di Nel. Anche l’essere umano, per certi aspetti, è un libro. Si tratta di un libro di natura particolare, incatenato a una unicità di significato che necessita di emancipazione: «noi siamo scritti... nei risvolti e all’interno», perché «lo stato umano è uno stato sotto dettatura. Forse l’uomo è sotto dettatura. Ma di che dittatura? Della dittatura della scrittura, del pensiero…» (p. 33). Insomma, gli esseri umani sono imprigionati nell’irrimediabile immutabilità di un testo. Il testo contenuto nel non-libro Nel. O in un altro non-libro…
Ma se siamo già scritti e desti-nati, una liberazione è possibile? Riusciremo a evadere?
Malgrado la catena del significato, pare esistere una possibilità di emancipazione. È quella che sembra promettere il «lessico individuale» (p. 69) inventato dal mitico Tantalo. Se ne trova traccia nel libro, che è anche un dizionario (naturalmente a pagina 161). Si tratta di un doppio elenco di parole, o di un codice, che gioca su tradimenti arbitrari del significato. In questo lessico individuale, fatto di liberissime associazioni, «serbatoio si dice fiamma e cane si dice incudine, cacca si dice scoiattolo, pipì si dice Rovigo...» (p. 70), e via all’infinito.
Il significato scivola così sul significante, in uno slittamento delirante e incontrollabile – o forse determinato da una logica ferrea ma assolutamente indecifrabile. Quel codice è una minaccia: ci dice che non dobbiamo mai prendere alla lettera quello che ci viene detto, che dobbiamo sempre sospettare del testo, che forse è solo una maschera. Ma è anche una straordinaria opportunità: ci invita a liberare la fantasia e il gioco delle associazioni, ci dice che possiamo e dobbiamo inventarci un senso che è fatto anche di metafore (e di fraintendimenti…).
Esiste però un’eccezione ai precetti del codice, che emerge nella frase conclusiva del monologo, quasi ad annullare tutto quello che è stato detto fino a quel momento. È la «parola-perno» che sembra reggere l’intera permutazione, l’asse intorno a cui ruota l’universo del senso, il contenitore in cui tutto viene compreso.
«Solo nel si dice nel…» (p. 70).
Con questa parola, che è un titolo, Bergonzoni «chiude di scatto il libro» e la scena piomba nel buio.
Si parla sempre più spesso di «libro d’artista», un genere che in realtà comprende diversi sottogeneri: i libri che contengono al loro interno le opere di un famoso artista (magari nella forma di litografie numerate); i libri pubblicati da un artista, e dunque spesso informati dal suo immaginario visivo e dal suo gusto grafico; o ancora, in senso forse più proprio, quei libri che nella loro forma riflettono sulla natura dell’oggetto libro.
Alessandro Bergonzoni è un artista, pittore e scultore, abilissimo nel lavorare con gli objets (e i materiali) trouvés.
Questo volume immaginario, che potremmo intitolare Nel (non libro), fa parte di una quarta categoria di «libri d’artista»: un oggetto che si può pensare – inventare – nella sua struttura e nella sua forma. Ma è un libro impossibile, che nessuno può fabbricare.
Bergonzoni se lo inventa lo stesso.
È un’esigenza che nasce dalla sua insofferenza nei confronti dei libri, così come sono, e nei confronti di quel libro dal destino già pre-scritto che siamo noi, nei confronti della banalità del reale.
Nel suo atelier di pittore e scultore, ha forse già creato alcuni frammenti, o avatar di questo non-libro Nel. Oppure possiamo decidere che questo libro-non libro è lo spettacolo, ovvero tutto quello che precede il fatidico «nel» conclusivo. Perché sulla scena un testo è sempre mutevole, dinamico, aperto agli accidenti della serata e dell’improvvisazione. Perché il teatro, nella sua effimera evanescenza, ammette le contraddizioni consentite dallo scorrere del tempo…
Chissà se un giorno Bergonzoni riuscirà a fabbricarla davvero, questa sua enciclopedia paradossale. Infinita e incompleta. Perfetta e piena di errori da correggere. Reale e virtuale. Vera e falsa. Sempre tenendo presente l’esigenza di ribaltare il motto conclusivo del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve straparlare».
La lotta della coscienza costante Il Prometeo incarcerato con la regia di Salvo Gennuso nella Casa di Reclusione di Augusta di Jean-Paul Manganaro
Non è facile andare in prigione: nel senso che non capita tutti i giorni potervi passare per vedere, guardare, sapere. Non è facile andare in prigione: non danno permessi facilmente, c’è tutta una prassi da seguire, bisogna stare attenti: alle apprensioni degli altri ma soprattutto alla tua. L’apprensione che lascia il fiato sospeso a qualunque minimo segno — che è poi sempre un segno che ti inventi tu, di cui tu solo disponi, quindi non comunicabile. Non è facile andare in prigione: entri in un mondo a parte, nel senso che non vi hai mai preso parte, partecipato. Sai delle piccole cose di cui ti rendi conto che, varcata la soglia, non servono più, perché quel poco che hai imparato non è precisamente quello che vedi, che senti. Non è così, non c’è niente di veramente vero nello svolgimento delle tensioni che ti fanno avvicinarti.
C’è qualcosa di immediatamente mitico che senti vibrar fuori, all’esterno di te, interiorizzato poi come consonanza, ma non sai a che cosa: qualcosa di immediatamente mitico, iscritto già nell’architettura del luogo. Potrebbe essere stato così il Labirinto di Cnosso nell’attesa sospesa del Minotauro: un fortilizio dentro un altro fortilizio dentro ancora un fortilizio, come se non finisse mai. O la reggia d’Argo che sperona l’orizzonte. E questa totalità è ancora circondata come da fossi e valloni benché la disposizione muraria sia del tutto pianeggiante, ad altezza d’uomo. Edifici in fuga, uno dopo l’altro, ma contenuti nel proprio barricarsi e riuniti da lunghi corridoi di cui è difficile capire la geometria se non in percezione. Sostanzialmente uguale alla prigione di Sorvegliare e punire di Michel Foucault, ma con delle modifiche imprestate ai campi di concentramento. Prigione maschile: ogni cortile un androcèo, chi corre, chi salta, chi si asciuga, chi beve, chi fuma, chi forse discute, tutti gesti della consuetudine più banale, ma che qui — nelle scena rinquadrata come in un pannello dipinto o vista anche in fuga come in un film muto — si trasforma da effimero a consustanziale: il gesto, ogni gesto è ogni volta intero, compiuto, immanente, definito come in una pittura, con in più la sua vita. Niente è allora gratuito né tantomeno banale: ogni gesto compone e scompone i suoi saperi, è carico di qualcosa che è diventato — dall’esterno all’interno — peculiare ed essenziale: non può essere altro.
La prigione diventa allora assai più genettiana, maschi con maschi, ma questo è un profumo, un giglio forte, fatto di finte e di racconti solitari, quando cioè il racconto di ognuno dice la solitudine affollata del solitario che sta con altri. Mondo laico, anche, non monastico: sarebbe potuto piacere anche a D.H. Lawrence, questo costituirsi in costrizione che genera potenza, sì, potenza. Luogo comunque tragico, cioè degno di rappresentare la tragedia che ognuno non dice ma con cui vive. Tragedia degli uomini liberi. È difficile pronunciare la parola che dice questo.
Mi accompagna in questa visita alla Casa di Reclusione di Augusta in contrada Ippolito il lunedì 27 giugno l’amico Salvo Gennuso che lavora qui, in questo carcere, da alcuni anni, in una cellula teatrale di cui mi spiega accuratamente il funzionamento e i dettagli, numerosissimi, pratici e sensibili. Accompagnato da Marco La Placa, bibliotecario, e da Giada Russo, assistente alla regia. Riunire una troupe, una compagine per mettere in scena qualcosa, ogni anno, che viene poi mostrata a un pubblico esterno, che deve raggiungere il luogo della scena dopo aver attraversato i valloni e i fossati pianeggianti, con qualcosa in cuore e nella mente.
Chi è di scena? Ecco i protagonisti: Abdel Bouzidi, Salvatore Capuano, Samuele Di Maio, Massimo Famà D’Assisi, Ridha Haj Hassine, Nunzio Il Grande, Khaled Walid, Salim Lazzez, Antonino Leonardi, Maurizio Lucà, Redzep Ramadani, Kastriot Pietri, Giovanni Strambelli.
Qual è il lavoro Prometeo di Eschilo, trasformato per l’occasione da incatenato a incarcerato. Ecco che la parola poco fa impronunciabile, può adesso essere detta: libertà. Di questo parla sostanzialmente il lavoro, libertà come coscienza contro i soprusi delle caste, fossero anche divine. Libertà come lotta. Come lotta della coscienza costante.
<
Qui, la composizione di Salvo Gennuso lavora su piani diversificati: anzitutto la lingua, italiana, che non tutti parlano, ma che qui, a teatro, parlano tutti — ed è già una conquista di libertà. O almeno un piano di discussione possibile. Poi lo stare assieme, accomunati, di tanti che non si conoscono, tanti che sono ognuno: con un programma diverso da quello che c’era nei cortili: all’abitudine di fare le cose del quotidiano è subentrata — non una disciplina, anche se può essere implicita — ma una sostanza, una materia in cui quell’ognuno può riconoscersi comune con gli altri. Non più la differenza dell’ognuno dall’altro ma la comunanza come già atto di somiglianza con i sé stanti, non solo vicinanza ma ritmo della coralità come fatto comune indivisibile. Ripercezione del movimento del corpo in un assieme che dà un senso nuovo alla compagine perché solo su quel palco di scena gli è dato di attuarlo — e quindi viverlo e sentirlo e organizzarlo secondo delle sequenze che gli offrono un senso.
La scelta di un’architettura “monumentale” che Salvo Gennuso ha impulso mette avanti proprio la potenza della coralità come opera di bassorilievo a tutto tondo e la centralità messa a fuoco dei monologhi di Prometeo, interpretato da un Massimo Famà D’Assisi avido di parola e di memoria. Potenza e mestizia, ritmo e scansione si intersecano con un presente non astratto, ma in campo, in lotta, con un gioco attoriale scabro, essenziale, che mette in risalto l’onestà onestissima del lavoro di tutti. E l’intervento, in questo presente imprigionato, di Elisa Marchese, non carcerata: e questo affrontarsi realmente sul piano della finzione scenica tra il possibile e l’impossibile e l’impossibile come sola realizzazione da perseguire è un risultato molto forte.
La rivoluzione è un naso a cavallo William Kentridge porta in scena Il naso di Dimitri Šostakovič al Festival di Aix-en-Provence di Anna Maria Monteverdi
Il progetto di William Kentridge per un allestimento basato sul racconto di Gogol' del 1836 Il naso (Nos), tratto dai Racconti di Pietroburgo, risale a diversi anni fa, quando l'artista visivo sudafricano si imbatté per caso, come racconta nel programma del Festival di Aix-en-Provence, nel racconto dello scrittore russo nella libreria di un aeroporto. Non una commissione da parte di un teatro, dunque, ma un'idea che Kentridge decise di condividere con il produttore Bernard Focroulle, allargando successivamente il progetto alla regia di un'opera musicale: quella composta da Šostakovič nel 1930, al suo giovane esordio operistico, ispirandosi proprio al racconto di Gogol'. Il debutto di The Nose, con la direzione musicale del giapponese Kazushi Ono e con le scene animate di Kentridge, risale a un anno fa al Metropolitan di New York e arriverà alla Scala tra tre anni. Il baritono russo Vladimir Samsonov interpreta la parte del protagonista.
Kentridge, come è noto, si trova perfettamente a suo agio negli allestimenti d'opera, vedi le mirabili scenografie per Il flauto magico di Mozart e per Il ritorno di Ulisse in patria (da Monteverdi): le sue stesse opere animate (i famosi "Drawings for Projection") e le videoinstallazioni prevedono nella maggior parte dei casi, più che dialoghi, montaggi sonori da musiche da camera o operistiche.
Sulla tecnica di Kentridge si è parlato diffusamente su www.ateatro.it: la sua "primitiva" tecnica cine-animata ("la cinematografia dell'età della pietra", secondo la definizione dello stesso artista), "reinventa" il medium cinematografico attraverso un'insolita riscrittura del linguaggio che unisce l'arte del disegno a obsolete tecniche di animazione passo uno, allontanandosi dagli automatismi del mezzo tecnico e dai mirabolanti effetti della postproduzione computerizzata più attuale, come ha sottolineato Rosalind Krauss. Guardando a Mélies più che a Walt Disney.
L'opera di Šostakovič prevede più di sessanta personaggi in dieci quadri scenici divisi in tre atti, un intermezzo e un epilogo. Sono quaranta i musicisti nella fossa orchestrale e quasi altrettanti i cantanti (ventisette solo per la scena settima). Come riportato dal programma, il musicista russo, sodale di Vsevolod Mejerchol'd all'epoca del teatro sperimentale di Mosca, "immagina una forma costituita da scene corte ma numerose, incatenate secondo una logica quasi cinematografica, portandoci nei diversi luoghi di San Pietroburgo". Cinematografica, nel senso che molte scene sono giocate quasi simultaneamente in diversi punti del palcoscenico, come in un frenetico montaggio (associativo o contrastivo) di situazioni. Cinematografica anche nella costante giustapposizione di elementi sonori anche contraddittori, dissonanti.
Le cocu magnifique con la regia di Mejerchol'd (1922).
Tutta la scena, in verticale e in orizzontale, in esterno e in interno, in profondità e in superficie, con palchetti sopraelevati, scale, piattaforme e praticabili di legno (che ricorda la scena costruttivista di Ljubov Popova per Le cocu magnifique di Crommelynck con la regia di Mejerchol'd, 1922), è impegnata a raccontare una vicenda che sembra scaturita dalla fantasia di qualche proto-surrealista.
Un bozzetto di Ljubov Popova per Earth in Turmoil.
Sono invenzioni originali di Šostakovič le frenetiche e folcloristiche atmosfere da spettacolo di massa, il balagan (nel XVIII e XIX secolo l'arte dei menestrelli, saltimbanchi e venditori ambulanti, parte della cultura popolare russa) che fanno di quest'opera lirica poco rappresentata, un capolavoro di quello che viene chiamato lo style russe.
La trama, che sembra anticipare tanto il teatro dell'assurdo di Ionesco quanto le metamorfosi kafkiane, vede un assessore del collegio, Kovaliov, coinvolto in una vicenda paradossale ma descritta in modo assolutamente realistico: una mattina l'uomo si trova senza il naso mentre il suo barbiere se lo ritrova dentro un panino. L'uomo si precipita a fare un'inserzione sul giornale, che gli viene però rifiutata, vista l'assurdità della richiesta. Kovaliov inizia a cercare la parte del suo corpo che si era allontanata: senza di essa si si sente depauperato del proprio potere e della propria dignità, caduto nel ridicolo, e perciò impossibilitato a frequentare "la società". Finché un giorno l'Assessore del Collegio Kovaliov non si imbatte nel proprio naso, che nel frattempo è diventato Consigliere di Stato con tanto di divisa sgargiante, cappello con piume e bottoni d'oro. Lo ritrova prima in atteggiamento devoto in chiesa, poi acclamato dal popolo in una parata ufficiale, trionfante a cavallo. Ma non può fare nulla, nemmeno avvicinarsi perché in fondo, rispetto al suo naso, lui è pur sempre di rango inferiore! Il problema, così come è nato, scompare all'improvviso: inaspettatamente una mattina il naso viene ritrovato da un funzionario di polizia mentre stava prendendo la diligenza per Riga. Così il naso ritorna al suo posto. Alla fine del racconto, Gogol' spiega che "simili fatti accadono nel mondo, raramente ma accadono".
Al racconto di Gogol', Šostakovič aggiunge personaggi originali, come il servo di Kovaliov che nell'opera lirica ha una sua autonomia espressiva musicale popolare (suona la balalaica); o la figura grottesca del Dottore, che prima di riattaccare il naso a Kovaliov tenta di comprarlo. Inserisce anche situazioni corali, come le concitate scene della caccia al naso e quella degli avvistamenti di nasi in piazza, in cui troviamo una folla di ambulanti, affittasedie, una venditrice di dolci molestata da militari, e una sfilata di personaggi appartenenti ai più diversi strati della società russa: studenti, poliziotti, cocchieri, colonnelli… Ogni personaggio è associato a uno strumento: il Naso (tenore) a un flauto, Kovaliov (baritono) al corno e allo xilofono, il barbiere al contrabbasso.
Molte sono state nel tempo, le interpretazioni del racconto gogol'iano: oltre a quella freudiana, centrata sulla virile paura dell'evirazione, la più convincente rimane quella della satira grottesca della società zarista che l'autore mette alla berlina raccontando l'ascesa e la caduta del potere di Kovaliov: è forse questo il motivo per cui un autore dalla forte consapevolezza politica come Kentridge non poteva che guardare con interesse ai risvolti attuali del racconto di Gogol', scritto alla metà dell'Ottocento. Anche la biografia di Šostakovič ha sicuramente giocato un ruolo chiave per Kentridge: la sua opera Lady Macbeth di Minsk fu messa sotto processo da Stalin, ritirata per quasi mezzo secolo e l'autore condannato. Passate le purghe staliniane, Il naso ricompare sulle scene solo nel 1974, a un anno dalla morte del musicista, quale parziale risarcimento morale.
Kentridge inizia a lavorare ai due maggiori temi visivi ricavati dal racconto di Gogol' (con l'aggiunta di altre interpolazioni letterarie) e al modo in cui renderli in scena: il naso e il cavallo. Il naso gigantesco ha una sua dignità, un suo portamento, una sua autorevolezzaLa sua massa informe ricorda quella disegnata da Alfred Jarry per il suo Ubu. La sua strana e ingombrante forma di cartapesta viene calzata in scena dal cantante-interprete (il tenore Alexandre Kravets) come fosse una maschera.
Anche il cavallo è stato oggetto di numerosi studi preparatori da parte di Kentridge, che ha lavorato in particolare sul tema iconografico del cavallo quale simbolo di autorità e potere (come si ritrova nelle varie statue equestri di condottieri dal Rinascimento in poi). Durante i vari anni di progettazione dell'opera, Kentridge ha dato vita a un mondo abitato da disegni e incisioni di nasi a cavallo, seduti al caffè, nasi con gambe, nasi che stanno in piedi su compassi, nasi come condottieri o come teste in corpi di donna, e poi ancora teste di cavallo come quelle disegnate da Leonardo o come ronzini donchisciotteschi, inseriti in contesti molteplici. Kentridge infatti li colloca in arazzi ricamati a mano, in forma di collage sopra carte geografiche, li realizza in metallo a guisa di sculture tridimensionali anamorfiche, come ombre, o disarticolati nei singoli pezzi del corpo e poi riversati in filmati videoanimati.
Questo universo di progetti, bozzetti, disegni, acquerelli, carboncini dei protagonisti e dei diversi personaggi del racconto, sono testimoniati nel catalogo della mostra Kentridge: 5 Themes: in questi anni, hanno alimentato diverse situazioni artistiche ed esposizioni che non hanno più nulla del lavoro preparatorio per la scena, ma sono già opere compiute a sé. Tipica è la modalità artistica di Kentridge, aperta a integrare diverse tecniche ed espansa verso nuove e ulteriori traiettorie espressive: un universo di creazione che anche per The Nose, andrà ad abitare indifferentemente le installazioni, le mostre, le performance, le conferenze-spettacolo. Come per la pièce da camera Telegrams from The Nose, l'installazione video 8 Fragments round The Nose o quella su quattro pareti contigue I am not me the Horse is not mine, in cui Kentridge non si sottrae al divertissement di animare i cavalli con la tecnica dello stop motion e di inserire sé stesso nelle animazioni, nonché di "trattare" spezzoni di film russi con l'aggiunta di scritte e colori. Molti dei materiali relativi alla produzione di The Nose e l'installazione I am not me the Horse is not mine erano in mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano quest'inverno, in occasione dell'allestimento dedicato a Kentridge a Palazzo Reale e alle repliche del Flauto magico con scenografie di Kentridge alla Scala.
Kentridge parla di uno spettacolo in forma di collage che aveva in mente di realizzare dopo aver letto il racconto di Gogol': in realtà di tratta di un vero cine-montaggio di sequenze agite dagli attori e di quadri visivi e animati senza soluzione di continuità; un esempio straordinario sono le scene realizzate contemporaneamente con scenografie materiali e ombre bidimensionali: il Naso entra nella diligenza ma il cavallo che lo traina è un'ombra. Oppure, nella casa di Kovaliov formata da un letto e un armadio, appare uno squarcio di luci e di panorami da una finestra che altro non sono che proiezioni in prospettiva sghemba. La scena è un gioco di scatole cinesi che contengono i diversi ambienti: gli interni e gli esterni del racconto, la Prospettiva Nevski e l'interno della casa del maggiore o la barberia; Gogol' infatti non privilegia un solo aspetto e un solo personaggio, ma mostra una varia umanità inserita in un contesto urbano rumoroso, con le idiosincrasia dei soggetti tipici, i burocrati, i militari, il popolo.
Kentridge non disdegna un'incursione nell'arte d'avanguardia primonovecentesca. A imporsi come cifra stilistica dello spettacolo sono più l'atmosfera storica e il contesto rivoluzionario legato a Šostakovič che non all'epoca di Gogol'. C'è la Russia del Costruttivismo, del Suprematismo, del Transmentalismo, del Cubofuturismo, con citazioni quasi letterali da El Lissitzky (il quadro Colpisci i bianchi con il cuneo, La tribuna di Lenin), dai manifesti pubblicitari realizzati con la tecnica del fotomontaggio alla Rodčenko, da Tatlin (Il monumento per la terza internazionale) e soprattutto dalla scena cineteatrale di Mejerchol'd (La terra capovolta, 1928). Guardare a Mejerch'old significa guardare a quel teatro che ha realizzato per la prima volta nella storia l'utopia della "sintesi delle arti" .
Due costumi di Varvara Stepanova.
Un discorso a parte meritano i costumi: quasi letterali le citazioni dalle tute da lavoro/uniformi d'attore (la prozodiejda) da Varvara Stepanova (come quelle per lo spettacolo La morte di Tarelkin, che nelle videoinstallazioni preparatorie di Kentridge sono fatte di carta di giornale); ancora, l'esplosione dei colori, le ingombranti sagome e geometrie delle scene e dei costumi di Kazimir Malevič per La vittoria sul sole (1913), uno dei primi spettacoli futuristi, fino ai segni e persino ai movimenti biomeccanici degli attori/cantanti, il tutto rimixato con un turbinio di grafiche, motivi in rosso e nero e continui richiami alla "nuova arte". C'è, insomma, tutto il mondo letterario, cinematografico e artistico russo raccontato da Angelo Maria Ripellino ne Il trucco e l'anima.
Kazimir Malevič per La vittoria sul sole (1913).
La citazione entra quindi, nel merito dell'arte russa dell'Ottobre, un'arte di propaganda e rivoluzionaria, quale è in fondo anche quella di Kentridge, che ha raccontato meglio di qualunque documentario - come già fece Picasso con Guernica - la tragedia contemporanea dell'apartheid in Sudafrica, consegnandola alla Storia.
Bellissima la testimonianza in video della fase di creazione dell'enorme fondale che conterrà al suo interno tutte le scene (per dare unità ai diversi episodi); insieme con la set designer Sabine Theunissen, Kentridge ha realizzato con minuziosa dovizia di dettagli un enorme collage fatto di ritagli di giornali, mappe geografiche, scritte in cirillico, figure di politici mutilati curiosamente del naso e macchine dell'epoca. La maquette è stata successivamente realizzata in stampa a dimensioni appropriate in uno studio professionale, il quale però ha mantenuto il più possibile una "modalità artigianale" .
Districarsi nell'universo dell'opera realizzata da Kentridge non è facile, ma è possibile rintracciare una serie ininterrotta di segni inconfondibili del suo lavoro: le parate, le processioni in nero, le ombre animate, contestualizzate nella Russia staliniana, abitano la scena di The Nose, riempita dalla musica a tratti privata del canto e della parola. Il tema visivo della processione e del corteo è un vero topos nel repertorio di Kentridge (le famose Shadow Processions), sviluppato nelle diverse tecniche e spesso associato all'ombra o a figure nere, simboli di azione, resistenza, riscatto. Anche in The Nose la scena della "processione nera" in chiesa è una delle più toccanti e potenti, ma questa volta si tratta di corpi di attori in carne e ossa che vengono mischiati a proiezioni animate di ombre e di silhouette di corpi in preghiera: è un komos contemporaneo che racconta un mondo sotterraneo e invisibile venuto alla luce, in grado di mutare la realtà in senso rivoluzionario.
La testimonianza delle parole, la libertà del pensiero: Anna Politkovskaja Intervista a Ottavia Piccolo e all'arpista Floraleda Sacchi sullo spettacolo Donna non rieducabile di Stefano Masini di Antonino Pirillo
Dal 7 al 9 ottobre al Teatro India di Roma sarà in scena Donna non rieducabile, il testo di Stefano Massini tratto dagli scritti della giornalista russa Anna Politkovskaja. Una scelta che nasce dall’esigenza morale di prendere una posizione a favore della violenta soppressione della libertà di stampa nella Russia di Putin, una regia che sceglie l'obiettività, presentando non tanto un monologo teatrale quanto piuttosto una testimonianza. Accanto a Ottavia Piccolo l'arpa molto poco rassicurante di Floraleda Sacchi, che presenta la musica come secondo personaggio dello spettacolo, la seconda voce, che dà origine a un vero e proprio dialogo con la "narrattrice".
Foto di Adriana Argalia.
Perché uno spettacolo su Anna Politkovskaja? Da quale urgenza è nato?
Ottavia Piccolo Ho letto il testo di Stefano Massini e ho detto immediatamente che lo volevo fare. Stefano l’ha scritto pochi mesi dopo la morte di Anna Politkovskaja che morì a ottobre del 2006. Me l’ha mandato a maggio del 2007, tra l’altro lo stava già mettendo in scena con altri attori ma in una versione diversa, con più personaggi. In quello stesso periodo le donne che io chiamo “le ragazze” di Usciamo dal silenzio (un gruppo che era nato in seguito alla legge 40, il referendum sulla procreazione assistita) mi hanno chiesto se avessi un testo da leggere a tematica ovviamente femminile e che avesse a che fare con il silenzio. Ho chiamato subito Stefano che nonostante la sua messa in scena mi ha concesso di leggere il suo Donna non rieducabile. Ho coinvolto subito, per curare la regia, Silvano Piccardi che ormai è mio complice quando bisogna fare delle cose difficili. A sua volta Silvano ha chiamato Floraleda Sacchi, che è diventata la nostra musicista arpista. E così abbiamo fatto la lettura. Il sottotitolo di questa prima versione era Memorandum teatrale per Anna Politkovskaja e in effetti proprio questo è rimasto: in quel frangente storico in cui si parlava molto di quello che stava succedendo in Cecenia, della morte della Politkovskaja e della morte di tanti altri giornalisti prima e dopo di lei, mi sembrava importante prendere una posizione a loro favore. Lo spettacolo - faccio fatica a chiamarlo spettacolo - in realtà è semplicemente un oratorio, infatti nasce minimale, diretto: in scena io con Floraleda che suona l’arpa, un’arpa molto poco rassicurante. Va detto che rispetto al testo della versione Massini regista è molto diverso perché Silvano gli ha chiesto una riscrittura più vicina al suo progetto registico.
Cosa significa per te misurarti con un personaggio che è diventato simbolo della resistenza della libertà di pensiero?
Ottavia Piccolo Io ho cercato molto modestamente di mettermi dietro, di non prevaricare il testo e le parole. È vero che le parole sono di Stefano Massini che le ha ricavate da articoli e interviste a Anna ma sono comunque le sue parole, sono il suo sguardo sulla Cecenia, sulla scuola di Beslan, sul teatro Dubrovka. Quindi ho cercato di non sovrapporre né Ottavia Piccolo né tanto meno il personaggio Politkovskaja. È vero che spesso parlo in prima persona come fossi Anna ma non ho mai cercato l’immedesimazione.
Ma questo per te è stato un sacrificio come attrice o un atto di generosità?
Ottavia Piccolo Non lo so. Mi è sembrato giusto con la forma che ha scelto Massini, cioè non lo sento come un monologo ma come un testimoniare con le parole. Come una testimonianza.
Come un reportage, come se tu fossi esterna a quel racconto.
Ottavia Piccolo Esatto.
Infatti hai dichiarato in un’intervista recente: “Racconto il mestiere della giornalista in una situazione estrema e cerco di essere il più possibile distaccata; sono pochissimi i momenti in cui mi lascio andare e parlo di Anna come persona.” Ciò mi fa pensare, in riferimento a questo spettacolo ovviamente, a te come un’attrice reporter piuttosto che un’interprete tradizionale, una narratrice insomma. Credi che sia l’unica possibilità di restituirci la Politkovskaja?
Ottavia Piccolo “Narratrice” mi piace molto, anche se io non sono capace di fare un teatro di narrazione che è un’altra cosa, se penso a Celestini, a Paolini, alla Curino. Io ho comunque bisogno di un filtro, in questo caso sono io ma non sono Ottavia Piccolo in quanto cittadina impegnata, persona che ha le sue idee. Mi metto non come una medium come quando affronto un personaggio: l’autore scrive un personaggio e il personaggio passa dentro di te e tu ti annulli; in questo caso non faccio questo percorso ma non sono Ottavia Piccolo che racconta, tant’è vero che io leggo in certi punti. E non sarebbe giusto farlo con parole mie come potrebbe succedere a Celestini. Io qui invece dico e leggo, a seconda dei casi, quelle parole lì. Mi sono chiesta insieme al regista se l’avessi dovuta fare più “vera”, più commovente? Ma non sarebbe stato in linea con il nostro progetto. Questo distacco ci è sembrato giusto per l’argomento, per cosa rappresenta Politkovskaja e il suo mestiere. E in effetti il testo di Massini non pretendeva di entrare nel privato, nel carattere, nella persona della protagonista ma ne raccontava di più il suo mestiere. Credo di aver letto tutti gli scritti della Politkovskaja pubblicati in Italia e mi sono fatta l’idea che la nostra scelta sia calzante con il suo modo di scrivere ironico, poco retorico, asciutto…
Io l’ho trovato quasi chirurgico.
Ottavia Piccolo Infatti questo suo sguardo così chirurgico - hai detto bene – e freddo.
Che scandaglia ma sempre con un passo indietro.
Ottavia Piccolo In un’intervista che Massini ha utilizzato per la scrittura del testo, la Politkovskaja afferma quello che poi era il suo credo giornalistico, cioè che lei racconta semplicemente i fatti senza esprimere commenti e opinioni e cerca di presentare i fatti come stanno, aiutando le persone a farsi una loro idea. Questo ci ha dato la misura di quello che sarebbe dovuta essere la nostra linea registica e interpretativa.
Ho trovato una coerenza forte tra Anna che è giornalista e deve raccontare i fatti e te che a tua volta racconti da attrice mettendoti a servizio di Anna.
Ottavia Piccolo È esattamente questo che abbiamo cercato.
Quello di Donna non rieducabile è teatro di parola sdoganato da immagini che risultano più potenti delle parole stesse e il paradosso è che sono suggerite da quelle stesse parole non essendoci immagini vive. Sei d’accordo?
Ottavia Piccolo Infatti. Anche questo ci ha molto colpiti sin dall’inizio. In seguito, dato che dovevamo portare in giro questo lavoro, con Piccardi si era pensato di inserire delle immagini proiettate. Poi ci siamo resi conto che non sarebbe stato necessario. Ormai quelle immagini che racconto le abbiamo tutte negli occhi, per esempio quando racconto dei bambini di Beslan io le vedo e so che anche il pubblico le vede perché fanno parte del nostro patrimonio culturale. E quindi sarebbe stato una sovrapposizione, un sovraccaricare la proiezione di immagini. Invece se il teatro funziona può farne a meno. Non può farne a meno un video, infatti giustamente Felice Cappa, il regista della nostra versione televisiva (Il sangue e la neve) realizzato RaiTrade e La Contemporanea per Rai Due Palco e Retropalco, ha inserito delle immagini di repertorio della Cecenia e di Anna stessa. E lì funzionano perché la televisione ha ovviamente un linguaggio differente.
Una storia, quella di Anna, riproposta sia per il teatro che per la stampa che per la tv: si tratta di una necessità di monumentalizzazione o semplicemente di far arrivare Anna a più persone possibili?
Ottavia Piccolo La Politkovskaja non aveva bisogno e non voleva essere un monumento, non voleva essere una diva e avrebbe potuto. Ma anche dopo la sua morte credo non ci sia stato sfruttamento della sua immagine né da parte nostra né dalle associazioni (ndr Annaviva di Milano, Anna Politkovskaja di Merano) perché il lavoro che lei faceva era così importante, necessario che è fondamentale mantenerne la testimonianza. Quando parliamo di Anna parliamo del mestiere dell’informazione. E quindi in un mondo in cui siamo sommersi dalle informazioni e dalle immagini resta a noi saperci districare e non essere spettatori passivi rispetto a quello che ci dicono e ci fanno vedere. Siamo ingannati, anche involontariamente, e quindi dobbiamo da soli capire cosa succede intorno a noi. Il metodo Politkovskaja è quello che va usato.
Nella versione televisiva si ha la sensazione di un’Anna murata viva nel grigio dell’ex cementificio di Alzano Lombardo (BG) nel quale risulta schiacciata, quasi pietrificata nel suo abito, grigio come l’intera struttura. In teatro invece risulta inghiottita da un vuoto che fa eco. Che ne pensi?
Ottavia Piccolo Questo è bellissimo. È proprio vero che il caso lavora in tutti i mestieri creativi. Quando abbiamo cominciato le riprese de Il sangue e la neve, che abbiamo girato in cinque giorni in una situazione in cui il regista aveva previsto un piano di produzione di un certo tipo, è piovuto dal primo giorno fino all’ultimo e abbiamo rivoluzionato tutto il piano. Mi ero portata due cambi, tra cui un impermeabile marrone con cappuccio e un soprabito grigio. Iniziamo le riprese, piove, eravamo al coperto ma la pioggia arrivava dentro e le gocce sull’impermeabile marrone non andavano via. Per cui dato che non giravamo le scene in ordine cronologico mi ritrovavo con delle macchie di pioggia sempre diverse da scena a scena. Abbiamo così ripescato il soprabito grigio sul quale le macchie di pioggia non si sarebbero notate eccessivamente. E grazie alla patina che l’operatore ha voluto dare a tutte le immagini, il colore del soprabito si era spalmato nel grigio del cementificio. Il caso ha scelto per noi. Mi viene in mente di tantissimi anni fa quando interpretavo Cordelia nel Re Lear di Strehler. Alle prove. Il finale era un’idea bellissima: c’era una tenda da circo e il regista voleva che alla fine si aprisse per entrare Lear con Cordelia morta in braccio. Un giorno alle prove, ci aveva fatto ripetere all’infinito: Tino Carraio (re Lear) mi prendeva in braccio e mi posava mi riprendeva e mi riposava, a un certo punto stesi la mano attraverso la tenda chiusa come per dire che eravamo stanchi e Strehler ebbe l’idea definitiva del finale. Anziché far aprire la tenda e trovare Carraro con me in braccio, mi chiese di provare a mettere la testa fuori dal buco e così sporsi i miei capelli lunghissimi. Ti assicuro che quest’immagine, che ricordava la nascita, era di una bellezza incredibile. Insomma lo ripeto ancora il caso nell’arte aiuta, e in alcuni momenti appare determinante.
Un altro aspetto interessante dello spettacolo è la musica-rumore: dalla raffica di mitra al gocciolare del sangue all’ansimare di una persona.
Ottavia Piccolo Floraleda e Silvano hanno lavorato in stretto contatto. Quando Silvano mi aveva detto di voler inserire un’arpa, ne fui spaventata in quanto l’associavo a una musica dolce e consolante invece mi sono meravigliata, e quindi ricreduta, quando ho sentito quegli accordi strazianti, a parte un frammento di Mozart e dell’inno russo. Questa musica rumore non è mai un accompagnamento ma un personaggio.
Floraleda Sacchi È vero, la musica è il secondo personaggio dello spettacolo, la sua seconda voce, che dà origine a un vero e proprio dialogo con Ottavia. In alcuni casi è la realizzazione quindi l’anticipazione o l’amplificazione dell’immagine del testo. Quindi più che di rumore si è cercato di creare una sonorità o un timbro che ricordasse un ambiente: la ventola dell’ospedale che sferraglia, la pioggia che cade sulla lamiera del carro armato. In altri casi è un accompagnare una scena, in altri casi ancora è una risposta alla scena. Gli interventi della musica hanno varie accezioni riguardo al testo ma in ogni caso resta un contraltare abbastanza forte.
E se Ottavia racconta un mestiere più che una persona attraverso la ricerca dell’oggettività, dell’obiettività a partire dall’enunciazione di quello che dice, in effetti la sua non è mai semplicemente una lettura e il confine tra “l’essere fuori e l’essere dentro” è sempre labile.
Floraleda Sacchi Si poteva raccontare in maniera melodrammatica strappalacrime invece la scelta è stata per una versione minimale. Non c’è nessuna ricerca forsennata di commozione che ci potrebbe essere essendo il testo assolutamente drammatico e carico di significati. C’è un racconto puro, freddo di quello che è stato che Ottavia ci restituisce con la sua recitazione quasi distante, a volte più partecipata ma mai completamente. E questo per rendere il tema universale perché altrimenti resterebbe la storia di una persona e invece in questo caso vuole essere la storia della libertà di espressione, di stampa, di poter fare il proprio lavoro.
E come Ottavia anche tu ti proponi di restarne fuori ma in realtà entrambe siete più dentro di quanto pensiate: tu con il riproporre certe situazioni sonore, infatti il suono a differenza delle parole non ha una stratificazione ma “è” e basta.
Floraleda Sacchi Credo che Massini abbia descritto molto bene quest’aspetto quando è venuto a sentirci per la prima volta. Infatti ci ha fatto notare come Ottavia era il presente, l’azione e la musica invece la memoria dell’azione stessa, e unendo questi due piani si otteneva un’astrazione di distanza nel senso che si dava l’idea del già trascorso: era chiaro che Anna era morta e tutti lo sapevamo, era chiaro che questa vicenda è perdente perché non c’è libertà di stampa e non c’è libertà di fare il proprio lavoro. Pertanto tutto è già perso in partenza e questo si sa già. E anche se lei sta raccontando un evento al presente, si sa già che è finito, passato e anche la mia musica dà il senso del finito. Ottavia racconta il presente e quello che io faccio è comunque qualcosa che è finita. E penso che questo dia una parte di freddezza, di distanza e chi lo guarda si accorge di questa freddezza nel senso che è preso ma allo stesso tempo resta attonito ma quando lo spettacolo finisce qualcosa comincia a lavorarti dentro e ti scava. Credo che sia questo l’effetto che dà questa freddezza che non è istantanea e ti tocca a livello emotivo.
C’è una sospensione?
Floraleda Sacchi Sì. Non ti arriva subito ma dopo e ti rendi conto che è angosciante e ti tocca profondamente.
Ho notato anche come la musica fosse l’espansione e in alcuni momenti lo squarcio, la lacerazione delle parole.
Floraleda Sacchi Sì, sicuramente. In certi momenti le smorza quasi, per esempio “la passeggiata tra le tombe” è un momento molto forte dello spettacolo in cui Ottavia depone tutti i nomi dei bambini morti sulle tombe come posasse dei fiori. In questo percorso non conta tanto il nome del bambino ma la tragedia di avere una strage di questo tipo. Non è più importante l’elenco e quindi le parole ma il percepire in quest’elencazione l’entità di una tragedia ancora più grande. La musica smorza il testo che non è più la parola singola ma l’idea di quello che sta succedendo.
C’è poi un’unica scena, anzi “istantanea”, in cui tu e Ottavia agite in perfetta contemporaneità, nel presente.
Floraleda Sacchi Credo che tu ti riferisca al Sangue e la neve in cui si descrive l’attentato. È il climax, il punto di arrivo dello spettacolo. È una corsa all’unisono.
Perché l’arpa?
Floraleda Sacchi Perché a contrasto poteva essere così inaspettatamente metallica e violenta da un lato e dall’altro assolutamente eterea nel suono. Fa parte dell’alone che dà allo spettacolo. È tra l’altro è un’immagine fisica forte.
Mi incuriosisce il tuo metodo compositivo…
Floraleda Sacchi Silvano mi ha fatto delle richieste molto precise e io ho proposto delle opzioni. Andavo a cercare l’effetto che mi richiedeva. Altra chiave usata spesso è stata quella della lacerazione, disgregazione, disfacimento, dal concetto alla casa all’attentato. E quindi abbiamo distrutto della musica, non solo l’arpa sferragliando un bel suono ma anche l’inno russo che diventa un insieme di suoni slabbrati o un frammento di Mozart che ho completamente stonato e che diventa la canzone alla radio.
Tornando alla messinscena, tutto appare estremamente semplice e diretto.
Ottavia Piccolo L’idea generale è che sembri qualcosa di semplice, ovvero che appaia che io e Floraleda ci siamo incontrate in quel momento e ci mettiamo a fare lo spettacolo. Questo aumenta la sensazione del pubblico di partecipare a una cosa viva che si sta facendo nel momento in cui la sentono.
Quasi come se gli spettatori fossero testimoni quanto voi che siete sul palco.
Ottavia Piccolo Esatto. Testimoni insieme a noi. Questo è l’aspetto che mi ha colpito di più di questo lavoro. Un reinventare ciò che sto dicendo come se fosse una cosa che esiste mentre la sto facendo. Ed è strano come sensazione se penso al fatto che abbiamo già superato la cinquantesima replica. C’è ancora una vivacità data dal fatto che continuo a metterci ciò che mi sta succede dentro di volta in volta. Leggo e penso a quante persone nel mondo siano considerate pericolose per lo Stato e mentre leggo mi rendo conto che lo sto facendo come lo si fa in un telegiornale.
Ragionevolezza del testo “insopportabile per i mandanti”, insopportabile anche per gli spettatori che restano ammutoliti per tutta la durata della messa in scena?
Ottavia Piccolo Credo di sì. Per lo stesso motivo di cui dicevo prima e cioè che siamo sommersi dalle notizie e spesso leggiamo con superficialità quello che ci succede intorno. Anche chi sa solo che Anna era un giornalista che è stata uccisa. Anche chi sa solo questo, sentendo le nostre parole si potrà rendere conto di come possono essere massacrate le persone sia dal punto di vista psicologico con la paura, con il terrore che con i colpi di pistola. E allora la gente è costretta a rivedere i suoi pensieri sull’argomento.
O comunque anche certe resistenze che se davanti alla tv cambiando programma si risolvono a teatro invece le puoi evitare solo se abbandoni la sala.
Ottavia Piccolo La gente mi viene a dire che non immaginava così tanto orrore nella Cecenia, ma secondo me la Cecenia è semplicemente l’esempio di tantissime altre realtà simili nel mondo dove regnano la violenza gratuita, l’imbecillità della guerra, ecc… Il testo del nostro spettacolo non procura lacrime facili semmai lascia con il fiato sospeso. Nessuna commozione catartica quindi ma solo lacrime di rabbia. C’è anche un forte disagio. C’è anche chi esce e ne rimane assolutamente indifferente. Noi non facciamo didattica e non vogliano essere seguiti a tutti i costi. Il teatro come l’arte in genere deve augurarsi di porre domande. Ripostiglio è una stanzetta buia in cui nessuno dovrebbe guardare, nel testo è la Cecenia.
E se dovessi pensare alla situazione italiana odierna?
Ottavia Piccolo Beh, ce ne sono parecchi ripostigli, uno per tutti la scuola che è un buco nero in cui non si deve guardare perché se si guardasse si vedrebbe il disastro del nostro paese. La scuola pubblica, malgrado migliaia di persone che ci lavorano al di dentro e sono motivate, è stata massacrata negli anni. Insomma ci sono luoghi che non vanno guardati. Così era per la Cecenia. È un’immagine molto bella quella del ripostiglio, scritta da Massini e ripresa da Anna: quando si mostra una casa si fanno vedere tutte le stanze tranne che il ripostiglio dove vengono nascoste le schifezze. Questo era la Cecenia.
La palestra filologica di Luca Ronconi Il corso di perfezionamento del Centro Teatrale Santacristina di Oliviero Ponte di Pino
La strada che porta verso Santa Cristina parte da Casa del Diavolo, un piccolo borgo nella Val Tiberina, e s'inerpica sulle colline dolci e selvatiche dell'Umbria. Una strada bianca segue una tranquilla valletta, finché non s'arriva al Centro Teatrale Santacristina. Sono quattro fabbricati, uno dietro l'altro: il primo blocco è la foresteria dove alloggiano i ragazzi, poi l'ampia sala da pranzo-soggiorno con la cucina e infine i due capannoni trasformati in sala prove. Lo stile è minimale, essenziale: un Giardino dell'Eden teatrale di pratica eleganza immerso nel verde e lontano qualche chilometro da ogni distrazione.
Foto di Luigi La Selva.
E' lì che ogni estate, dal 2002, il regista e Roberta Carlotto, animatori del Centro, ospitano un'intensa sessione di studio con un gruppo di ragazzi, allievi dell'Accademia Nazinale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico", partner del progetto dal 2010. Quest'anno Ronconi e gli allievi hanno lavorato su alcune scene tratte da Pilade di Pier Paolo Pasolini, da Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini e soprattutto dai Sei personaggi pirandelliani, che andrà in scena l'anno prossimo a Spoleto.
La vocazione pedagogica fa parte da sempre dell'arsenale ronconiano. La scintilla si dev'essere accesa quando arrivò lui stesso come giovane allievo di Orazio Costa all'Accademia. Si è accentuata in questi anni, con impegni all'Accademia, alla Scuola del Piccolo Teatro (che sta selezionando i candidati in queste settimane) e quella piccola utopia rappresentata di Santa Cristina. Un po' convento e un po' caserma, per l'impegno ascetico e totalizzante, oltre che per gli orari di lavoro e per una disciplina che non c'è nemmeno bisogno di imporre, Santacristina è un esempio di teatro 24/7, come si direbbe ora: ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla settimana, per un mese di intenso lavoro tra agosto e settembre.
Foto di Luigi La Selva.
Ronconi, regista di grandi spettacoli oltre che di veri e propri kolossal, sembra trovare qui la sua dimensione più autentica, e una contagiosa felicità: "La cosa che mi diverte di più è lavorare con gli attori, soprattutto adesso". Basta vederlo in prova, con gli attori o con i giovani allievi, concentrato e curioso, preciso e incalzante.
Il punto di partenza è il testo. Per certi aspetti, Ronconi insegna prima di tutto e soprattutto a leggere un testo.
Il primo passo è la scomposizione del testo nel sue unità significanti: parole, sintagmi, frasi… Ogni battuta viene sminuzzata e osservata con una sorta di lente d'ingrandimento, alla ricerca di tutti i possibili nuclei di senso, che dovranno riemergere attraverso la voce e il corpo dell'attore. E' un lavoro minuzioso, "di fino": una palestra filologica dove il significato diventa corpo. Se emerge uno scarto tra le intenzioni attribuite al testo e la restituzione da parte dell'attore, su questo scarto il regista insiste con pazienza. Da questo esercizio sul senso del testo, si precisa il ritmo della battuta, costruito proprio a partire dalla densità del significato, dall'agglutinarsi di nuclei di senso, dalle sorprese e dagli scarti del testo. Per paradosso, il significato emerge quasi più dalle pause - dai silenzi - che dal flusso delle parole.
Foto di Luigi La Selva.
La verifica del palcoscenico ha per oggetto anche il testo: solo grazie alla fatica dell'attore è infatti possibile misurarne la profondità e la tenuta. In una vicenda come quella italiana, dove non si è mai sedimentata una tradizione teatrale nazionale (e dove la lingua dei commediografi risulta spesso artificiale, artefatta), partire da un testo, e per la precisione da testi con una forte matrice e ambizione letteraria, rappresenta una presa di posizione forte. Implica la necessità di ripartire da zero, di reinventarsi una tradizione che non si è mai coagulata, per costruire un repertorio. La base sono proprio quegli autori che con la loro parola tengono la scena: non a caso nel canone ronconiano rientrano diversi testi che non avevano una destinazione originariamente teatrale, dall'Orlando furioso al Pasticciaccio. Anche gli autori scelti per questa sessione 2011 rientrano nel canone ronconiano: nelle loro differenze permettono ai giovani allievi di appropriarsi di una variegata tavolozza linguistica: lessicale, sintattica, metrica…
Foto di Luigi La Selva.
Quella tra l'attore e il testo non è l'unica tensione che dà energia alla ricerca. C'è anche quella tra l'attore e il personaggio, che emerge nei suoi tratti caratteristici proprio dal confronto serrato con il testo. Si delineano così, e vengono puntigliosamente valutate e fissate, le intenzioni dei singoli personaggi, e le loro motivazioni profonde. E' in questa fase che iniziano a definirsi la gestualità e l'occupazione gli spazi da parte dell'attore.
C'è ancora, vivamente, la dialettica tra i vari personaggi, anch'essa esplorata nella carne viva del lavoro sul palcoscenico, generando una ulteriore dinamica. Dal rapporto tra i personaggi discende l'occupazione degli spazi: una occupazione anch'essa dinamica, fatta di posizioni e di spostamenti, che spesso si libera da preoccupazioni naturalistiche, per evidenziare rapporti e flussi di energia. Ronconi predilige precise geometrie: il palcoscenico è percorso da una griglia immaginaria, ma anche di diagonali e circonferenze.
Infine, è costante l'attenzione al rapporto con il pubblico: nelle intenzioni dell'autore e dell'attore, ma anche nelle reazioni dello spettatore, suggerendo ulteriori stratificazioni nel lavoro sullo spazio, valutando anche la composizione del quadro scenico.
Per certi aspetti, quella condotta da Ronconi è una "scuola elementare del teatro" (per riprendere un'invenzione di Tadeusz Kantor). Il teatro diventa uno strumento di conoscenza e di indagine.Nelle prove dei giovani allievi di Santacristina il lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo emerge con immediatezza e grande evidenza, e in tutta la sua problematica ricchezza. L'attore - gli attori - esplorano le diverse possibili sfocature di significato di una parola, di una frase. E, così facendo, ne verificano la credibilità e l'efficacia, in sé e nel rapporto con gli altri elementi dello spettacolo. E' un problema di coerenza interna e di credibilità, che il lavoro nello spazio scenico sottopone a serrata verifica: così molte soluzioni si rivelano impraticabili, o meno efficaci, e vengono dunque scartate; per altre, l'interprete non si rivela all'altezza, e dunque diventa necessario prendere una strada alternativa.
Foto di Luigi La Selva.
Quello seguito da Ronconi è un metodo "bottom-up", che non parte cioè da un'Idea precostituita del testo, da un'unica chiave interpretativa a cui ricondurre l'intera lettura - e la messinscena - del testo, garantita dall'autorevolezza del regista, ovvero il metodo "top-down" che aveva caratterizzato la prima stagione della regia. Al contrario, l'approccio di Ronconi è programmaticamente anti-ideologico e privilegia piuttosto la funzione conoscitiva del lavoro di palcoscenico. E' basato su un atteggiamento analitico e razionale, che scompone il testo in unità di significato per poi interpretarle con gli strumenti della logica, della storia, della filosofia, della psicologia, della politica….
La consapevolezza delle stratificazioni - e dunque la possibile compresenza di una molteplicità di significati e di chiavi di lettura - tende inevitabilmente a privilegiare la dimensione ironica, con un costante effetto di straniamento, che può essere esplicitato in diverse direzioni: per distanziarsi dal testo e/o dal suo autore, oppure dal personaggio, così come nelle relazioni tra le diverse figure.
Un atteggiamento di questo genere è certamente più in sintonia con una mentalità post-moderna, che usa gli attrezzi dell'età del sospetto, quella affinata dalle scoperte di Marx, Freud e dello strutturalismo linguistico e antropologico. Comporta tuttavia due nodi problematici. Il primo riguarda l'inevitabile freddezza che cala sul testo: la dimensione e la tensione emotiva dei personaggi rischia di passare in secondo piano, raffreddata da questa poderosa macchina interpretativa.
E qui emerge un altro aspetto problematico del "metodo Ronconi", un problema che gli ermeneuti conoscono bene: quello dei limiti dell'interpretazione. Di fatto, quella condotta da Ronconi e dai suoi attori è una operazione critica nei confronti del testo. Tra le molte letture possibili di una battuta, o di un testo, quali sono quelle legittime? Sono tutte legittime? La pratica scenica offre però uno strumento di verifica: molte chiavi interpretative non reggono alla "prova palcoscenico", per i motivi più disparati. La gamma delle interpretazioni possibili non è infinita, viene da dedurre.
Un altro nodo riguarda l'impianto complessivo dello spettacolo: come è possibile ricondurre una serie di rilevamenti puntuali all'interno del testo - o nella costruzione delle singole scene - a un disegno complessivo? Come ritrovare una unità a quelle che potrebbero rivelarsi schegge incoerenti? Ovviamente il postulato implicito è che l'unitarietà sia stata garantita "a priori" dal progetto dell'autore, che deve essere portato alla luce proprio da questa operazione di scavo nel testo - un'operazione "archeologica", avrebbe potuto forse aggiungere Foucault. E tuttavia proprio la "cultura del sospetto" ci insegnano che spesso le opere trascendono le intenzioni dell'autore. Lapsus, incoerenze e scorciatoie ideologiche sono sempre in agguato, e Ronconi li bracca con evidente soddisfazione.
Per Ronconi, si tratta anche di liberare il testo dalle incrostazioni che si sono sedimentate nel corso della storia, attraverso letture critiche e soprattutto attraverso la successione degli allestimenti. Quando affronta un classico, Ronconi è attento e consapevole delle varie interpretazioni dei testi che allestisce, e spesso si diverte a contraddirle (ma può capitare anche con testi contemporanei: basti pensare al suo approccio alla Modestia di Rafael Spregelburd).
Nel caso dei Sei personaggi, per esempio, si sfoga: "Uffa, che barba questa storia del teatro nel teatro! E poi il testo è pieno di questa aneddotica insopportabile, effetti che Pirandello doveva utilizzare per compiacere il pubblico del suo tempo. Sono convinto che il testo, se lo si libera da tutte queste incrostazioni, diventi molto più interessante. ". Ecco dunque che il punto di partenza diventa un altro: "Nei Sei personaggi è come se Pirandello esplorasse le diverse possibilità della rappresentazione." E' uno slittamento sottile, ma radicale: si passa dalla dialettica quadro-cornice a una gradazione di diversi "livelli di realtà", che nel lavoro con i giovani attori trova subito una concretezza: di fronte alla concretezza degli attori e del regista, i personaggi diventano quasi spettri, larve, a tratti addirittura caricature. Da queste scene, affidate ad attori ventenni che interpretano anche parti di vecchi e di bambini (un'ennesima maschera ronconiana) si coglie la promessa di una lettura per molti aspetti sorprendente del testo di Pirandello, palpitante e perturbante.
Si capisce anche quanto possa essere impegnativo questo Giardino dell'Eden teatrale. I giovani allievi imparano, nella loro carne, che la verità in scena (e non solo) non è un frutto che si coglie con facilità. Non basta allungare la mano verso il ramo, non serve "essere spontanei e liberi". Perché la costruzione della verità è un processo lungo e faticoso. Richiede impegno, cultura e intelligenza. Regala anche, lungo il percorso di conoscenza del testo, di sé stessi e degli altri, grandi soddisfazioni, e un piacere profondo. E può restituire, alla fine, schegge di bellezza e di verità.
I cento giorni del Teatro Valle Occupato Che cosa sta succedendo? E che cosa succederà? di Andrea Porcheddu
Che cosa sta succedendo al Teatro Valle? Quanto può durare l'occupazione? Quali sono i suoi obiettivi e le sue strategie? E quali risultati può raggiungere, nel pantano politico-burocratico della capitale?
E' certamente molto bello vedere tanti giovani attori e tecnici, esasperati da una situazione priva di prospettive, che provano a prendere in mano il loro destino.
E' certamente interessante seguire una discussione che cerca di dare basi solide a un progetto culturale come quello del "Nuovo Teatro Valle", e nel contempo riflettere su temi di portata più ampia. (Un solo esempio: per noi di www.ateatro.org, che sul concetto della cultura come valore oltre che come servizio pubblico, abbiamo molto insistito, l'idea di comprendere anche l'arte e la cultura tra i "beni comuni" porta un contributo di notevole interesse alla discussione di questi anni, offre una base anche "filosofica" e "giuridica" al sostengo pubblico alla cultura, di fatto teorizzato solo dall'art. 9 della Costituzione.)
E' altrettanto certo che gli occupanti del Valle sono abilissimi nel catturare l'attenzione dei media e nel mantenere viva l'attenzione, cercando di allargare l'impatto del movimento. E siccome parlare dell'occupazione del Valle significa accendere i riflettori sulla situazione dello spettacolo dal vivo (e in generale della cultura) in Italia, ben vengano le prime pagine e i servizi ai tg.
Però…
Però qualcuno inizia a riflettere su questa esperienza, e comincia a covare qualche dubbio.
Forse, aldilà del giusto entusiasmo di chi partecipa in prima persona a un'esperienza appassionante, è il caso di iniziare a riflettere sull'occupazione del Valle.
Per rilanciare il dibattito, www.ateatro.org ospita - dopo l'intervento di Oliviero Ponte di Pino che aveva visitato il Valle a giugno (La rivoluzione dello spettacolo, lo spettacolo della rivoluzione) - la provocazione di un critico fuori dal coro come Andrea Porcheddu. Aprendo la discussione anche ad altri contributi, e magari rilanciando la riflessione nella prossima edizione delle Buone Pratiche. (n.d.r.)
Eravamo, il primo giorno d'occupazione, al Teatro Valle di Roma. Eravamo al Marinoni, al Lido di Venezia, alla prima conferenza stampa. (Uso il plurale non per vanità, ma perché con me era mio figlio Leo, quattro anni, sicuramente il più giovane tra gli occupanti.)
Ho firmato il primo appello per il Valle e ho cercato di dar conto di quanto si diceva al Lido. Questo per chiarire, subito, che condivido molte delle denunce espresse dagli occupanti (dal futuro del Valle alla situazione della cultura in Italia, dalla lottizzazione del Lido allo scarso sostegno per il cinema italiano).
Poi, complici gli ottimi uffici stampa, con i tanti articoli che hanno affrontato la questione, e i social network, dove si teneva viva la discussione, ho cercato di seguire quanto accadeva nei due spazi.
Jovanotti intervistato al Valle Occupato.
Camilleri e Jovanotti, Elio Germano, Renzo Arbore e Paolo Rossi, mentre al Lido si facevano vedere Abel Ferrara, Filippo Timi e con loro tanti altri. E mentre sul "Venerdì di Repubblica" campeggia in copertina una bella foto posata di Fabrizio Gifuni, con Favetto che racconta appassionatamente il clima rivoluzionario all'interno del teatro romano, a me vengono in mente delle domande stupide, faziose, contortine.
La prima, evidente, è: come andrà a finire?
A Venezia è finita malino: con una violenta, squallida, inutile invasione a una cena privata (organizzata dalle stesse Giornate degli Autori, che avevano invitato quelli del Valle a presentere un doc e a parlare) dove, cocci di bottiglia alla mano, si vaneggiava di una grottesca "giustizia proletaria" applicata al cinema che non merita molti commenti.
E a Roma? Mentre scriviamo l'occupazione è ancora gagliardamente in corso, ma alcune cose non mi tornano.
Suona stridente, ad esempio, l'invito fatto a Novecento, fortunato spettacolo scritto da Alessandro Baricco, lo stesso autore contro cui - almeno indirettamente - si erano scagliati gli occupanti. Baricco, come forse si saprà, era tra i più autorevoli accreditati alla "direzione" dello storico teatro romano, con un progetto che avrebbe unito, bontà sua, gastronomia e teatro. Dunque? Ritrovata armonia? Compromesso storico? Eccesso di star system?
Renzo Arbore si esibisce al Valle Occupato.
A questo proposito, viene da chiedersi che programmazione fanno al Valle. Fanno bene a inseguire le star? O sono le star che vogliono presenziare?
In questi mesi in molti sono andati al Valle a fare spettacolo. Per solidarietà? Certo. Penso, per esempio, a una pasionaria come Barbara Valmorin. Ma si ha la sgradevole impressione che la sacrosanta protesta sia diventata una "passerellina" intrigante, sia per i "dilettanti allo sbaraglio" sia per i grandi nomi. Lo si era pensato al primo giorno, di fronte a un imbarazzante intervento di Silvio Orlando, forse più a caccia di telecamere che di militanza. E la qualità? E l'identità di un palcoscenico storico come quello del Valle?
Sorprende, poi, che tra gli occupanti figurino poco o nulla le "storiche" compagnie romane della ricerca: Barberio Corsetti, Artefatti, Fortebraccio, Celestini, Cruciani, tanto per citarne alcuni: magari mi sono sfuggiti, ma non mi sembra di aver letto i loro nomi nella programmazione, né di aver riconosciuto i loro volti nelle tante foto che hanno documentato il Valle Occupato. Perché? Che ne pensano dell'occupazione?
Assemblea al Ricreatorio Marinoni Occupato.
Ma quel che più di tutto stupisce, in questa lunga e per tanti aspetti encomiabile avventura, è l'assordante silenzio delle istituzioni. Il totale menefreghismo della politica. Di quanti, cioè, avrebbero dovrebbero reagire - nel bene o nel male - all'occupazione. Dopo i primi, frettolosi commenti, tutto tace.
Al Valle non sono stati sgombrati (per fortuna, aggiungiamo): ma logica vorrebbe che lo Stato "tutelasse" un così importante bene storico! E se qualcuno occupasse, che so, il Colosseo?
Sembra quasi, al contrario, che questa programmazione, fatta con volontariato ed entusiasmo, faccia comodo a tutti. Come dire: "L'avete voluto? Ok, tenetevelo!".
Di fatto però si crea il precedente (ambiguo) di una robusta programmazione "gratis" anche per un teatro importante, centrale e storico, che di fatto viene gestito come un centro sociale: e se il Comune la proponesse anche per la prossima stagione? Andrebbero ancora tutti gratis a fare spettacolo? Tornerebbero i vari Jovannoti, Arbore, Baricco, Orlando e via citando?
Insomma: perché stanno ancora chiusi lì dentro?
Anche a leggere le dichiarazioni degli occupanti, si avverte che i piani erano diversi: l'occupazione doveva durare tre giorni o poco più. Ma ormai sono mesi. Un'azione simbolica, un blitz, è diventata una normalità "tollerata", se non incoraggiata (per esempio, semplicemente, come mi faceva notare una militante attrice, nessuno ha ancora staccato la luce...).
Magari sarò smentito domattina - e certo con l'autunno il clima si farà più pesante - però è davvero curioso che Stato, Comune, Regione, Teatro di Roma non abbiamo fatto nulla. Non è incredibile che se ne freghino così tanto?
Il pubblico comunque ha risposto entusiasta, con un'adesione che non si vedeva nemmeno nei beati anni dell'Eti. Ma questo si sa: il pubblico va a teatro, sempre e sempre di più, ovunque e con passione. Solo i politici non se ne sono accorti.
Lascia perplessi, ancora, il complicato e verboso progetto di gestione futura del teatro romano. D'accordo, la Drammaturgia Contemporanea Italiana! Evviva!, vien da dire a chi, da anni, si batte per una maggiore attenzione a un teatro che sappia parlare del proprio tempo. Ma le modalità proposte risuonano di vetero burocratismi o centrosocialismi di cui, francamente, potremmo fare a meno.
Probabilmente, occorreranno ulteriori riflessioni non solo sul concetto di "bene pubblico" e "bene comune", ma anche sulla modalità economico-artistiche di gestione.
C'è infine una delicata questione più generale: l'efficacia.
Benissimo queste iniziative, per carità, come quelle proposte poco tempo fa da 0.3. Sono ventate spiazzanti e rivitalizzanti nell'asfittico panorama italiano. Ma sino a che i teatranti e i cinematografari - attori o tecnici che siano - non trovano il coraggio di scioperare davvero, bloccando non il teatro il lunedì sera, ma fiction, doppiaggi, pubblicità, film, spettacoli, festival, tv e quant'altro, si resterà sempre nel candore di un calpestio di piedi che non infastidisce più di tanto. Anzi: nonostante l'attenzione dei media, "Repubblica" in testa, la "rivoluzione", si è detto, non è scoppiata. Qualcuno ricorderà quando gli "intermittenti" francesi bloccarono i festival: e avevano molti meno motivi di protestare.
Qui non manca chi "occupa" non tanto per sincera adesione, ma anche per mancanza di scritture, o per piccoli interessi e soprattutto a breve termine: "Ammazza, quanto semo fichi! Dovemo protestà! Ma mo'… scusate... c'ho quattro pose...".
Sono dubbi, domande futili scritte comodamente seduti alla scrivania, senza aver passato nemmeno una notte tra i velluti rossi del Valle o tra i decor liberty del Marinoni. Questioni che, sono certo, troveranno presto risposta. Ma che, spenti i riflettori al Lido e non accora accesi quelli della stagione teatrale 2011/12, penso possa essere utile affrontare.
Un ponte Roma-Milano in nome del Bene Comune Dal Teatro Valle Occupato al Teatro i di Mimma Gallina
A Milano mercoledì 21 settembre il Teatro i di Milano ha ospitato un incontro di compagnie e teatri indipendenti, singoli operatori e attori lombardi, promosso dagli occupanti del Valle e da ZeroPuntoTre. La convocazione proponeva un tema complesso, puntando ai contenuti di cui si discute a Roma per fare dell'antico teatro un centro di drammaturgia: "lingua, linguaggi, paesaggi, spazi della scena contemporanea", ma la curiosità per le vicende romane e i molti problemi generali e contingenti hanno preso il sopravvento, con tre ore di scambio di informazioni e discussione, ricche di spunti interessanti.
Coordinata da Marco Cacciolla, attore milanese e occupante a Roma, la riunione - che si è chiusa con un collegamento e saluti fra le due città/comunità di teatranti - ha posto le fondamenta di un ponte che potrà smuovere qualche pensiero e forse portare a qualche fatto concreto. Per cominciare, una delegazione milanese (naturalmente aperta) dovrebbe partecipare all'assemblea degli operatori dell'arte, dello spettacolo e della conoscenza convocata per il 30 settembre a Roma: un appuntamento importante per misurare la portata nazionale e interdisciplinare del principio ideale che ha guidato l'occupazione, ovvero l'estensione alla cultura del concetto di "bene comune" (scoperto e rilanciato dai referendum con riferimento all'art. 43 della Costituzione: non a caso l'occupazione è iniziata il 16 giugno, proprio all'indomani dei referendum). Forse Milano potrebbe essere successivamente la sede di un'iniziativa specifica che affronti le problematiche del lavoro, a partire dal problema (gravissimo) della disoccupazione negata.
Le domande, le informazioni e la discussione non hanno eluso le criticità di questo lungo periodo di occupazione: il rischio che l'esposizione mediatica - in sé molto importante non solo per il Valle, ma per la visibilità cha ha dato al teatro in questo momento - "disinneschi" il potenziale innovativo delle analisi e delle ipotesi di lavoro degli occupanti, e che una programmazione artistica inevitabilmente non selettiva rischi occultare la parte sommersa del lavoro dei gruppi di studio o gli esperimenti di formazione.
Certo, senza essere (stati) lì con materassino e sacco a pelo, a cucinare o occuparsi di sicurezza, è difficile cogliere la complessità del percorso avviato al Valle, le responsabilità della gestione quotidiana, l'entusiasmo per la partecipazione del pubblico (sempre calorosa e attiva, addirittura entusiasmante nella festa paesana di Ferragosto), immedesimarsi e intuire l'''atmosfera".
E' più facile cogliere le ingenuità (eppure è necessario qualche volta partire da zero, ignorare e riscoprire passaggi che operatori consumati danno per acquisiti) e sottolineare i punti di debolezza: ed è anche legittimo, probabilmente utile.
Ma non bisogna dimenticare che questa azione di lotta di lunga durata è un fatto assolutamente unico nella storia del teatro italiano (e non per la copertina o i servizi di “Repubblica”).
Anche per questo è giusto investire questa azione di aspettative alte, attendersi creatività organizzativa a partire e al di là dell'intuizione del Bene Comune, indicazioni concrete e innovative per il Valle, per il teatro nel suo complesso e per quello pubblico in particolare (come i documenti promettono).
Gli occupanti stanno riflettendo su linguaggi e forme espressive, ma anche su innumerevoli aspetti gestionali e su possibili modelli operativi coerenti con l'idea di fondo individuata per il futuro del teatro. Per esempio, si discute delle possibili forme della direzione dei teatri, individuale o di gruppo? E della durata delle direzioni. La si sperimenta anche: affidando a Peter Stein i prossimi giorni di programmazione autogestita (dopo la lezione che terrà il 23). Ci si chiede come sia possibile coniugare il rigore delle scelte con l'apertura del programma, come rompere gli schemi rigidi delle programmazioni teatrali, ci si interroga sull'impostazione dei bilanci. Lo statuto della Fondazione, cui gli occupanti stanno lavorando assieme a Ugo Mattei e Stefano Rodotà, per ora battezzata "Teatro Valle-Bene comune-Centro nazionale di drammaturgia contemporanea", dovrebbe costituire la sintesi della discussione: verrà essere presentato nella versione definitiva (o molto avanzata) in occasione dell'assemblea del 30.
Questa scadenza sembrerebbe poter rappresentare una svolta anche nel percorso dell'occupazione. Il documento costituisce la proposta concreta a una controparte distratta (a dir poco), in primo luogo il Comune di Roma, poi il Teatro di Roma, cui il Valle è stato affidato in primo luogo, e infine indirettamente al Ministero (all'origine di tutto c'è pur sempre l'affrettato scioglimento dell'ETI).
Per la cronaca, il Teatro di Roma dichiara di aver progettato una stagione (che però nessuno conosce) e il suo direttore Gabriele Lavia si è presentato sul palco del Valle alcune settimane fa, senza che questo abbia significato un'apertura di dialogo.
E proprio questo è il punto: la rivoluzione dovrebbe concludersi con la conquista della felicità, ma quando e come ci si può ritirare "vittoriosi" prima che l'energia si disperda e l'attenzione scemi? Come evitare che il potenziale innovativo di questa esperienza si disperda? O al contrario è possibile pianificare un effetto contagio?
A Milano si è parlato di tutto questo, e si è colta soprattutto la portata del "bene comune": qualcosa di più di una suggestione: una indicazione giuridica, filosofica e etica che può rafforzare le basi delle future legislazioni per il teatro.
Si sono sottolineate anche le differenze fra le due città. Il teatro milanese, nel bene nel male, si è strutturato nell'arco di oltre vent'anni come un sistema pubblico policentrico, dove il problema principale è oggi (e da sempre) la cristallizzazione e la difficoltà di comunicazione fra i diversi livelli (imprenditoriali, culturali, generazionali).
A Roma il teatro di ricerca o giovane, è sempre vissuto - potremmo dire - di precarietà "strutturale", con forme episodiche di collaborazione e grande turbolenza alla periferia del sistema. La grande concentrazione di attori fa sì che l'offerta resti sempre ampia, sul piano quantitativo, e che l'alternanza faccia da alibi all'assenza di intervento pubblico (queste considerazioni le riprendiamo anche da un incontro di un paio di anni sui Piccoli Teatri delle due città fa organizzato da “Hystrio”, di cui www.ateatro.org ha diffusamente parlato).
Un problema milanese, si è detto, resta comunque il dialogo con gli enti, e la (non) politica culturale della Regione Lombardia: che sembra non intenda finanziare nel 2011 la legge sullo spettacolo se non per le strutture convenzionate (sostanzialmente quelle storicamente consolidate).
Sono poi stati sottolineati alcuni mali certo non solo milanesi: il problema della rappresentanza, la tendenza al vassallaggio, la tentazione di coltivare il proprio particolare per salvarsi (anche o preferibimente) da soli.
Dopo i referendum e le amministrative, e comunque si concludano le vicende dell'occupazione, il Valle-Bene Comune dà qualche altro motivo di speranza. E potrà forse dare qualche utile e concreto suggerimento per il futuro. E magari darà anche una spinta, se non una spallata, al ricambio generazionale.
Per l'indennità di disoccupazione ai lavoratori dello spettacolo Un appello contro la circolare 105 del 5/08/2011 dell’Inps di Comitato bolognese contro l'abolizione dell'indennità di disoccupazione
Da alcune settimane è in atto una mobilitazione da parte dei lavoratori dello spettacolo ai quali è stato negato il diritto di ricevere l’indennità di disoccupazione.
Alla gravità di questo atto amministrativo, si aggiunge la brutalità delle motivazioni che non possono non essere viste alla luce dei ripetuti attacchi che cultura e arte stanno subendo nel nostro paese.
Chiediamo un immediato e concreto intervento da parte degli amministratori pubblici, delle forze politiche, delle organizzazioni sindacali e di tutti coloro che riconoscono nella cultura e nell’arte valori irrinunciabili per ogni società.
Vi chiediamo di farvi portavoce, nelle sedi appropriate, della nostra legittima protesta: gli artisti vanno difesi in quanto lavoratori e in quanto soggetti essenziali della crescita civile, culturale ed economica di un Paese.
Per lo Stato gli artisti non sono lavoratori
E' stato cancellato in questi giorni il contributo di disoccupazione ai lavoratori dello spettacolo.
E’ prima di tutto un diritto inalienabile sancito dalle regole del lavoro e l'integrazione necessaria al reddito di molti di noi.
Ma rappresenta anche il riconoscimento della dignità di una professione: lavoratori tra i lavoratori, con gli stessi obblighi e diritti, parte di una comunità di cui ci si fa carico (con contributi e tassazione) e da questa riconosciuti.
Con la circolare 105 del 5/08/2011 l’Inps abolisce il sussidio di disoccupazione a molti lavoratori dello spettacolo: attori, registi, scenografi, coreografi, light designer, musicisti, cantanti, danzatori, etc.
(che viene invece riconosciuto alle categorie tecniche ed amministrative).
Una sentenza della Corte di Cassazione, ha ribadito l'anacronistico comma 5 del DR del 1935, che dichiara che questi lavoratori sono da considerarsi subordinati (per orari, programmi di prove, obbligo di eseguire direttive, etc.) ma altresì esclusi dal trattamento della disoccupazione per le loro competenze “artistiche, tecniche e culturali”. Come se la conoscenza, le capacità individuali potessero essere un elemento di discriminazione tra i lavoratori.
L'INPS applica la sentenza escludendoci a tutti gli effetti dal contributo che da anni erogava: la disoccupazione con requisiti ridotti (la stessa dei lavoratori stagionali e degli insegnanti). A parità di versamenti e contribuzione, a parità di ruolo subordinato, a parità di giornate contribuite, stesso luogo di lavoro, stessi gli strumenti utilizzati, discriminati in quanto “artisti”.
Non possiamo credere che la motivazione sia realmente quella che recita il Regio Decreto del 1935, ovvero che si è esclusi perché si possiede una preparazione tecnica, artistica o culturale (da oggi i tecnici non hanno competenza tecnica e gli amministrativi del settore sono privi di cultura?).
Ci sembra paradossale che vengano escluse proprio quelle categorie che hanno l'intermittenza lavorativa come parte integrante del proprio essere. Le tournée, anche quelle delle compagnie che lavorano di più, hanno comunque dei lunghi periodi di pausa. Siamo rimasti uno degli ultimi paesi europei a non riconoscere i lavoratori dello spettacolo come dipendenti intermittenti e ora, in un momento di grave difficoltà del settore, viene cancellato anche il sostegno al reddito con requisiti ridotti (ben lontano dai sussidi europei ai lavoratori del settore).
La materia giuridica è complessa, un vuoto legislativo ha permesso questa situazione e le conseguenze sono inevitabili: la circolare ci invita a uscire da una situazione di riconoscimento e legalità assai faticosamente costruiti e a trovare altre forme di contratto. Un atteggiamento autolesionista che farà risparmiare una cifra modesta privando l'amministrazione pubblica dei versamenti necessari alla sua stessa sopravvivenza. (così come drammaticamente accade in altri settori). Per quanto tempo i teatri potranno versare per noi i contributi e le assicurazioni per metterci in regola quando poi non ci verrà riconosciuto alcun diritto? Allargheremo così la schiera degli autonomi “per necessità”.
Da anni chiediamo una regolamentazione per la categoria, che avrebbe dovuto essere contenuta in una più generale legge sul welfare. Ma la legge sul welfare non è mai andata in discussione alle Camere e i lavoratori dello spettacolo sono rimasti in questa terra di mezzo, con una legge risalente al 1935.
Ora la circolare 105 dell'Inps assesta l'ennesimo colpo ad una categoria sempre meno tutelata e considerata.
Ma noi vogliamo ribadire ancora una volta che quello dello spettacolo è un lavoro e che i lavoratori dello spettacolo sono lavoratori. A tutti gli effetti. Vogliamo, per l'ennesima volta, ricordare che il nostro non è un hobby per ricchi, ma un lavoro che ci porta via tempo, fatica, energie. Che richiede impegno e passione. Come tutti i lavori.
Per questo vi chiediamo di affiancarci nella battaglia per
l’abrogazione in tempi brevissimi dell'art.40, comma n.5 del Regio Decreto Legge 4 ottobre 1935 n. 1827 (convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155) .
Entro il 4 ottobre prossimo, sarebbe possibile presentare ricorso ma ci informano che lo possono presentare solo le associazioni di categoria.
Confidiamo che gli amministratori e rappresentanti della società civile della città e della Regione vogliano essere, ancora una volta, in prima fila nella difesa dei diritti.
Certi della Vostra attenzione restiamo in attesa di segni concreti
Anna Amadori (attrice)
Francesca Ballico (attrice)
Francesca Mazza (attrice)
Miriam Abutori (attrice)
Andrea Adriatico (regista)
Daniela Airoldi(attrice)
Francesca Airaudo (attrice)
Anna Albertarelli (danzatrice)
Roberto Alpi (attore)
Paolo Ambrosino (operatore teatrale)
Michele Andrei (attore)
Sandra Agelini (operatore teatrale)
Antonio Alveario (attore)
Marco Valerio Amico (attore)
Isadora Angelini (attrice)
Maria Ariis (attrice)
Fabrizio Arcuri (regista)
Pietro Babina (regista)
Sergio Bagnato (attore)
Elisa Bartolucci (op. teatrale)
Alberto Baraghini (attore)
Tamara Bartolini (attrice)
Matteo Belli (attore regista)
Gabriele Benedetti (attore)
Paola Bianchi (operatrice teatrale)
Lorenzo Bonaiuti (attore)
Nicola Bonazzi (regista)
Gabriele Bonsignori (attore)
Nicolas Bovey (scenografo)
Francesca Breschi (musicista)
Jacopo Bruno (attore)
Elena Bucci (attrice regista)
Silvia Calderoni (attrice)
Valentina Capone (attrice)
Maurizio Cardillo (attore)
Stefano Casi (operatore teatrale)
Sergio Carioli (operatore teatrale)
Enrico Casgrande (regista)
Marco Cavalcoli (attore)
Marco Cavicchioli (attore)
Morena Cecchetti (operatore teatrale)
Giorgia Cerruti (regista e attrice)
Ippolito Chiarello ( attore)
Michele Cosentini (attore)
Lea Cirianni (attrice)
Laura Cleri (attrice)
Lee Colbert (attrice)
Gaetano Coltella (attore)
Cristina Coltelli (attrice)
Valentina Curatoli (attrice)
Rossella Dassu (attrice)
Luigi De Angelis (regista)
Elisa De Carli (operatore teatrale)
Febo Del Zozzo (regista,)
Tanino De Rosa (regista)
Danilo De Summa (attore)
Oscar De Summa (attore )
Daniele Del Pozzo (operatore culturale)
Elena Di Gioia (op. culturale)
Cosima Di Tommaso (attrice)
Olga Durano (attrice)
Nicola Fabbri (attore)
Nicoletta Fabbri (attrice)
Federica Fabiani (attrice)
Fabrizio Festa (musicista)
Pietro Floridia (regista)
Frida Forlani (musicista)
Alessandra Frabetti (attrice)
Federica Fracassi (attrice)
Eleonora Fuser (attrice)
Rita La Forgia (attrice)
Elena Galeotti (attrice)
Bruna Gambarelli (regista e op. culturale )
Mariagrazia Ghetti (attrice)
Eva Geatti (attrice)
Pieraldo Girotto (attore)
Mario Giorgi (drammaturgo)
Egon Gorghetto (attore)
Mariangela Gualtieri (attrice e poeta)
Sara Kaufmann (attrice)
Federica Iacobelli (scrittrice)
Fulvio Ianneo (regista)
Adriano Iurissevich (attore)
Pino L’Abbadessa (attore)
Roberto Latini (attore regista)
Chiara Lagani (regista)
Tatiana Lepore (attrice)
Sandro Lombardi (attore)
Teresa Ludovico (regista)
Sandro Mabellini (attore)
Massimo Mezzetti ( Assessore alla Cultura Regione Emilia-Romagna)
Monica Morleo (operatore teatrale)
Maria Federica Maestri (regista)
Angela Malfitano (attrice)
Marco Manchisi (attore regista)
Claudia Manfredi (operatore teatrale)
Marinella Manicardi (attrice)
Ivano Marescotti (attore)
Massimo Marino (operatore teatrale)
Laura Mariani (storico del teatro)
Mirella Mastronardi (attrice)
Marco Martinelli (regista)
Beatrice Meloncelli (regista)
Fiorenza Menni (attrice)
Marco Molduzzi (attore)
Ermanna Montanari (attrice)
Anna Maria Monteverdi (attrice)
Monica Nicoli (operatori teatrali)
Daniela Nicolò (regista)
Dafne Niglio (attrice)
Woody Neri (attore)
Giulia Oliari (attrice)
Marco Olivieri (fonico)
Silvia Pacciarini (addetto Stampa)
Filippo Pagotto (attore )
Andrea Paolucci (regista)
Giorgia Penzo (attrice)
Saverio Peschechera (operatore teatrale)
Micaela Piccinini (attrice)
Katia Pietrobelli (attrice)
Marina Pitta (attrice)
Giuseppe Provinzano (attore)
Maria Pugliatti (attrice)
Armando Punzo (attore regista)
Stefano Questorio (danzatore)
Stefano Randisi (attore regista)
Barbara Regondi (operatrice culturale)
Gianfranco Rimondi (drammat. e reg.)
Maurizio Aloisio Rippa (attore)
Aronne Rivoli (musicista)
Federica Rocchi (operatore)
Alberto Ronchi (Assessore cultura e giovani Comune di Bologna)
Cesare Ronconi (regista)
Ennio Ruffolo (regista)
Tita Ruggeri (attrice)
Cira Santoro (operatore teatrale)
Davide Schinaia (regista)
Federica Seddaiu (attrice)
Marco Sgrosso (attore regista)
Michela Sibio (attrice)
Candace Smith (musicista)
Guido Sodo (musicista)
Lorenza Sorino (attrice)
Giovan Battista Storti (attore)
Dario Eros Tacconelli (regista)
Carolina Talon Sampieri (attrice)
Gabriele Tesauri (attore regista)
Damir Todorovic (attore)
Gianluca Tommasella (tecnico)
Federico Toni (operatore culturale)
Antonio Tucci (regista)
Enzo Vetrano (attore regista)
Antonio Viganò (regista)
Angelica Zanardi (attrice e op. teatrale)
Valentina Zangari (op. teatrale)
Per aderire invia una mail a indennita.artisti@libero.it
Buenos Aires, la città degli entusiasmadores Un’utopia possibile: il Teatro Comunitario in Argentina di Giada Russo
Oggi Buenos Aires è una fucina d’arte in continua attività: murales, cinema, musica, teatro, danza raccontano in forme sempre diverse la stessa necessità di ricordare. In Argentina la cultura si fa carico degli orrori della dittatura e dell’esigenza di costruire una memoria del dolore, facendosi strumento di definizione identitaria.
Da sempre le arti accompagnano i momenti di crisi di una società e in maniera proporzionale: a maggiori avversità corrispondono maggiori produzioni artistiche. Ma l’arte non si limita a essere uno specchio della realtà, è in grado di trasformarla. Il teatro, per la sua dimensione pubblica e partecipativa, può assolvere pienamente a questa funzione. Attraverso il teatro il ricordo può farsi collettivo, diretto, visibile, traducibile in immagini e parole.
Esempio emblematico della capacità trasformativa dell’arte è l’esperienza del Teatro Comunitario, nato nella Buenos Aires degli anni Ottanta, proprio all’indomani della dittatura militare. Nel corso degli anni dall’Argentina il fenomeno si è esteso in altri paesi dell’America Latina al punto da ridisegnare il panorama artistico del territorio e risvegliare la coscienza collettiva di un popolo.
Il Teatro Comunitario nasce dalla necessità di un gruppo di persone di un determinato quartiere di riunirsi e comunicare attraverso il teatro. È un tipo di manifestazione artistica che parte dall’assunto che l’arte è un diritto di tutti i cittadini e, al pari della salute, dell’alimentazione e dell’educazione rappresenta una delle priorità dell’uomo. Gli attori coinvolti si definiscono vecinos-actores, cittadini-attori non professionisti, che sul palcoscenico si raccontano, raccontano la storia del quartiere di appartenenza, i suoi miti, le sue leggende, i valori del lavoro e dell’educazione, i momenti chiave della storia comune, al fine di riscattare la memoria collettiva e l’identità individuale.
Gli spettacoli nascono dalla e per la comunità, autrice e destinataria essa stessa di un prodotto artistico che si sviluppa con l’obiettivo di costruire un significato sociale e politico. Il Teatro Comunitario tenta infatti di ricomporre il tessuto sociale del quartiere, attraverso la solidarietà e la partecipazione, e di sviluppare una maggiore consapevolezza storica che sta alla base dell’azione sociale.
Il trauma storico collettivamente subito esige un processo di risignificazione del passato nel presente, reso complesso dalle dinamiche di produzione della memoria, che è in ogni caso un’opera di selezione del passato. Accanto alla volontà di ricordare, si scatenano meccanismi di produzione dell’oblio, che si manifestano tanto nelle pratiche esplicite della censura, quanto nelle forme più occulte di manipolazione del pensiero. Già nell’Argentina della post-dittatura molteplici memorie individuali e collettive, contese e ostinate, si sono accavallate alla reticente ricostruzione ufficiale dei fatti.
Catalinas Sur, il gruppo pioniere del Teatro Comunitario, affonda le sue radici nel luglio del 1983, l’anno stesso in cui l’Argentina esce dalla dittatura, nel quartiere popolare della Boca, a Buenos Aires, all’interno dell’associazione dei genitori di una scuola del barrio (il quartiere), già attiva durante gli anni del terrore di stato. Alla guida del gruppo fu chiamato il regista uruguayano Adhemar Bianchi che preferì definirsi sin dall’inizio entusiasmador, promotore attivo di una comunità che cercava nel teatro una forma solidale di resistenza e trasformazione sociale. L’impulso dei genitori della scuola coincideva con un clima di effervescenza che inondava tutta la vita argentina dopo anni di oscurantismo.
Catalinas muove i suoi primi passi nel solco della tradizione del teatro popolare: dal teatro greco al teatro del Siglo de Oro spagnolo, dalla Commedia dell’arte italiana ad ogni forma di teatro che vuole comunicare con il popolo.
Fin dagli esordi Catalinas Sur (originariamente Grupo de Teatro al aire libre Catalinas Sur) mette in scena spettacoli con un gran numero di partecipanti, fino a novanta centoventi, appartenenti a quattro generazioni del quartiere, e usa i linguaggi del teatro, della danza, del canto, della musica dal vivo e dei pupazzi.
Il gruppo comunitario elegge la piazza a spazio privilegiato per le sue rappresentazioni, trasformando così la strada da luogo di paura e pericolo, quale era durante la dittatura, a luogo di incontro e condivisione.
L’idea di partenza è quella di tornare a pensare al concetto di barrio come a uno spazio vitale e non come a un luogo dormitorio. Il recupero dello spazio pubblico diventa un atto politico di chi si schiera dalla parte dell’arte e della creatività contro un potere che relega tra le mura di casa, davanti alla televisione, in solitudine.
Il “nuovo barrio” diventa “l’agorà ritrovata” auspicata da Bauman nella sua lucida analisi della società globalizzata. L’unico modo per recuperare oggi il significato della politica è riesumare la piazza degli antichi Greci, trapiantandola nel mondo attuale. Può esistere allora uno spazio dove trasformare le preoccupazioni private in pubbliche e costruire una società autonoma, capace di autocritica, di discussione e di ridefinizione del bene comune.
Non è un caso dunque che anche le Madres de Plaza de Mayo, la comunità di donne che dagli anni della dittatura fino a oggi lotta per la memoria dei propri figli “scomparsi” (desaparecidos), scelga la piazza come luogo di incontro per eccellenza:
Mucha gente se pregunta porqué habiendo otros organismos las madres fuimos a la plaza, y porqué nos sentimos tan bien en la Plaza. En la Plaza éramos todas iguales, a todas nos habian llevado los hijos, a toda nos pasaba lo mismo, habíamos ido a los mismos lugares, por eso es que la Plaza agrupó, por eso es que la Plaza consolidó. (Cfr. il sito ufficiale delle Madres www.madres.org)
Ancora oggi, percorrendo le strade di Buenos Aires, è possibile ritrovare tracce del ricordo della dittatura e dei suoi crimini. Le piazze della città sono testimoni di un rito interminabile: accanto alla marcia silenziosa delle Madres, che ogni giovedì col fazzoletto bianco sul capo scelgono di manifestare la loro indignazione, il Teatro Comunitario sceglie la festa, il convivio per esorcizzare il dolore passato e proporre uno sguardo nuovo, sempre ottimista per il futuro. È un teatro che recupera la festa come rito collettivo. C’è infatti un’attenzione alla coralità e una presa di distanza dal dramma introspettivo borghese. Le proposte teatrali del gruppi comunitari realizzano una contaminazione di forme alla quale concorrono la tragedia, la commedia, il melodramma, ma mai il dramma psicologico, dove la coscienza privata prende il sopravvento su quella collettiva. Il Teatro Comunitario dà voce alla coscienza sociale del gruppo e si impegna a renderla pubblica e a trasmetterla agli spettatori. Si tratta di una via originale al teatro epico, che utilizza gli strumenti dell’umorismo e del grottesco, si prende gioco dei potenti e sostiene le minoranze.
Il Teatro Comunitario non si rifà a un modello né a un metodo teatrale ben preciso: il teatro si fa, si agisce, con un approccio decisamente sperimentale. L’attore professionista è portato a razionalizzare il suo lavoro, a capire perché fa ciò che fa, quali sono gli obiettivi e come raggiungerli. Questo aspetto intellettuale non esiste nella pratica del vecino-actor, che altrimenti perderebbe la sua innocenza. È significativa l’affermazione di Cunill Caballenas, ricordata da Adhemar Bianchi: “No me le cuentes, hazlo!” (Non raccontarmelo, fallo!).
Gli spettacoli comunitari si evolvono nel corso degli anni, non restano mai uguali a se stessi: ogni rappresentazione si arricchisce di nuovi spunti, offerti spesso anche dall’attualità. Lo stesso spettacolo si va trasformando in base all’intercambiabilità dei vecinos-actores e alla risposta del pubblico, che si fa co-autore dell’opera.
Eredi del teatro dell’Oppresso di Augusto Boal, i promotori del Teatro Comunitario operano una deprofessionalizzazione del teatro, attraverso l’abbattimento della barriera fra attore e spettatore.
Il concetto di proprietà privata che impronta le relazioni umane nella nostra società, all’interno dei gruppi comunitari scompare. Si crea una “società dentro l’altra”, un microcosmo che si oppone al sistema di comunicazione globale. Ricardo Talento, regista argentino di teatro comunitario, si sofferma sulla staordinarietà del lavoro collettivo:
Que 80 personas se reunan para maquillarse y cambiarse juntos en la ciudad de Buenos Aires di ho yes un hecho revolucionario. Que entre todos armen un escenario y que lo hagan con espiritu amateur en este mundo material y individualista es profondamente transformador. (Diego Rosemberg, Teatro comunitario argentino, Buenos Aires, Emergentes, 2009, p.37)
Che ottanta persone si riuniscano per truccarsi e vestirsi insieme nella città di Buenos Aires di oggi è un fatto rivoluzionario. Che fra di loro costruiscano una scenografia e che lo facciano con passione e dedizione in questo mondo materialista e individualista è profondamente “trasformatore”. La trasformazione comincerà prima nel singolo individuo, poi nel gruppo, per diffondersi nelle rispettive famiglie, nel lavoro e nella vita quotidiana e, a partire da qui, nell’intera comunità.
Il teatro funziona come luogo dell’altro, dove si criticano gli orrori del reale e si fonda uno spazio nuovo, quello del possibile. Il Teatro Comunitario traduce il possibile in utopia.
I Premi Ubu 2011 al nastro di partenza Un work in progress: online il repertorio della stagione 2010-2011 di Redazione ateatro
La redazione della Ubulibri ha iniziato a lavorare
all’edizione 2011 dei Premi Ubu. La formula di questa edizione,
pur nell’inevitabile discontinuità con il passato, vuole in primo luogo tenere vivo lo spirito del premio
inventato, voluto e realizzato da Franco Quadri.
Per documentare al meglio la stagione di riferimento, è necessaria la collaborazione delle compagnie, dei gruppi, dei teatri, dei festival e delle rassegne,
che dovranno inviare via mail alla redazione l’elenco delle loro nuove produzioni che hanno debuttato in Italia
tra il 1° luglio 2010 e il 30 giugno 2011, affinché si possa compilare una lista – il più possibile completa e consultabile su internet –
che aiuti i giurati a esprimere i propri voti e al tempo stesso contribuisca ad aggiornare l’archivio del Patalogo/Ubulibri.
E' la prima volta che il repertorio della stagione viene reso disponibile online: sarà certamente uno strumento utile a tutto il teatro italiano.
Una prima provvisoria versione del repertorio della stagione, composto sulla base delle informazioni sinora raccolte,
si può già consultare e ricercare online.
La lista si arricchirà delle informazioni inviate alla redazione (via mail all'indirizzo edizioni@ubulibri.it) e verrà tenuta in costante aggiornamento.
Per colmare le lacune e correggere eventuali imprecisioni è indispensabile la collaborazione di tutti.
La rete offre un utile strumento di comunicazione: insomma, diffondete e condividete questa notizia
sui vostri siti, blog, social networks eccetera.
Uno Shakespeare in salsa russa Il racconto d’inverno con il Maly da San Pietroburgo a Vicenza di Fernando Marchiori
L’immagine del bimbetto vestito alla marinara che spunta sul palco dell’Olimpico di Vicenza per uno Shakespeare in russo, scendendo dalle prospettive corinzie di una Tebe sognata nel Cinquecento per l’Edipo di Sofocle, rende già l’idea del disinvolto anacronismo che impronta il Racconto d’inverno allestito dal Maly di San Pietroburgo.
Realizzato nel 1997, lo spettacolo è stato proposto nel teatro del capoluogo berico per le uniche tre repliche italiane. La sgangherata vicenda al centro dell’opera, una delle ultime scritte dal Bardo, trova nella regia di Declan Donnellan e nell’impianto scenico palladiano dei moltiplicatori di quelle discrepanze spaziali e temporali sulle quali si fondano le coordinate drammaturgiche del testo. Una Sicilia fuori dal tempo e una improbabile Boemia che s’affaccia sul mare sono i luoghi della tragicommedia. Il sospetto del re siciliano Leonte nei confronti della moglie Ermione e del suo ospite e amico d’infanzia Polissene, re di Boemia, è la causa scatenante l’intrico di storie e segreti che solo dopo tre lustri giungerà allo scioglimento e al lieto fine per tutti. Tutti tranne Momilio, figlio di Leonte e di Ermione, il marinaretto della prima scena dello spettacolo, che ricomparirà alla fine, unica vittima sacrificale. Fuggito Polissene, Leonte fa incarcerare Ermione incinta, dà ordine di abbandonare in un luogo deserto la piccola Perdita, nata in cattività e considerata il frutto dell’adulterio, si agita in preda a un cieco furore che gli impedisce persino di accettare il responso dell’oracolo di Delfi consegnatogli dai suoi fidati emissari: Ermione è innocente. Solo dopo la morte di crepacuore del figlio e della moglie, Leonte sembra scuotersi e comprendere l’enormità del proprio errore. Intanto Perdita è stata salvata da dei pastori, naturalmente in Boemia, dove s’innamora di un giovane nobile, naturalmente figlio di Polissene. La fuga in Sicilia dei due porta all’agnizione della fanciulla e alla riappacificazione generale. Ermione non era morta, ma trasformata in una statua di sale. L’incantesimo dunque si spezza e la regina torna a vivere, mentre i giovani innamorati possono sposarsi. Una specie di tragedia deviata in corso d’opera, per dare a Leonte la possibilità di comprendere e rimediare.
La compagnia del Maly, fondata da Lev Dodin, sfodera una tavolozza recitativa di impressionante varietà, per quanto d’impronta piuttosto tradizionale. Della grande scuola russa prende soprattutto la caratterizzazione psicologica dei personaggi, liberati dal realismo di stampo stanislavskijano senza tuttavia, almeno in questo caso, risolversi in una esaltazione dei piani non verbali della rappresentazione. Di notevole intensità la scena finale, in un climax che giunge a rianimare la statua di Ermione con tremori soprannaturali. Come il Tempo personificato spazza le assi del palcoscenico e ogni tanto dà un giro alla clessidra per trasportare la vicenda in altri spazi e tempi («come se voi aveste dormito», dice rivolgendosi al pubblico), così il regista interrompe in alcuni punti lo scorrere della storia con un colpo di campanella (che non può non ricordare gli esercizi di Mejerchol’d o di Gurdijeff) per intersecare altri fili della trama. Sono questi i momenti più interessanti dal punto di vista del montaggio.
Difficile il confronto con la realtà delle produzioni italiane, visto che siamo di fronte a una compagine affiatata di 22 attori in scena che il regista ha potuto dirigere in lunghe prove coadiuvato da un direttore di palcoscenico, un direttore tecnico, un professore di dizione e un responsabile dei movimenti, oltre a scenografo, musicista e assistente alla regia. Dicevamo degli anacronismi moltiplicati: i costumi trasportano la storia al primo Novecento, ma la sentenza del sacerdote di Apollo viene letta al microfono; i giovani sulle panchine ai lati dello spazio scenico nel secondo atto amoreggiano al suono di una fisarmonica, ma il vagabondo Autolico ha una divisa a brandelli e ascolta musica disco sparata nelle cuffie. Dell’opera shakespeariana Donnellan sembra dare una lettura “pirandelliana”, sottolineando soprattutto il tema dell’identità e quello della vanità che muove a fare della nostra vita un racconto lineare, arginando l’esperienza con continui travestimenti e invenzioni che ci confermino in una immagine rassicurante e nasconda i nostri più veri sentimenti.
«Shakespeare – appuntava il regista inglese nel corso delle prove – disattende le regole del tempo come successione consequenziale: il bambino si nasconde nell’adulto, l'anziano vive nel bambino, la nascita si ridesta nella morte. Ogni logica svanisce e appare una verità oltre la logica. Un mistero si manifesta. Una nascita. Un’epifania. Di volta in volta queste interconnessioni nell'inconscio possono essere commoventi o divertenti, paurose o eccitanti, o anche improbabili.»
Foto Colorfoto.
Save the date! Una rassegna e un incontro sul teatro d'appartamento Dal 3 al 6 novembre a Como il "Teatro in casa" per Luoghi Comuni Festival di Redazione ateatro
Il teatro d'appartamento è un genere che negli ultimi decenni ha ricevuto una notevole attenzione, con una serie di pratiche di grande interesse.
Ne abbiamo parlato in diverse occasoni anche su www.ateatro.org: basta dare un'occhiata alla ate@tropedia, s.v.
Ben venga dunque un'occasione come quella programmata a Como all'inizio di novembre, dove sarà possbile partecipare ad alcuni spettacoli d'appartameto, ed è previsto anche un incontro per approfondire gli aspetti storici, teorici ed economici di una pratica di spettacolo "guerrigliera".
Qui di seguito, alcune info in anteprima sull'iniziativa.
2000, Santarcangelo dei Teatri: a Palazzo Cenci L'apparenza inganna di Thomas Bernhardt, regia di Federico Tiezzi, con Sandro Lombardi e Massimo Verdastro, spettacolo in due appartamenti
Associazione Etre
in collaborazione con
Attivamente - Residenza Torre Rotonda
e Teatro Sociale di Como As.Li.Co.
Ore 19.00, 20.30, 23.30 - “Con tutto l’amore del mondo” di QuieOra
Ore 20.00 - 22.30 - “Making Duo” di Takla Performing Arts e “Un angelo alla tua camera” di Animanera
VENERDI’ 4 NOVEMBRE
Ore 10.00 - 12.30 - “Essere Luoghi Comuni”
incontro con i rappresentanti di Regione Lombardia, Provincie e l’On.Emilia De Biasi sul tema del riconoscimento regionale delle residenze. Accesso su invito.
A seguire - Buffet e spettacolo “Ghiaccio” di Aia Taumastica - su invito
Ore 17.00 - 20.00 - “Dal palco a casa tua”
Convegno sul teatro in casa aperto a pubblico, critica ed operatori. Interverranno fra gli altri: Mariella Fabbris, Gerardo Guccini, Teatro delle Ariette, Fernanda Tucci, Renato Palazzi, Mimma Gallina ed altri in via di definizione. Modera Oliviero Ponte di Pino.
Ore 21.00 - “Pillole” di Teatro Inverso
Ore 21.00 - “Dittico della fame” di ilinx
SABATO 5 NOVEMBRE
Ore 15.00 - 19.00 - “Speed dating teatrale, seconda edizione: Speed palco!”
La seconda edizione dell’incontro fra programmatori e produttori teatrali, ospite nella splendida cornice del Teatro Sociale di Como. Partecipazione su iscrizione.
Ore 21.00 e ore 22.30 - “L’Ospite” di Attivamente Residenza Teatrale Torre Rotonda
PRIMA NAZIONALE ASSOLUTA
DOMENICA 6 NOVEMBRE
Ore 11.00 - “Sisale” di Scarlattine Teatro
Ore 16.00 - “Barbablù, fiaba nera a più voci” di Nudoecrudo teatro
Ore 19.00 - “Artusi, l’arte di mangiare bene” di DelleAli
Ore 21.00 - “Solo Blues” di Teatro Periferico
Ore 21.00 - “Lavorare stanca” di Estia
LUOGHI COMUNI 2011 - TEATRO IN CASA
Curiosità, vocazione, ricerca artistica che scopre un nuovo mercato: IL TEATRO IN CASA è una pratica sempre più diffusa tra le compagnie italiane. Non è lo spettatore che va a teatro, ma è il teatro che arriva dallo spettatore: in casa.
L’azione può svolgersi in una cucina, in un soggiorno, in tutta l’abitazione: spettacoli dall’allestimento semplice, di volta in volta riadattati alla casa ospite, a stretto contatto con pubblici diversi, creano inaspettate occasioni d’intimità.
Il Teatro in casa invade le abitazioni dei cittadini di Como in occasione della terza edizione di Luoghi Comuni 2011, il festival itinerante promosso da Associazione Etre, la realtà creata dalle 22 residenze teatrali lombarde su 9 provincie della Regione Lombardia.
Nelle case del pubblico comasco vita e spettacolo saranno una cosa sola: intime storie d’amore e di passione, favole per bambini, crudi spaccati di realtà quotidiana, improvvisazioni con musica e danza, momenti di cucina e di convivio.
DA DOVE NASCE
Luoghi Comuni 2011 rappresenta la terza edizione del festival organizzato dall’Associazione Etre, composta all’epoca dalle 22 residenze teatrali lombarde.
Le prime due edizioni del festival sono state dedicate al “fare rete”, mettendo in collegamento le 22 residenze fra loro, creando una programmazione composita che si muoveva su tutti gli spazi, attraversando la Regione e mettendo in contatto pubblici, operatori ed artisti molti diversi fra loro.
La progettualità di scambio e rapporto fra residenze è diventata nel 2011 un progetto a se stante, la Rete delle Residenze: da quest’anno, il Festival si concentra su una sola città, mettendo in primo piano la Residenza “ospite” e unendo agli spettacoli momenti di convegno ed approfondimento per operatori, critica e pubblico.
L’edizione 2011 si terrà nella prima settimana di novembre a Como: sono inoltre già stabilite le date dell’evento 2012, particolarmente impegnativo per l’Associazione, che sarà ospite della città di Bergamo dal 1 al 4 marzo 2012.
Partner principale del progetto e dell’attività di Etre è la Fondazione Cariplo.
IL TEMA: Teatro in casa
Luoghi Comuni 2011 vuole focalizzarsi su una modalità artistica molto diffusa fra le residenze, che partendo dalla ricerca artistica, ha finito per diventare un nuovo modo di produrre e di distribuire: il teatro portato nelle case.
Spettacoli realizzati nelle abitazioni comuni, con un allestimento molto semplice, creando un contatto sempre più stretto col pubblico che assiste allo spettacolo, e quello che lo ospita letteralmente nella propria casa.
Le Residenze sono esse stesse “case” in cui le Compagnie svolgono la loro attività, a stretto contatto col territorio che le circonda: Luoghi Comuni 2011 racconterà come questo rapporto si trasformi nel “teatro in casa”, dando l’occasione al pubblico di poter vedere durante il festival i migliori spettacoli portati nelle case lombarde ed italiane dalle Residenze in questi anni.
“DAL PALCO A CASA TUA”: storia, arte ed organizzazione del Teatro in casa
Associazione Etre unisce sempre ai propri festival un momento convegnistico o di tavola rotonda, per approfondire con pubblico, operatori e critica i temi trattati o quelli particolarmente di rilievo nell’attività di Etre.
Il tema del Festival, il teatro in casa, offre un interessante spunto di riflessione sullo spettacolo “dal vivo” nel suo senso più stretto, come rapporto individuale fra la compagnia e lo spettatore, in un luogo simbolico e di condivisione come quello della propria casa.
Il Teatro in casa non ha ancora trovato uno studio approfondito e sistematico da parte della critica o dei tecnici, malgrado si stia diffondendo sempre più. Con l’aiuto di ospiti ed artisti, nella giornata di venerdì parleremo di:
- storia del Teatro in casa in Italia, e delle prime Compagnie che se ne sono occupate
- portare il teatro nelle case: quando è pensiero di una ricerca artistica, e quando è necessità di esplorare un nuovo mercato
- organizzazione del teatro in casa: come viene gestito il “luogo altro” dalle Compagnie, limiti e possibili scenari futuri per Siae, permessi ed agibilità
- l’Ospite: chi apre la propria casa allo spettacolo, storia e testimonianze di una ben radicata pratica sotterranea, fra il salotto d’elite e la ricerca della condivisione con gli amici
- sociologicamente in casa: il valore simbolico e rituale di fare e ospitare teatro nelle case
Hanno già confermato la loro adesione Mariella Fabbris, Gerardo Guccini, Teatro delle Ariette, Fernanda Tucci, Renato Palazzi, Mimma Gallina. Modererà l’incontro Oliviero Ponte di Pino.
“SPEED-PALCO come nell‘800”: continuano gli incontri dello speed dating teatrale organizzato da Etre
Scopo di uno speed dating teatrale è l’incontro fra Compagnie di produzione e Teatri/Spazi di programmazione.
Acquirenti e venditori vengono fatti sedere uno di fronte all’altro in una fila di tavoli, e ogni venditore ha a disposizione 6 minuti di tempo per proporre all’acquirente le proprie produzioni, prima che suoni il gong e sia costretto a passare al programmatore successivo!
Una formula divertente, originale e democratica per agevolare lo scambio e la conoscenza fra i due comparti del mondo teatrale, che dalla prima edizione raccoglie consensi e attenzione da parte di operatori e critica.
Il Mini-speed si terrà nel pomeriggio di sabato, nei palchetti del Teatro Sociale di Como.
“ESSERE LUOGHI COMUNI”: incontro con le istituzioni
Associazione Etre porta avanti dalla sua costituzione un’azione politica volta al riconoscimento ed al sostegno delle residenze teatrali, sia a livello locale e regionale, sia a livello nazionale.
In vista del Festival 2012, la cui parte convegnistica LC Patch sarà in parte caratterizzata dal tema politico, Etre invita al Festival 2011 le maggiori istituzioni del territorio lombardo per un primo incontro di discussione condivisa con le residenze lombarde, per “fare il punto” della situazione legislativa e politica legata alle residenze, e per mostrare parte del proprio lavoro sul territorio.
L’incontro è riservato ai rappresentanti delle istituzioni e alle residenze Etre.
DESTINATARI DEL PROGETTO
I destinatari del festival, con riferimento alle azioni caratterizzanti, sono:
- istituzioni locali e regionali: primo momento istituzionale per condividere il percorso verso il riconoscimento durante il convegno; presentazione di Etre attraverso i suoi spettacoli; radicamento della Residenza ospite presso le istituzioni locali grazie all’appoggio di Provincia e Regione e alla visibilità del Festival
-
- pubblico locale: presentazione dell’attività di Etre; coinvolgimento del pubblico con la modalità teatro in casa; radicamento della Residenza ospite e allargamento del suo pubblico
-
- operatori nazionali e critica: approfondimento della tematica del teatro in casa con operatori e critica interessata; momento di passaggio e prima presentazione per Luoghi Comuni 2012
-
Il teatro milanese al tempo dell’ascolto I due incontri dell'assessore Boeri con i teatranti milanesi di Redazione ateatro-Mimma Gallina
Il metodo dell’ascolto, che ha caratterizzato la campagna elettorale di Giuliano Pisapia contribuendo in modo determinante al risultato finale, sta caratterizzando anche l’operato della giunta comunale milanese e ne definisce lo stile, anche in questa prima fase di scelte difficili e inevitabilmente impopolari.
Ma la campagna elettorale è finita e la scommessa da vincere sul campo, giorno per giorno, è quella di trovare un punto d'equilibrio fra il rapporto costante con i cittadini (a livello del territorio, delle diverse aree economiche e sociali e delle diverse espressioni della cosiddetta società civile), e la necessità di mettere a fuoco e attuare politiche precise e coerenti.
Seguendo questo metodo, l’Assessorato alla Cultura, Expo, Moda, Design, ha promosso una serie di appuntamenti, «Piazza Duomo 14. Incontri di cultura», per raccogliere le indicazioni e gli umori dei settori culturali della città. Due di questi incontri, il 29 settembre e 5 ottobre, sono stati dedicati a Nuove forme di produzione per il teatro milanese, presente l’assessore Stefano Boeri e i consulenti Alberica Archinto, Tommaso Sacchi e Claudia Bergonzi, cui si è aggiunta, al secondo incontro, anche Giulia Amato, direttore centrale ad interim della direzione cultura e del settore spettacolo.
Va detto subito che l’ascolto c’è stato davvero: Boeri ha seguito con attenzione e cortesia impeccabili (senza dare segni di fastidio, di eccessiva adesione né di esplicita noia) una sessantina di interventi serrati che (fatta eccezione per il Piccolo, assente) hanno visto alternarsi al microfono in ordine sparso nelle due sedute, tutto o quasi tutto il teatro milanese: quello delle convenzioni e quello delle periferie (geografica e del sistema), i grandi vecchi e le new entry, i giovani e gli ex giovani. E molti di loro una occasione così per essere ascoltati non l’avevano proprio mai avuta: "Chi di loro era riuscito a farsi ricevere da un assessore?", ha osservato qualcuno.
Ma va anche detto ache il tempo massimo di 4 minuti a intervento, sommato all’indicazione esplicita (enunciata in apertura e probabilmente nei contatti preliminari) di stare sul concreto, per segnalare problemi e fornire suggerimenti e idee precise, ha consentito solo di sfiorare il tema annunciato. Elenchi di problemi, micro soluzioni e presentazioni spesso (anche comprensibilmente) auto-propagandistiche di gruppi e teatri, hanno aperto scorci sull’esistente e magari offerto spunti operativi, ma pochi interventi sono riusciti a portare elementi di analisi utili per capire il sistema nel suo insieme fondare un autentico progetto di riforma. Insomma, se qualcuno accarezzava l’aspettativa che da questa occasione emergessero (nuove) forme di produzione e organizzazione, e si cominciassero a delineare (nuove) politiche, dovrà aspettare altre occasioni e future elaborazioni (o la prossima puntata).
L’assessore e l’assessorato (come la giunta Pisapia), sono del resto perfettamente consapevoli che la buona amministrazione, come la buona politica, non è la somma delle idee e delle esperienze, e che le buone pratiche della partecipazione rischiano di sfociare in demagogia, se non sono accompagnate dal confronto sui principi e da idee precise.
Cronaca ragionata della prima serata...
La breve introduzione di Alberica Archinto è stata particolarmente ottimista rispetto alla qualità “europea” dell’organizzazione, della produzione, e dell’offerta teatrale milanese; ha suggerito di accantonare questioni di carattere generale e di cui pure il Comune si dovrà occupare (come le convenzioni), orientando gli interventi sul tema dei “servizi” che potrebbero essere attivati, facendo esempi concreti, vedi il problema delle sale prova e le possibili azioni promozionali. Gli interventi - così numerosi che non è possibile darne conto singolarmente - hanno spesso avuto un taglio "autobiografico", ma proprio a partire dai casi di ciascuno, è possibile cogliere elementi ricorrenti e significativi.
Alcuni interventi hanno toccato il tema della funzione del teatro nelle periferie, coniugando la necessità di perseguire e far valere la propria qualità artistica con la potenziale funzione aggregante e la missione sociale, in contesti metropolitani nuovi e vecchi (interculturali, di degrado, di isolamento), fra difficoltà organizzative e economiche; definire missione e identità specifica degli spazi e delle organizzazioni è una necessità che va del resto al di là della collocazione territoriale e della dimensione economico-organizzativa (di centro o periferia). Il tema di dove e quando aprire teatri, a chi affidarli e come gestirli è stato accennato, ma poco approfondito.
Si è molto parlato di lavorare in rete e di reti (ma con tendenziale genericità e scarsa concretezza), e della necessità di dialogo fra le diverse aree del sistema. E' stato quindi sfiorato il nodo della rappresentanza, mentre quello del “movimento” -con riferimenti alle problematiche del lavoro e naturalmente alla questione del “bene comune” - è solo stato accennato, in riferimento alle vicende del Valle.
La questione del ricambio generazionale (che è sia artistica e sia organizzativa) non preoccupa solo i giovani intorno ai trenta e la generazione dei quarantenni (chi sa fra le due quale è e sarà la più penalizzata?): segni di una maggiore consapevolezza, responsabilizzazione e “generosità” sono arrivate dai principali teatri presenti (e sono del resto evidenti nei programmi di questa stagione).
Sul tema delle risorse e della relativa distribuzione, si è sostanzialmente sorvolato (per eleganza, consapevolezza della situazione economica quasi tragica o incoscienza?), soprattutto da parte dei più giovani (mentre qualche accenno, cortese, è arrivato dagli operatori più maturi). L’impressione è che sia diffusa l'opinione che un pacchetto di servizi e agevolazioni - che hanno indubbiamente anche un valore economico - possa sostituirsi ai più tradizionali contributi, assegnati a fronte di convenzioni o progetti (ma i teatro lo pensano davvero? E lo pensa anche l’assessore?).
Così – come suggerito - si è parlato di promozione: in un’atmosfera dejà vu, sulle labbra degli over fifty affioravano scettici sorrisi di fronte a parole come totem (un miraggio dagli anni Settanta), mentre più fresco, convinto e unanime è stato il richiamo alla Festa del Teatro, alla sua funzione promozionale, all’opportunità di un suo rilancio (e del resto Daniela Benelli, che l’ha inventata assieme all’AGIS, siede in giunta). Nel complesso la questione della promozione -soprattutto nella seconda serata - ha fatto emergere la necessità di operare in direzione dello stimolo alla domanda e la convinzione che stia nel pubblico la principale risorsa, anche economica, per il futuro del teatro milanese.
Per quanto riguarda gli altri possibili servizi e forme indirete di sostegno: il problemi degli spazi per prove è stato naturalmente ripreso, ed è particolarmente sentito anche quello del costo degli alloggi per le ospitalità, ovvero la necessità di foresterie. Alcuni ritengono che il Comune dovrebbe trovare il modo di alleviare alcune imposte e il costo delle utenze: non solo la tassa sull’affissione, ma anche l’energia elettrica – si è osservato che in periferia i luoghi pubblici di cultura sono anche presidi di sicurezza - e la tassa sui rifiuti.
Infine c’è chi ritiene che il Comune dovrebbe mettersi in relazione con il MIBAC, facendo valere di più le ragioni della città di Milano, e rilanciando le specificità dell’area metropolitana.
Interessanti gli omissis. Parole poco pronunciate sono state Expò (con uno spiritoso: «Ci piacerebbe esserci!»), Lirico, Arcimboldi. Solo un paio di volte è stata menzionata la Fondazione Cariplo, da altrettanti “vincitori” di bandi: smemorati gli altri.
Del tutto dimenticata negli interventi anche la Regione Lombardia, con la sua assenza di politica culturale, mentre - per dare a Cesare quel che è di Cesare - è emerso con chiarezza e gratitudine, fra prima e seconda serata, il ruolo promozionale assolto nei decenni dalla Provincia (da “invito a teatro” alla Festa del teatro).
...e della seconda
Dopo un gradito aperitivo offerto da uno sponsor, l’assessore Boeri ha sintetizzato in un intervento di pochi minuti, in apertura della seconda serata, alcune linee di lavoro e proposte:
il metodo dell’ascolto e del confronto con gli operatori continuerà e si attuerà anche attraverso uno “sportello” (per raccogliere suggerimenti, idee, progetti, richieste);
gli assessori e gli assessorati collaboreranno con regolarità fra loro per i numerosi aspetti emersi e che riguardano più settori: non solo cultura, ma territorio, questioni sociali, formazione e lavoro;
anche in considerazione della carenza di risorse, i servizi suggeriti vanno messi a punto e attuati (chiarendo bene cosa in effetti serve e le modlalità): promozione, prove, alloggi, anche estendendo al teatro le convenzioni con gli albergatori studiate per l’Expò (questo è stato l’unico accenno ai collegamenti fra il popolo del teatro e l’Expò);
infine va pensato – sulla scia della “festa del teatro” ma senza un eccessivo attaccamento a quella formula - un grande momento di lancio e di “racconto” della scena milanese, per battere un colpo anche a livello europeo.
L’assessore ha raccomandato agli operatori di dialogare fra loro, di fare rete senza sacrificare per questo le individualità e la necessaria concorrenzialità, di superare blocchi (collegando un accenno alla rappresentanza: l’AGIS rappresenta molti, ma non tutti).
Forse per le reticenze del primo appuntamento, o per timore che l’assessore pensi davvero che, a fronte dei tagli al bilancio, i servizi possano sostituirsi ai contributi, gli interventi della seconda serata sono stati più precisi sul tema dei finanziamenti e della distribuzione delle risorse, e hanno offerto maggiori elementi di analisi, non senza un paio di spunti polemici (anche questa volta, da parte degli operatori anziani, più che dai giovani).
In sintesi: va benissimo servizi e ascolto, ma i nodi del sistema milanese si chiamano MITO, Expò, Lirico, Arcimboldi... E i problemi sono stati l’impoverimento progressivo, l’assenza di certezza rispetto alle risorse, i tempi di decisione e di erogazione: modi di operare che devono cambiare.
Si è sottolineato che una riduzione del sostegno comunale metterebbe a rischio anche la tenuta dei teatri convenzionati (teoricamente i più solidi, rappresentano la specificità e vanto del sistema milanese), già posti in progressiva difficoltà per la contrazione del mercato nazionale e per le pressioni fiscali e previdenziali. Interessanti i dati forniti in proposito (e a proposito della distribuzione delle risorse): i teatri convenzionati sono oggi 20 e sviluppano un giro d’affari di 24 milioni di €, con 920.000 spettatori, a fronte di 2 milioni di € di contributi comunali. A confronto Il Piccolo da solo riceve 4,5 milioni di € e un giro d'affari di 21 milioni di € e 260.000 spettatori, mentre MITO conta 170.000 spettatori (e un contributo analogo a quello dell’insieme dei teatri).
Se da queste considerazioni è arrivato un messaggio preciso, l’insieme degli interventi è stato anche questa volta dominato dalle autobiografie, da un po’ di autopromozione (chi non ne aveva fatta la volta precedente si è probabilmente chiesto: «Quando mai ricapiterà un’occasione simile?»), e da spunti e suggerimenti concreti, qualcuno nuovo rispetto alla tornata precedente e interessante.
Fra questi: la funzione dei festival internazionali e la ripresa/riqualificazione della stagione estiva, forme innovative di promozione (come estendere o affiancare a quello tradizionale un “invito a teatro” per gli spazi “sfigati”), il suggerimento di favorire il giro nella città - in spazi diversi - degli spettacoli dei gruppi senza sede, la proposta di vincolare i teatri convenzionati al sostegno produttivo di gruppi giovani, la necessità di intervenire sulla regolamentazione del teatro di strada, la specificità e la necessità che la città si doti di spazi per bambini, la promozione di rapporti internazionali (l’ufficio del Comune che aiutava a completare i bandi è stato chiuso), la questione della drammaturgia (come sostenerla, come lanciarla: è stato proposto anche un premio dedicato a Franco Quadri).
Ma soprattutto da questa seconda serata è emersa crescente rilevanza e la diffusione capillare dei piccoli teatri: alcuni davvero nuovi o caratterizzati da nuove gestioni: rispetto al panorama cittadino degli anni scorsi, questo – e in genere la moltiplicazione degli spazi - è il dato che per primo balza agli occhi). Teatri piccoli o piccolissimi, giovani o meno, gruppi senza sede (generazionalmente un po’ più maturi), hanno espresso la necessità, l’ansia e la fiducia di essere davvero ascoltati.
La serata si è chiusa tardi ma con un invito dell’assessore a visitare assieme la mostra di Artemisia Gentileschi. Una cortesia apprezzata: il senso dell’ospitalità e lo stile non mancano certo a Boeri
Il contributo di www.ateatro.it
Fin qui la nostra cronaca ragionata, che ci auguriamo possa costituire un contributo (almeno ad orientarsi nei verbali!).
Come www.ateatro.it, apprezziamo l’ascolto, la sintesi e la concretezza (le nostre Buone Pratiche del Teatro per sette edizioni si sono basate proprio su questo), che però devono appoggiare su sforzi di analisi e inquadrarsi e concretizzarsi in una vera e propria politica culturale. Su questo punto ci erano sembrate generiche le proposte avanzate in campagna elettorale da Giuliano Pisapia (lo abbiamo sottolineato nel quadro della nostra indagine nazionale sulle ultime elezioni), e fino a oggi non ci sembra sia stata ancora elaborata una vera e propria politica cultuale, che possa per di più coordinare le diverse competenze dell’assessorato (Wxpò, moda e design).
Ma siamo all’inizio del percorso e aspettiamo fiduciosi: ascoltare il teatro milanese è meritorio, ma ci sembra difficile dare risposte, se non piccole piccole (sportello, servizi, accordi fra assessori e festa sono francamente il minimo sindacale), senza un disegno complessivo, che colleghi l’insieme del teatro con le istituzioni teatrali pubbliche (Piccolo), l’organizzazione musicale e le risorse che mobilità (MITO per esempio), o senza lanciare obiettivi e temi comuni di lavoro, e stabilire collegamenti interdisciplinari. E senza che sia chiaro un percorso verso l’Expò.
Si tratta di ridisegnare – come dicevamo nel commento all’inchiesta elettorale - l’hardware e il software di un sistema teatrale (e culturale) cittadino, compatibile e proiettato verso il futuro.
Uno sforzo di analisi e di critica sono fondamentali per partire col piede giusto: bisogna riprendere alcuni dei temi toccati nella due giorni, rifletterci a fondo, farsi alcune domande.
E’ davvero motivato l’ottimismo sul teatro milanese, che non ha espresso o non ha visto riconoscere a livello internazionale nessun talento (individuale o di gruppo), dopo Strehler? (Favorire la nascita e l’affermazione del talento non è un tema di politica cultuale?)
E’ realistico il richiamo al dialogo se non si accompagna a una riflessione approfondita sulla complessità del sistema e sulle sue diversità?
Quali modifiche vanno introdotte nella valutazione dei teatri convenzionati (pur garantendone l’indipendenza e confermandone il sostegno come area di interesse pubblico e ossatura del sistema), per farne un ambiente aperto, favorire la circolazione di energia? (sono meccanismi avviati da Antonio Calbi – bisognerà pur dargliene atto - ma ancora tutti da mettere a punto)
La missione del Piccolo Teatro va confermata o ridisegnata? E se sì, come?
Quale deve essere il rapporto delle punte istituzionali dell’organizzazione teatrale cittadina con quelle periferiche? E quali sono le modalità per selezionare e sostenere realmente queste ultime?
Come si rapporta la ricerca dell’eccellenza artistica con la funzione sociale? E quali spazi (teatrali, o polivalenti?) vanno aperti e dove? Come conciliare la spontaneità con la necessità di un “piano regolatore” (degli spazi e delle organizzazioni)?
Continuerà l’assessorato, come nella giunta Moratti, a perseguire iniziative proprie? Un po’ da impresario, un po’ da direttore artistico, ma anche promozionali? (nel settore della danza per esempio)
E come si relaziona il Comune con gli altri protagonisti, pubblici e non, della politica culturale territoriale? La regione, la provincia, e la Fondazione Cariplo?
E sarà possibile, e come, con quali argomenti e su quali programmi, far arrivare anche al teatro risorse private? (se mai arriveranno al resto)
Infine (ma a monte): come conciliare gli obiettivi con le disponibilità i fondi? quali saranno le linee di bilancio dell’assessorato per il 2012?
Le domande potrebbe proseguire. E le risposte intrecciate dovrebbero potersi avere in tempi brevi.
C’è un grande lavoro da fare: le due serate di “incontri di cultura” sono state un (utile) inizio.
L'ENPALS: da ente di previdenza a polo del welfare del settore dello spettacolo? Quattro domande a Titti Di Salvo, Presidente del Consiglio Indirizzo e vigilanza dell’Enpals di Mimma Gallina
Abbiamo chiesto a Titti Di Salvo, dal 2009 Presidente Consiglio Indirizzo e vigilanza dell’Enpals (già segretaria confederale Cgil nazionale dal 2002 al 2006 e parlamentare del 2006 al 2008), di affrontare con noi alcuni dei temi nodali dell’emergenza lavoro nel settore teatrale e precisare la funzione dell’ENPALS. L’intervista delinea con chiarezza la questione della “disoccupazione” (unica via d’uscita quella legislativa), e le origini dell’avanzo di amministrazione dell’Ente. Ma soprattutto mette a fuoco la necessità e le possibili linee di una riforma che trasformi l’ENPALS in una vera e propria centrale di sostegno e promozione del settore dello spettacolo, un polo del welfare. Un obiettivo ambizioso, ma una battaglia che vale la pena di combattere, a maggior ragione con la minaccia all’orizzonte di un accorpamento degli Enti previdenziali (Super Inps).
1) DISOCCUPAZIONE Non possiamo che partire che da questo punto, che ha provocato un senso diffuso di ingiustizia presso gli attori di tutte le generazioni, petizioni, assemblee, azioni giuridiche... per la prima volta sembra che la categoria stia esplodendo, anche perché, a fronte del calo occupazionale l'indennità (se pure riconosciuta a macchia di leopardo, aveva rappresentato negli ultimi anni una boccata di ossigeno per molti. Lo conosci di certo meglio di me ma sintetizzo il tema riprendendo da petizioni on line: "...l'indennità di disoccupazione a requisiti ridotti respinta dall'INPS sulla base dall'art. 4, comma 5 del regio decreto n.1827 del 1935 che afferma: "Non sono soggetti all'assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria: (...) 5) il personale artistico, teatrale e cinematografico" e discrimina gli artisti, attori , ballerini , professori d'orchestra e tutti coloro che (secondo l'art.7 regolamento 7 dicembre 1924 n 2270 a cui si collega il comma 5 dell'art. 40) prestano opera la quale si richieda una preparazione tecnica, culturale o artistica. A seguito di una recente sentenza della Corte di Cassazione la n 12355 del 20 maggio 2010, l'INPS nega l'indennità").
Come pensi si possa uscire da questa situazione? Credi sia possibile e come (sul piano giuridico e amministrativo) ribaltare la scelta di escludere dall'indennità di disoccupazione le categorie artistiche? Il tema riguarda solo l'INPS o l'ENPALS (cui si riconduce la classificazione dei lavoratori), è in qualche modo coinvolta?
Per rispondere alla domanda conviene partire dalla normativa generale per cogliere meglio l’asimmetria tra quella normativa e le regole applicate nel mondo dello spettacolo:un’asimmetria figlia - non solo ma anche - di una definizione dei rapporti nel mondo dello spettacolo di settanta anni fa.
Sul piano generale, la normativa prevede che lavoratrici e lavoratori con rapporto di lavoro subordinato abbiano diritto - di fronte alla disoccupazione involontaria - a un trattamento economico sostitutivo di quello retributivo. (Si tratta di due diverse tipologie di indennità di disoccupazione: la prima, ordinaria, si matura con un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione e prevede l’erogazione di un trattamento economico cha va dal 60% al 40% della retribuzione media degli ultimi tre mesi di attività lavorativa per un periodo massimo di 8 mesi, 12 mesi per i lavoratori con più di 50 anni; la seconda, a requisiti ridotti, si matura con almeno 78 giornate lavorate nell’anno solare precedente l’inizio del periodo di disoccupazione e prevede l’erogazione di un trattamento economico che va dal 35% al 45% della retribuzione media giornaliera percepita nell’anno solare di riferimento per un periodo massimo pari alle giornate lavorate nell’anno solare precedente l’inizio del periodo di disoccupazione con un limite massimo predefinito. L’erogazione cessa all’atto della riattivazione di un rapporto di lavoro ed è finanziata con un contributo calcolato sulla retribuzione lorda dei lavoratori che possono beneficiare del trattamento medesimo in misura variabile dall’1,31% all’1,61% a seconda dei settori produttivi.)
E’ evidente che si tratta di regole totalmente inadeguate al settore dello spettacolo in cui il periodo medio di occupazione è molto più breve rispetto ai settori industriali e del commercio. In questo settore in sostanza l’indennità di disoccupazione riguarda solo lavoratrici e lavoratori con rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (imprese radio televisive, fondazioni lirico-sinfoniche, ecc.) e quelli a tempo determinato con contratto di lunga durata nel corso dell’anno solare. In più esistono spesso rapporti di lavoro subordinati che hanno una durata limitata nel tempo (3-4 giorni), il cui svolgimento determina, per i lavoratori in stato di disoccupazione, la cessazione dell’erogazione del trattamento economico di disoccupazione con due effetti: spesso il lavoratore non prende neppure in considerazione la prestazione lavorativa, oppure opera senza la regolarizzazione del rapporto di lavoro.
Poi l’articolo che citavi, l’art. 4, comma 5, Regio decreto legge n. 1827 del 1935, opera una vera e propria discriminazione grave fra lavoratori subordinati la cui prestazione è connotata da un contenuto “artistico” rispetto agli altri perché stabilisce - come ricordavi - che il trattamento di disoccupazione non spetta al “personale artistico, teatrale e cinematografico”.
La motivazione dell’incongruità probabilmente va fatta risalire all’idea dell’epoca che si trattasse di persone dotate di quel potere contrattuale che nell’immaginario collettivo esprimono i grandi artisti. Nel tempo non è cambiato il pregiudizio secondo il quale il lavoro nello spettacolo non è un vero e proprio lavoro, e ancora oggi quel pregiudizio spinge ad assimilare nel senso comune le decine di migliaia di lavoratori del settore con rapporti di lavoro discontinui e mal retribuiti al ristretto novero dei pochi grandi artisti di fama.
Ora, dal 1935 fino all’anno scorso, l’INPS ha applicato la normativa in modo disomogeneo sul territorio, per cui è capitato che più che alla natura del rapporto di lavoro, l’ammissione al trattamento di disoccupazione sia stata subordinata alla verifica del regolare assolvimento dei relativi obblighi contributivi da parte del datore di lavoro. Ma in relazione al contenzioso instaurato da un artista, il 20 maggio 2010 si è espressa su questo punto la Corte di Cassazione (sentenza n. 12355). Nella sentenza la Corte ha ribadito il contenuto e l’applicabilità della legge del 1935, e cioè il personale la cui prestazione lavorativa (di natura subordinata) richieda una preparazione artistica e culturale non è soggetto all’assicurazione generale per la disoccupazione involontaria.
Si è chiarita dunque irrigidendola l’interpretazione della norma.
L’INPS poi, sentendo l’ENPALS e le Organizzazioni sindacali, ha ridefinito, basandosi sulle declaratorie valide per la pensione, l’elenco delle figure professionali del settore che, per la connotazione “artistica”, sono escluse dal trattamento di disoccupazione involontaria (circolare INPS n. 105 del 5 agosto 2011).
Questo dunque lo stato dell’arte di una situazione paradossale sul piano generale e sicuramente discriminatoria. Ma la modifica dell’attuale stato di cose può essere fatta solo con il cambiamento delle leggi attuali. Per quanto ci riguarda abbiamo lavorato in questa direzione con iniziative pubbliche di denuncia del problema e audizioni parlamentari. In questa direzione per la verità va il disegno di legge recente “Disposizione per la tutela dei lavoratori dello spettacolo dell’intrattenimento e dello svago” (A.C. n.762 ed altri), firmatari gli on.li Bellanova, Ceccacci Rubino e altri, sostenuto dalle forze politiche di governo e di opposizione che prevede l’abrogazione della norma del 1935 e l’estensione dell’assicurazione per la disoccupazione involontaria a tutto il personale dello spettacolo con rapporto di lavoro autonomo.
2) L’UTILE DELL'ENPALS
Ti sottopongo un passaggio del documento conclusivo del Convegno di Prato sul tema della “Stabilità” (marzo 2011): "Per quanto riguarda questi ultimi due punti - formazione e ammortizzatori sociali - come per possibili incentivi alla continuità occupazionale, un sostegno concreto non dovrebbe competere soltanto al Ministero e gravare sul FUS, quanto all’ ENPALS. L’equilibrio gestionale (e la dispersione contributiva), ha portato l’ENPALS ad accantonare un utile che qualcuno stima in un miliardo e mezzo di euro (o, da altre fonti, un miliardo e trecentomila euro). Come ha sostenuto anche il presidente dell’AGIS, Protti al convegno “ENPALS, LE TRE FACCE DELLA MEDAGLIA” (ROMA, CNEL, 18 FEBBRAIO 2011), è giusto oggi che queste risorse tornino almeno in parte nelle disponibilità dei lavoratori e delle imprese. E’importante che nelle trattative che le associazioni di categoria avvieranno con l’ENPALS, la promozione del lavoro sia al primo posto. Suggerimenti precisi – da verificare sul piano delle modalità - possono consistere nell’abbassamento progressivo di oneri contributivi rapportato alla durata del contratto (o in premi che “restituiscano” risorse a chi pratica contratti di lunga durata), e nel sostegno ai progetti di formazione interna ai teatri stabili e alle compagnie (per esempio nella concessione di borse di studio ai lavoratori – come avviene in Francia e in altri paesi europei - e in contributi finalizzati alle imprese). Va inoltre messo a punto un pacchetto di incentivi fiscali e previdenziali, e vanno definiti criteri certi nel decreto ministeriale, finalizzati all’occupazione e a progetti di accompagnamento al lavoro di elementi giovani." Considerazioni forse un po’ingenue? La domanda principale è (anche dopo il convegno di Milano): c'è la possibilità, e come, che l'utile dell'ENPALS torni nella disponibilità dei lavoratori e delle imprese?
Le ragioni che hanno portato l’ENPALS ad accumulare un notevole avanzo di amministrazione (al 31.12.2010 pari a circa due miliardi di euro riferiti alle due gestioni speciali: lavoratori dello spettacolo e sportivi professionisti) sono di carattere normativo (le riforme della previdenza avviate dal 1997) e gestionale (lotta all’evasione e elusione contributiva).
Un avanzo di tutto rispetto ricordando che, alla fine degli anni ’90, l’ENPALS era in una condizione economica e finanziaria molto critica.
Naturalmente è buona cosa avere certezza della stabilità di un Ente previdenziale e preservare le risorse per il pagamento delle pensioni future. Ma è la stessa congruità dell’avanzo che interroga tutti sulla scarsa generosità e adeguatezza dei criteri per il calcolo e la misura della pensione e consiglia di agire in modo da rendere quei criteri maggiormente coerenti con le specificità del settore.
Poi non v’è dubbio che una parte della contribuzione potrebbe essere destinata a creare quella rete di protezione sociale di cui il settore è privo, per equità e per sostenere un settore di straordinaria importanza per lo sviluppo economico e culturale del paese. Per esempio si potrebbe:
- finanziare una rete di ammortizzatori sociali, oggi pressoché inesistente nel settore (gli istituti della cassa integrazione guadagni, fatta eccezione per le industrie di noleggio e sviluppo cinematografico, non si applicano al settore dello spettacolo!);
- Introdurre forme di intervento volte a salvaguardare i livelli occupazionali e ridurre gli oneri sociali delle imprese in stato di crisi;
- Introdurre agevolazioni contributive per favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro.
Si tratta di favorire cioè la trasformazione dell’ENPALS da Ente di previdenza a polo del welfare del settore dello spettacolo. A questo obiettivo stiamo lavorando da tempo cercando di far emergere il tema pubblicamente, chiamando a confronto sull’argomento tutti i soggetti interessati. Ma sappiamo che le novità normative necessarie per realizzarlo richiedono non solo la condivisione di tutti coloro che operano nel settore ma anche una situazione politica e parlamentare meno fibrillata di quella attuale. Alla fibrillazione generale si è aggiunta di recente anche l’annuncio dell’ultima manovra finanziaria dell’ipotesi di un accorpamento degli Enti previdenziali (Super Inps) che naturalmente introduce ulteriori elementi di incertezza.
3) PREMIARE LA CONTINUITA e IL RICAMBIO
Attualmente il parametro ministeriale fondamentale per l’assegnazione dei contributi è dato dalle giornate lavorative, ma con questo il Ministero valuta, secondo me, la quantità/non la qualità dell'occupazione (incentivando paradossalmente l'occupazione a singhiozzo: un'iperproduzione che non favorisce l'occupazione reale).
E' possibile, che l'ENPALS trovi il modo di premiare/incentivare la continuità, la formazione permanente, il ricambio? per esempio con variazioni (abbassamento) delle aliquote, forme di sostegno/premi all'accompagnamento o altro?
In base agli attuali compiti istituzionali dell’ENPALS, non ci sono spazi per interventi di premialità per le imprese che sviluppano progetti di qualità fondati sulla continuità e stabilità dei rapporti di lavoro e quindi anche sulla formazione permanente. Una riforma legislativa dei compiti istituzionali dell’ENPALS versus il polo del welfare del settore dello spettacolo potrebbe invece consentirlo.
4) FORMAZIONE PERMANENTE
In altri paesi - e in particolare in Francia - gli enti previdenziali e il Ministero del lavoro sostengono i costi della formazione permanente degli attori e dei lavoratori dello spettacolo soprattutto in fase di disoccupazione. Questa scelta ha fatto si da un lato che le forme di sostegno dello stato francese allo spettacolo si attuino in due direzioni, direttamente a favore delle imprese (ma sulla base di regole e missioni molto precise: la responsabilità sociale) e a sostegno del lavoro. Ha anche creato una consapevolezza alla necessità della formazione permanente da noi ignota e fatto emergere la figura del formatore nella sua specificità (da noi molto sfumata), e le problematiche connesse alla formazione dei formatori. Un lavoratore dello spettacolo italiano è oggi incredibilmente svantaggiato rispetto ai colleghi europei. Cosa pensi di questa situazione e di questa sperequazione. E' possibile pensare che interventi simili vengano attuati da noi? come e anche a carico/da parte dell'ENPALS?
Non v’è dubbio che un efficace sistema di formazione potrebbe costituire un volano formidabile di sviluppo per il settore.
Ma anche in questo caso, l’ENPALS potrebbe svolgere una funzione in questo senso, per esempio nella selezione e nel finanziamento dei progetti formativi elaborati dagli enti bilaterali o dalle Regioni (alle quali pure la Costituzione attribuisce un’importante competenza legislativa in questo campo), solo dopo uno specifico intervento legislativo che ne ridefinisca i compiti.
Per gemmazione carsica The Magdalena Project a Cardiff di Selene D'Agostino
The Magdalena Project è nato nell’ombra e si è diffuso nell’invisibilità. Sono trascorsi 25 anni dal primo incontro di The Magdalena Project che Jill Greenhalgh, regista e Lecturer in Performance Studies all'Università di Aberystwyth, ha organizzato nel 1986 presso il Chapter Arts Centre di Cardiff in Galles. La rete internazionale di donne del teatro contemporaneo dal 16 al 21 agosto scorso ha voluto omaggiare tutte le professioniste che, con il proprio lavoro, hanno dato vita a centinaia di incontri Magdalena distribuiti nei cinque continenti. La rete ha dato vita nel corso degli anni ad efficaci e creative strategie di sopravvivenza (relazionale, organizzativa ed economica) tali da garantire la sua realizzazione fino ad oggi.
The Magdalena Project ha origine dal teatro di gruppo degli anni ‘70-80, anni in cui alle artiste dei teatri di gruppo si riconosce un ruolo chiave sia da un punto di vista teatrale che da un punto di vista politico-sociale. La ricerca di contesti teatrali altri, per lo più invisibili e ai margini del teatro stesso, nasce da necessità pratiche volte a risolvere, o perlomeno arginare, l’esclusione artistica di artiste professioniste dal mondo teatrale. In questi luoghi fare arte significa trovare un'appartenenza ed uscire dalla segregazione. Sin dai suoi albori il progetto Magdalena fluisce e scorre in modo carsico per la sua capacità di trasportare a distanza in modo invisibile principi di riferimento e soluzioni operative che si propagano per contatto diretto di modelli ed esempi, priva di una gerarchia di potere verticale. Forte invece il suo contrario: l'autorità salda e presente che si radica nella pratica del lavoro quotidiano. Una rete il cui modello epistemologico è la gemmazione.
La sua peculiarità è il rifiuto della logica della crescita per quantità a favore invece della capacità di generare da ogni incontro relazioni trasversali che potrebbero gemmare in un nucleo il quale, a sua volta, vivrà di vita propria in un terreno attiguo, dopo essere stato aiutato a sbocciare. Ogni nuovo incontro è così radicato localmente là dove si è innestato. É il caso ad esempio del Magdalena Sin Fronteras l'incontro che, con cadenza triennale dal 2005, Roxana Pineda organizza nella cittadina di Santa Clara nel cuore di Cuba. L'incontro negli anni è stato occasione di scambio per alcune delle protagoniste del teatro europeo, asiatico e latinoamericano che si sono aperte al dialogo sulle pratiche di un teatro femminile contemporaneo.
The Magdalena Project, di matrice europea, si fonde con le tecniche e la storia del teatro latinoamericano trovando a Cuba una sintesi che riesce a comporre le diverse anime di queste tradizioni teatrali. In maniera sorprendente tale fusione genera un creolismo teatrale e culturale grazie al quale si cerca di decifrare le forme di assimilazione e di integrazione anziché voler pretendere di riconoscere gli elementi di una realtà multipla e complessa composta dalla sovrapposizione di tradizioni teatrali eterogenee. L’interesse è focalizzato sul meccanismo di integrazione, sul modo in cui si produce l'incrocio di tradizioni e non sulla diversità o la sua esaltazione. Il punto centrale è l’invenzione di un linguaggio proprio che porti alla ricerca di una espressione artistica e che sia il riflesso, nello specifico dell'incontro del Magdalena Sin Fronteras, dell’identità cubana.
L'incontro di Cardiff dal titolo “Legacy & Challenge”, Eredità e Sfida, fa il punto sui 25 anni del network internazionale e riunisce i fermenti seminati nel mondo. Il tema proposto da Jill Greenhalgh è stata l'occasione per valutare l'eredità della rete Magdalena, che oggi si trova ad un punto di svolta. The Magdalena Project si interroga sulla sua struttura così come oggi si presenta con l'obiettivo di identificare sfide future. Sfide che siano all'insegna della sperimentazione e della proposizione di nuove strategie per pensare, fare, organizzare senza interrompere il processo di gemmazione. Sostanziale è l'idea di trovare un luogo fisico in cui esercitare il proprio mestiere che tuttavia non diventi sede di una tribù, bensì per l'occasione luogo di scambio professionale e conviviale che, come afferma Cristina Castrillo, regista del Teatro delle Radici a Lugano, sia «un’isola [chiamata] Magdalena nella quale si costruisce con le unghie quello spazio unico e insostituibile di dialogo, di critica, di apprendimento delle vecchie e nuove generazioni che inventano futuri senza rinnegare la radice del passato» (C. Castrillo, Una isla que recoge los náufragos que todavía sueñan, in «Tablas. La Revista Cubana de Artes Escénicas», Vol. LXXVIII, n. 1 enero-marzo 2005, p. 22) – in cui le artiste e gli artisti si incontrano per una necessità ben precisa. Per creare spazi di libertà individuale che trovino solidarietà e rigore nella condivisione di spazi espressivi collettivi.
Il Magdalena nel tempo ha sviluppato caratteristiche proprie aggiornando l’idea di un teatro politico in cui predominano «due qualità o poteri: la metafora e la bellezza» (A. Woolf, Mujeres sobre las olas, in «Tablas. La Revista Cubana de Artes Escénicas», Vol. LXXVIII, n. 1 enero-marzo 2005, p. 40), affermazioni del diritto alla creatività femminile radicatasi nel tessuto sociale di quei contesti in cui le donne subiscono soprusi e vivono in condizioni sociali e culturali indegne: «una azione teatrale/politica (e non solamente politica senza essere teatrale) deve possedere il potere della metafora e avere la qualità di essere bella, racchiusa nelle proprietà estetiche» .(3) Una bellezza contundente, vulnerabile, di sfida che accomuna tutte le artiste del Magdalena Project ognuna delle quali coltiva uno spazio, il proprio, scrivendo la storia di una nuova rivoluzione senza armi, pacifica, basata sul culto della memoria, sulla persistenza e resistenza delle piccole azioni quotidiane.
Voci
La rete Magdalena è composta da una moltitudine variegata di stili espressivi capaci di coesistere nello stesso spazio come è accaduto in occasione di “Legacy & Challenge”. L'articolato programma che nella sua composizione ha visto susseguire workshop, talkshop, performance, eventi speciali, work in progress, dimostrazioni di lavoro, conferenze e uno spazio multimediale, è già di per sé un esempio. Tra gli spettacoli, The Garden of Epicurus, l'omaggio del Grenland Friteater (Norvegia), ne è l'essenza. É il racconto di un viaggio.
Il pubblico viene fatto sedere sul pavimento della sala – come fossimo la ciurma a raccolta sul ponte di una nave – e allo stesso tempo in un giardino in mezzo al mare. Dal ponte si vede la cabina di comando illuminata da una luce blu soffusa. É un viaggio notturno durante il quale una musicista che siede al pianoforte e canta con voce chiara, intrattiene il pubblico, mentre altre due attrici preparano il cibo che verrà offerto al pubblico. Per Geddy Aniksdal, che racconta la sua storia, il giardino di Epicuro è forse un luogo cui appartenere. In quello stesso giardino in cui per la prima volta nella storia della filosofia greca furono accolte le donne. Un luogo, il teatro, che è forza ristoratrice e vivificante. E lo può diventare solo nello stimolante rapporto con persone affini, con le quali ci si esercita, si discute e si brinda. Così il proprio lavoro teatrale diventa più vario e acquista una serena leggerezza. Quella stessa leggerezza e altrettanta professionalità cui abbiamo potuto assistere nella cattedrale di Llandaff grazie all'emozionante trio di Les Voix Polyphoniques. La cattedrale gremita ha ascoltato commossa e appassionata le voci di Brigitte Cirla, Marianne Suner e Tania Zolty cantare Black Sea Song. Il concerto a cappella, nato come tributo all'etnomusicologo georgiano Edisher Garakanidse all'insegna di uno scambio e di una fusione di riferimenti culturali e musicali insieme, è il frutto di viaggi e incontri in Georgia.
Le tre voci dipingono un caleidoscopio sonoro di canti laici e sacri che trasformano la cattedrale in un villaggio in festa. Cantare è di nuovo un altro pretesto per incontrarsi.
Ribellione
Ho assistito a Tierra de Fuego il work in progress di Carolina Pizarro, giovane attrice cilena, con la regia di Julia Varley (Odin Teatret/Danimarca), dall'alto delle gradinate. Vedere il lavoro da quella prospettiva è stato come poggiare gli occhi su una terra nuova, il Cile, scoprendone il profilo geografico disegnato su carta telata. Una performance essenziale che, per la sua struttura scenica, può stare in poco spazio e permettere all'attrice di essere autonoma. Il processo di lavoro esplora il concetto di viaggio verso una terra radicata nella memoria dell'immaginario femminile cileno: una terra in cui fuori dall'abitazione si accende e ci si prende cura del fuoco in segno della presenza umana. Un viaggio nella memoria delle radici umane a partire dal racconto della propria storia che si intreccia con quella di diverse donne cilene. Alcune hanno deciso di viaggiare, altre sono state costrette farlo. In entrambi i casi in segno di una trasformazione ribelle.
No Door on Her Mouth - a lyrical amputation è ribelle nella sua struttura narrativa. Dawn Albinger, performer australiana, in collaborazione con la regista e scrittrice Margaret Cameron, modella un viaggio minimalista in stile tragi-comico suddiviso in tre parti (The Dark Garden, The Crossing, The Orchard) in cui una donna viaggia attraverso il tempo e lo spazio, lottando per trovare l'equilibrio tra due rappresentazioni diverse della femminilità: la Diva e la fanciulla senza mani dei Fratelli Grimm.
Un atto unico che si apre con una donna snella, vestita di un lungo abito color bronzo, la bocca spalancata. Desidera ardentemente una pera sul tavolo a pochi centimetri da lei. Non c'è dialogo, né una trama narrativa tradizionale. La narrazione frammentata e ironica è lasciata agli oggetti: una sega, una porta, un nastro rosso. Un cestino di pere, il principale oggetto di scena, parla per lei alludendo alla storia della fanciulla mutilata dal padre. Senza mani vaga per il mondo alla ricerca di nutrimento fino a raggiungere un frutteto di pere da cui ricava nutrimento. Dawn Albinger mima il tormento mentale con ironia.
Nel tentativo di fuggire alla sua esistenza va verso la parete bianca sulla quale viene proiettato un video che mostra una zona di totale deforestazione. Con un nastro adesivo rosso traccia la sagoma di una porta. Abilmente la porta si trasforma in un buco attraverso cui fuggire, ma la donna è indecisa se restare o meno con il proprio disordine psicologico cui è abituata. A poco a poco lo spettatore ha a disposizione tutti gli elementi per muoversi in questo viaggio immergendosi in un paesaggio sonoro e visivo. L'artista video Sam James insieme al disegnatore luci, Squires Geoff, conducono lo spettatore attraverso ambienti diversi, dal selvaggio ambiente naturale alla placida sicurezza di una casa vittoriana.
Silenzio The Threat of Silence, di Jill Greenhalgh, If Silence Knew di e con Cristina Castrillo e Don't Forget Us di Annet Henneman raccontano il silenzio in tre modi complementari. Silenzio che si avvicina a quella stessa leggerezza che Calvino associa alla precisione e alla determinazione del linguaggio: elemento senza peso “che aleggia sopra le cose come una nube”.
The Threat of Silence nasce dalla commistione tra teatro, musica e scrittura. Jill Greenhalgh, per il primo movimento della trilogia The Quietude Project, si è avvalsa della collaborazione della scrittrice australiana Margaret Cameron, dell'artista video norvegese Zoe Christiansen, della violoncellista Nicola Thomas e dell'attrice Eddie Ladd di origini gallesi.
The Threat of Silence è un'evocazione dinamica di quiete e di silenzio. Jill Greenhalgh crea un lavoro per certi aspetti scomodo intrecciando tra loro i diversi elementi che compogono via via la performance - spazio, tecnologia, testo, suono e azione. L'opera che ne risulta è la creazione di un luogo che è il rifugio dal rumore sempre crescente, sovraccarico di informazioni che pervade costantemente la nostra vita quotidiana. Il video ritrae dapprima una giovane donna nel verde di un bosco lussureggiante, in quello che appare come un fermo immagine, ma che in realtà è una lenta carrellata in slow-motion. Successivamente l'immagine si sofferma su una donna anziana che siede all'interno di una sala dalle pareti bianche. La donna guarda il fuoco bruciare, mentre tra le mani raccoglie qualche petalo, una rosa, alcuni oggetti. Ricordi che alludono alla contemplazione silenziosa di un tempo futuro e passato. Frammento per frammento, lettera per lettera si compongono sullo schermo i brevi testi di Margaret Cameron. Tutto questo scorre davanti agli occhi dello spettatore mentre la violoncellista Nicola Thomas suona brani di Bach, Béla Bartók e John Tavener e l'attrice Eddie Ladd danza sulla scena.
If Silence Knew traccia, per gli occhi dello spettatore, immagini di leggerezza che assumono un valore emblematico di sottrazione di peso.
Il lavoro nasce come un piccolo esempio di teatro narrativo che fin dall'inizio ha rifiutato di usare le parole. La narrazione, con e nel silenzio, sembra cercare le voci mute che abitano allo stesso tempo chi agisce sul palcoscenico e chi ascolta. Cristina Castrillo dipinge una serie di tableaux vivants attraverso cui esplorare e ricercare le parole perse e quelle che non si ha il coraggio di pronunciare, forse perché anche se si potessero esprimere, alcune parole non sarebbero accompagnate dai loro sentimenti originali.
É uno spunto di riflessione più ampio quello proposto dall'attrice: molte parole, in teatro, hanno perso il loro significato e quelle che sono rimaste dovrebbero essere riscoperte.
Annet Henneman, l'anima di Hidden Theatre – Teatro di Nascosto (Volterra), riscopre il suo senso del teatro dando voce a chi voce non ha. É sola sulla scena, come Cristina Castrillo, ma a sua differenza la voce è tonante nella sala. Annet Henneman racconta il silenzio cui sono costretti uomini e donne per fuggire alla morte. Sono frammenti di monologhi e canzoni raccolti durante i suoi soggiorni in terre come l'Afghanistan, il Kurdistan, l'India, l'Iraq, il Ruanda colpite da guerre e oppressioni. La stessa voce delle trecento donne, le pasionarie di Bengasi, in Libia, che sfilano in corteo sole, uscendo per la prima volta dall’invisibilità che le ha celate in 42 anni di regime. Apparentemente la loro dimostrazione pubblica non ha niente a che fare con il teatro, ma un filo rosso le collega invisibile a noi. A quei luoghi in cui, come Jill Greenhalgh 25 anni fa scriveva in una lettera indirizzata a Susan Bassnett, artiste professioniste possono trovare la voce per raccontare la propria storia uscendo dall'invisibilità.
LE CITTA' Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie