ateatro 122

L'ultima nuova legge
Considerazioni generali, riassunto e appunti di lettura
di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino


 
Il lavoro nello spettacolo dal vivo
I dati occupazionali del settore e gli ammortizzatori sociali
di Alessandra Narcisi


 
Un horror musicale e metafisico in sette stanze e tre grotte
Santarcangelo 2009
di Oliviero Ponte di Pino


 
Per un nuovo teatro popolare: Oliviero Ponte di Pino intervista Paolo Rossi e Carolina de la Calle Casanova
La videointervista presentata in anteprima alla Spezia per Altra Cultura su you-tube
di Fabio Bertozzi


 
Se Giulio Cavalli deve andare in giro con la scorta (purtroppo per lui), allora forse il teatro serve ancora a qualcosa
Perché la mafia è un cabaret e un guitto può farla incazzare
di Oliviero Ponte di Pino


 
Il teatro multimediale alla conquista dell'Arsenale della Spezia
Una intervista con Anna Maria Monteverdi
di Redazione ateatro


 
Il volto e la maschera del teatro
I manifesti teatrali polacchi in mostra a Genova
di Oliviero Ponte di Pino


 
L'ironia e la pietas
Un ricordo di Pina Bausch
di Gianandrea Piccioli


 
Il documento finale del convegno degli operatori del nuovo teatro italiano
Sansepolcro, luglio 2009
di oltre 100 operatori teatrali italiani (direttori artistici e organizzativi di teatri e festival nonché curatori di rassegne e qualche compagnia)


 
Che cosa si fa per i giovani gruppi?
Un'analisi ragionata a partire dalla rassegna Previsioni
di Carlotta Pedrazzoli


 
Elogio della provincia
La Compagnia degli Evasi o del teatro del corpo e del sogno
di Anna Maria Monteverdi


 
Italia 150 Teatro
Una proposta al teatro italiano
di Redazione ateatro


 
Nasce l'Associazione Etre!
Associazione esperienze teatrali di residenza
di Ufficio stampa


 

 

L'ultima nuova legge
Considerazioni generali, riassunto e appunti di lettura
di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino

 

1. Alcune considerazioni di carattere generale

Può darsi che sia la volta buona?
Di "nuove" proposte di legge se ne possono segnalare dagli anni Settanta almeno venti-venticinque, e certo qualcuna l'abbiamo dimenticata. Ce ne sono state di improbabili e di molto meditate, di tendenza o concilianti, legate all'attimo fuggente o con qualche senso della prospettiva, di molto "politiche" e di molto "tecniche", con firmatari illustri e ignoti parlamentari con entusiasmo da neofiti. Per cinque o sei di queste iniziative si pensava davvero che la strada del parlamento fosse spianata, e dunque anche questa volta possiamo permetterci un pizzico di cinismo.
Tuttavia la possibilità che questo progetto diventi davvero legge c'è: perché il testo attuale della Legge quadro per lo spettacolo dal vivo è "bipartisan", perché cerca di conciliare qualche opposto senza dare fastidio a nessuno, perché salva l'esistente senza riserve dandogli però qualche pennellata di make up giovanilista, perché maschera la scarsità di risorse con la finanza creativa e con operazioni fiscali non troppo rivoluzionarie (e che - in questi tempi di crisi - tendono a essere estese a tutti i settori o quasi). E forse anche perché teatro, musica e danza sono ormai troppo poco importanti per scatenare veri contrasti veri, battaglie di principio o di schieramenti politico-ideologici contrapposti, come le battaglie degli anni Settanta (fra pubblico e privato), degli anni Ottanta (fra stabilità e giro) e degli anni Novanta (fra Stato e Regioni).
Se la legge andasse in porto, si creerebbe un curioso paradosso: l'attesissimo provvedimento sullo spettacolo dal vivo vedrebbe la luce nel momento in cui lo spettacolo dal vivo ha in assoluto la più bassa popolarità. Qualche anno fa, durante un'intervista per www.ateatro.it in occasione delle penultime elezioni politiche, l'onorevole Carlucci ci disse che era molto difficile far prendere sul serio il teatro e lo spettacolo a persone come Tremonti o Brunetta; da allora la situazione è di certo peggiorata, e le risorse sono crollate a piccolo. Dunque complimenti all’onorevole Carlucci che ce l’ha fatta (almeno in commissione) e all’onorevole De Biasi (che avrà avuto anche lei qualche problema nel PD), che sono riuscite nell’impresa (al di là di ogni considerazione di merito sull’impianto della legge).
Ma è un fatto positivo o negativo che la legge venga varata (se succederà) nei prossimi mesi, in questa fase politica? Probabilmente è positivo per quanto riguarda l'affermazione di principio, e di principi: l'esistenza di una legge aiuta a dare senso e identità pubblica a teatro, musica e danza. L'assenza della legge ha giustificato negli anni il calo del FUS e l'ultimo taglio sembrava far scivolare lo spettacolo al di fuori dalle politiche culturali del paese e dall'area welfare. La legge di certo aiuta a difendere lo spettacolo dal vivo.
C'è molto da discutere invece sullo specifico - e ancora più si discuterà a livello di decreti attuativi, in sede ministeriale e regionale: sia per le incrostazioni pluridecennali da cui non si è voluto o non è stato possibile ripulirsi, sia sul nuovo o presunto tale.


2. Lo schema del testo della legge

Capo I. DISPOSIZIONI GENERALI

L'art. 1) e il 2) dettano finalità e principi: sottolineano il valore culturale, artistico, sociale, economico dello spettacolo, affermano la necessità di sostenerlo ed elencano le finalità del provvedimento e i principi generali. Si parla di equilibrio qualitativo e quantitativo sul territorio, di libertà, di pluralismo, di identità nazionale ma anche di multiculturalità, di tradizione e innovazione.

L'art. 3) riguarda i compiti della Conferenza Unificata (ovvero la sede in cui Stato e Regioni si incontrano), che si esprime sugli indirizzi generali (che però sembra siano già quasi tutti elencati in questa legge) e soprattutto sulla ripartizione delle risorse per settore e sui criteri di emanazione del FUS: "d'intesa col Ministero". E promuove intese, protocolli, accordi, modalità di coordinamento dei paini regionali, documentazione, archivi e azioni di monitoraggio.

L'art. 4) si sofferma invece sui compiti dello Stato
che resta titolare del FUS e, d'intesa con la Conferenza certo, disciplina e attua praticamente tutto (tutto quello che il Ministero ha fatto finora), oltre a promuovere il riequilibrio territoriale, la cooperazione europea e con paesi terzi, la diffusione radiotelevisivo (prevista un'apposita società con la RAI), vigila su un corretto sviluppo del mercato (attraverso le autorità preposte: antitrust supponiamo), costituisce un archivio (estendendo al video gli incentivi previsti per il cinema), potenzia l'osservatorio (anche con funzione di "sportello"informativo). Un comma ad hoc precisa che (4/2) "L'azione della pubblica amministrazione è improntata a tempestività, certezza e oggettività della norma nonché alla trasparenza dei criteri di quantificazione, erogazione e verifica degli esiti del sostegno pubblico".

L'art. 5) elenca i compiti delle Regioni
e degli enti locali, cui resta l'attuazione dei principi attraverso piani triennali, la promozione dello spettacolo "senza precostituire oggettive limitazioni della libera concorrenza di mercato", il sostegno a nuovi talenti, alle residenze ("multidisciplinari" e "triennali"), collaborazione con l'ENPALS alla promozione del lavoro (anche con una "borsa" www.listaspettacolo.it), del turismo culturale, del credito, del restauro eccetera. Per fare tutto questo le Regioni provvedono ad adeguare le risorse.


Capo II. INTERVENTI DI RIFORMA


L'art. 6) affronta la Riorganizzazione dello spettacolo dal vivo
, che in concreto comporta: l'assimilazione delle imprese di spettacolo alla "piccola e media impresa" (il che probabilmente comporta dei vantaggi: approfondiremo), incentivi a trasformazioni o fusioni che favoriscano il consolidamento economico, conferimento di incarichi direttivi tramite pubblici bandi di concorso e con un unico rinnovato. L'ETI oltre ai compiti abituali, crea un "circuito di teatri greci e anfiteatri romani" (e i teatri romani?!), presterà consulenze tecniche operative per il Ministero (che continuerà a esserne il braccio esecutivo, n.d.r.), soprattutto per favorire la diffusione a livello nazionale e all'estero; infine i teatri di proprietà concorreranno "all'attuazione delle finalità e del progetto di attività dell'Ente".
Non si entra nel merito di specifiche modalità organizzative o idee di teatro, ma si articolano i finanziamenti statali (che saranno formalizzati in convenzioni), dividendo le imprese in internazionali, nazionali e territoriali. Le nazionali sono quelle finanziate negli ultimi 5 anni, cui si garantisce il finanziamento (a tutte) per i successivi tre.

L'art. 7) riforma il FUS:
si integra il fondo (a partire da quale livello consolidato non è precisato), con cespiti vari, già in parte utilizzati (come il lotto) o riscoperti (come la percentuale sul gettito RAI) o del tutto nuovi (come un 10% sulle "convenzioni stipulate con i sistema delle fondazioni bancarie": un punto da chiarire), e anche con i fondi europei.

L'art. 8) istituisce un fondo perequativo di 15 milioni di euro, che saranno spesi su specifici progetti, mentre per le ristrutturazioni di sale potrà intervenire anche ARCUS spa.

L'art. 9) istituisce il fondo per la creatività, sempre di 15 milioni di euro, che gestiranno le regioni, per i nuovi talenti e le loro creazioni. La destinazione è abbastanza precisa: 10 milioni a progetti innovativi interdisciplinari (che con “multidisciplinari” è la parola che ricorre di più nella legge: in questo caso - comma 4 - va dato atto di una precisa descrizione di ipotesi e modalità), 2,5 milioni per borse di studio, 2,5 milioni per promozione di musica, danza e teatro amatoriale.

L'art. 10) elenca le agevolazioni in materia fiscale: esenzione delle imposte per i reinvestimenti (come per tutti, nell'ultimo provvedimenti governativo), deducibilità delle erogazioni liberali (come già nella legge Melandri, ma speriamo con modalità semplificate), riduzione dell'aliquota IVA nei limiti fissati dall'Unione Europea e altro. Il tutto è stimato in 10 milioni di euro: è una valutazione interessante - anche se non sono evidenti le modalità di calcolo, si individua la fonte per recuperarli: un fondo del Ministero dell'Economia.

L'art. 11) incentiva l'educazione allo spettacolo nelle scuole a livello di materie curriculari ed extracurriculari.

L'art. 12) si occupa di formazione professionale e alta formazione: la competenza è delle Regioni che operano attraverso poli formativi, università ed enti preposti, ma le Accademie - oltre a vedersi riconosciuta una vocazione internazionale - possono attivare sedi decentrate. I docenti di danza devono essere provvisti dei titoli previsti dalla legge 508 del '99, anche per operare nella scuola privata. Infine, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione formerà i manager dello spettacolo per le Istituzioni culturali e gli enti locali.

L'art. 13) prevede una banca dati professionale, basata su autocertificazione ma soggetta a verifica, che di fatto istituisce un albo delle "persone fisiche che presentano i presupposti e i titoli per svolgere attività manageriale artistica ed economica nel settore". Farne parte costituirà titolo preferenziale per le nomine alla direzione degli enti.

L'art. 14) disciplina la professione di agente di spettacolo: di chi sarà autorizzato a rappresentare gli artisti (il registro sarà pronto già entro due mesi dall'entrata in vigore della legge).

L’art. 15) interviene in materia di tutele assicurative, di collocamento al lavoro e welfare. Si tratta una normativa abbastanza complessa, e davvero attesa, che ci riserviamo di studiare nel dettaglio.

L'art. 16) riguarda ARCUS, che potrà intervenire solo su progetti strutturali, di costruzione, restauro di sale eccetera.

L'art. 17) vara il Consiglio dello Spettacolo dal vivo e comitati tecnici di settore collegati, in sostituzione delle precedenti Consulte e Commissioni. Le nomine sono prevalentemente di competenza della Conferenza (12 membri su 20), 4 competono al Ministero e 4 alle associazioni di categoria più rappresentative (ovvero l’AGIS). IL Consiglio ha ampi poteri: indirizzi sulla normativa, ripartizione del FUS, risorse aggiuntive, riequilibrio eccetera. I comitati tecnici hanno compiti simili all'interno dei diversi settori. Si danno però fin da ora precise indicazioni: per esempio, confermando la rilevanza dei criteri automatici nelle assegnazioni ed elencando i consueti criteri qualitativi. Ma va segnalata una novità assoluta: l'indicazione alle organizzazioni stabili (ma anche per l'attività itinerante) di formare compagnie giovani "per la ripresa del repertorio".


Capo III. ATTIVITA SETTORIALI

Gli artt. 18 (musica), 19 (teatro), 20 (danza), 21 (circhi)
riassumono le finalità del sostegno pubblico e per sommi capi le attività che verranno sostenute. Per il teatro si ribadisce che va valorizzato senza distinzione di genere con riferimento a produzione, distribuzione, promozione e ricerca, e si identificano alcuni modalità operative: l'attività stabile, quella di giro (ovvero che sviluppa un "itinerario geografico"), promozione, formazione, festival, attività internazionale (una sintesi degli attuali decreti, senza mai entrare nel merito di tipologia di impresa o idee di teatro)



3. Alcuni appunti per una prima valutazione

Una "nuova" legge dunque. Nuovo è una parola grossa: c'è infatti molto d'antico in questo testo, o meglio di vecchio: per esempio, c’è molto-troppo Ministero: ma, al di là della retorica della norma, quanto è recuperabile in correttezza, trasparenza, efficacia ed efficienza il nostro dicastero?; e c’è un eccesso di gergo ministerialese-categoriale. Questo vecchio a tratti è mescolato con quel nuovo che invecchia subito, e suona già un po' obsoleto.
L'impressione è quella di un nucleo (un core-business) all'antica italiana (in cui privato batte pubblico 3 a 0), nettamente distinto da un'area giovane ovviamente "multidisciplinare" e creativa con qualche preoccupazione sociale, circondato da una nebulosa di meteoriti (varie ed eventuali), in qualche caso innocue in altri pericolose.

Se ci si aspettava una legge di principi e di indirizzi, è evidente che non è così.
Premesso l'apprezzamento alla scelta positiva di affrontare materie come quella degli ammortizzatori sociali (finalmente: ma perché aspettare sei mesi per vararla dall'entrata in vigore della legge, quando meriterebbe addirittura uno stralcio?), per molti altri aspetti il testo entra nel merito di un'infinità di dettagli che potevano essere opportunamente rimandati ad altri provvedimenti legislativi o decreti.
Alcune misure sembrano ispirate da cattivi consiglieri e recepiscono come rilevanti aspetti del tutto minori: si pensi all'attenzione per la professione di "agente di spettacolo", che la legge intende disciplinare e che di fatto finirà per incentivarla anche in un ambito come il teatro, dove quasi non esiste. Non mancano poi indicazioni tecnico-programmatiche che rischiano di condizionare la libertà artistico-organizzativa delle imprese (a dispetto dell'invocata libertà di mercato), e non paiono troppo ponderate: fra tutte, l'obbligo di creare compagnie giovani per la ripresa del repertorio! Un'idea forse vagamente sensata per la lirica, ma piuttosto insensata nel teatro di prosa. Altri punti sono spia di una scarsa conoscenza o di una informazione unilaterale sul settore: per esempio, quando si fa dipendere la qualifica di "internazionale" (che può essere attribuita a una compagnia) dal collegamento con gli scambi promossi dal MAE (che notoriamente riguardano una piccola parte, e non la più qualificata, della nostra attività internazionale).

Stato e regioni
E come sempre succede occupandosi di dettagli, il rischio di dimenticare alcuni elementi significativi è alto, così come quello di perdere il senso dell'ìnsieme.
Così, se non ci sbagliamo, si è invaso non poco il campo che la riforma costituzionale attribuiva alle Regioni (pensiamo in particolare a tutte le competenze che l'art. 17 attribuisce al Consiglio dello spettacolo dal vivo, per quanto nominato in buona parte (12 membri su 20) dalla Conferenza unificata).
La ripartizione fra i poteri resta infatti molto sbilanciata a favore dello Stato, nelle cui mani - se pure di concerto con la Conferenza - resta il FUS, con criteri di ripartizione non territoriali ma settoriali.
Su questo punto, delegandolo, si lascia irrisolto un nodo non piccolo: in che misura si rinnoverà la ripartizione storica del fondo (che prevede oggi il 47% alla lirica, in coerenza con la legge istitutiva del FUS, che non ci sembra venga abrogata dalla nuova legge).

Finanza creativa
Andate a leggervi l'art. 7, che abbiamo solo riassunto: la riforma del FUS, appunto. Accanto a qualche incremento meritorio (anche se un po' aleatorio, come lo sono sempre le percentuali su gettiti non certi), si fa un'operazione davvero degna di Tremonti, mettendo le mani su fondi non propri (attingendo alla RAI e alle fondazioni bancarie) e si arriva a indicare come "integrati" nel FUS i fondi della Comunità Europea destinati allo spettacolo (fondi che ovviamente la UE assegnerà secondo i suoi programmi e parametri). Di quante risorse vere si disporrà, di fatto non si capisce.
Ci sono però i due nuovi fondi di 15 milioni + 15 milioni per creatività e perequazione (ovvero riequilibrio dei territori: il fondo era davvero doveroso, essendo chiaro che le assegnazioni continueranno a privilegiare la storicità). Modi e destinazione sono già molto orientati e definiti (ma anche questo è un tema da approfondire).
E naturalmente c'è il pacchetto molto promesso degli incentivi fiscali. Non è nuovissimo, ma certo più dettagliato, se si arriva perfino a valutarne l'impatto in 10 milioni di euro.
Si è però persa l'occasione per sviluppare una tema del dibattito sul finanziamento allo spettacolo, che attraversa l’intero Novecento: la linea che potremmo definire "liberista", che ipotizzava tendenzialmente che le imprese private potessero scegliere fra incentivi, compatibili con il lucro, e contributi, che con il lucro d’impresa non dovrebbe esserlo. Si è aggirata la questione, lasciando le cose come stanno: tutti possono avere tutto. Eppure questo forse è il problema: l’assimilazione di pubblico e privato ci distingue e distacca dagli altri paesi europei, è il vizio di fondo che ha impedito al nostro spettacolo di evolversi anche in senso industriale.

Niente di nuovo sotto il sole rispetto al problema di criteri e "autorità" di valutazione, ancora una volta aggirato o eluso.
Ma non mancano le varietà curiose, vecchie e nuove, che meritano di essere approfondite:

- la società per la diffusione televisiva (come, chi se ne occuperà? speriamo che lo spot del MIBAC ribattezzato ironicamente "Questo è un paese per vecchi" non detti la linea);

- il pentimento a metà per Arcus, che non viene sciolto ma dovrà occuparsi solo di sostenere il recupero delle sale (ed è un vero peccato, perché se gestita correttamente la sua funzione non era affatto inutile);

- l'ETI che diffonde lo spettacolo nei teatri classici (ma l'INDA non è soppresso) e continua a gestire i suoi teatri. Ovvero indietro tutta, dopo che per due anni l'obiettivo era la dismissione delle sale dell’Ente: si cambiano orientamenti o semplicemente l'operazione non è riuscita, con l’eccezione del Quirino?;

- gli albi per i direttori artistici e organizzativi (chissà quali saranno i requisiti minimali...);

- l'irriducibile prestigio delle Accademie (almeno presso i "legislatori");

- il protezionismo d'antan per i docenti di danza (categoria protetta).

Ma chi vince e chi perde, in tutto questo?

Ci sembra che vinca l'establishment teatrale, il sistema teatrale consolidato: nessun cambiamento sostanziale, e oltretutto chi ha operato negli ultimi cinque anni si garantisce la conferma del contributo per i prossimi tre (poi deciderà la Conferenza come procedere).

Ci si occupa molto di pluralismo e di tutela della concorrenza contro posizioni dominanti, in una visione poco realistica del mercato e pochissimo consapevole di quello che i francesi chiamano "l'eccezione culturale": non crediamo infatti che si pensi di limitare i poteri di eventuali "trust" privati di gramsciana memoria, ma che ci si preoccupi semplicemente di regolare l'intervento pubblico (www.ateatro.it ha riferito a questo proposito di un convegno romano - all'Eliseo - e di un'associazione di teatri che andava in questa direzione; speriamo almeno che la norma eviti qualche concerto strapagato da enti locali);

Ci sono certo riconoscimenti nuovi (o maggiori che in passato) all'area giovane: con l'apposito fondo creatività, si conquista uno spazio che però rischia di diventare un ghetto: meglio di niente, anche se per ora non è dato sapere come si passerà dall'età giovane e creativa a quella adulta; il fondo speciale resta però una buona idea: è il prezzo pagato al sistema consolidato, che non avrebbe mai accettato uno spostamento del FUS verso i giovani (ma i “vecchi” si attrezzeranno di certo per le adozioni);

C'è tuttavia, in questa nuova legge, un grande sconfitto e assente: il teatro pubblico.
Viene citato solo per limitare - come è giusto - i mandati ai direttori, e tuttavia non si sente la necessità di inquadrare anche questo semplice provvedimento in una riforma generale del teatro pubblico e in una precisazione delle sue funzioni. Anzi, la legge elude del tutto il problema della "funzione pubblica" (un ragionamento analogo vale per i teatri comunali e i circuiti e perfino per le Fondazioni lirico-sinfoniche). Troppi infiltrati (privati nel profondo del cuore anche se inalberato l’etichetta di teatro pubblico). Forse troppi errori di gestione. Soprattutto poche idee sulla propria funzione e una cronica incapacità di rimettersi in discussione e reinventare le proprie funzioni. Così nella nuova legge il teatro pubblico merita di essere considerato solo un'impresa un po' più consistente delle altre (a volte). Il dibattito su questo punto sarebbe davvero urgente.

PS Il forum e il sito www.ateatro.it sono a disposizione per chiarimenti, dibattiti, discussioni, proposte...

 


 

Il lavoro nello spettacolo dal vivo
I dati occupazionali del settore e gli ammortizzatori sociali
di Alessandra Narcisi

 

1. Premesse
Dal momento che nel testo della nuova proposta di legge si parla di “Interventi in materia di tutele assicurative, di collocamento al lavoro e di welfare” (art. 15) si ritiene utile analizzare sia gli andamenti occupazionali nell’ambito dello spettacolo dal vivo, sia le tutele assicurative e di welfare attualmente disponibili.
Gli studi esistenti relativi all’occupazione nel settore dello spettacolo risultano estremamente limitati e difficilmente comparabili tra loro sia a causa di una difficoltà oggettiva di acquisire dati ufficiali e certificati sull’argomento sia per la mancanza di parametri comuni per la raccolta e l’analisi dei dati.
Gli unici lavori disponibili sono quelli realizzati dall’Osservatorio dello Spettacolo, elaborazioni effettuate a partire dai dati forniti dall’ENPALS, Ente cui è affidato il compito di effettuare, su base campionaria, le rilevazioni sull’occupazione nello spettacolo.
Prima di passare ad analizzare la situazione occupazionale in Italia, però, risulta doverosa una breve premessa: i dati forniti dall’ENPALS non fotografano la reale situazione occupazionale del settore.
I dati raccolti dall’Ente Previdenziale risultano spesso incompleti e non fanno emergere tutto un insieme di lavoratori occupati, pagati in nero o non pagati, che in realtà è molto diffuso nel settore.
Nello specifico i dati non risultano attendibili relativamente a:
numero di lavoratori: calcolato per ogni settore di attività (teatro, cinema, etc.). Si incorre, quindi, nella possibilità di contare due volte il medesimo lavoratore che opera in due settori distinti
retribuzione dichiarata e giornate dichiarate: pratica diffusa all’interno del settore dello spettacolo è quella di aprire giornate contributive al minimo sindacale e pagare i lavoratori con un forfait di lunga inferiore a quello dichiarato oppure non mettere in agibilità un lavoratore pagandolo in nero o non pagandolo
Altro fenomeno da prendere in considerazione, secondo i rapporti dell’ENPALS, è la pratica, sviluppatasi negli ultimi anni, di reperire il personale sotto forma di collaborazione occasionale: tale prassi porta a una necessaria sottostima dei dati presentati in quanto questi lavoratori sfuggono alla contabilità dell’ENPALS.

2. Analisi occupazionale nello spettacolo
Analizzando i dati elaborati dall’Osservatorio dello spettacolo emerge che un lavoratore dello spettacolo (si prendono in considerazione i campi dello spettacolo dal vivo e cinema) lavora, per il 2005, una media di 79 giornate annue (1) , pari a poco meno di 4 mesi se si considerano 5 giornate lavorative settimanali.
Nel 2006 la situazione sembra ulteriormente peggiorata: da una recente ricerca ad opera di Anna Rosa Maselli e Silvia Sartucci dell’Osservatorio dello Spettacolo emerge che nel 2006 i lavoratori dello spettacolo impiegati (ca.129.401) lavorano in media 61 giornate(/2) ciascuno e con una retribuzione annua di 7.296 euro.
Nello specifico il dato medio del 2006 evidenzia che solo tra gli impiegati vi è un rapporto di lavoro che può considerarsi stabile in quanto sfiora le 217 giornate lavorative medie annue (n. 200 nel 2005), mentre le professioni che lavorano maggiormente (sia nel 2005 che nel 2006) sono gli amministratori, i direttori di scena e di doppiaggio, i tecnici, gli operatori e le maestranze e gli scenografi che lavorano più di 100 giornate annue.
Tutti gli altri, soprattutto tra le professioni artistiche, lavorano meno di 100 giornate l’anno ed in alcuni casi meno di 50.
In particolare gli attori, nel 2005, lavorano mediamente 49 giorni, percependo un compenso medio di 9.000 euro l’anno.
I dati del 2006, purtroppo non risultano comparabili con quelli del 2005 in quanto comprendono, all’interno della categoria “attori” tutta una serie di professioni (imitatori, illusionisti e prestigiatori, etc.) che non venivano considerati nell’analisi precedente.
La situazione non è molto incoraggiante neanche per coreografi/ballerini/tersicorei e registi/sceneggiatori che lavorano in media rispettivamente 60 e 89 giornate l’anno.
Precisato che all’interno delle categorie la variabilità del numero di giornate e del reddito medio è particolarmente elevata, il dato medio conferma come il settore dello spettacolo non garantisca, nel complesso redditi elevati.
Per quanto riguarda la RETRIBUZIONE MEDIA ANNUA e REDDITO ANNUO STIMATO PER GRUPPO PROFESSIONALE, i dati forniti dall’Osservatorio (anno 2005) evidenziano come in Italia il settore dello spettacolo è capace di garantire un lavoro continuativo e che permetta di mantenersi a meno del 48% delle persone che vi operano.
Il numero di lavoratori, escluso il gruppo “generici e figuranti”, che si trova al di sotto della soglia di povertà relativa (3) è, infatti, il 52,4% del totale. Questo dimostra la necessità di integrare i redditi percepiti dai lavoratori dello spettacolo, soprattutto appartenenti alle categorie artistiche, con redditi provenienti da lavori part-time, spesso non attinenti alla professione artistica svolta.
Analizzando invece il GENERE dei lavoratori dello spettacolo emerge che nel settore prevalgono numericamente i lavoratori di genere maschile (63%) rispetto alle lavoratrici femminili (37%) in tutti i settori dello spettacolo tranne che nella danza. In particolare, soffermandosi sul reddito percepito, va sottolineato come esista un gap tra uomini e donne, che vede gli uomini mediamente meglio retribuiti delle donne.
Relativamente all’occupazione in relazione alle FASCE D’ETÀ, risulta che il maggior numero di personale impiegato ha tra i 25 ed i 44 anni; da questa fascia di età in poi, maggiori sono gli anni e minore è il numero di lavoratori.
In particolare nel 2006 è presente un maggior numero di lavoratori tra i 20 ed i 29 e successivamente, con l’avanzare dell’età, vanno diminuendo. Se ne deduce pertanto che i giovani rimangono un periodo breve nel mercato del lavoro dello spettacolo ed iniziano ad uscirne dai 35 anni in poi.

3. Ammortizzatori sociali
Per sostenere l’occupazione (in tutti i settori economici), lo Stato ha a disposizione alcuni dispositivi (ammortizzatori sociali) (4) volti a sostenere lavoratori temporaneamente disoccupati.
Tra questi l’indennità di disoccupazione, concessa dall’INPS, è uno strumento che permette al lavoratore, qualora perda il lavoro, di percepire un reddito (5) per un periodo di massimo otto mesi (dodici per chi ha superato i 50 anni di età).
Nonostante l’intermittenza sia insita nel lavoro nello spettacolo, contraddistinto in prevalenza da rapporti di lavoro a tempo determinato, i lavoratori dello spettacolo, nel periodo di inattività tra un contratto e un altro, non godono di benefici particolari rispetto a lavoratori di altri settori.
Nel settore dello spettacolo, quindi, possono beneficiare dell’indennità di disoccupazione quei lavoratori per cui, nel periodo precedente la richiesta, sia sussistito un effettivo rapporto di lavoro subordinato (es. come gli impiegati e gli amministrativi) e per i quali il datore di lavoro è obbligato per legge a versare una quota per l’assicurazione contro la disoccupazione.
Il lavoratore dello spettacolo e soprattutto l’artista, però, è un lavoratore anomalo: pur svolgendo un lavoro caratterizzato da effettiva subordinazione, infatti, può essere impiegato sia come libero professionista che come dipendente.
Per questo motivo, non tutti i lavoratori dello spettacolo possono usufruire dell’indennità di disoccupazione e, tra tutti, gli artisti sono i lavoratori maggiormente penalizzati: secondo la normativa vigente (6), “non tutti i lavoratori dello spettacolo sono obbligatoriamente assicurati presso l’INPS contro la disoccupazione. Infatti, i lavoratori a cui è richiesta una specifica preparazione tecnica, culturale ed artistica sono esclusi dall’obbligo assicurativo, in quanto le loro prestazioni vengono considerate come tecnicamente autonome”.
Secondo queste disposizioni, anche nel momento in cui gli artisti siano impiegati come dipendenti, non esiste l’obbligo, da parte del datore di lavoro, di versare la quota per l’assicurazione contro la disoccupazione. D’altra parte, il lavoratore stesso, spesso per disinformazione, non fa valere il diritto al versamento in quanto, abituato a contrattare sul compenso netto, vedrebbe diminuire il compenso in busta paga.
Per ottenere l’indennità di disoccupazione i lavoratori dello spettacolo, qualora esista un effettivo rapporto di lavoro subordinato e sia stata versata la quota per l’assicurazione contro la disoccupazione, devono soddisfare alcuni requisiti:
• devono essere disoccupati,
• assicurati all’INPS da almeno due anni
• avere almeno 52 contributi settimanali (un anno di contribuzione) nel biennio precedente la data di cessazione del rapporto di lavoro (7) .
Nel caso siano soddisfatti questi requisiti l’indennità viene corrisposta per un massimo di 240 giorni (360 giorni per i lavoratori che abbiano un’età pari o superiore a 50 anni).
Chi invece non raggiunge i requisiti minimi per la domanda d’indennità a regime ordinario può fare domanda per un’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti. Questa spetta ai lavoratori che, non raggiungendo i 52 contributi settimanali negli ultimi due anni, abbiano lavorato nell'anno precedente almeno 78 giornate (comprese le festività e le giornate di assenza indennizzate); risultino assicurati da almeno due anni e possano far valere almeno un contributo settimanale prima del biennio precedente la domanda (8).
Non esiste in Italia uno studio specifico sul numero di domande di indennità di disoccupazione richieste dai lavoratori dello spettacolo.
Tuttavia calcolando che nel settore spettacolo i lavoratori sono occupati in media 61 giornate, il numero di lavoratori che può fare domanda per la disoccupazione a regime agevolato è estremamente ridotto. Tra le categorie che verosimilmente riescono ad ottenere tale indennità (alcune categorie possono aspirare anche a ricevere l’indennità ordinaria) sono gli impiegati e gli amministrativi; mentre categorie come attori, musicisti, etc. mediamente sono ben lontane dall’avvicinarsi alle soglie delle 78 giornate.

4. Appunti di lettura
Art. 15. Interventi in materia di tutele assicurative, di collocamento al lavoro di welfare
Il comma 1. indica le categorie di lavoratori cui si applicano le disposizioni dei commi 2, 3, 4. Le categorie interessate sono quelle obbligatoriamente assicurate presso l’ENPALS e raggruppate nelle lettere A) lavoratori a tempo determinato che prestano attività artistica o tecnica direttamente connessa con la produzione e la realizzazione di spettacolo e B) lavoratori a tempo determinato che prestano attività al di fuori delle ipotesi di cui al raggruppamento sub A. (Decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 15 marzo 2005).
Il comma 2. estende l’obbligo dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, fino a oggi previsto solo per le maestranze tecniche, a tutti i lavoratori di cui al comma 1.
Il comma 3. Determina il limite temporale (sei mesi dall’entrata in vigore della legge) entro cui si devono definire misure sperimentali per il sostegno del reddito e del reinserimento occupazionale delle categorie artistiche dei tersicorei e dei ballerini.
Ci si chiede perché nonostante esista l’esigenza di creare strumenti specifici ed efficaci a sostegno di tutti i lavoratori del settore dello spettacolo, ci si limiti ad indicare delle misure specifiche solamente per due delle numerose categorie d cui al comma 1. Per tutte le altre categorie, infatti, si rimanda ad una futura e non ben precisata riforma degli ammortizzatori sociali.
Il comma 4. indica alcune misure sperimentali di cui al comma 3: la costituzione presso l’ENPALS di un apposito fondo la cui dotazione iniziale è di 6 milioni di euro a carico dell’Ente; la definizione di un trattamento sostitutivo della retribuzione, subordinato alla cessazione dell’attività lavorativa, fino al conseguimento dell’età pensionabile anticipata prevista per la categoria, pari al 60% dell’ultima retribuzione percepita; previsione della cumulabilità della prestazione di sostegno al reddito di cui al punto precedente, con i redditi da lavoro dipendente o autonomo eventualmente acquisiti durante il periodo di fruizione dell’assegno medesimo; obbligo a carico dei percettori a svolgere incarichi non retribuiti presso amministrazioni pubbliche finalizzati alla promozione dell’attività del balletto classico.
Il comma 5. prevede la possibilità, per i lavoratori di cui al comma 1, di versare in maniera volontaria i contributi relativi alle giornate mancanti per raggiungere delle 120 giornate di prestazione annue richieste ai fini previdenziali per avere diritto alla pensione.
Il comma 6. vede nella borsa «Listaspettacolo.it» un modo per favorire l’incontro dei lavoratori con operatori del settore e per constatare l'andamento del mercato del lavoro attraverso un monitoraggio statistico e una valutazione delle politiche del lavoro.
Viene da chiedersi quanto questa lista possa veramente favorire l’occupazione nel settore dal momento che le offerte di lavoro spesso vengono diffuse all’interno di una rete di contatti limitati e quasi mai tramite canali istituzionali.
Il rischio è quello di replicare l’esperienza della Lista unica nazionale dei lavoratori dello spettacolo che aveva, tra gli altri, “l’obiettivo di creare un luogo unico di incontro tra domanda e offerta di lavoro […]” e che ora è stata soppressa nella logica di una semplificazione delle procedure per l’impiego di lavoratori (art. 39 DL 112/08)
La Lista non potrebbe neanche risultare utile ai fini del monitoraggio statistico e delle valutazione delle politiche del lavoro dal momento che le rilevazioni subirebbero gli stessi limiti di quelle effettuate dall’ENPALS e precedentemente esposte.

NOTE

1. Sono esclusi dal conteggio i generici e i figuranti che abbasserebbero ulteriormente la media che arriverebbe così a 61 giornate lavorative annue.
2. Se consideriamo convenzionalmente un anno lavorativo di 250 giorni, si può dedurre che 61 giornate di lavoro corrispondono a circa tre mesi.
3. Secondo l’ISTAT “la soglia di povertà relativa è calcolata sulla base della spesa familiare rilevata dall’indagine annuale sui consumi condotta su un campione di circa 28 mila famiglie estratte casualmente. […] La spesa media mensile per persona rappresenta la soglia di povertà per una famiglia di due componenti e corrisponde, nel 2005, a 936,58 euro al mese”, cifra che per 12 mensilità, equivale a 11.239 euro all’anno. Le famiglie composte da due persone che hanno una spesa media mensile pari o inferiore a tale valore vengono quindi classificate come povere.
4. Per ammortizzatori sociali s’intende un complesso ed articolato sistema di tutela del reddito dei lavoratori che sono in procinto di perdere o hanno perso il posto di lavoro.
5. L’importo viene calcolato sulla base della retribuzione percepita nei tre mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro.
6. Punto 5 dell’art. 40 del R.D.L 4.10.1935, n. 1827.
7. I contributi settimanali validi (cioè necessari per poter richiedere l’indennità di disoccupazione) sono quelli versati per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria. Alcuni periodi di contribuzione figurativa sono considerati utili al raggiungimento delle 52 settimane contributive (es. periodi indennizzati di astensione obbligatoria o facoltativa per maternità, etc.), altri, considerati neutri, pur non concorrendo al raggiungimento delle 52 settimane contributive necessarie consentono di ampliare il biennio nel quale ricercarle (es. servizio militare, etc.).
8. La disoccupazione a requisiti ridotti spetta per i periodi di non occupazione nell’anno solare precedente e per un numero di giornate pari a quelle effettivamente lavorate nello stesso anno fino ad un massimo di 156, comprese quelle eventualmente indennizzate con i requisiti normali.

 


 

Un horror musicale e metafisico in sette stanze e tre grotte
Santarcangelo 2009
di Oliviero Ponte di Pino

 

Per me quest’anno Santarcangelo, più che il Festival Internazionale del Teatro in Piazza, è stato Sette Stanze e Tre Grotte, dove sperimentare il potere del suono e della musica, il suo dramma ora salvifico ora terribile.

Nella prima stanza non ho potuto entrare. Sono salito fino alla piazzetta delle Monache. E' arrivata Chiara Guidi, circondata da un gruppo di bambini. Dopo una breve esitazione ha aperto una porta e sono entrati tutti dentro, lei e i bambini. La porta si è richiusa, noi siamo rimasti a guardare quella casetta, immobili.



Ma subito abbiamo cominciato a sentire i rumori che arrivavano dall’interno: una favola inquietante e feroce, innervata dalle sonorizzazioni di Scott Gibbons. La storia mi pare piena di crudeltà, e destinata a una conclusione orribile.

La seconda stanza aveva il pavimento devastato, come se fosse stato deformato da un terremoto o da una frana. Le assi di legno si erano sollevate verso il centro, aprendo fessure e fenditure. Un’attrice-danzatrice ha iniziato a esplorare lo spazio, saggiando la resistenza di quelle assi.



E quelle assi, muovendosi come i tasti di un gigantesco pianoforte, producevano rumore: un cigolio, una percussione, un ritmo... Ma sembravano attivare anche altri suoni (progettati da Luigi Ceccarelli), come se la profondità – il sottosuolo - fosse abitata da chissà quali inquietanti presenze, come se i gesti della danzatrice li risvegliassero e li provocassero. La danza si è fatta via via più guerresca e pericolosa, tanto che Chiara Lagani ha dovuto indossare ginocchiere e gomitiere prima di lanciarsi in un corpo a corpo con quel pavimento sconnesso e con le sue fenditure, accarezzandolo, percuotendolo, premendolo, strusciandolo.



La terza stanza si trovava esattamente sotto la seconda. Ci siamo scambiati di posto con gli spettatori che avevano vissuto lì la prima parte della performance. Questa volta i suoni calavano da un soffitto nero. Progettati da Mirko Baliani, erano diversi da quelli della prima parte: una partitura di sonorità inquietanti, angosciate. Potevamo dedurre l’origine della musica che calava dall’alto in quella cassa acustica nella lotta danzata che ora non potevamo più vedere.
Grazie a quel pavimento-tastiera, l’intero spazio – la seconda e la terza stanza – è diventato uno strumento musicale assai complesso: solo per collegare i diversi sensori sotto il pavimento ai computer che generano le sequenze musicali, sono state necessarie migliaia di pazienti saldature.

La quarta stanza è tutta buia, l’oscurità è assoluta. Ancora una volta, siamo tutti addossati alle pareti. Dopo un po’, avvertiamo una presenza, il rumore di ruote o rotelle, forse un bicicletta, un carrello della spesa, o una di quelle valigie che ci trascinano dietro faticosamente negli aeroporti. Passano sul pavimento, il rumore si avvicina e si allontana. Quella presenza si muove nel buio, girando tutto intorno alla stanza; poi i percorsi si fanno più complessi, casuali. Quando la luce s’accende e gli amplificatori sparano un rock-punk a tutto volume, scopriamo che quella cosa era una ragazza munita di pattini a rotelle e di un visore a raggi infrarossi, in grado dunque di vedere anche nell'oscurità. Il titolo della performance è Gorgone, allude ai percorsi circolari e concentrici della pattinatrice, ma anche all'antica divinità che accecava e pietrificava chiunque osasse guardarla.

La quinta stanza è nelle ex-prigioni, un edificio in ristrutturazione. Come al solito, siamo addossati alle pareti. Entrano quattro ragazzi, indossano maschere nere a forma di cono, hanno in mano lunghi bastoni con sonagli, percuotono il terreno, saggiano le pareti, come se volessero scacciare – o evocare – presenze di cui soltanto loro sono consapevoli. E’ un rito ingenuo, elementare. A un certo punto indossano corazze di metallo e legno, che li incassano e li accecano: ora sembrano delle caffettiere giganti fuggite da chissà quale paese delle meraviglie – o degli orrori. Con quelle corazze-elmo, altre percussioni, scontri, in una danza impacciata e violenta. Adesso sono loro che non vedono.

La sesta stanza è un teatro. L’unico teatro in cui entro nei miei due giorni al festival. Ma non c’è spettacolo. C’è una conferenza del compositore Heiner Goebbels, che mostra spezzoni dei suoi lavori e li commenta, spiegando la sua “drammaturgia dei media”.



Racconta del suo teatro anti-narrativo, basato sulla scomposizione dei diversi elementi dell’evento spettacolare – luce, suono, spazio, musica, parole, corpi... – e sul confronto, o meglio lo scontro tra di essi. Richiama Brecht e lo straniamento. A un certo punto, spiega: “In teatro, meno fai vedere, più nascondi, e più il pubblico resta affascinato”.
Poi spiega che rifiuta le scorciatoie della psicologia e dell’identificazione tra attore e personaggio; ricostruisce il procedimento compositivo di Stifters Dinge (2007), uno spettacolo dove non ha utilizzato attori ma soltanto una scenografia in movimento, suoni e luci: “Gli spettatori erano molto contenti perché, mi hanno detto, in scena non c’è nessuno che dica loro che cosa pensare”.

Nel testo programmatico in cui presenta l'edizione 2009 del Festival di Santarcangelo, Chiara Guidi (delegata alla direzione dalla Socìetas Raffaello Sanzio) parla di “vedere un suono”, dello “scambio tra sentire e vedere” e delle metamorfosi che causa. E' un chiaro accenno al fenomeno della sinestesia, al centro sia della poetica della avanguardie storiche sia di alcune delle teorie sull'opera d'arte totale, in grado di coinvolgere tutti i sensi dello spettatore, attraverso l'uso combinato di diversi media e delle diverse arti.
Ad accomunare le performance alle quali ho assistito, o forse partecipato, sono diversi elementi: il rapporto strettissimo – sinestetico - tra il suono, il corpo e lo spazio; l’uso della tecnologia, sempre determinante ma discreto, e in genere senza puntare ad alcuna forma di interattività (come nota Goebbels, “il dramma è nello spettatore”); e poi l’importanza dell’aspetto musicale, rispetto al predominio del visuale che aveva caratterizzato gli anni Settanta del “teatro immagine”.
Il teatro ha le sue radici etimologiche nel verbo theaomai, “vedere”. Ma questo teatro ci sta dicendo, e ripetendo, che ci sono cose che non possiamo vedere, che non riusciamo a vedere. Che forse non dobbiamo vedere. Perché ci sono cose che non possiamo sapere, perché la realtà non è interamente conoscibile, perché dietro la fragile superficie del reale è in agguato l'orrore, o forse la redenzione.
Dunque questo teatro non ha più l’ambizione di rappresentare la realtà, o magari di ricrearne un’altra. Non serve a conoscere, perché ci sono cose che non possiamo conoscere, che non possono diventare parola e nemmeno poesia. Che sono il puro dramma dell'esistenza. Cose che forse vanno oltre la realtà fisica, la trascendono – il mistero.
Forse questa considerazione può diventare una domanda. Che cosa resta – o deve restare - fuori scena? Che cosa oggi è “osceno”? Cosa si nasconde dietro quel buio, dietro quella porta chiusa, sotto le crepe di quel pavimento? Cosa abbiamo rimosso?
Per certi aspetti questa edizione del festival è come un film dell'orrore, dove hai più paura delle cose che non vedi che di quelle che vedi. E alla fine, quando il mostro finalmente colpisce e lo schermo si riempie di sangue, è quasi una liberazione.

La settima stanza, curiosamente, riprende l’ultima immagine che ci ha fatto vedere Goebbels: ci sono diversi pianoforti, alcuni sventrati, altri animati da meccanismi automatici, come pianole.



Su uno di questi – o meglio, sulle sue corde metalliche - è infisso un essere umano dall’aspetto androgino, il corpo segnato da graffiti e sporcizia. E’ la vittima di una delle più terribili e inquietanti invenzioni di Franz Kafka: una macchina per torturare, che inscrive atrocemente il dolore sul corpo umano. Quella che si danza qui è un’agonia, uno strazio.
Alla fine, dopo che gli ingranaggi della pianola meccanica hanno suonato il loro assolo, s'illuminano alcuni scaffali pieni di bottiglie vuote, la terra trema e le bottiglie iniziano a vibrare, a tintinnare, come scosse da un fantasma, o dalla nostra presenza.



Le luci si riaccendono su un corpo seminudo, impigliato tra le corde del pianoforte. La musica uccide...

La prima grotta è piuttosto grande, una stanza rettangolare con un soffitto di tufo. Accanto a una delle pareti, quattro microfoni bene illuminati proiettano la loro ombra nitida. La piccola folla di spettatori guarda disciplinata i microfoni e la parete. All’estremo opposto c’è Theo Teardo con la sua chitarra elettrica e un tavolino con il mac, il mixer e qualche altra scatolina con pulsanti e led luminosi. Io guardo lui che suona la chitarra con l’archetto o con il plettro, maneggia la timeline dei suoni preregistrati sul computer, modula il rientro dei suoni catturati in loop dai microfoni, pigia deciso un tasto dall'effetto misterioso.
Verso la fine del mini-concerto, il volume si alza, la grotta vibra e vibriamo anche noi. Quello che gli spettatori non hanno voluto vedere, quello che gli ideatori della performance non volevano far vedere, era l’intervento umano live e il suo intreccio con la tecnica. Mi sono messo anch’io a guardare quello che gli altri hanno guardato per venti minuti: quattro microfoni e la loro ombra sulla parete.

Nella seconda grotta grotta ci accolgono due giapponesi. Siamo una decina, ci sistemiamo tutto intorno a un altoparlante rivolto verso l’alto, come una grossa ciotola.



Sul fondo, una pasta bianca fatta di acqua e amido. Il primo dei due giapponesi ha un baschetto e una giacca a quadri, sta anche lui vicino a un computer che invia un segnale sonoro all’altoparlante. L’impasto inizia a vibrare, la sua superficie s’increspa con onde più piccole o più grandi, a seconda della frequenza e del volume del segnale. L’altro sta vicino all’altoparlante, ha una camicia bianca sembra un cuoco, infila un dito nell’impasto.



Si stacca qualche frammento, bianchissimo, che inizia a prendere forme affascinanti, che ricordano le sculture di Henry Moore, che sobbalzano e si consumano rapidamente, prima di annullarsi sul fondo.



Questa piccola lezione sull’entropia si ripete, quelle forme sembrano vivaci animaletti, forse la vita è nata così ed è destinata ad annullarsi in quella superficie così bianca.

L’ingresso della terza grotta è sulla cima della collina su cui è arroccata Santarcangelo. Si entra uno alla volta, si scende una lunga scala, fino al centro della collina. Una sorta di tempietto circolare, che ricorda la pinata della Chiesa di San Clemente, ma in miniatura e nel ventre della terra.
Al centro, adagiata su un fianco, una grancassa sventrata e riempita d’acqua. Sulla superficie perfettamente liscia cade dall’alto, dal centro della volta dov’è appesa una bottiglia da flebo, un goccia d’acqua, a ritmo regolare. Sul fondo della grancassa c’è un proiettore, l’ombra delle onde casate dalla goccia allarga centri concentrici sulla volta. Ance qui, sulla superficie dell’acqua, c’è un microfono, anche qui, nascosto tra le colonne, c’è un musicista che modula i suoni, da una computer e da una piccola tastiera.
Una nota ripetuta a piccoli intervalli regolari. Ritmi, frequenze, vibrazioni. L’esplosione del suono della campane. E’ come se qui, al centro del mondo, si fabbricasse il tempo. O si provasse a replicarlo. A un certo punto m’accorgo che il ciclo si ripete. L’eterno ritorno.
Risalgo la scala e torno a riveder le stelle. O forse l'orrore del mondo.



s1
CHIARA GUIDI e SCOTT GIBBONS (IT-USA)
Teatro Anatomico Infantile
Piazza delle Monache

s2 e s3
FANNY & ALEXANDER (IT)
+/-
Musas
foto di Laura Arlotti

s4
ORTHOGRAPHE (IT)
Gorgone
Teatrino della Collegiata

s5
DAVIDE SAVORANI (IT)
Erma
Ex prigioni

s6
The Drama of the Media / Conferenza con estratti video
Lavatoio
HEINER GOEBBELS

s7
MASQUE TEATRO (IT)
La macchina di Kafka
Celletta Zampeschi
Foto di Laura Arlotti 

g1
TEHO TEARDO (IT)
Oh Hook
Grotta Teodorani

g2
YOSHIMASA KATO e YUICHI ITO (JP)
White Lives on Speaker
Grotta Pubblica
foto di Yoshimasa Kato

g3
J.G. THIRLWELL (USA)
Ecclesiophobia
Grotta Stacchini

ZAPRUDER FILMMAKERSGROUP (IT)
Slaughterhouse
Teatro Supercinema

 


 

Per un nuovo teatro popolare: Oliviero Ponte di Pino intervista Paolo Rossi e Carolina de la Calle Casanova
La videointervista presentata in anteprima alla Spezia per Altra Cultura su you-tube
di Fabio Bertozzi

 

La prima parte (8' 15")



La seconda parte (8' 23")



La terza parte (5' 46")




 


 

Se Giulio Cavalli deve andare in giro con la scorta (purtroppo per lui), allora forse il teatro serve ancora a qualcosa
Perché la mafia è un cabaret e un guitto può farla incazzare
di Oliviero Ponte di Pino

 

Sto andando verso l’Osteria del Treno, ho un appuntamento per pranzo con Giulio Cavalli. Lo schermo del mio cellulare si illumina, è un sms: “STO ARRIVANDO SIAMO IN TRE”. Lo so: dal 27 aprile scorso Giulio è sotto scorta. Non parla volentieri dei fatti che hanno reso necessaria la tutela: “Beh, loro hanno cominciato ad arrivarmi degli avvertimenti... Hanno disegnato una bara sotto casa mia... Ehhh, mi hanno anche tagliato le gomme della macchina...” Un’altra pausa. “Sono entrati in casa...” Di più non vuole o non può dire.
Questa intimidazione non sta accadendo a Cinisi o a Gela, in un paesino dell’Aspromonte o in qualche borgo del casertano. Giulio abita a Lodi.
Se gli chiedi chi può essere, allarga le braccia: “Può essere chiunque...”. I suoi custodi ti lanciano un altro sguardo che dice più o meno: “Beh, furbacchione, che domanda è? Se lo sapessimo, l’avremmo già messo al gabbio. O no?”
Sono in molti che possono avercela con lui, il giovane attore che fa teatro civile e parla di mafie e di mafiosi in un monologo che si intitola Do ut Des. Il sottotitolo: Spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi. Lo spettacolo è coprodotto dai comuni di Lodi e di Gela, in collaborazione con la casa memoria “Felicia e Peppino Impastato” e il Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”.
“Si incazzano così perché li prendo in giro... Vado a casa loro, racconto la mafia e la gente ride: si ride dei boss, si ride dei riti mafiosi, si ride della puncitura... Faccio cabaret sulla mafia,” sorride amaro, “ed è una cosa che non si deve fare, ridere di chi pretende rispetto.” Ha smesso di ridere.
C’è un aspetto teatrale nel codice di comportamento della malavita organizzata, come dimostra un telefilm come I Sopranos. C’è, nello stile di vita della mafia, una precisa ritualità: un guitto lo riconosce subito, il teatrino mafioso, e può fargli il verso in chiave satirica. Questo, per un uomo d’onore, è un sacrilegio. Perché la mafia è un potere che non va irriso. Di più: non va nemmeno nominato. Là dove dominano le cosche, i nomi dei mafiosi - i Bidognetti, i Provenzano, i Messina Denaro - sono tabù: i loro nomi incutono rispetto e innescano l’omertà. Quelli che sanno, capiscono subito di chi si sta parlando; se sei un estraneo, meno sai e meglio è. Anche per il tuo bene.
Non è facile spiegare perché mai un comico debba essere protetto. Anche a chi lo viene a prendere in consegna: “Quando vado in tournée, arrivo all’aeroporto e trovo la scorta della città dove devo fare spettacolo. Quando mi vedono, la prima cosa che pensano è che sono un pentito.” In effetti, con i capelli lunghi e la barba, con quel tatuaggio che sbuca dalla manica della maglietta, potrebbe ricordare Serpico, il poliziotto infiltrato, così come lo faceva Al Pacino, anche se Giulio ha grandi occhi chiari. “Ma non ci mettono molto a capire che non sono un pentito. Allora mi chiedono che lavoro faccio, se sono un magistrato. ‘No, non sono un magistrato.’ Allora sei un giornalista?, mi chiedono. ‘No, faccio l’attore.’ Questo proprio non lo capiscono: ‘Ah, allora fai il giornalista’. No, ripeto, l’attore. Ma perché mai il Ministero degli Interni deve proteggere dai killer della mafia uno che al massimo è capace di salire su un palco e far ridere la gente? Poi faccio lo spettacolo. Allora capiscono benissimo: appena finiscono gli applausi, mi vengono subito a prendere: ‘Andiamo... Presto, andiamo’. Hanno capito che lì è meglio non restarci, e ce la filiamo sempre via di corsa.”
I due poliziotti che stanno mangiando con noi annuiscono e sorridono. Sanno quello che mestiere fa, e perché è meglio tenerlo d’occhio. Hanno dovuto seguire tutte le prove del suo nuovo spettacolo, L’Apocalisse rimandata di Dario Fo, che ha debuttato al Napoli Teatro Festival all’inizio di giugno su invito di Renato Quaglia. “State diventando degli esperti di teatro anche voi”, dico. Ridiamo tutti e quattro.
Quando sei sotto scorta, la vita ti cambia. O meglio, la tua vita non è più vita. Non puoi fare un passo senza i tuoi angeli custodi. In pratica, passi molto più tempo con la tua scorta che con i parenti o gli amici. Vedere i tuoi cari diventa complicato, e in ogni caso ci sono sempre quei due estranei, o quattro, che ascoltano tutto quello che vi dite. Non hai più una vita privata, le attività più naturali – un caffé al bar, un film, incontrare il cugino o la fidanzata - diventano difficili, macchinose. “Quando finisci sotto scorta, vuol dire che hanno già vinto loro. Ti hanno rovinato l’esistenza. Per sempre. Non puoi più tornare indietro.” Anche perché “loro”, chiunque essi siano, non dimenticano.
Tra “tutela” e “tutelato” si crea un rapporto strano. E’ una convivenza forzata tra persone che in genere hanno pochissimo in comune: storie, esperienze, gusti diversi. Però rischiano la vita insieme, in ogni momento. E’ un intreccio molto particolare di distanza e di intimità. Il collante - ma non lo si deve mai dire - è la paura.
Ci sarebbe pure un altro collante, ma nemmeno questo si può dire: la rabbia, la ribellione contro la violenza e il sopruso che ti avvelenano la vita. “Beh, però io sono testardo”, riattacca Giulio. “Mica la smetto. Più loro mi minacciano, più alzo la posta. Scendo spesso in Sicilia, o in Campania. Laggiù, a casa loro. Ogni volta ci sono centinaia di persone. A volte migliaia. E loro sono tra il pubblico. E ogni volta alzo il tiro.” Se loro gli hanno rovinato la vita, cerca di rendere un po’ più difficile anche la loro.
Però bisogna pagare un prezzo. Dopo aver visto il suo spettacolo, un critico teatrale napoletano ha notato che Cavalli recita sempre come se fosse dominato da un’inquietudine, da una paura che non gli pareva giustificata. Non sapeva, si spera, delle minacce e della scorta. Ma aveva annusato l’adrenalina.
Geograficamente e antropologicamente, Lodi sembra molto lontana dalle regioni “ormai controllate dalla criminalità organizzata”, come si legge sui giornali. In realtà la ricca e operosa Lombardia, come la fervida Duisburg, non è poi così lontana dallo Zen, da Scampia, da San Luca.
Ci sono le minacce della mafia, che arrivano fino a Lodi. Ma c’è anche qualcos’altro, di più sottile e ugualmente grave.
In uno dei suoi spettacoli, Milano Linate 8 ottobre 2001: la strage, Giulio Cavalli ha ricostruito il terribile e stupido incidente che nell’aeroporto di Linate causò 118 morti. A controllare il traffico aereo, racconta, erano preposti due enti, l’ENAC e l’ENAV. Nel corso del processo, racconta Cavalli, il giudice voleva accertare le rispettive responsabilità, e dunque la catena di comando. Quando chiese ai dirigenti dell’uno e dell’altro ente chi tra loro comandasse, non ottenne risposta. Ci riprovò: “Ma se dall’altro ente le arriva un ordine, lei che fa?” “Eseguo.” “Dunque sono loro che comandano, vero?” “No, no. Mica siamo ai loro ordini!” Il giudice, diligente, riprovò sull’altro versante: “Se dall’altro ente, vi arriva un ordine, che fate?” “Lo eseguiamo, naturalmente.” “Allora comandano loro?” “No, no!!!” “Ma insomma chi comanda? Che cosa succede se non siete d’accordo?” “In trent’anni non è mai capitato.”
Qualche mese fa Eugenio de’ Giorgi ha debuttato a Milano con un altro monologo di teatro civile, Previsioni meteo: diluvio universale (The rise and fall of Giampy). Basandosi sull’inchiesta di Paolo Biondani, Mario Gerevini e Vittorio Malaguti, Capitalismo di rapina (Chiarelettere 2007), e usando gli stilemi della commedia dell’arte, de’ Giorgi racconta l’epopea di Giampiero Fiorani, il banchiere lodigiano che, con l’appoggio del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, cercò di trasformare la minuscola Banca Popolare di Lodi in un colosso della finanza. Finì per tentare varie scalate, compresa quella di un gigante come l’Antonveneta, con i “furbetti del quartierino”, trovando appoggi politici bipartisan. Forse tradito da un eccesso d’ambizione o da un surplus di disinvoltura, Fiorani finì in un sacco di guai, anche giudiziari.
Uno spettacolo come Previsioni meteo, hanno pensato Eugenio e Giulio, non può non approdare a Lodi, lo sfondo dell’epopea di Giampy. Non appena è arrivata la notizia che il 23 aprile la città avrebbe ospitato una replica di Previsioni meteo, Fiorani ha subito querelato Cavalli (solo in un secondo tempo se l’è presa anche con de’ Giorgi, che peraltro aveva replicato lo spettacolo per settimane, ma non a Lodi...). Secondo Giampy e i suoi legali, “è francamente sconcertante che, essendo in corso il processo relativo all’accertamento dei fatti si possa ritenere civile e legittimo rappresentare quanto accaduto in modo distorto, danneggiando così non solo persone a tutt’oggi innocenti, ma soprattutto il lavoro delle istituzioni”. Il gestore del locale che avrebbe dovuto ospitare lo spettacolo ha preferito evitare grane, così come i politici invitati a intervenire: “Perché qui a Lodi dovremmo fare uno spettacolo che parla della Popolare di Lodi? A Parma mica hanno fatto uno spettacolo su Parmalat!”
Lo spettacolo di de’ Giorgi a Lodi finora non l’hanno visto, ma c’è da scommettere che la storia non finisce qui. Così come non finisce qui il regolamento di conti tra Giulio Cavalli e i poteri mafiosi. Ha in programma diverse “uscite” in Campania e in Sicilia: in questi giorni per ricordare Don Diana, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e per rilanciare la loro opera.
Quando atterrerà a Capodichino o a Punta Raisi, Giulio Cavalli troverà all’aeroporto i due agenti della scorta. Gli chiederanno che lavoro fa. Forse, per tagliar corto, risponderà: “Sono un giornalista.” Anche perché, fino a oggi, quasi tutti i suoi colleghi, i teatranti, hanno preferito tacere, hanno fatto finta di niente. Perché un attore con la scorta non si era mai visto. Forse Giulio Cavalli fa davvero un altro mestiere.
Però, vien da pensare, ci sono malavitosi che si prende la briga di minacciare un attore come Cavalli, o uno scrittore come Saviano, di organizzare una caccia all’uomo, di pianificare un agguato o addirittura un attentato.
Forse vuol dire che la malavita organizzata non è solo un problema giudiziario o giornalistico.
Forse vuol dire che la lotta a mafia, camorra e ’ndrangheta è prima di tutto un problema culturale.
Forse vuole dire che il teatro e i libri servono ancora a qualcosa.
 


 

Il teatro multimediale alla conquista dell'Arsenale della Spezia
Una intervista con Anna Maria Monteverdi
di Redazione ateatro

 



In quesi mesi alla Spezia è successa una cosa strana, e nuova per la città. L'Arsenale, che era da sempre zona miitare e dunque off limits per i comuni cittadini, si è aperta alla città. E, cosa ancora più significativa, lo ha fatto per ospitare due spettacoli teatrali, la prima volta all'aperto, la seconda in uno spazio chiuso, uno dei numerosi capannoni dell'Arsenale.

Per la prima volta in 140 anni XLABFACTORY è riuscita in un'operazione definirei al limite dell'impossibile: portare spettacolo (anzi spettacoli, due in tre mesi) dentro lo storico Arsenale cittadino. L'Arsenale Militare della Spezia è una vera città dentro la città, inaccessibile per i civili; è ancora parzialmente in attività, anche se stanno smantellando molte officine, così come stanno scomparendo molti mestieri di una volta, collegati alle attività marine, che qui albergavano. E' stata una grande soddisfazione, un risultato importante per la nostra compagnia ma anche per la città. Si è infatti aperto un fronte di riflessione da parte del Dipartimento della Marina-MarinArsen su come intervenire per l'utilizzo di questi spazi, per concederli in parte alla città e in parte a privati sotto forma di "permute", ovvero di scambi in forma di servizi. Infatti all'interno dell'Arsenale intere aree hanno bisogno di ristrutturazioni pesanti. Il 19 marzo è la festa del patrono della città, San Giuseppe: è l'unico giorno in cui i civili hanno accesso ad alcun settori. Noi abbiamo chiesto di poter fare spettacolo in quell'occasione in uno scenario suggestivo, i bacini di carenaggio delle navi, ovvero i grandi anfiteatri di pietra dove le navi vengono riparate una volta che l'acqua di mare è stata fatta uscire dal bacino, grazie a un sistema di dighe. Abbiamo movimentato gru, le vecchie lance dei palombari, e abbiamo affidato il lavoro teatrale a un maestro dell'avanguardia come Memé Perlini, che da sempre lavora in spazi non convenzionali e addirittura anche in Arsenali; attrice protagonista era una delle sue "muse" oggi residente alla Spezia, Jole Rosa, attrice di grande forza e bellezza. E, in occasione del centenario dela manifesto futurista, abbiamo riscoperto il testo di Ettore Cozzani, che declamava i luoghi veri e immaginari da lui contemplati dal monte Castellana, ricco di suggestioni simboliche.
Certamente la fascinazione del luogo ha funzionato da grande richiamo, ma soprattutto Perlini ha drammatizzato fortemente lo spazio facendo un lavoro registico che rimarrà nella memoria. Insomma, un successo che neppure la Marina si aspettava. Dobbiamo ringraziare alcune persone che hanno creduto nelle possibilità del teatro, primo fra tutti l'Ammiraglio in Capo Paoli e il Comandante Gargano, l'ufficiale incaricato di seguire l'iniziativa, che ha dimostrato una sensibilità rara per il teatro e ci ha aiutato a districarci nelle problematiche organizzative, tecniche e burocratiche che rischiavano di travolgerci.
Dopo il successo della prima rappresentazione il 19 marzo, si sono poste le condizioni ideali per una nuova produzione, più ambiziosa e multimediale. E' nato così Oltre la vista del mondo-Message in a bottle, con regia e testi di Andrea Balzola, che ha debuttato nell'ambito della Festa della Marineria, Maìna, che si è inaugurata nella sua prima edizione sotto la direzione di Paolo Manfredini l'11 giugno. Eravamo dentro l'Officina Carpentieri e Calafati, là dove si costruivano le parti in legno delle navi: lì per esempio sono state costruiti gli alberi della Vespucci, lì soprattutto era ricoverato il "leudo" Felice Manin, l'imbarcazione che è il simbolo della Festa della Marineria.
A Jole Rosa è stato affiancato Massimo Verdastro. La parte video aveva la firma di una dei maestri della videoarte internazionale, Theo Eshetu in collaborazione con Samuele Malfatti. Le musiche, ricche di evocazioni marine, erano di Eddy Mattei e Mauro Lupone mentre le scenografie portavano la firma di Mario Sturlese e le luci erano di Lilina Iadeluca.

Certamente la scelta delle autorità militari di aprire l'Arsenale è indizio di un diverso atteggiamento: di fatto l'attività dell'Arsenale in questi ultimi anni si è andata riducendo. Si pone dunque il problema dell'utilizzo di quell'enorme area, che da un lato confina con il centro della città e dall'altro occupa tutto il lato del golfo. Tutto questo in una città che dal punto di vista economico è cresciuta e ha vissuto in buona parte intorno all'Arsenale, e che dunque ha il problema di ridefinire la propria identità e ritrovare il suo centro. E, si può aggiugere, in una zona ad alta vocazione turistica e che sta pensando anche alla riqualificazione del porto.

L'ammiragio Nascetti, ex direttore dell'Arsenale, persona coltissima e molto illuminata, oggi presidente dell'associazione "Salviamo il leudo Felice Manin", aveva in varie occasioni in tempi passati parlato dell'Arsenale come potenziale "museo a cielo aperto". Per l'occasione mi sono andata a rileggere gli articoli dove l'amico giornalista Corrado Ricci ricordava questa apertura dell'Arsenale nei confronti della città e di nuove economie da sfruttare, che aveva dato il "la" con grande lungimiranza e intelligenza, ma era purtroppo rimasto inascoltato per molto tempo. Abbiamo invitato l'ammiraglio Nascetti alla prima: si è stupito di come fossimo riusciti a costruire una macchina tecnologica così complessa e raffinata dentro una vecchia officina; ma credo si sia anche commosso: in qualche misura il nostro lavoro era anche ispirato alle sue idee.
Certamente La Spezia ha fatto della industria bellica una risorsa economica: basta pensare all'Oto Melara. L'Arsenale ha ovviamente ospitato anche navi da guerra, portaerei, la Andrea Doria, la Cavour. Entrare oggi in questo enorme spazio, quasi completamente privo di attività, fa un certo effetto: la veleria verrà dismessa nonostante l'opposizione delle ultime maestranze: vogliono resistere per continuare a insegnare un mestiere che sta scomparendo; visitandola con le vele di canapa della Vespucci in attesa di riparazione manuale, ho avuto la sensazione che la riconversione industriale ed economica, con le innovazioni che comporta, avrebbe definitivamente ucciso la tradizione. Poi ho saputo di un progetto di formazione della Provincia, che sta cercando di salvaguardare anche questo aspetto. Oggi il leudo Felice Manin viene restaurato in Arsenale da un gruppo di giovani, proprio sotto la guida dei vecchi maestri d'ascia, che lasciano così il testimone di un mestiere a rischio di estinzione.
Certamente il luogo in sè ha potenzialità enormi. Va ripensata un'economia del turismo, legata a luoghi che conservano bellissime testimonianze di archietture militari di fine Ottocento e opere di ingegneria idraulica. Esiste anche un archivio storico con lastre fotografiche di inizio Novecento di una bellezza strordinaria e solo in parte digitalizzate. C'è un capannone chiamato Officina Congegnatori che conserva in attività macchinari degli anni Cinquanta, pezzi unici in tutt'Italia. Non so quanto si abbia la percezione della ricchezza sommersa che nasconde la città. So che oggi c'è un risveglio interessante e che le condizioni e i segnali per un'apertura ci sono tutti. Se vogliamo, XLABFACTORY ha avuto il merito di aprire le "danze": abbiamo fatto entrare migliaia di persone che, pur essendo nate alla Spezia, non avevano mai messo piede dentro l'Arsenale! Il primo turista-esploratore dell'Arsenale dovrebbe quindi essere chi abita proprio davanti alla sua Porta Principale, e non ci è mai entrato!
Questa apertura alla città è stato uno dei risultati più importanti della mia carriera di studiosa di teatro e organizzatrice. Ne sono davvero fiera: non mi sono fermata di fronte ai molti muri, e neanche di fronte allo scetticiscmo di chi vedeva e continua a vedere la Marina e la città schierati in due fronti contrapposti. Comunque il riconoscimento al mio lavoro e a quello di XLABFACTORY c'è stato!

L'Arsenale ha aperto le sue porte per due eventi teatrali che in quache modo paravano della Spezia e della sua storia. Il poema futurista Oltre la vista del mondo, la visione che parta dal panorama del golfo della Spezia per abbracciare il modno intero e il cosmo; e Message in a bottle, che rievoca la presenza dei romantici inglesi nel Golfo dei Poeti nel primo Ottocento. Il teatro può avere un ruolo importante nella riflessione sull'identità di una città. E in particolare di una città come Spezia.

Il teatro e la città è un tema che il presidente delle istituzioni culturali, la neo-nominata Cinzia Aloisini, ben coinvolta nelle attività giovanili e innovative, mi ha chiesto di esplorare in vista di nuovi progetti da ospitare dentro il tessuto urbano, compresi progetti di residenza. Il teatro comunale della Spezia, il Civico - un teatro che non ha neppure un nome... - ha 900 posti, che però vengono sfruttati appieno solo per i concerti, perché la città non ha mai coltivato una vocazione teatrale; in ogni caso non si rammentano iniziative importanti che siano passate di qua: le direzioni artistiche non hanno avuto grande sensibilità a coltivare la qualità e l'eccellenza, l'unicità territoriale. E' sempre mancata la volontà di un progetto di "teatro per la città" di lungo respiro, e chi aveva slanci creativi veniva emarginato. Finora è stata fatta una programmazione vecchia, ammuffita, a uso e consumo di una città a crescita zero, vecchia dentro. Del resto riempire un teatro di 900 posti è impresa impossibile per un certo teatro di ricerca, anche se forse qualche riflessione andrebbe fatta per immaginare un nuovo teatro di ricerca popolare. Qua per ora ci si è limitati a programmazioni standard fatte da ragionieri e addetti comunali; per non rischiare, in genere ci si è affidati ad agenzie o "uomini" legati alle agenzie: in buona sostanza, si compra il pacchetto. Io dico sempre: allore meglio niente, date quesi soldi al sociale. Mi aspetto molto dalla nuova Presidente delle Istituzioni, anche perché in città sta nascendoun nuovo dibattito culturale.
Tornando alla nostra esperienza e alla ricaduta territoriale, l'Arsenale potrebbe ospitare un nuovo spazio per spettacoli alternativo al Civico: ne abbiamo dato una prova. Sogno un teatro stabile dentro l'Arsenale: ci sarebbe lo spazio, che potrebbe diventare un teatro di posa permanente, utilizzabile anche per la formazione delle professioni tecniche del teatro, affiancando la formazione per le professioni tecniche del mare. Non è un'idea mia, ma di un ammiraglio della Marina, ancora una volta l'input parte da lì... E finalmente la Spezia uscirebbe dalla cappa di anonimato (culturale e teatrale) che l'avvolge da sempre.

Nell''allestimento di giugno, avete fatto una scelta coraggiosa: la regia di Andrea Balzola, con le proiezioni di Theo Eshetu, davano ampio spazio alla sperimentazione, a cominciare dalla multimedialità. Come è possibile coniugare i nuovi linguaggi della scena con la necessità di comunicare a un pubblico indifferenziato, e con ogni probabilità non "tecnolgiamente alfabetizzato"?

Il video di Theo giocava su immagini potentissime, emozionali e pittoriche, veri affreschi video, immobili con impercettibili movimenti del mare, di una barca, di un uccello in volo, punteggiavano la scrittura di Andrea Balzola che raccontava le biografie di Byron e Shelley, anche attraverso la parola poetica, filtrata da una recitazione sentita e molto romantica di Jole e Massimo e dalla voce calda del soprano Francesca Della Monica. Era un momento di grazia e di bellezza in cui bisognava solo abbandonarsi, non riflettere sulle tecnologie. Il progetto luci di Liliana Iadeluca e le musiche "liquide" di Lupone e Mattei hanno regalato a questo capannone industriale un'aura magica, sospesa nel tempo: quando Mary Shelley e Lord Byron si avvicinano al pubblico da lontano, con il fumo e il controluce, le vesti bianche, sembrano apparizioni fantastiche degne del romanzo della Shelley, Frankenstein! Poi vanno dentro il piccolo leudo con gli schermi a forma di vele e da lì contemplano il mare, elettronico ma altrettanto infinito! Il doppio schermo dove passavano le immagini era già un tema: lo specchio, il libro, la vita e la morte, i due capi del Golfo della Spezia, Lerici e Portovenere doppiate da Byron a nuoto in omaggio all'amico Shelley, morto in quelle acque, portando in mano il suo cuore scampato alla pira funebre.
I vertici della Marina hanno apprezzato moltissimo l'iniziativa e anche le istituzioni comunali, ma ci interessava di più la risposta di un pubblico che non è abituato ad andare a teatro, insomma, non il pubblico di nicchia del teatro di ricerca. Quel pubblico ha atteso fuori dalla porta principale per molte ore prima dell'inizio, per paura di non trovare posto, e che alla fine ci aspettava per chiederci quando avremmo fatto un altro spettacolo! Chi l'ha detto che la gente non vuole più andare a teatro? E che il teatro di ricerca spaventa e allontana quel pubblico "non teatralmente o tecnologicamente alfabetizzato"?

Molte delle nuove tecnologie hanno avuto origine (o una prima applicazione) in ambito militare. Solo per fare due esempi recenti, Internet era nata come rete interna di comunicazione dell'esercito USA, la realtà virtuale è stata utilizzata per addestrare i piloti dei caccia. Intorno a Spezia ci sono diverse aziende che lavorano sul fronte delle nuove tecnologie e delle loro applicazioni. E' possibile secondo te creare un terreno comune tra questi settori e la sperientazione artistica?

Ricordo alcune delle prime potenti installazioni di Studio Azzurro, che usavano tecnologie all'epoca a stretto uso militare, telecamere a infrarossi e a raggi X. Oggi sono molte le compagnie che adoperano sistemi di sorveglianza, immagini dal satellite... Vale oggi come un tempo la bella riflessione di Paolo Rosa sulla necessità di piegare queste tecnologie a esigenze linguistiche e poetiche mai esplorate prima. Non è importante la funzione che queste tecnologie hanno nella pratica, ma cosa possono diventare se indirizzate in un altro territorio di senso. Certo, stare dentro a un luogo militare fa pensare a quali tecnologie e brevetti in dotazione lì dentro potrebbero essere impiegati in senso artistico... E non è escluso che XLABFACTORY faccia suo anche questo fronte della ricerca, già ampiamente spostato verso l'interattività!
 


 

Il volto e la maschera del teatro
I manifesti teatrali polacchi in mostra a Genova
di Oliviero Ponte di Pino

 

Forse dipende dal fatto che il teatro, nella cultura polacca, abbia sempre avuto un ruolo determinante. Forse può essere che sotto il regime socialista non c’era pubblicità, e dunque se un grafico inventivo e di talento voleva farsi conoscere, i manifesti di una stagione teatrale offrivano un’occasione irripetibile. Forse è stata la provocatoria vicinanza di maestri come Grotowski e Kantor, oppure la lettura di Shakespeare nostro contemporaneo di Kott. Forse sono stati la la lezione dei grandi surrealisti (dalle invenzioni di un Magritte ai collage di Ernst, alle visioni di Dalì), l’impatto colorato della grafica rivoluzionaria – dai costruttivisti russi ai manifesti cubani degli anni Sessanta), e magari il riferimento all’arte povera. Forse l’idea del volto – o meglio, quella della maschera – in una società totalitaria ha innestato la creazione di una serie di metafore di grande impatto, che continua anche dopo l’89.
Forse...
Fatto sta che i manifesti teatrali realizzati in Polonia negi ultimi deceni da una straordinaria pattuglia di artisti rappresentino (insieme ai manifesti di un altro genio della grafica teatrale, Paul Davis al quale www.ateatro.it ha già dedicato ampio spazio) una pagina importante nella storia dello spettacolo.
Insomma, la mostra Tutto il teatro in un manifesto. Polonia 1989-2009, a cura di Sergio Maifredi e Corrado d’Elia, con la consulenza scientifica di Pietro Marchesani, che si può vedere a Genova, a Palazzo Ducale, fino al 30 agosto (arricchita dalle installazioni realizzate da Danièle Sulèwic e accompagnata da diversi filmati, oltre che dalla mostra Europa verticale che presenta le foto di Monika Bulaj e i disegni di Paolo Rumiz), è un must per chiunque ami il teatro, e per chiunque si interroghi sulla sua funzione nella società contemporanea.
Perché attraverso le 200 immagini create da artisti come Wieslaw Walkuski, Rafal Olbinski, Wiktor Sadowski, Stasys Eidrigevicius si compone una riflessione sull’essere umano, sulla sua tragica realtà e sulle sue speranze.


Tomasz Boguławski, Titus Andronicus, William Shakespeare, 2007, offset – 98 x 68, Teatr Rekwizytornia.



Jerzy Czerniawski, Dramma non identificato di Stanisław Ignacy Witkiewicz, 1978, offset - 97,5 x 67, Teatr Mały, Warszawa.




Wiktor Sadowski, Stendhal porta il programma teatrale, 1990, offset - 118 x 83, Theater der Altmark, Stendal.




Wiesław Wałkuski, Satyrykon’91, Galeria Teatralna, Kraków, 1991, offset - 98 x 67, Galeria Teatralna, Kraków.




Wiesław Wałkuski, Vanitas, 1996, offset – 67,5x97,5, Muzeum Narodowe, Poznań.




Wiesław Wałkuski, Międzynarodowy, III Festival Internazionale di Gombrowicz, 1997, offset – 67,5x98, Radom.




Wiesław Wałkuski, Żydówka (Ebrea), Jacques Fromental, 2000, offset - 98 x 68, Teatr Wielki, Poznań.




Wiesław Wałkuski, Zmowa świętoszków ( La cabala dei bigotti), Michail Bulgakov, 1995, offset - 66 x 98,5, Teatr Powszechny, Warszawa.




Wiesław Wałkuski, William Shakespeare, I sonetti, 1997, offset - 98,5 x 68, PWST, Kraków.


 


 

L'ironia e la pietas
Un ricordo di Pina Bausch
di Gianandrea Piccioli

 

La morte di Pina Bausch mi addolora molto più di quanto avrei potuto immaginare. Certo, è stata una grandissima, un genio della scena contemporanea, una luce tra le più intense nella grande galassia teatrale del Novecento. Ha rivoluzionato la danza moderna e ha inciso a fondo anche nella carne scoperta della scena di “prosa”, come si diceva una volta, quando il teatro era diviso per generi (ancora quest’anno ho visto un vitalissimo e giovanissimo gruppo belga, l’Ontroerend Goed, chiaramente tributario dello stile di Wuppertal).
Ma non è solo per questo che la sua scomparsa mi lascia smarrito e con quella depressione tipica degli stati di lutto, cioè con la pena di chi perde qualcuno di caro e qualcosa di personale, che fa parte di sé. Il fatto è che Pina Bausch ha saputo esprimere come nessun altro la solitudine e il bisogno di amore dell’uomo. Stavo per scrivere “contemporaneo”, e mi son fermato non per paura del cliché, ma perché sarebbe sbagliato: era la condizione umana in quanto tale che le premeva, non la determinazione sociologica o l’astrazione ideologica. Queste venivano dopo, erano una conseguenza: la derelizione dell’esistente era per lei strutturale, non storica. Altri grandi artisti del Novecento hanno trattato la solitudine, ma sempre come portato dei tempi o della società, come alienazione, non come pena che viene dall’intimo del nostro essere. Tale condizione universale negli spettacoli si declinava poi individualmente, nei mille rivoli delle storie rappresentate dai suoi attori-danzatori e montate da lei con sguardo freddo e cuore comprensivo. Nessuno come lei, forse nemmeno il grande Beckett, ha saputo indagare così a fondo nel nucleo segreto di ciascuno di noi, della nostra umanità dipendente e insieme frustrata dalla relazione con l’altro. Per questo è stato detto, con ragione, che gli spettacoli della “zia Pina”, come affettuosamente la chiamavano i suoi ammiratori, sono stati l’autocoscienza di almeno due generazioni, senz’altro di quella uscita, come lei, dagli anni della guerra: alle spalle la vergogna e l’orrore e davanti un futuro che si sarebbe rivelato presto delusivo.
Eppure non è sul negativo che si sofferma la Bausch, e qui gioca molto, credo, il suo essere donna. I suoi personaggi sono spesso meschini, frustrati, soli, soprattutto velleitari, ma non c’è mai derisione o condanna, non c’è giudizio: solo ironia temperata dalla pietas. La Bausch non è affascinata dal male, lo costata e cerca di comprenderlo senza lasciarsene irretire. Semmai la sconcerta il mistero della bellezza, la sua assoluta gratuità. Della bellezza vive la seduzione, ne avverte istintivamente la vitalità, la cerca, la trova anche là dove non sembrerebbe esserci, magari perché celata dietro la goffaggine del corpo o l’inconcludenza dell’anima. Sa rendere bello il brutto. Con elegante semplicità riesce sempre a riscattare, attraverso la bellezza, gli stravolgimenti della sofferenza. E questa è la grazia che Pina Bausch ci lascia, con la leggerezza di un elfo.
 


 

Il documento finale del convegno degli operatori del nuovo teatro italiano
Sansepolcro, luglio 2009
di oltre 100 operatori teatrali italiani (direttori artistici e organizzativi di teatri e festival nonché curatori di rassegne e qualche compagnia)

 

Dal 29 al 31 luglio 2009 si sono riuniti a Sansepolcro (Ar) oltre 100 operatori teatrali italiani: direttori artistici e organizzativi di teatri e festival, nonché curatori di rassegne, oltre a qualche compagnia, tutti impegnati nella diffusione della creazione contemporanea. L’occasione è stata il convegno “Vietato parlare dell’aurora, Proposte concrete per il lavoro delle giovani compagnie e dei teatri e festival che le programmano”, inserito all’interno del festival “Kilowatt, l’energia del nuovo teatro”.

Dopo tre giorni di relazioni e dibattiti, ma soprattutto di gruppi di lavoro ristretti, nei quali ogni operatore si è potuto confrontare con altri colleghi sulle proprie pratiche d’azione, è emerso un panorama nazionale profondamente frastagliato e disomogeneo. Accanto a piccole strutture molto attive e orgogliosamente fiere della loro alterità, coesistono grandi teatri e circuiti che si occupano di nuove compagnie e creazione contemporanea, seppure in maniera non esclusiva; e poi festival e vetrine che stanno crescendo di anno in anno, teatri stabili d’innovazione che non hanno rinunciato alla loro missione di farsi promotori di un cambiamento del sistema, piccole e medie strutture profondamente radicate nei propri territori d’appartenenza dedite all’ospitalità e alla valorizzazione del nuovo a cui affiancano un meccanismo di laboratori e azioni formative che permettono la sussistenza del loro progetto complessivo. Queste differenze – è stato detto – sono una ricchezza, dimostrano che il sistema italiano dei teatri della contemporaneità esiste in quanto tale ed è profondamente duttile e in grado di rispondere alle sue croniche ristrettezze economiche con idee, fantasia, arte di arrangiarsi, senso del risparmio, tutte qualità preziose nell’epoca della crisi.
Spesso si guarda alla cultura, e in particolare allo spettacolo del vivo, come spreco. Al di là della considerazione puramente politica su quanto divenga povero un Paese che non investe in cultura, è certo che i responsabili di un eventuale sperpero delle risorse non sono i teatri che programmano la contemporaneità. Piuttosto è vero il contrario: questi ultimi costano pochissimo alla collettività, e quel poco viene regolarmente fatto fruttare molto.

Dentro e intorno al sistema teatrale italiano – dice la grande maggioranza degli operatori riuniti a Sansepolcro –, sembrano farsi strada bisogni nuovi e differenti rispetto a quelli emersi nei decenni scorsi. Primo fra tutti, il ritorno al pubblico. I teatri della contemporaneità, pur consapevoli della loro vocazione minoritaria, sono tutti alla ricerca di formule e modalità di lavoro che aprano lo spettacolo dal vivo all’incontro con la società circostante e, in generale, con il mondo. E così, assistiamo al finire di vecchi modelli – la stagione invernale con gli abbonati, il meccanismo della turné delle compagnie di giro – e al farsi strada di nuove formule, come il sistema delle residenze, oppure i centri di programmazione che si prendono cura del progetto creativo di un certo numero di giovani compagnie, con un’attenzione che dura nel tempo.
Di fronte a esigenze e bisogni nuovi, la gran parte degli operatori riuniti a Sansepolcro concorda nell’affermare che è una responsabilità degli operatori (direttori artistici, organizzativi e curatori) farsi carico di una proposta concreta di cambiamento del sistema teatrale italiano, che arrivi a coinvolgere anche le giovani compagnie.
Per intervenire in maniera attiva in questo cambiamento è necessario che il sistema italiano dei teatri della contemporaneità arrivi a parlare in maniera più unitaria di quanto non riesca a fare adesso. Pertanto, il primo obiettivo individuato è la costituzione di un organismo che abbia la forza di essere un interlocutore riconosciuto da tutti, per portare avanti istanze ritenute comuni all’intero sistema.
Si immagina un percorso di lavoro, condiviso da tutti quelli che vorranno esserci, che porti alla convocazione di una sorta di “Stati Generali dei Teatri della Contemporaneità” in cui venga votata la costituzione di un soggetto unitario nazionale che rappresenti il nuovo teatro.

Gli obiettivi che sin da ora sono stati individuati per un coordinamento di questo genere sono:
1 – Creare un organismo realmente rappresentativo e concretamente influente, che faccia emergere l’esistenza di un sistema che già c’è ma non riesce mai a parlare con una voce unica;
2 – Individuare strumenti di valorizzazione della qualità, della professionalità e della continuità dei progetti, fuori dalla politica degli “eventi”;
3 – Difendere i diritti dei lavoratori dello spettacolo, la loro dignità professionale e la loro rappresentanza della quale oggi nessun sindacato si fa concretamente carico;
4 – Favorire la conoscenza delle normative vigenti e intervenire su quelle che si stanno immaginando per il futuro;
5 – Formulare delle proposte relative alle modalità di finanziamento del sistema teatrale italiano, nonché al monitoraggio dei risultati ottenuti con tali finanziamenti;
6 – Incentivare la diffusione e il riconoscimento di quelle pratiche (come le residenze) che il nostro teatro sta già attuando da tempo;
7 – Avvicinare tra loro i territori e le loro specifiche esperienze;
8 – Redigere un codice deontologico degli operatori italiani che garantisca alle giovani compagnie il rispetto di alcuni parametri minimi sotto i quali non è dignitoso che gli operatori facciano proposte di ospitalità.

A partire da settembre 2009, un gruppo ristretto di operatori e compagnie lavorerà volontariamente su questo materiale per formulare proposte concrete, specifiche e approfondite, relative alle modalità di formazione e ai futuri compiti di un organismo come quello che si sta immaginando. Durante l’anno, queste proposte verranno portate a conoscenza di tutti gli operatori presenti a Sansepolcro e di quelli che vorranno condividere questo percorso. L’obiettivo è la convocazione di un nuovo incontro generale dove si costituisca questo nuovo soggetto, nella forma che sarà ritenuta giusta ai più.
Un progetto così ambizioso – si è detto –, tante volte ipotizzato, ma mai realizzato, potrà avere una qualche possibilità di successo solo se il percorso di avvicinamento e di fondazione saprà essere plurale e condiviso.

Sansepolcro, 31 luglio 2009
 


 

Che cosa si fa per i giovani gruppi?
Un'analisi ragionata a partire dalla rassegna Previsioni
di Carlotta Pedrazzoli

 
Previsioni - giovani proposte per la scena milanese, giunto quest’anno alla seconda edizione, è un progetto organizzato dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi in collaborazione con il Settore Spettacolo del Comune di Milano e sei teatri milanesi tra cui il CRT, il Sala Fontana, il Teatro Litta, il Teatro Out Off , il Teatro Ringhiera e il Teatro Verdi.



Crollo Prospettico, Toys.

Previsioni è un osservatorio sulle fantasie teatrali delle ultime generazioni ed ha la finalità di accompagnare verso la professione gruppi di recente costituzione, composti prevalentemente da ex- allievi della Paolo Grassi diplomatisi negli ultimi quattro anni, ma con significative collaborazioni di artisti “esterni”. Previsioni infatti intende favorire l’incontro tra giovani artisti e la città, dare voce a nuove visioni, creare occasioni di sviluppo a progetti e gruppi teatrali nella primissima fase della loro vita artistica ed offre ai sei spettacoli selezionati la possibilità di essere inseriti per cinque giorni nel cartellone dei teatri sopra citati.
Oltre a Previsioni esistono altri progetti che hanno lo scopo di offrire visibilità alle compagnie emergenti e nello schema che segue ve ne sono elencati 18, di cui 2 francesi, un piccolo omaggio alla dimensione europea che è ricca di progetti simili e che sempre più è diventata un orizzonte di riferimento per quelle compagnie e per quegli artisti provenienti dalla danza, dal teatro ragazzi, ma anche dal teatro cosiddetto di ricerca, che in Italia per vari motivi incontrano difficoltà a proporre le loro produzioni e a trovare co-produttori.



Tecnologia Filosofica, Gymnasium.

Le proposte, pur non essendo esaustive, sono comunque rappresentative dell’offerta esistente nel contesto nazionale, e sono state analizzate individuando da un lato le linee ricorrenti e i punti di contatto con Previsioni, dall’altro gli elementi di forza e di debolezza, confrontando il successo di alcune formule e la poca incisività di altre, per offrire una chiave di lettura utile a una prima valutazione.
I progetti sono stati elencati a seconda dei destinatari a cui si rivolgono. All’inizio si trovano le iniziative rivolte ad un’utenza interna all’ente promotore, seguono quelle a carattere regionale, nazionale e infine internazionale.



Come si può vedere dalla tabella, l’Accademia Silvio D’Amico offre ai suoi allievi la possibilità di partecipare al festival di Spoleto con brevi performance, ma non offre un sostegno all’accompagnamento della creatività delle giovani generazioni che, invece, è la caratteristica del bando Previsioni e in parte anche dell’Accademia dei Filodrammatici la quale mette in palio, per i saggi di diploma degli allievi, una borsa lavoro che va dai 500 ai 6.000 euro con cadenza biennale a conclusione del ciclo di studi. In quest’ultimo caso c’è la volontà di sostenere le produzioni degli allievi appena diplomati, ma non si dà loro un’opportunità importante: il confronto con il pubblico e con i teatri della città, passaggio delicato ma fondamentale per iniziare a farsi conoscere, a lavorare al di fuori di una dimensione protetta, come è quella scolastica, e ad occuparsi in maniera professionale di tutti gli aspetti che gravitano attorno ad uno spettacolo, dagli accordi contrattuali alla promozione.
Tra le proposte a carattere regionale spiccano le iniziative che, pur essendo locali, sono inserite in un contesto più ampio, in una rete nazionale, come ad esempio il Premio Giovani Danz’autori Emilia Romagna che fa parte della rete nazionale Anticorpi. Questo bando garantisce ai partecipanti un percorso di accompagnamento, scandito tra l’altro da momenti formativi, e prevede una selezione a tappe fino al festival Ammutinamenti di Ravenna in cui vengono presentati gli spettacoli vincitori.



Macelleria Ettore, La porta aperta, Gymnasium.

Un’altra formula a carattere regionale è RIgenerazione che si svolge a Torino ed è organizzata dalla Città di Torino, dal Teatro Stabile Torino, dal Sistema Teatro Torino, in collaborazione con la Fondazione Circuito Teatrale del Piemonte e con l’AGIS. Si tratta di una vetrina che offre alle compagnie la possibilità di essere viste dalle più importanti istituzioni cittadine e, in un secondo momento, dà l’opportunità alle compagnie selezionate di circuitare in almeno tre piazze della regione Piemonte.
Di seguito, scorrendo la tabella, si trovano le iniziative a carattere nazionale tra le quali spiccano, per il successo ottenuto nel corso degli anni, il Premio Scenario e Cantieri Teatrali per Fabbrica Europa.
I punti di forza del Premio Scenario, giunto quest’anno alla dodicesima edizione, in sintesi sono:
l’essere un’associazione nazionale che racchiude al suo interno molte realtà locali radicate sul territorio; prevedere una selezione a tappe che si svolge in varie zone dell’Italia consentendo così agli operatori che provengono dalle varie regioni d’Italia di poter assistere agli studi proposti; offrire ai vincitori oltre ad un premio in denaro, anche una circuitazione nazionale composta da circa quindici repliche in situazioni qualificate e diffuse su tutto il territorio nazionale.
È davvero un’opportunità importante per le compagnie selezionate ma anche per quelle menzionate che infatti vengono promosse come “generazione Scenario”, un marchio che garantisce una qualità riconosciuta e rappresenta un ottimo biglietto da visita per le compagnie.
Cantieri Teatrali per Fabbrica Europa è un’altra iniziativa interessante per quello che offre alle compagnie. Anche in questo caso ad un premio in denaro è abbinata la possibilità di avere un teatro in cui provare lo spettacolo per circa due settimane e debuttare in un festival internazionale quale Fabbrica Europa a Firenze.
Da sottolineare anche il Premio Giovani Realtà del Teatro della Nico Pepe che, pur essendo un’accademia, ha scelto di aprire a tutte le giovani compagnie italiane la possibilità di partecipare al bando mettendosi a disposizione come palcoscenico/vetrina in cui gli studi selezionati hanno la possibilità di essere visti dagli operatori locali e allo spettacolo vincitore vengono garantite alcune repliche in Friuli Venezia Giulia.
Quest’anno è particolarmente interessante il programma del festival Kilowatt che, oltre ad essere una vetrina per giovani compagnie a cui viene offerto un sostegno alla produzione, ha organizzato per la fine di luglio una due giorni di convegno dal titolo “Vietato parlare all’aurora” in cui numerosi organizzatori da tutt’Italia si sono ritrovati a discutere di programmazione di teatri e festival, focalizzando l’attenzione sugli strumenti di conoscenza e selezione delle compagnie emergenti, il ruolo dei bandi e dei concorsi teatrali, e sulle residenze, i sostegni alla produzione, il mercato e la distribuzione mettendo a fuoco come le pratiche organizzative e gestionali delle giovani compagnie influenzano la loro poetica e le modalità con cui l’attuale sistema teatrale italiano favorisce il lavoro di giovani artisti.
Le ultime due iniziative della tabella riguardano invece due esperienze francesi, molto diverse tra loro, inserite affinché siano da stimolo per cercare possibili percorsi anche al di fuori dei confini nazionali. Di Premieres Pas colpisce la dimensione collettiva che si respira sin dalla presentazione di questo festival dedicato alle giovani compagnie a cui viene chiesto non solo di presentare il proprio lavoro per ben dodici volte, ma anche di occuparsi di tutti gli aspetti che ruotano intorno al festival: dai rapporti con la stampa, alla promozione degli spettacoli, all’accoglienza del pubblico, nel solco della tradizione del luogo in cui si svolge il festival e cioè la Cartoucherie di Parigi, sede del Théâtre du Soleil.



Piccola Compagia della Magnolia, Hamm-let, Gymnasium.

Premières invece, giunto quest’anno alla quinta edizione, è un festival voluto da due importanti teatri di Strasburgo, il Théâtre de Maillon e il Théâtre National de Strasbourg, allo scopo di selezionare giovani registi da tutta Europa per scovare le promesse di domani. Premières si svolge alla fine delle stagioni teatrali dei due teatri ed è una ambita vetrina europea in cui i registi, agli inizi della loro carriera, possono farsi conoscere attraverso la messa in scena di spettacoli che nascono da compagnie che non dispongono né di strutture stabili né di finanziamenti pubblici.

Se la sfida di tutti questi progetti è valorizzare e proteggere chi svolge una professione creativa all’inizio della propria carriera, è sicuramente molto utile che le iniziative, soprattutto quelle più piccole, si conoscano tra loro e provino a dialogare e a immaginare formule efficaci affinché i contesti in cui offrono visibilità ai talenti emergenti siano sempre più qualificati.
Un esempio concreto che è andato in questa direzione e speriamo possa stimolare altri legami tra progetti affini è la collaborazione tra RIgenerazione e Previsioni che si è svolta tra maggio e luglio di quest’anno in Piemonte e a Milano. Il legame tra i due progetti ha permesso, in un periodo in cui si discute spesso delle opportunità e dei possibili sostegni a favore di un ricambio generazionale, da un lato al Circuito di essere un piccolo ma significativo tassello per accompagnare sulla via del mercato artisti emergenti, dall’altro a Previsioni e quindi alle compagnie selezionate, di misurarsi con un’istituzione importante nel campo della distribuzione di spettacoli che, con gli strumenti e le finalità che le sono proprie, cerca di contribuire alla promozione del pubblico offrendo espressioni della giovane creatività che, altrimenti, a fatica riuscirebbe a trovare spazio nelle logiche, piuttosto conservatrici, dei teatri e delle piazze di provincia. Questa collaborazione ha inoltre fatto sì che le compagnie selezionate da RIgenerazione partecipassero al festival Arlecchino nelle città, organizzato dalla Scuola Paolo Grassi di Milano.
I benefici immediati per le compagnie che partecipano ad iniziative di questo respiro riguardano, oltre alla visibilità, l’essere affiancate e sostenute da due enti importanti e riconosciuti del panorama teatrale italiano che hanno svolto un lavoro di promozione attento e mirato organizzando, tra l’altro, durante il festival Arlecchino nelle città, un incontro dal titolo Milano-Torino, politiche per i giovani gruppi a confronto a cui sono stati invitati a parlare oltre ai promotori dell’iniziativa quali Mimma Gallina, Maurizio Schmidt e Patrizia Coletta, anche il critico torinese Alfonso Cipolla, il responsabile del Settore Spettacoli del comune di Milano Antonio Calbi e i referenti dei teatri milanesi coinvolti in Previsioni.
Rimane comunque ancora molto da fare affinché i tanti progetti che ciclicamente nascono allo scopo di valorizzare l’emergente siano davvero incisivi e diventino appuntamenti riconosciuti nel panorama teatrale nazionale. Non esistono ricette pronte, ma forse un lavoro in rete tra operatori che si occupano dell’emergente e che inizino a collaborare non solo per organizzare momenti di visibilità, ma anche per mettere a punto strategie capaci di rispondere alle necessità di coloro che svolgono professioni creative, permetterebbe di monitorare e di sostenere i nuovi talenti in quella fase delicata tra l’opera prima e l’opera seconda, momento in cui, non a caso, il tasso di mortalità è altissimo. Si tratta di investimenti che non danno visibilità immediata e che necessitano operatori con fiuto nonché di strutture e mezzi economici adeguati, ma chi semina prima o poi raccoglie, o no?

 


 

Elogio della provincia
La Compagnia degli Evasi o del teatro del corpo e del sogno
di Anna Maria Monteverdi

 

In un momento di crisi (di idee e di risorse) del teatro, fa piacere fare delle scoperte in territori geograficamente insospettabili quanto a fenomeni d’arte scenica di un qualche livello. Il territorio è quello della provincia della Spezia, per l’esattezza Castelnuovo Magra, nel cuore della Lunigiana, dove non sono mai emerse realtà aventi forza artistica nazionale.
Gli Evasi nascono nel 2002 dalla volontà di Matteo Ridolfi, Alessandro Vanello, William Cidale, Davide Notarantonio, Elena Mele e Alessandra Carnacina e successivamente Paola Lungo. Autodefinitisi da sempre “non professionisti” (ma non amatori..) misurandosi con registri e repertori diversi (dal cabaret al teatro sociale) con il tempo Gli Evasi hanno raggiunto tutti indistintamente sia pur con caratteristiche interpretative diverse, un notevole livello attoriale, con oltre venti produzioni alle spalle e numerosi premi. Come non riconoscere la verve accattivante di Matteo Ridolfi nelle sue impagabili parodie di family comedy all’italiana, quella esilarante di Notarantonio, quella infaticabile di Alessandro Vanello, serio scrutatore degli animi umani ma anche “comico dell’arte”; e in generale, come non riconoscere il valore dell’impegno della compagnia a educare a una coscienza civile più matura che trapela non solo nella scrittura originale, dalla scelta dei testi ma anche nell’organizzazione di un’eccellente Festival di teatro non professionista come Teatrika di Castelnuovo?
Gli Evasi hanno una storia interessante che si lega a due presenze fisse di rilievo, quelle dell’attore Marco Balma con un background di tutto rispetto (autore/attore/regista pluripremiato) e quella di ventennale esperienza sul campo di Alberto Cariola, che viene da studi con l’Odin di Barba e al terzo teatro, legato quindi a un’idea di teatro come manifestazione della cultura di un popolo, materia viva che penetra nelle relazioni sociali, non separata dal contesto collettivo. Passati per spettacoli che hanno avuto un peso notevole quanto a pubblico e seguito giornalistico, con storie legate rigorosamente alla memoria locale, hanno messo in scena nel 2007 una toccante rappresentazione di un episodio di vita drammatico del territorio con cui sono stati vincitori del festival nazionale di Castelfranco e di San Miniato, ora diventato anche film.



La compagnia degli Evasi si impone così a livello nazionale con quest’opera drammatica Sepolti vivi, una storia vera di protesta nella Lunigiana per le condizioni infami di lavoro in miniera sfociata nel 1953 in una “auto sepoltura dimostrativa nei cunicoli” da parte di un manipolo di coraggiosi, ben scritta e meglio espressa teatralmente, che ha avuto un merito non indifferente, quello di essere accolto e distribuito dalle istituzioni legate al lavoro come l’Inail. Una storia vecchia e dimenticata ma non dai vecchi che non dimenticano. E che raccontano. Così si passa dall’oralità alla scena. Dai fatti alla memoria dei fatti, tramandando ricordi sottili come la carta velina. Una coraggioso e importante prova di teatro civile in cui gli attori hanno restituito la rabbia, lo sconforto, il terrore del lavorare in miniera. Dicono di questo spettacolo:

“Siamo nel ’36, alle porte della seconda Guerra Mondiale. Siamo nell’Italia autarchica di Mussolini dove c’è bisogno di tutto quello che il territorio può dare alla nazione. Siamo nella Piana di Luni. Un luogo che d’improvviso si scopre essere molto prezioso, perchè qui è possibile estrarre la lignite, un parente povero del carbone. C’è la guerra e l’imperativo è produrre! E si produce allo stesso modo in cui si muore: senza ritegno, senza regole. Nei fatti, se l’industria ne trae benefici enormi, i minatori muoiono sfruttati, scavando affogati nel loro stesso sudore, quando non schiacciati dai metri di terra che li separano dal cielo. Questa è la vita nei pozzi: un giorno dopo l’altro, un metro dopo l’altro, chini a raschiare le viscere della terra in cunicoli troppo stretti, troppo caldi e con poca, se non nessuna, osservanza di costose norme di sicurezza, utili “solo” a preservare la vita dei minatori e la longevità della miniera, inutili per una società che guardava al profitto e pagava a metri d’avanzamento: almeno uno al giorno. Incendi, esplosioni, cedimenti e frane erano la normalità, come la morte”.

Il messaggio è approdato lontano e nel loro carnet hanno messo insieme più repliche di una compagnia professionista nazionale; ovunque fossero in cartellone, lo spettacolo creava il dibattito, risvegliava le coscienze, accendeva gli animi. E ovunque c’era tutto esaurito grazie non alla comunicazione dei social network ma al più efficace rituale di passa parola di chi li ha visti e vuole che altri vedano. A conoscerli c’è in loro qualcosa che nel teatro professionista si è in parte, perso: la volontà coesiva, la curiosità di imparare, il mutuo sostegno, l’ascolto al maestro.



Alberto Cariola è diventato il loro méntore, garantendo un passaggio di saperi tecnici, gesti, intonazioni, fatto non ad Ostelbro ma a Castelnuovo Magra. Una piacevole scoperta dunque questo nuovo lavoro, Fata. Favola per adulti. La storia di un passaggio da giovinetta a donna con i fantasmi e gli incubi che abitano le litanie, le fiabe, le epopee di tutti i tempi. Démoni e angeli custodi, specchi e desideri inconsapevoli che si materializzano diventando le maschere d’Oriente e Occidente. Quelle nere e bianche, di gobbi, guitti e dritti. Un’ora e cinquanta di intensa rappresentazione con il pubblico ammaliato, messo in mezzo a un passaggio continuo di sogni materializzati, di boschi e d’avventure dove avventurarsi, prima fra tutte l’avventura dell’amore. La “Grande Soglia”, il rito di passaggio è suggellato da simboli evidenti (porte, liminar di boschi) e la giovinetta ingenua ma anche ammaliante, Miele, viene adescata e colta in trappola come nelle fiabe: basato su Lo cunto de li cunti ovvero il Pentamerone di Giovanbattista Basile”, il testo è stato la “palestra” per un lavoro intenso sulla voce, sul ritmo, sull’azione fisica. Con la gioia del dire, con i corpi piegati a un’espressione mimica da commedia “all’improvviso” dei tempi che furono, con Cariola e Vanello maschere inquietanti e incombenti, gli Evasi ripropongono il tempo del sogno in cui è facile rintracciare una memoria selvaggia, arcaica.
Dice Alberto Cariola che ha scritto e diretto il lavoro:

Nell’estate del 2006 ci è venuta l’idea di occuparci di favole, proprio di quelle storie dove uno “cammina, cammina”, gli dànno oggetti magici, ammazza draghi e orchi e salva principesse. Ma ci siamo resi conto che, accanto alle fiabe a lieto fine per i bambini, esiste una vasta casistica di racconti fiabeschi, provenienti da popolazioni di tutto il globo, molto più cruda, violenta, carnale, paradossalmente più reale. Abbiamo capito che ci interessava lavorare sul versante scuro della topografia fiabesca, dove il viaggio dell’eroe/eroina prevede l’esperienza del buio, del sangue, della paura, della menzogna, della sofferenza, oltre a quella dell’amicizia, dell’aiuto “magico”, dell’amore.



La vita fiabesca è il luogo del meraviglioso, ma è possibile raccontare la vita reale con il linguaggio fiabesco dentro una struttura fiabesca? Ci abbiamo provato innanzitutto prendendo il linguaggio da Basile, facendoci guidare dai maggiori studiosi del genere, tentando di costruire un testo in cui “la parola può tutto”, ma, come succede quando interviene una fata, cambia di segno a ogni situazione, perché non c’è mai un solo lato della realtà, ma c’è anche il lato opposto, altrettanto necessario. L’Orco non sempre è cattivo, il Principe non sempre è buono, a volte chi ti da consigli, ti prende in giro, chi ti prende in giro, ti vuole bene. La preparazione, per quanto riguarda testo e regia, è partita dalla lettura di oltre 3200 favole di differenti aree geografiche e dall’ideazione dello scenario generale. Così Fata racconta la notte del giorno in cui Miele, un omaggio a Milo Manara, scopre di essere innamorata e sogna; tutto quello che sogna si materializza nella sua camera.


Riavvicinandosi fatalmente con Fata all’Odin, Cariola con gli Evasi propone un teatro irradiante simboli, miti collettivi e un repertorio di muscoli, nervi, ossa e umori. Ritmo frenetico quasi da taranta, un rito primitivo/moderno fatto nella Provincia, crogiuolo in genere di mediocri attività sceniche, con buona pace di chi “somministra” la cultura per il popolo. Ricordo che un critico a proposito dell’arte dell’Odin diceva della capacità degli attori di essere un “corpo che sogna”, duttile materia di forme: non so se gli Evasi, compagnia non professionista, abbiano avuto questo tipo di training, ma il risultato davvero eccellente che ne è conseguito si lascia leggere (anche) così.
 


 

Italia 150 Teatro
Una proposta al teatro italiano
di Redazione ateatro

 

Nel 2011 ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia. In queste settimane si sono riaccese le polemiche sulle manifestazioni ufficiali che dovrebbero accompagnare l’importante ricorrenza, e che paiono inadeguate, scoordinate, abbandonate a sé stesse o addirittura boicottate proprio da coloro che dovrebbero promuoverle. Che sia la mancanza di fondi, la disattenzione, il premere di problemi più urgenti, l’irresponsabilità politica, un’ignoranza che non capisce il valore e la funzione della cultura, la solita incapacità nazionale di coordinare iniziative complesse, fatto sta che a momento il programma culturale per i 150 anni di unità nazionale resta assai vago.

Se le autorità latitano, però, questo anniversario possiamo provare a celebrarlo noi, nei teatri, nella stagione teatrale 2010-2011. A modo nostro, con le nostre forze e le nostre armi. L’idea (che ci arriva da Giancarlo Nanni), è molto semplice: dedicare una serie di iniziative (spettacoli, festival, incontri, eccetera) alla riflessione su questi 150 anni di storia italiana, raccogliere e diffondere le informazioni attraverso un unico database (eventualmente appoggiandosi a www.ateatro.it), dando forza e visibilità all’iniziativa e invitando le pubbliche amministrazioni a sostenere in tutti i modi (anche finanziariamente) il programma Italia 150 Teatro.

Il teatro italiano, nel suo insieme, si presta assai bene a una iniziativa del genere, proprio per le sue caratteristiche storiche. Il teatro italiano è da sempre fatto di compagnie che girano, percorrendo la penisola: sono stati a lungo uno dei rari elementi di unificazione culturale del paese non tanto a livello d’élite, ma presso il popolo. In secondo luogo, in un paese senza un’unica capitale, il teatro italiano ha da sempre tante capitali: da Napoli a Venezia, da Firenze a Milano, ma anche Spoleto e Santarcangelo...

Drammaturghi, registi, attori italiani hanno già affrontato e stanno affrontando molti dei temi che sintrecciano con la riflessione sulla nostra storia recente, incontrando l’interesse e il gradimento del pubblico: basti pensare al rapporto tra il teatro civile, che tanti successi ha raccolto in questi anni, e la storia del nostro paese.

Si tratterebbe dunque, in questa occasione, di rendere esplicito uno degli elementi che sta alla base del rapporto tra la scena e la platea, e in generale sottende ogni iniziativa culturale: perché si tratta anche di formare una consapevolezza e una coscienza collettive.

Italia 150 Teatro offre dunque un’occasione importante per riflettere, tutti insieme, sulle vicende del nostro paese, sottoposto a spinte assai diverse e tutte potentissime: la globalizzazione e la mondializzazione, l’integrazione europea, il federalismo, il riflesso identitario, le spinte secessioniste...

Una iniziativa di questo genere, democratica e popolare, va realizzata mettendosi in rete con altre realtà (giornali e riviste, radio e tv, siti internet, università, case editrici). Potrebbe anche servire a dare del nostro paese e del suo passato un’immagine ricca e articolata, diversa da quella che trasmettono reality e talk show, e anche da una storiografia asservita a necessità ideologiche o appiattita sulle polemiche politiche.

Questa non ancora una proposta: è solo un primo abbozzo, una scatola vuota. Ovviamente www.ateatro.it non può portarla avanti da sola: ha bisogno proprio per la sua natura, di costruire una molteplicità di apporti e di rapporti, di idee e di progetti. Insomma, ci piacerebbe parlarne, discuterne, arricchirla. Insomma, vi aspettiamo. Il forum di ww.ateatro.it è a disposizione.

 


 

Nasce l'Associazione Etre!
Associazione esperienze teatrali di residenza
di Ufficio stampa

 

Quindici residenze teatrali, otto province rappresentate, diciassette compagnie, cinque nuovi ingressi in settembre: ecco i numeri dell’Associazione Etre!
Incontratesi grazie ai tavoli di lavoro promossi dal Progetto Être di Fondazione Cariplo, a cui tutte hanno partecipato, le quindici residenze si sono unite in formazione autonoma, aperta all’incontro con altre realtà che condividano scopi e motivazioni, e che dal 2010 potranno unirsi ufficialmente all’Associazione.
Le compagnie di produzione teatrale associate praticano esperienze di “residenza teatrale” secondo modelli diversi e non rigidi, anche sottoforma di residenza multipla, tutte accomunate dall’intento di sviluppare una politica coerente di insediamento sul territorio per favorire la crescita professionale sul piano artistico ed organizzativo, con particolare attenzione ai nuovi linguaggi del teatro contemporaneo, alla qualificazione dei processi di produzione e al ricambio generazionale.
Un “sistema” dinamico in cui l’associazione favorisce l’incontro e lo scambio di esperienze e competenze, pratica forme di rappresentanza politico culturale e sindacale, tutela il lavoro artistico e persegue il miglioramento qualitativo e organizzativo dei soci e ne promuove l’attività e l’immagine sul territorio regionale, in Italia e all’estero, anche favorendo l’incontro con esperienze affini, con le quali si sta avviando un tavolo di lavoro nazionale sul concetto di “residenza”, che si concretizzerà in un primo convegno in autunno.

Attività principale dell’Associazione è il coordinamento fra le residenze, con la creazione di supporti e servizi dedicati fra cui: accesso a magazzino virtuale di materiali tecnici, laboratori scene/costumi, tecnici specializzati; stipulazione di convenzioni dedicate; creazione di un indirizzario comune; bacheche tematiche di informazione e supporto su bandi, contratti e mondo del lavoro.

Due i progetti che vedono impegnata l’Associazione in questo sua prima fase di attività:

LUOGHI COMUNI – 15 RESIDENZE TEATRALI IN GIRO PER LA LOMBARDIA si propone come una sperimentazione utile a creare i presupposti per realizzare una vera e propria stagione teatrale dei territori e delle residenze teatrali della Lombardia. Trasversale rispetto alle stagioni ed ai festival già presenti, Luoghi Comuni accoglie il pubblico già fidelizzato e lo invita alla 'trasferta', con le compagnie nella duplice veste di produttori ed organizzatori.
Una preziosa ed unica possibilità per 17 compagnie di produzione di attraversare con il proprio lavoro in maniera capillare il territorio della loro Regione, offrendo un panorama molto ampio di modalità di approccio, poetica e segno molto differenti e sufficientemente rappresentative di uno spaccato del teatro emergente.
Ma non c’è solo circuitazione di spettacoli: già in questo primo anno verranno organizzati seminari, tavole rotonde e giornate di lavoro aperte. L’aspetto artigianale della produzione sarà quindi fortemente al centro nella volontà di scardinare la consuetudine del pubblico di nutrirsi solo di prodotti finiti e incentiverà le possibilità di scambi tra le residenze stesse.
Per il 2010 LUOGHI COMUNI ha l'obiettivo di ospitare un numero cospicuo di produzioni di residenze attive sul territorio nazionale, il 2011 sarà invece l'occasione per ospitare esperienze e produzioni prevalentemente internazionali.

ESPRESSO! TEATRO ITALIANO al Fringe di Edimburgo porta invece quattro compagnie ad uno dei festival quantitativamente più grandi e qualitativamente più vari oggi esistenti al mondo.
Pubblico eterogeneo internazionale, gran numero di operatori e giornalisti, in un contesto dove l'apporto della critica è realmente uno strumento di promozione per le compagnie e un'indicazione fondamentale per il pubblico: un'esperienza altamente formativa e in buona dose "sprovincializzante" per ogni compagnia teatrale, non tanto o solo in relazione al processo artistico, ma anche in relazione alla differente modalità di relazionarsi con gli operatori, con gli altri artisti, con un tessuto connettivo pulsante che unisce città, compagnie, sale teatrali, stampa, organizzazione, sponsor e pubblico.
Una co-progettazione forte fra le residenze permette a Sanpapiè, Scarlattina Teatro, Animanera e Compagnia Dionisi di affrontare al meglio questa sfida, portando in rappresentanza dell’Associazione quattro spettacoli scelti per la loro fruibilità internazionale: la prima tappa di un progetto più ampio che mira a far circuitare tutti gli spettacoli dell’Associazione all’estero.

ASSOCIAZIONE ETRE E’ COMPOSTA DA:

In provincia di Bergamo: Ilinxarium della compagnia Ilinx e Qui e Ora della compagnia Aida (Associazione interdisciplinare delle arti).

In provincia di Brescia: residenza Idra di Teatro Inverso.

In provincia di Lecco: Monte di Brianza di ScarlattineTeatro.

In provincia di Lodi: Progetto Anabasi della Bottega dei Mestieri Teatrali.

In provincia di Milano: Urbanima di Animanera, Torre dell'Acquedotto di Aia Taumastica, “I Giazer” di Arteatro, il Teatro Righiera di A.T.I.R., Teatro In-Stabile della cooperativa e.s.t.i.a., la residenza Suburbia di nudoecrudoteatro, la residenza PUL delle compagnie BabyGang, Band à Part e Sanpapié.

In provincia di Monza e Brianza: TeXtura della compagnia delleAli.

In provincia di Pavia: Oltrepavia di Motoperpetuo.

In provincia di Varese: “I Giazer” di Arteatro e Dioniso in A8 della compagnia Dionisi.



Associazione ETRE
associazione.etre@gmail.com
info@etreassociazione.it
www.etreassociazione.it
 



SPECIALE ELEZIONI 2011

La cultura e lo spettacolo nei programmi elettorali

LE CITTA'
Milano: il "metodo Pisapia" e le "cose fatte" della Moratti
Torino: Piero contro Michele
Ravenna: Capitale della Cultura 2019?
Cosenza: la differenza tra destra e sinistra
Napoli: (soprav)vivere di cultura?
Bologna: come rilanciare il "marchio Bologna"?
Trieste: marketing territoriale o ambizioni da capitale della cultura?
Cagliari: Massimo contro Massimo
Reggio Calabria: investimenti o fare sistema
Catanzaro: il più giovane candidato sindaco di un capoluogo di provincia
Siena: una capitale per Rozzi e Rinnovati
Varese: tra gruzzolo e patrimonio
Considerazioni finali e provvisorie