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ateatro 117 La fine del (nuovo) teatro italiano E allora val la pena di continuare con ateatro e di rifare le buone pratiche? di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and1 Per Leo Un ricordo di Marco Romei http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and9 Il fascino discreto di un teatro calligrafico: Le dragon bleu di Robert Lepage In anteprima a Mulhouse con una intervista al regista di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and10 Travestimento, dialetto, classici e diversità. A confronto con “Scena Verticale” Una conversazione con Saverio La Ruina di Mariacristina Bertacca http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and12 Il teatro alla moda Comica e politica di Oliviero Ponte di Pino http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and15 Genius Loci Eventi Live! alla Palmaria Dal 2 agosto al 6 settembre di Ufficio Stampa http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro117.htm#117and77
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La fine del (nuovo) teatro italiano E allora val la pena di continuare con ateatro e di rifare le buone pratiche? di Oliviero Ponte di Pino |
Questo intervento a gamba tesa probabilmente apparirà a molti assai irritante, oltre che poco rispettoso del lavoro, delle storie personali e del generoso impegno di molti artisti e operatori. Tuttavia l'esito delle recenti elezioni politiche (e delle successive amministrative) segna un cambiamento radicale del nostro paese: una mutazione culturale prima ancora che politica, di cui dobbiamo tener conto.
In una prospettiva storica, le elezioni del 13-14 aprile 2008 possono ricordare quelle del 18 aprile di sessant'anni prima, che posero fine alla stagione dell'unità nazionale nata dalla Resistenza. Allora la sconfitta del Fronte Popolare diede inizio alla lunga egemonia democristiana. Oggi la prospettiva è forse diversa, e nessuno sa quanto potrà durare l'egemonia della destra. Pare tuttavia irrimediabilmente concluso il ciclo della “seconda Repubblica”, ovvero il quindicennio seguito a Mani Pulite e al crollo del sistema dei partiti, caratterizzato dall'alternanza al governo tra polo berlusconiano e centro-sinistra prodiano. Alla fine ha vinto e quasi stravinto la destra, mentre la sinistra non c'è praticamente più (mentre il vecchio centro democristiano era subito stato sepolto dal bipolarismo): implosa sulle proprie contraddizioni e velleità la sinistra radicale, incerto sulla propria identità e prospettive il Pd, nato frettolosamente da un'operazione dei boiardi di partito ma senza un autentico radicamento e privo di un credibile orizzonte culturale. Peraltro la crisi della sinistra nell'era della globalizzazione non è solo un problema italiano: basti pensare ai socialisti francesi e al labour britannico (su questo, vedi anche Raffaele Simone, Il mostro mite, Garzanti, Milano, 2008).
Qualunque siano gli sviluppi futuri del quadro politico, questo dato di fatto impone una riflessione che può risultare dolorosa, ma che va condotta con il massimo rigore, senza fare sconti: perché senza capire a che punto siamo arrivati, è ancora più difficile proseguire il cammino. Perché la crisi politica della sinistra è il riflesso di una crisi culturale, e viceversa.
Una diagnosi realistica dell'attuale scenario è anche il presupposto necessario per immaginare quale possa essere il futuro di una realtà come ateatro, che (nel suo piccolo) in questi anni ha lavorato in diverse direzioni, riconducibili tuttavia a un orizzonte genericamente di sinistra (ferma restando la totale indipendenza e autonomia della testata). In questi anni questo sito ha lavorato soprattutto per studiare e far conoscere, sul versante critico, le esperienze più vivaci e innovative della scena teatrale e internazionale; sul versante della politica culturale, ha denunciato alcune clamorose storture (come quella bipartisan di Arcus spa); ha lavorato al rinnovamento del sistema teatrale, con una funzione insieme di controllo, denuncia e proposta, rivolgendosi soprattutto alle strutture politiche e culturali della sinistra. A volte abbiamo ottenuto ascolto (come dimostrano alcune delle presenze istituzionali alle Buona Pratiche del Teatro), ma gli effetti pratici sono stati scarsissimi (o così almeno ci pare).
Sul versante critico e del rapporto con la pratica teatrale, ateatro ha rivolto la sua attenzione in diverse direzioni, nella consapevolezza delle radici storiche della scena italiana del dopoguerra e delle successive evoluzioni (e forse delle sue piccole rivoluzioni estetiche). E' innegabile che queste rivoluzioni abbiano trovato ispirazione e forza soprattutto in una cultura che possiamo definire genericamente “di sinistra”. I suoi valori fondanti sono stati la diffusione dell'istruzione, della cultura e dell'arte a tutti i cittadini (a cominciare dalla messa a punto dell'ideologia della cultura come servizio pubblico, che dunque deve essere sostenuto dalla collettività), la solidarietà e il rispetto delle differenze, l'idea che la cultura sia anche un atto civile e politico (ferma restando la sua necessaria autonomia da ogni ideologia), l'apertura al diverso e il rispetto delle varie esperienze umane, sociali e culturali (a cominciare dall'attenzione per le culture popolari), la resistenza all'appiattimento e all'omologazione imposti dalla globalizzazione, una pratica costante dell'incontro e del dialogo e non dell'esclusione...
Si potrebbe continuare, con un elenco di posizioni forse generico ma che tuttavia evoca un comune sentire, declinato in maniera diversa nel corso dei decenni. Tenendo tuttavia al centro l'idea che il teatro potesse e dovesse essere uno degli elementi che all'interno della polis producono democrazia. Non è un caso, per esempio, che tutte queste esperienze abbiano sempre guardato con un certo sospetto a qualunque forma di divismo (persino quello dei maestri della regia).
La prima fondamentale rivoluzione ha visto, subito dopo la guerra e la catastrofe del fascismo, la nascita dl Piccolo Teatro di Milano e degli stabili: l'obiettivo era quello di democratizzare la cultura “alta”, fino ad allora appannaggio dei ceti più abbienti, per offrire alle classi popolari la possibilità di accedervi: “Un teatro d'arte per tutti”, secondo il fortunato slogan strehleriano. Ma già negli anni Sessanta, con la lottizzazione politica del consigli d'amministrazione e l'ingerenza dei partiti da un lato; e dall'altro con l'irrompere della cultura di massa (e di una televisione in fondo pedagogica come la prima Rai), questo modello di impronta nazional-popolare è entrato in una crisi da cui non si è mai risollevato. Negli anni Settanta quelle istanze democratiche (sia nel rapporto con il pubblico, sia all'interno delle compagnie) sono state generosamente rilanciate dal movimento delle cooperative, poi riassorbito e sostanzialmente neutralizzato dal riflusso degli anni Ottanta e Novanta.
Come ateatro, abbiamo in diverse occasioni tentato di rilanciare la discussione sugli stabili, e in generale sulla funzione del teatro pubblico (la webzine è nata anche intorno alla querelle Martone-Teatro di Roma), ma senza particolare eco. Evidentemente il sistema di potere che si è sedimentato intorno a questi enti (così come all'ETI) è troppo attento a difendere i propri ruoli e privilegi per poter pensare di riformarsi.
Un secondo filone a cui il sito ha guardato con interesse è da sempre il nuovo teatro, legato invece all'esperienza delle avanguardie artistiche (ma anche politiche) del Novecento. In Italia sono state rilanciate sulla scena con particolare vigore a partire dagli anni Sessanta, da Carmelo Bene in poi, attraverso quelle che sono state definite “le tre onde” del nuovo teatro: i padri fondatori negli anni Sessanta, il teatro dei gruppi dalla fine degli anni Settanta, i Teatri 90. Tra i presupposti di queste esperienze (molto diverse tra loro e interessanti anche per questa varietà) ci sono: una società più frammentata e articolata, e dunque per certi aspetti più libera; la possibilità di costruirsi un'identità (anche culturale) partendo dalle proprie esigenze, affinità, interessi, desideri, a prescindere alla propria origine geografica, religiosa, sociale, culturale; la pluralità e la dinamicità dei linguaggi e della comunicazione. Anche qui entra in gioco un forte elemento democratico: non certo la spinta verso un egualitarismo omologatore, ma il riconoscimento delle diversità presenti nel corpo sociale; da questo punto di vista, queste esperienze hanno offerto una straordinaria “sonda” per cogliere alcune dinamiche via via emergenti all'interno della polis.
Tuttavia da qualche tempo anche questo filone pare subire uno stallo. Sembra rinchiuso in una sorta di ghetto: un'isola felice, e culturalmente ed esteticamente assai vivace, ancorché sempre al limite della sopravvivenza economica. Certo, ci sono state le pesanti resistenze del sistema teatrale, che non ha mai voluto far crescere queste realtà, coinvolgendole nell'indispensabile ricambio generazionale, responsabilizzando i più capaci portavoce del nuovo nella gestione dei singoli teatri e dell'intero sistema (tanto da ispirare per il settore la formula “teatro bonsai”). Al di là delle modalità creative e produttive, assai diverse da quelle degli stabili e dunque difficilmente integrabili in un sistema ormai sclerotizzato, questo tipo di esperienza prende peraltro atto della natura ormai elitaria del teatro rispetto ai mass media (dal cinema alla televisione) e tende dunque a porsi come comunicazione di piccoli gruppi a piccoli gruppi: una faccenda di microcomunità. Da un altro punto di vista, tuttavia, questa frammentazione di esperienze e di poetiche finisce per riflettere quella dell'attuale società dei consumi, con una polverizzazione di gusti e identità che la pubblicità (e la produzione on demand) intercettano ormai alla perfezione, per non parlare della polverizzazione della rete. Quella che era una esperienza d'avanguardia, opera di piccole élite (o avanguardie) culturali, è diventata l'orizzonte dei consumi di massa, per quanto spesso non condiviso consapevolmente. D'altro canto la difesa della propria identità e integrità artistica alla lunga rischia sempre di richiudersi su se stessa, in un circolo narcisistico. Non a caso, il nuovo teatro è sempre più un teatro di festival, seguito da tribù di pubblico nomade fatto di aficionados e addetti ai lavori, e sempre meno un teatro fertile, che vive la normale vita della poli: trova difficoltà a incontrare un pubblico “normale” all'interno delle stagioni cittadine, per incidere sulla realtà “feriale”. La crisi ormai cronica del festival di Santarcangelo, luogo simbolo di questo movimento e da sempre capitale morale del vivacissimo “distretto teatrale” romagnolo, è un sintomo di questo avvitamento: e non possono essere i volontaristici e generosi tentativi di restituirgli energia a ridargli senso e prospettiva.
Un terzo filone centrale nelle curiosità di ateatro, per certi versi affine a questo (e non a caso nato spesso dalle sue costole), è quello che possiamo raccogliere sotto l'etichetta dei “teatri della diversità”. Ovvero quelle esperienze che hanno dato voce e corpo teatrale a fasce in vario modo marginali, fino a quel momento escluse dal discorso comune; per loro il teatro è stato strumento di costruzione della propria identità (e dunque occasione di autoconsapevolezza); e insieme, nel momento in cui è diventato pubblicamente visibile sulla scena, li ha immessi nel discorso della polis.
Ma se pensiamo alle recenti devastanti campagne sulla schedatura dei bimbi rom (il grande allarme criminale nel paese della mafia, della camorra e della 'ndrangheta), se guardiamo all'atteggiamento nei confronti della diversità di troppi italiani (e di buona parte dei membri dell'attuale governo), verrebbe da pensare che quella dei teatri delle diversità è stata – nella migliore delle ipotesi – un'ottima pratica e una nobile testimonianza, ma che la pancia del corpo sociale sta purtroppo andando in tutt'altra direzione, con la benedizione di molti leader politici. Non si tratta di un problema astratto, di una questione meramente accademica: perché la controparte istituzionale di esperienze di questo genere è rappresentata ormai da amministrazioni locali e da un governo centrale che hanno presupposti ideologici e pratiche del tutto diversi e incompatibili con gli obiettivi di qualunque “teatro delle diversità” e in genere di qualunque “arte della diversità”: basti vedere la lite Sgarbi-Moratti sulla rassegna di teatro omosessuale, che pochi mesi fa ha ridicolizzato Milano.
Un ultimo filone teatrale etichettabile “a sinistra”, e osservato con attenzione critica da ateatro, riguarda i comici e i satirici, o meglio la strenua resistenza di molti di essi alle derive populiste e antidemocratiche del nostro paese. Beppe Grillo è l'esempio più clamoroso di questo filone (anche se lo stesso Grillo costituisce una risposta populista e non troppo democratica ai suoi bersagli polemici). Tuttavia lo spassoso antiberlusconismo, che si è fatto carico delle esilaranti e documentate denunce di tanti straordinari attori non sembra aver scalfito il carisma dello”Psiconano”: è anzi accaduto il contrario, almeno a giudicare dai risultati elettorali e dai sondaggi.
Un ulteriore elemento, a completare questo quadro sconfortante: la devastante sconfitta del centro-sinistra alle comunali di Roma implica anche la bocciatura della politica culturale del precedente sindaco, Walter Veltroni, che proprio su questo fronte si era impegnato con grande energia: da un lato con una politica di grandi eventi non solo teatrali (dalla Notte bianca al Festival del Cinema, dallo slancio dell'Auditorium e del Parco della Musica al festival letterario di Massenzio, fino ai mega-concerti gratuiti dei grandi divi pop), dall'altro con una politica di decentramento culturale e teatrale nei quartieri. Al crollo della sinistra ha certamente contribuito la deriva demagogica secondo la quale il teatro e la cultura sono uno spreco quando ci sono le buche nelle strade e gli ospedali non funzionano. Ma essa è anche il frutto di una certa insofferenza (anch'essa demagogica, per molti aspetti) nei confronti di un ceto intellettuale considerato in qualche modo affine e organico alla “casta” dei politici stigmatizzata dal pamphlet di Rizzo e Stella (che poi la destra, per garantirsi un minimo di credibilità sul versante culturale, peschi tra vecchi notabili democristiani e socialisti, organici alla casta da decenni, risulta paradossalmente irrilevante).
Su questo versante, ateatro ha continuato a denunciare i soprusi più clamorosi, gli abusi più evidenti e scandali spesso assolutamente bipartisan: basti pensare alle nomine spesso vergognose in certi cda (stabili ed ETI) o nella Commissione ministeriale. Senza particolari effetti pratici, va ancora precisato...
ateatro non è riuscita nemmeno a incidere su un aspetto elementare, e pre-politico nel rapporto tra cittadino ed istituzioni: ovvero a imporre quel minimo di trasparenza nelle scelte e nelle decisioni in materia di cultura in generale e di teatro in particolare. Perché, inutile negarlo, il teatro italiano è governato anche da meccanismi clientelari e di casta: il nostro teatro, così come il paese, continua a essere gestito da pochi inamovibili, di sinistra e di destra, che se proprio devono muoversi si limitano a scambiarsi le poltrone più importanti, in un accrocchio di complicità e ricatti incrociati. (In questo scenario, che deve fare una testata come ateatro, e in generale chi fa informazione? Ovviamente continuare a denunciare gli scandali e i malfattori di destra e di sinistra (e possibilmente mandarli a casa, cosa che nel nostro paese non avviene. Ma non basta: sarebbe anche necessario disegnare un nuovo quadro di riferimento, e trovare le persone in grado di metterlo in moto.)
Ci troviamo a rimirare un panorama di rovine, verrebbe da dire. Un teatro pubblico imbalsamato e sclerotizzato. Un nuovo teatro autoreferenziale e asfittico, Un teatro delle diversità che rischia di essere azzerato dall'incultura dell'identità e dell'intolleranza. I buffoni di corte che paradossalmente alimentano il carisma del sovrano e finiscono per renderlo immune da qualunque critica. I circenses che invece di creare consenso irritano il “popolo”. Una casta di funzionari della cultura e dello spettacolo che ha come unico obiettivo la propria sopravvivenza. Solo vicoli ciechi, ormai.
A questa provocazione viene subito da replicare che esistono e funzionano nel nostro paese diversi artisti, che proprio in questi vicoli (non ancora ciechi) si sono formati e hanno trovato forza e bellezza, con grande successo sia in Italia sia all'estero. Sull'esistenza e sulla qualità di queste eccellenze, siamo assolutamente d'accordo, da sempre, e abbiamo fatto di tutto per valorizzarle. Tuttavia difendere questi fiori all'occhiello non può bastare.
Perché quello che hanno fatto in questi anni le anime belle del teatro (e in generale della cultura e della politica), compreso ateatro, è stato sostanzialmente resistere: tener saldi alcuni punti fermi (in primo luogo la propria sopravvivenza e autonomia), continuando a procedere controvento. Alcuni si sono fortificati, tanti si sono logorati in questa lotta. Ora questa resistenza, al di là del suo valore di testimonianza, pare aver perso il suo senso, perché il fronte è stato sfondato.
L'attuale orizzonte della politica culturale prevede un sostanziale disinteresse da parte dell'attuale governo per l'investimento nella cultura, e dunque una progressiva erosione dei finanziamenti al settore (con un'inevitabile tentazione di privatizzare); l'effetto sarà quello di salvare alcune inattaccabili punte di eccellenza e lasciar languire il resto; forse potranno essere lanciate o rilanciate due o tre grandi istituzioni e festival (basti pensare al robusto sostegno finanziario bipartisan che hanno ottenuto i festival di Napoli e Spoleto).
Tuttavia, per reagire a questo stato delle cose, al di là della resistenza a oltranza, che cosa può dirci oggi il teatro, di nuovo e di necessario? Quale può essere oggi un teatro per il quale val la pena di impegnarsi - mente, corpo e anima?
Una prima certezza: se fossimo in guerra, quasi certamente non ci sarebbero le forze (in primo luogo di fantasia e di immaginazione culturali) per un contrattacco. Restano però diverse alternative, oltre alla resa senza condizioni e al silenzio. La prima è quella di pensare a consolidare un fronte più arretrato, con l'obiettivo di compromessi possibilmente dignitosi (del resto, è sempre affare di incontri tra singole persone). La seconda è quella di tentare di salvare e difendere alcune isole felici, “zone temporaneamente liberate”, in una prospettiva di guerriglia culturale. Con il rischio che vengano semplicemente tollerate come opportune valvole di sfogo, e al momento opportuno spazzate via, o solo logorate dal tempo.
Da diverso tempo i teatranti italiani tacciono, in attesa di eventi che probabilmente molti di loro temono (pur ritenendoli inevitabili). Anche ateatro ha taciuto, per vari motivi: vicissitudini personali, crisi del gruppo redazionale, e anche di oggettiva difficoltà a dare un senso al nostro lavoro, a cogliere i suoi effetti pratici in uno scenario come quello che abbiamo appena delineato.
A questo punto, che fare?
Andare avanti come prima? Potremmo forse farlo, ma ci pare inutile, e abbastanza insensato. E dunque prima o poi ci mancherebbero le forze. Possiamo tacere subito, archiviando un'esperienza di per noi molto bella e interessante, che che come tutte le faccende umane ha un inizio a una fine? (in fondo ateatro esiste già da otto anni, è un piccolo miracolo...)
In alternativa, possiamo provare a rilanciare la discussione, nel prossimo (auspicabile) incontro delle Buone Pratiche? Ma questo, ovviamente, non dipende solo da noi della redazione di ateatro, ma da tutti i nostri amici, a voi che in questi anni avete seguito il nostro lavoro.
E' una porta stretta, molto stretta, ma è l'unica da percorrere, se non vogliamo che il teatro si riduca a museo o a puro intrattenimento.
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Per Leo Un ricordo di Marco Romei |
Potrei esser costretto in un guscio di noce
E sentirmi re di sconfinati spazi…
“Io credo nella funzione dell’attore”, diceva Leo, “un artista che in tempi oscuri si oppone all’oscurità, non vi collabora, a costo di qualsiasi disagio, e che in tempi costruttivi e di speranza li alimenta”. E non era un semplice manifesto programmatico. Era un fatto, un modo di vivere, una visione del mondo.
Per Leo il teatro è un mezzo di conoscenza per contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo, attraverso la trasformazione di sé.
Diventare poesia e non prodotto…
Ma l’altro giorno sono stato al suo funerale: hanno allestito la camera ardente sul palco del Teatro Argentina di Roma. Rose bianche ovunque. Francesca Mazza aveva preparato una bellissima colonna sonora con dei brani tratti da alcuni spettacoli dei loro.
Durante il Requiem di Mozart potevo quasi toccare la nostalgia sconfinata negli occhi di Claudia Manfredi, di Francesca Mazza, di Elena Bucci, di Angela Malfitano….
Poi nell’aria Strange Fruit, l’inno antirazzista…
Southern trees bear strange fruit
Blood on the leaves and blood at the root....
E la voce roca di Billy Holiday faceva rivivere l’entrata in scena di Leo-Ilse nei Giganti della montagna…
Qualcuno piangeva. Qualcuno sorrideva: stava ricordando.
Mme so ‘mbriacato ‘e sole, mme so’ ‘mbriacato ‘e te…
Il Re straccione dell’Impero della ghisa: sì, Leo era anche un gioioso dissacratore, ed ecco arrivare l’orazione articolata e commovente di Renato Nicolini, che assembla magistralmente analisi teatrale, storica, e politica, con ricordi personali e aneddoti, bevute e risate, creatività e spettacoli scritti insieme in un sanscrito immaginario…
In questa vita non è difficile morire: vivere, è di gran lunga più difficile…
“L’arte scenica, quindi, come bellezza che svela la terribilità dell’esistenza per poterla superare, luogo dell’igiene mentale e di previsione di modelli di relazione”
E alla fine ho percepito il dolore e la nostalgia di Marco Sgrosso, di Enzo Vetrano, di Toni Servillo, di Gino Paccagnella, mentre portavano in spalla la bara del loro maestro e amico.
Noi soli canteremo come uccelli in gabbia
Così vivremo: pregando, cantando…
Li vedremo prima morti di fame, prima che riescano a farci piangere…
Ho lavorato con Leo una volta sola, durante il seminario “voce, suono e rumore” che condusse al Dams di Bologna nel 1992, durante il maggio della memoria, in compagnia di attori, registi, musicisti,e semplici studenti.
Io ero “vice capocoro”, così mi battezzo Leo, che era, ovviamente, il capocoro.
(A volte mi dava i tempi muovendo semplicemente il sopracciglio sinistro)
Sulla base della Favola del figlio perduto di Pirandello, ogni giorno per 5-6 ore al giorno ci si allenava, si provava, si sperimentava, si recitava, si suonava, si metteva tutto in discussione, si esploravano infiniti punti di vista e prospettive altre, si usava l’improvvisazione come tecnica compositiva; era un sorta di entropia guidata, di circo futurista, un ensamble situazionista, un magma di emozioni, un incantesimo colorato, sonoro, e sempre in movimento.
Un nuovo linguaggio che nasca dal possesso di un sapere antico…
Poi ho seguito per anni, da spettatore assiduo e fedele, i suoi meravigliosi spettacoli, andandolo a cercare nei teatri di mezza Italia. E l’ho sempre amato.
Parafrasando un testo teatrale, quando ho visto Leo la prima volta, ho visto me stesso per la prima volta.
Ho udito una voce chiamare il mio nome.
Ho guardato dentro i miei occhi.
Nessuno è stato come lui. Leo è più grande di Carmelo Bene, più grande anche di Edoardo, perché è stato veramente un artista totale, immenso come attore, autore, regista, pedagogo, intellettuale, poeta, è stato anche musicista, è stato capace di indire l’assemblea permanente dei teatri, una sorta di chiamata alle arti majakovskiana, dove per 9 giorni si studiarono le fondamenta del teatro per preparare nuove leggi e nuove prospettive per il futuro (il teatro attuale, diceva, è una grossolana e volgare fiera delle vanità, delle connivenze, dove prevale un professionismo privo di tensione etica)
E’ stato un esempio per la coerenza, il rigore morale, il coraggio delle scelte radicali, la limpidità del pensiero, la lucidità dell’analisi, paragonabile solo a Pasolini.
Ricorderò per sempre il suo sguardo, il suo sorriso, lo ricorderò nei camerini circondato dai ragazzi, nelle cene dopo spettacolo; ricorderò Leo poeta “cecato”, Leo imperatore della ghisa che diventa Don Chisciotte, Leo Totò che diventa Amleto con una scopa in mano, Leo Lear che diventa Ofelia, Leo Ilse che va incontro ai Giganti, Leo con la mano illuminata di rosso, Leo che cerca di spiegare la trama dell’Amleto ai guitti del teatro spericolato, Leo che recita Dante mentre Steve Lacy suona il sax, Leo che scende dal palchetto della commedia dell’arte, scende dal palco, e recita Molière in platea, Leo che interrompe lo spettacolo perché lui è il regista e gli va così, di fare un intervallo per spiegare al pubblico che il teatro deve essere una reale assemblea democratica.
Teatro popolare significa elevare e non abbassare la forza e l’emozione poetica.
E allora, dopo tutto questo, qualcosa resterà, qualcosa sedimenterà nel cuore di chi lo ha conosciuto, le lampadine – comme so’ bbelle - stanotte resteranno per sempre accese, in compagnie delle parole dei poeti amati.
Durante tutto il viaggio la nostalgia non si è separata da me
e del viaggio nulla mi resta, se non quella nostalgia
settembre 2008
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Il fascino discreto di un teatro calligrafico: Le dragon bleu di Robert Lepage In anteprima a Mulhouse con una intervista al regista di Anna Maria Monteverdi |
LA FILATURE-Mulhouse: un modello produttivo/residenziale da imitare
Collocata al confine tra Germania e Svizzera nella regione dell’Alsazia, a una trentina di chilometri da Basilea, Mulhouse ospita all’interno della vecchia fabbrica di cotone l’enorme e suggestivo spazio polivalente della Filature. Nata tredici anni fa; oggi è diventata Scène Nationale ed è collocata in un distretto multilinguistico di grande interesse. Seguendo gli obiettivi sanciti per le Scène Nationale da André Malraux nel 1961, la Filature programma attività di alto livello nell’arco dell’intero anno: co-produzioni internazionali, residenze artistiche, stagione di prosa, danza e musica, un festival dedicato alla nuova scena internazionale di ricerca, laboratori di scrittura teatrale destinati anche ai non professionisti, incontri e presentazioni degli artisti in cartellone in collaborazione con l’Università dell’Alta Alsazia. E’ sede dell’orchestra sinfonica di Mulhouse e ospita l’Opera Nationale du Rhin.
La Filature a un primo impatto sembra più che un teatro una modernissima galleria d’arte con gigantesche vetrate da cui è possibile vedere il vicinissimo fiume Ell, un bar, una sala lettura; ma all’interno contiene un grande teatro da 1200 posti, una sala modulare da 360 posti, varie sale prove, una galleria espositiva e una mediateca specializzata in arti della scena. E’ attualmente diretta dal giovane e dinamico Joël Gunzburger, che in occasione della nostra visita ci racconta la vocazione del centro come luogo di incontro multidisciplinare e la sua volontà di creare uno spazio di sperimentazione teatrale anche tecnologico.
La selezione dei progetti per la residenza e per la co-produzione viene curata direttamente da Gunzburger, che ha una personale formazione da attore, e privilegia tematiche multiculturali tra danza, musica e prosa e proposte interdisciplinari (video installazioni, cine concerti) che possano essere ospitate all’interno del Festival TRANS(e) oltre che nel cartellone annuale. Per la danza quest’anno ha selezionato Anna Teresa De Keersmaeker, La La Human Steps, Michèle Noiret e, per i progetti multimediali, i danesi Hotel Pro Forma, Art Zoyd. Il legame con l’agenzia di artisti Epidemic di Richard Castelli è evidente dai nomi che vengono proposti.
Il budget globale per il 2006 ammontava a 5.403.000 euro, come si legge con molta trasparenza direttamente dal loro sito ufficiale. Gunzburger ci parla di un massimo di dieci tra residenze e coproduzioni l’anno, le cui esigenze vengono però interamente coperte dalla struttura ospitante che nel caso di coproduzione, segue da vicino le tournée degli artisti all’estero. Come ci precisa il direttore, la struttura non richiede comunque il debutto: non è importante che la compagnia venga per la premiére alla Filature, l’importante è che la produzione abbia buon esito all’esterno e autonomia. La direzione può anche mettere in campo progetti minori che uniscono artisti in residenza, come cinque microperformance a cui assistiamo prima dello spettacolo del molto atteso Robert Lepage. Il budget destinato alle residenze, ci spiega, dipende poi dai progetti stessi: si investe ciò che serve per la produzione. Per questa stagione gli artisti in residenza associati alla Filature sono stati Cécile Babiole, Georges Gagneré e Wajdi Mouawad, che hanno realizzato rispettivamente opere di danza e immagine 3D, cine-concerti (o live-cinema) e spettacoli multiculturali. In cartellone il teatro di Mulhouse spicca per la co-produzione diel nuovo lavoro tecnologico di Robert Lepage-Ex machina.
Robert Lepage e Le dragon bleu
ovvero Le voyage interminable
Ai suoi debutti in sordina in aree poco esposte alla comunicazione per attenuare l’attenzione possessiva dei media siamo ormai abituati così come siamo stati felicemente abituati al concetto tipicamente lepagiano che il lavoro teatrale si trasforma considerevolmente nel corso della sua lunga vita. Lepage si sa, si concede tutto il tempo che la creazione necessita per prendere forma, anche a costo e al rischio di portare in scena una cosa che appunto non è finita, permettendosi così la più grande trasgressione in tempi di produzione di serie, di catena di montaggio del teatro commerciale, di riproposte di repertori teatrali cadaverici. Il pubblico semplicemente sa e acconsente. L’esperienza da spettatore di uno spettacolo di Lepage è dunque prima di tutto quella di essere testimone oculare di una crescita, privilegiato osservatore di un evento prima dell’Evento, in attesa del compimento-concepimento che avverrà in tempi anche considerevolmente lontani dal debutto o dalla prima presentazione pubblica. La creazione come “viaggio interminabile” è una delle immagini preferite di Lepage: “Non si porta lo spettacolo verso una data destinazione, si lascia che sia lo spettacolo a condurci… Sono le metamorfosi effettuate sulla scena che permettono questo viaggio”. La trasformazione non indica immaturità o incompiutezza ma rientra nella natura stessa della rappresentazione teatrale: si continua a scrivere perché questa è “materia viva”, si interviene su un corpo vivo. Il lavoro presentato nelle prime fasi è certamente un enfant dice Lepage, con la vivacità e con l’insicurezza del fanciullo che prima o poi, dopo molti tentativi e fallimenti riuscirà a camminare con le proprie gambe; l’opera è per lungo tempo come un abbozzo ma con tutta la dignità artistica che questo ha rispetto alla pittura compiuta; del resto è proprio il Rinascimento epoca assai cara a Lepage ad avere messo in luce il valore del processo creativo dell’opera: il disegno, gli schizzi, i modelli, le sinopie. Così siamo consapevoli che ciò che abbiamo visto a Mulhouse non è altro che l’ombra pallida e tenue del lavoro che verrà ultimato a Londra nell’ottobre prossimo ma già contenente i temi portanti dello spettacolo: la storia con i relativi intrecci tra i personaggi, la macchina, lo spazio scenico e le tre cose legate insieme. Come sempre, non l’una senza l’altra.
Le dragon bleu: un sequel
Il dragone blu è una sorta di sequel teatrale: nel 1985 Lepage aveva inseguito le drammatiche vicende umane di alcune famiglie di immigrati cinesi nelle Chinatown canadesi in 75 anni nell’ormai storico La trilogia dei dragoni (recentemente riproposta); aveva accennato a una ramificazione di vite e di viaggi dall’Oriente all’Occidente e viceversa e aveva tinteggiato ritorni, memorie, abbandoni e dolori. Il tutto in un’aura scenica di luce e ombra, di pochi oggetti pregnanti di significati simbolici.
Il Dragone Blu, appena inaugurato nelle due cittadine francesi di Chalons en Champagne e di Mulhouse, è un focus su una delle numerose storie della Trilogia.
Pierre La Montaigne artista del Québec, decide di lasciare il proprio paese per andare in Cina e non ritornare mai più. Pierre lavora a una particolarissima forma d’arte, la calligrafia, e il suo soggiorno lo porta ad aprire una galleria d’arte a Shangai. Lasciato a questo punto della sua vicenda Lepage riapre oggi nel 2008 il capitolo che riguarda Pierre e pone un’attenzione speciale sulla sua vicenda personale vent’anni dopo gli eventi già narrati che il pubblico fedele alle “puntate” teatrali di Lepage conosce bene. E come in ogni spettacolo di Lepage la chiave di lettura viene svelata sin dall’inizio grazie al motivo costante del “personaggio-prologo” incarnato sempre dal protagonista stesso. Il tema portante è la calligrafia, con le simbologie e i numerosi significati correlati con quest’arte, i cui codici antichissimi evocano armonia compositiva.
La storia
Pierre La Montagne è in aeroporto ad attendere l’amica che arriva dal Québec, sua compagna all’Accademia di Belle Arti di Montréal, per adottare un bambino; la delusione per l’impresa che si rivelerà impossibile e il soggiorno troppo prolungato ne svelano la natura depressiva e la storia da alcolista. Innamorata da sempre di Pierre accetta la sua ospitalità nella casa-loculo nel cuore di Moganshan, Shangai. Conosce così la ragazza che frequenta l’atelier di Pierre e che si rivelerà essere anche la sua amante; Xiao Ling è una fotografa che ritocca digitalmente autoritratti scattati col telefonino o con macchina digitale per cogliere l’attimo e il sentimento che anima quell’attimo. Le tre storie apparentemente molto distanti sembrano combaciare nell’unico punto della solitudine e della crisi interiore: la ragazza è alla ricerca del mecenate che possa aiutarla a trovare una strada nel mondo dell’arte ma verrà segnata dal fallimento personale e artistico, Pierre soffre nel sogno non esaudito di un amore ricambiato, Marie è sola senza la compagnia di un figlio da amare.
Dopo vicende di riconoscimenti, di delusioni, di litigi e di abbandoni, Pierre si ritrova da solo espropriato dal Governo persino dell’atelier, Marie non rientrerà più in Québec per frequentare l’alta società e la giovane artista cinese rimasta incinta di un uomo che potrebbe anche essere Pierre, si abbandona a una vita da artista di strada, senza mezzi né amore con un bimbo che non accetta. L’incontro casuale tra la ragazza e Marie dentro una stazione diventata casa provvisoria, rimette di nuovo i tre di fronte al tema della responsabilità umana di fronte al dolore altrui. La spensieratezza della prima parte dello spettacolo, nel racconto dell’incontro di Pierre con la ragazza presso un laboratorio di tatuaggi, nella vicenda tragicomica della valigia persa in aeroporto e poi ritrovata trasudante miele, nella memoria iconografica coloratissima della Repubblica Popolare, si scontra con la crudezza della realtà tragica che viene descritta nella seconda parte. La nascita di un bambino, che sarebbe stata occasione di gioia per una delle due donne, è invece motivo di odio e desiderio di annullamento per l’altra; solo lo scambio affettuoso, il mutuo soccorso, il riconoscimento dell’altro come parte di noi stessi come si intuisce al fondo della storia, può servire ad evitare il tragico epilogo di tutte le vicende umane, quella di Pierre e la nostra. E può servire ad aprire una porta inattesa sull’avvenire.
Così la storia contiene clamorosamente tre possibili happy end: nel primo, il bimbo viene adottato da Marie di ritorno con Pierre in Canada, nel secondo rimane in Cina dalla madre con la sicurezza di un padre e di un sussidio, nel terzo viene affidato solo al padre in Cina mentre le due donne vanno in Canada. Lepage infatti lascia libera la scelta ovvero propone tre finali diversi, come in un videogame; a noi immaginare come la storia potrebbe davvero finire. Oppure forse è solo la giustificazione per un Dragon bleu parte seconda….
La macchina teatrale
Nelle ultime produzioni come one man show, Lepage aveva sviluppato un’originale organismo scenografico particolarmente flessibile e metamorfico atto anche a ospitare immagini video. Se in La face cachée de la lune la parete di fondo composta da svariati scomparti scorrevoli su binari poteva aprirsi e rivelare le parti interne, in Andersen Project si sperimentava addirittura lo sfondamento prospettico della parete grazie alla cavità rientrante contenente un sistema pneumatico e veniva usato persino lo spazio sottostante il proscenio per muovere e far comparire oggetti. Trattasi in ogni caso di sistemi per “forzare” i limiti dimensionali della scena e creare artificiali (o semplicemente teatrali…) illusioni di profondità e di volume attraverso trabocchetti di sapore antico.. ”Semplice, ingegnoso, altamente visivo”, così recita il libretto di sala. Mi sembra una sintesi efficace.
In Le dragon bleu troviamo una specie di “antologia” della macchina lepagiana, motivo per cui a prima vista non riusciamo a intravedere la mano dello stage designer Carl Fillon ma quella di un abile scenografo che ne imita evidentemente “la maniera”. Così vengono recuperati molti dei temi che hanno decretato la poetica trasformista di Lepage: la scena mobile tirata a mano, gli oggetti trasportati da invisibili servi di scena, la proiezione video frontale e retro sullo schermo con il personaggio incastonato in mezzo, pochi oggetti che si scompongono e si ricompongono alla vista diventando tutto quello che serve alla narrazione teatrale, scena avente diversi livelli di profondità, richiami a modalità cinematografiche (ralenti, flashback). La prima scena/sequenza offre poi una prima citazione da Le sept branches de la rivière Ota: schermi traslucidi a evocare le case giapponesi, pareti che si aprono, si sollevano e mostrano un interno di casa o una ferrovia, oppure, accolgono in proiezione paesaggi.
Magistrale l’inserimento dell’illusione di movimento e attraversamento di spazi lontani da parte di protagonisti in realtà fermi in scena: esilarante la scenetta della pedalata in bici mentre le immagini del paesaggio si muovono dietro i personaggi: sembra una citazione ironica del finale del Molière della Mnouchkine o di Caccia al ladro di Hitchcock. Impossibile elencare tutte le soluzioni che vogliono evocare un mondo di luoghi lontani in fondo ricostruibili da poche tracce: un aeroporto immaginato da una proiezione di orari dal tabellone, un tavolo per la dogana che scompare sotto il pavimento per ricomparire un attimo dopo come tavolo da bar, un vernissage rappresentato da alcune proiezioni di immagini…. Il principio è che tutto lo spazio è dedicato alla rappresentazione, c’è un sotto, un sopra, un ancora più sotto e un ancora più sopra, un davanti, un dentro e un dietro da gestire in diretta e contemporaneamente all’azione dell’attore in scena. Straordinaria l’interpretazione delle attrici (Marie Michaud e la giovane Xiao Ling, danzatrice) e naturalmente di Lepage, insolito e ironico avventore della cultura e della storia cinese, che si aggira dentro una macchina-involucro che contiene i dubbi esistenziali di ognuno di noi.
L’incontro con Lepage
Per incontrare Lepage faccio le dovute richieste al direttore, Joel Gunzburger, che si offre di accompagnarmi e di presentarmi alla compagnia; la produzione era già stata avvisata della presenza di una giornalista italiana e mi intrattengo con il manager europeo, Richard Castelli che dirige Epidemic nell’attesa di incontrare Lepage; come sempre accade Lepage arriva direttamente nella hall del teatro alla fine dello spettacolo, rompendo ogni formalità e approfitta dell’occasione per incontrare amici, pubblico, appassionati, addetti ai lavori e giovani artisti, tutti quanti indistintamente senza appuntamenti di sorta. Invitata al party alla fine dello spettacolo sono proprio Castelli e Gunzburger a introdurmi a Lepage che si ricorda del nostro incontro in Francia e in Canada e per riprendere un nostro vecchio discorso sulla sua straordinaria capacità di esprimersi in molte lingue (tra cui il cinese…) mi presento direttamente in italiano e Lepage di fronte allo stupore di tutti parla tranquillamente in un ottimo italiano. La conversazione intorno al buffet è informale, breve ma densa di notizie utilissime.
Mi parla del fatto che sta seguendo contemporaneamente due progetti, uno con molti artisti in scena e Le dragon bleu. Si riferisce nel primo caso a Lipsinch e alle difficoltà dovute alla gestione di molti interpreti in scena. Gli piace pensare che i due progetti abbiano anche due obiettivi diversi: uno con un respiro tematico più collettivo e l’altro Le dragon bleu più intimista. L’attrice è un’amica, Marie Michaud con cui aveva già condiviso l’esperienza di scrittura della Trilogia, un’attrice eclettica che ha un repertorio anche comico. La scena ha molti elementi in comune con i suoi precedenti spettacoli ma Lepage mi rivela che ha scelto un giovane scenografo Michel Gauthier che ha lavorato con lui per la prima volta proprio a questo allestimento.
Non è ancora soddisfatto dell’effetto, la macchina è ancora dura, difficile, molte cose non funzionano bene perché lo spettacolo, come dice, è ancora enfant. La scena ha tutte queste rientranze, profondità, trabocchetti: gli chiedo se ancora una volta, è il doppio/maschera del personaggio. Mi risponde che effettivamente tutti i personaqgi sono uno specchio dell’altro, hanno elementi comuni anche se apparentemente sono distanti e la scena è lo specchio per eccellenza perché lo specchio è un momento di consapevolezza, di confronto. La vicenda è particolarmente drammatica e porta all’interiorità del personaggio perché - mi spiega Lepage - voleva esplorare una condizione dell’anima.
Ma il suo teatro è calligrafico? Lepage mi risponde che è vero, riconosce nella calligrafia un elemento del suo teatro: nella calligrafia conta il gesto oltre alla scrittura, l’armonia e l’equilibrio del corpo, l’opera finale ma anche la mano che scrive. Come considerare in questo spettacolo il rapporto tra la macchina e l’artista? La condizione di equilibrio è quella ideale tra macchina e attore in scena, mi spiega, ma ancora per questo spettacolo si sente lontano dal risultato migliore. E mi dà appuntamento a Londra, ottobre 2008 per il debutto definitivo.
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Travestimento, dialetto, classici e diversità. A confronto con “Scena Verticale” Una conversazione con Saverio La Ruina di Mariacristina Bertacca |
Saverio La Ruina è il fondatore – accanto a Dario De Luca – della compagnia Scena Verticale di Castrovillari (CS), della quale è anche regista, drammaturgo e attore. La Ruina mi ha e rilasciato questa intervista il 27 ottobre 2007, presso il Teatro Santandrea di Pisa. Alcuni stralci di tale conversazione sono già apparsi in Mariacristina Bertacca, Si va in “Scena Verticale”, «Atti&Sipari», numero 2, aprile 2008, pp. 34-36.
Un elemento che mi sembra ricorrente nei vostri lavori è quello del travestimento. Nel monologo Dissonorata tu interpreti un personaggio femminile ma, ripercorrendo a ritroso i vostri spettacoli, già in Kitsch Hamlet la madre di Amleto è interpretata da un attore uomo (Rosario Mastrota), e de-viados tratta il tema della transessualità.
Tra l’altro il “travestirsi” è anche una caratteristica del teatro: portarlo sulla scena comporta un inevitabile sdoppiamento tra travestimento come elemento dello spettacolo (nel momento in cui un uomo si presenta sulla scena in abiti femminili, oppure nel momento in cui si parla di trans) e travestimento come peculiarità teatrale (dell’attore che entra nelle vesti del proprio personaggio); in entrambi i casi si assiste infatti ad un cambiamento di identità.
In de-viados il trans rivela proprio il passare entro un’altra identità. Per di più si è trattato di uno spettacolo in cui si è lavorato molto tra l’intimo e il momento pubblico, durante il quale il transessuale in qualche modo si vende: questo è un elemento di grande teatralità, perché il marciapiede diventa davvero la sua scena.
In Kitsch Hamlet si trattò di un travestimento diverso, così come per Dissonorata. Nel primo si ha questo personaggio femminile della madre, interpretato da un uomo. In realtà è stato un procedimento nel quale ci siamo trovati costretti, perché in effetti c’è stata una difficoltà oggettiva di mancanza di figure femminili, di attrici, che fossero disposte a fare questo percorso: molti giovani tra quelli che formavamo, soprattutto donne, erano stati ripresi dalle famiglie e reincanalati. Noi non abbiamo mai voluto forzare questo fenomeno più di tanto, per cui spesso ci siamo trovati obbligati ad interpretare anche ruoli femminili. Però in Kitsch Hamlet c’era anche un’altra spiegazione: la madre (come molte figure parentali, soprattutto nel Sud) è un soggetto che viene comunque spogliato di ogni femminilità e di ogni seduzione. L’unico elemento femminile materno è quello della morbosità, che si rivela attraverso la smania di nutrire e nutrire i figli, quasi servilmente. Proprio per questo abbiamo deciso che venisse interpretata da un uomo. Oltre al fatto che alcune donne di un’epoca passata e contadina, hanno volti non troppo dissimili dai tratti maschili: senza cura, senza trucco, e nei comportamenti non c’è grazia perché il lavoro è simile a quello dell’uomo. In generale sta di fatto che non riesci a pensare all’aspetto sessuale femminile in certe figure...
Il caso di Dissonorata ha uno scarto ulteriore, perché è un personaggio che non vuole essere en travesti. Ci sono anche alcuni elementi femminili: una vestaglietta senza colori sgargianti, umile, dimessa, sotto la quale stanno però un paio di pantaloni che potrebbero essere sia maschili sia femminili, con ciabatte da casa popolari, e questo è tutto. In Dissonorata io non rinuncio all’identità maschile. Verso la fine viene fuori una figura legata alla vita intima della protagonista, che si chiama Saverio come me: lì c’è un desiderio di aderire in prima persona al destino di questa donna, perché in fondo rappresenta, racchiude le donne della mia vita. Ci sono cose che riguardano la vita delle mie nonne, delle mie zie, delle loro amiche, e persino certi aspetti della formazione di mia madre. Si tratta proprio di un mondo che mi è caro: atteggiamenti, modi di pensare, destini, emozioni, pudori, riserbi, che appartengono alla mia memoria affettiva. Allo stesso tempo si narra una condizione femminile che, anche se è specifica, è molto simile a quella di altre donne, e ad esse si può estendere: siamo in un’epoca, quella passata, si tratta di un evento che si ambienta negli anni Sessanta, un periodo in cui la condizione della donna era questa, soprattutto in certi contesti contadini del Meridione. Ma un retaggio simile c’è ancora nel Sud, specie in paesi dell’entroterra: ci sono anche oggi eventi drammatici. Uno è successo proprio nel 2006, il primo giorno di lettura di questo lavoro: un ragazzo di Reggio Calabria ha sparato alla sorella perché era andata a convivere con un uomo a Messina.
Adesso poi, in una realtà così globalizzata, la tua vicina di casa può appartenere ad una famiglia musulmana, con certi comportamenti, riti, abitudini, un costume ben preciso, in stretto legame anche con la religione. Quindi con questi problemi del passato ti ci trovi ad avere a che fare tuttora. Per di più, siccome Pasqualina è vittima di una società maschilista e di una mentalità maschilista, quella del padre e dell’uomo di cui si innamora, io voglio essere tramite e dare voce a queste donne che mi appartengono: mi sembrava bello e anche doveroso.
In effetti una cosa che mi ha colpito è che si porti sulla scena una donna, una voce femminile insomma, attraverso un autore-attore maschile. Nel momento in cui tu come uomo dai voce ad una donna, sia come drammaturgia sia come performatività, mi pare che la denuncia divenga più “eclatante”: l’accusa portata avanti da un uomo, che indossa vesti femminili, in un certo senso può attirare maggiore attenzione, viste le posizioni perlopiù maschiliste del nostro sostrato socio-culturale, e ancora di più dell’ambiente in cui vive Pasqualina.
È comunque qualcosa che mi tocca, perché investe donne che mi riguardano. E infatti volutamente non abdico all’identità maschile. Questa intenzione di salvaguardare la mia identità l’ho avuta fin dall’inizio, però avevo paura di non sapere come fare fino in fondo questa cosa. Io non scompaio come uomo, e infatti non faccio niente di particolare, né nel travestimento né in una caratterizzazione grottesca, che tale diventerebbe se io facessi la donna.
Comunque la compresenza di abiti maschili e abiti femminili, penso che voglia estendere ancora di più la vicenda, senza limitarla alla sola sfera muliebre. Come se questo dramma investisse tutti: uomini e donne, vittime e carnefici.
Sì, anche questo. Anzi, forse riguarda più noi uomini, perché in qualche modo si fa fatica ad accettare l’emancipazione, e si tende a difendere sempre certe posizioni.
Mi sembra che in tanti lavori della compagnia ci sia questo desiderio di voler generalizzare le situazioni. Si parte da un contesto locale, come succede ad esempio in Kitsch Hamlet, e poi si estende la questione.
Tra l’altro Kitsch Hamlet è scritto e rappresentato in dialetto, anche se si tratta di un dialetto molto bastardo, un dialetto dei giovani, per cui ci sono tante parole italiane o mutuate dalla televisione, che permettono una buona comprensione. Molto meno il dialetto di Dissonorata, che è più arcaico, sebbene ci sia stata un’attenzione particolare, una certa cura: a livello di scrittura, ho cercato di creare i presupposti perché tutto si capisca. Tornando a Kitsch Hamlet, esiste anche una versione scritta in lingua: per il “Premio Ugo Betti”, siccome accettavano solo testi scritti in lingua italiana, ho fatto una traduzione molto estemporanea, cercando però di salvaguardare il sapore dialettale. Ad ogni modo c’è qualche difficoltà in meno. Qua ci sono dei giovani calabresi, sì, ma alla fine un po’ tutti i giovani di ogni parte del mondo, proprio a causa della televisione, del trend, hanno molte cose che li legano. Oggi certi fenomeni passano e diventano quasi linguaggio comune, gergo comune: questo è il problema del vuoto generazionale, spirituale, dei giovani. E quindi anche questo alla fine permetteva di avere un microcosmo calabrese, che però potesse far riflettere la vita.
Vi sono poi però delle questioni solo “meridionali”, come ad esempio i rapporti e gli attaccamenti morbosi nei confronti delle figure parentali.
In realtà, alla fine questo può essere anche un problema molto italiano, o ancora di più umano. Non a caso Freud è partito da lì. Ma effettivamente al Sud questa cosa è ancora più visibile, a volte raggiunge livelli veramente grotteschi. Nel Meridione c’è una certa esagerazione, che porta dunque all’uscita anche in campo artistico, letterario.
Un’altra cosa che mi ha colpito è la ripresa di alcuni grandi classici: Shakespeare (da cui sono stati tratti Hardore di Otello, Amleto ovvero Cara mammina, Kitsch Hamlet), Sofocle, Euripide, Hoffmansthal (ripresi tutti e tre con Elettra).
In effetti certe cose, pensate attraverso il classico, riescono a far emergere in modo più forte questa sottocultura meridionale, nella quale siamo invischiati; e permettono di far emergere una società, quella del Sud e in particolare della Calabria, che è traballante, anche da un punto di vista strettamente architettonico, fisico. Per cui in Hardore di Otello si ha tanta acqua (la Calabria in fondo è un’Isola mancata), che in qualche modo ci aiutava a fare un discorso su una società che “fa acqua da tutte le parti”: letteralmente si portava in scena un appartamento allagato, dove abita questo Otello addolorato per la morte di Desdemona (si parte dalla fine dell’Otello shakespeariano).
Amleto ovvero Cara mammina è legato al rapporto del figlio con la madre, al fatto estremo, come già nell’Amleto shakespeariano in cui la madre si lega allo zio dopo aver ucciso il padre. E quindi riducendo all’osso questo rapporto figlio-madre, essendo Amleto una figura insicura, una figura emblematica, viene portato in scena un cerchio bianco, perché ogni giorno il personaggio rivive, come in un rituale, tutto quello che faceva con la madre, per tenere in vita la presenza della mamma anche nell’immaginario. In questo modo perpetrava circolarmente.
In Kitsch Hamlet addirittura Amleto è chiuso dietro la porta, ma in realtà tutto il centro motore sta in questa sua assenza, che crea invidie e gelosie, perché la madre lo cura, perché la madre parla sempre di lui, e questo fatto, questa assenza fa montare tensione. E in un universo così banale, una figura di grande pensiero sta dietro la porta, al di fuori di quel pezzo di mondo. In generale, nella grande opera shakespeariana, anche le dramatis personae negative sono di grande spessore: persino un personaggio come Claudio dell’Amleto ha poi un momento di pentimento e lucidità, cosicché vedi che c’è uno spessore tragico anche nei personaggi negativi, in contrasto con la banalità di questi ragazzi, di questo vuoto in cui vivono. Alla fine Kitsch Hamlet è estremamente divertente, perché il negativo spesso è talmente cialtrone che si presenta in modo anche più spiritoso. Questi personaggi incredibili che vediamo nei reality sono assolutamente deprecabili, eppure ne facciamo degli eroi, e così questi ragazzi risultano simpatici, il pubblico si affeziona a loro perché comunque sono divertenti. Il problema invece è che bisogna prendere posizione. Ma in Kitsch Hamlet è l’accumulo di banalità che dà “valore poetico” al lavoro.
In effetti vista da lontano la situazione fa ridere, perché ci distanziamo da essa, è come se non facesse parte di noi, mentre in realtà ci viviamo nel mezzo.
Infatti da fuori puoi dire: «Vabbe’, in fondo sono divertenti». Però nella realtà una persona così ti crea esplosioni nel sociale. Fa ridere sul momento, però se non prendi le distanze e non prendi posizione, alla fine gli dai diritto di esistenza.
Un altro punto importante, che in parte è già emerso è l’uso del dialetto. È bello riportare in teatro il dialetto e rendere più viva la scena. I dialetti meridionali poi hanno grande musicalità e sono portatori di emozioni. Però d’altro canto si tratta di una scelta difficile, perché il dialetto in quanto tale può non essere comprensibile e immediatamente accessibile a tutti. E la scelta è ancora più ardua quando si tratta di un monologo di denuncia (come nel caso di Dissonorata), in cui la comprensione delle parole è molto importante. Dunque come ci si pone nel momento in cui si decide di usare il dialetto: su cosa si gioca per permettere a tutti di avere, se non altro, una comprensione generale?
Il dialetto in effetti ha una marcia in più, perché riesce a veicolare sentimenti ed emozioni più forti rispetto alla lingua italiana. Ed è portatore in parte di squarci antropologici. E poi se posso incidere così direttamente, perché sfruttare la mediazione della lingua italiana? Ne faccio a meno. In uno spettacolo come Kitsch Hamlet hai un tipo di scena talmente precisa, riferimenti e situazioni chiari, che non c’è nessun problema che ci possa essere qualche fraintendimento. In Dissonorata in effetti può esserci più pericolo, ma anche in questo caso è necessario l’uso del dialetto, perché lei – Pasqualina – è una donna contadina, che non ha studiato, che parla la lingua della terra, e quindi c’è l’esigenza di farla parlare nella sua lingua.
Quanto alla comprensione di Dissonorata, se uno spettatore si chiude fin dall’inizio al dialetto, e il pregiudizio ti chiude, non capisci veramente niente. Se invece confidi, ti lasci andare, alcune cose magari continui a non capirle (ci sono certe espressioni che non le capiscono neanche in Calabria), ma il resto sì, e hai così una comprensione generale. E anche quando non capisci, il dialetto può comunque raccontare l’essenza di quella persona. Perché poi c’è una costruzione che non è casuale, bensì ritmico-musicale, per quanto mi sia riuscito di dargli anche una struttura ritmico-musicale, che in parte riconoscevo dentro l’oralità di queste donne; e infine c’è l’elemento della ripetizione. È una donna che ha nel suo modo di parlare il ripetere, il ripetersi, e dà più volte informazioni, termini, dando l’opportunità di una maggiore comprensione.
Nel teatro contemporaneo c’è molto uso del dialetto, penso a Enzo Moscato, Emma Dante, Davide Enia, Spiro Scimone, Vincenzo Pirrotta...
Con Emma Dante hai delle situazioni forti, dei corpi. Pure lei – Pasqualina – ha una sua fisicità, ma non c’è il lavoro sul corpo che, anche laddove non si capisce la parola, esprime qualcosa con le danze dei corpi: questo è il teatro di Emma Dante. Essendo questo un monologo ti pone una difficoltà in più.
Un altro elemento che mi sembra preponderante è quello della diversità, soprattutto il cercare di dare voce ai più deboli: donne, transessuali... Si parla di diversità sessuale (le donne o i trans), ma anche mentale, come quella della pazzia di Ofelia in Kitsch Hamlet. È come se ci fosse un reale bisogno di dare una voce che li sostenga. Portarli in scena è come riabilitarli, toglierli dall’emarginazione nella quale sono confinati.
Sì, infatti. Fino ad un certo punto si tratta di una scelta quasi più a posteriori. Poi ad un certo punto comincia la consapevolezza. Anche in Dissonorata c’è proprio il desiderio di dare una voce a Pasqualina, un linguaggio suo. Il linguaggio di questa donna diventa anche poeticamente interessante, per quel tanto che riesce ad esserla. E qua c’è anche la soddisfazione di essere riuscito a dare una lingua ad una figura emarginata, umile, povera, di darle una dignità linguistica. E in effetti questo è un mondo che mi richiama sempre più, un mondo al quale dare voce. Mi piacerebbe anzi portare avanti una riflessione più approfondita su questo, perché alcune scelte sono state inconsce, inconsapevoli. Ci sono autori che hanno già dato voce a personaggi umili, poveri, emarginati. Ma nel mio caso si tratta di dare voce a chi ha difficoltà anche con la parola, sebbene Pasqualina abbia una sua bella vitalità, un suo bel candore.
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Il teatro alla moda Comica e politica di Oliviero Ponte di Pino |
Da «Atti&Sipari», numero 2, aprile 2008, pp. 34-36.
Sono cose da ridere; ma cose che qualche volta mi fan venire la rabbia. Son così, io che sono allevata civilmente, non posso soffrire le male grazie.
Susanna nel Ventaglio di Carlo Goldoni
PROLOGO IN TEATRO
Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: “E insomma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!”
Applausi dal pubblico.
“Con voi e per voi, ecco il mio programma...”
Applausi ancora più fragorosi.
ATTO PRIMO
Scena prima (uno studio televisivo)
Un comico di una certa fama (altrimenti non l’avrebbero chiamato in quella trasmissione) sta preparando uno sketch. Il tema è di quelli che possono far discutere gli italiani: gli infortuni sul lavoro, la gita in Cina di Bettino Craxi e del suo numeroso seguito, il caso Pinelli-Calabresi-Sofri, l’iter giudiziario di Silvio Berlusconi, Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, il discorso sulla democrazia di Pericle. Le battute sembrano azzeccate: nello studio ridono tutti, anche i fonici. Solo uno, nell’ombra, rimane serio. Anzi, più gli altri ridono, più lui diventa livido.
Scena seconda (un ufficio)
Qualcuno (chi? fate voi: un funzionario pavido, un portaborse diligente, o magari un alto prelato o un importante uomo politico) parla al telefono: “Ma ti rendi conto? Quello ci sta sputtanando a tutti! a spese nostre, per di più.”
Infatti di certi argomenti non bisogna parlarne; e se proprio si deve, non in televisione (nemmeno a mezzanotte e dieci, in programmi di scarsa audience); e se proprio di certe faccende bisogna parlarne in televisione, non è ammissibile che lo faccia un “guitto irresponsabile che cerca solo di farsi pubblicità”.
Scena terza (un altro ufficio)
Il comico e un funzionario. Discutono animatamente. Cercano un accordo.
Il comico deve lavorare, vuol fare il suo sketch, accetta qualche taglio che possa aggirare il divieto, gli scoccia rinunciare al cachet e soprattutto alla platea televisiva. Sa benissimo che se tira troppo la corda finirà nella lista nera.
L’attore è molto popolare, la trasmissione va bene, il funzionario non vorrebbe grane e dunque cerca di spiegare con pazienza perché quella cosa non si può dire e quell’altra non fa ridere. Sa benissimo che se tira troppo la corda scoppierà uno scandalo.
A un certo punto il comico batte il pugno sul tavolo e se ne va. Ora è agitato, telefona: “Ma sai che cazzo mi ha chiesto, quell’ignorante?”
Oppure a un certo punto il funzionario scuote la testa e se ne va. Ora è agitato, telefona: “Ma sai che cazzo mi ha chiesto, quell’ignorante?”
ATTO SECONDO
Scena prima (uno studio radiofonico)
La brava giornalista sta facendo la rassegna stampa. I giornali non parlano d’altro: lo sketch censurato è finito in prima pagina. Che sia andato in onda oppure che il programma sia stato sospeso, è irrilevante: l’importante è lo scandalo. Ne discutono al bar, sugli autobus, in ufficio davanti alla macchinetta del caffé.
Scena seconda (una tavola rotonda sulla satira televisiva: in tv, alla radio, in un auditorium, negli uffici della tv, in uno studio d’avvocato, in un sede di partito)
“No, perché quel buffone ha superato ogni limite. Quella non è satira! E’ troppo volgare! Non fa mica ridere... Tutti quei fluidi corporei, mi veniva vomitare.”
“Ma il vomito non è un fluido corporeo? Che schifo!”
Oppure:
“No, perché quel buffone ha superato ogni limite: quella non è satira, è informazione. Un comico dev’essere divertente. Quello non fa neanche ridere, è solo propaganda... Ma se davvero vuoi fare informazione, allora deve permettere il contraddittorio... Non può mica attaccare chiunque così, senza permettergli di replicare. E’ stato un attacco ignobile!”
“Mi scusi, ma quello che raccontava era vero o no?”
ATTO TERZO
Scena prima (un teatro)
Il comico è sul palco. Sta spiegando che tra poco ripeterà lo sketch che gli è costato il posto in televisione. E’ insieme abbacchiato ed euforico: “Sarà una serata memorabile!”
Il numeroso pubblico si è divertito: “E’ stata una serata memorabile!”
Scena seconda (un palazzetto dello sport, una piazza)
Sventolano le bandiere. Folla. Un uomo si agita sul palco. Grida: “E insomma, tutto questo non è più accettabile! Non possiamo più sopportare la vecchia politica. Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche. Voi e io. Così ho deciso di fare questo sacrificio e di scendere in campo!!!”
Applausi dal pubblico.
“Con voi e per voi, ecco il mio programma...”
Applausi ancora più forti.
BIS! A grande richiesta...
Dopo un periodo di purgatorio, lontano dal piccolo schermo, il bravo comico ritorna finalmente in televisione. Sarà un evento.
Spesso l’iter si ripete: un eccesso d’impertinenza, un eccesso di censura, e il giochetto ricomincia daccapo.
SIPARIO
Dai tempi del caso Fo-Rame, che nel 1962 abbandonarono Canzonissima per le “divergenze artistiche e ideologiche” innescate da uno sketch sugli infortuni sul lavoro, il copione si è ripetuto più o meno identico, con minime varianti. Bastano gli esempi più clamorosi.
Il “terrorista del sabato sera” Beppe Grillo nel 1986 a Fantastico 7 racconta una barzelletta sul viaggio di Craxi e della sua corte in Cina e viene cacciato dalla Rai; non si pente: nel 1993 torna in Rai con un recital dove attacca i pubblicitari, la SIP, Biagio Agnes, l’inquinamento e la stupidità collettiva; raccoglie sedici milioni di spettatori ma si guadagna un’altra scomunica; da allora lo si vede solo sul satellite e sulle pay tv, oltre che dal vivo.
Daniele Luttazzi nel 2001 invita a Satyricon l’impertinente Marco Travaglio, che osa parlare dei processi a Berlusconi: con l’accusa di aver intervistato un giornalista invece di raccontare solo barzellette, Luttazzi viene cacciato all’istante dalla Rai, dove non mette più piede; è un recidivo pure lui: nel 2007 è cacciato anche da La7 per qualche battuta un po’ troppo pesante sul teodem Giuliano Ferrara.
Sabina Guzzanti nel 2003 vede il suo Raiot, in onda in seconda serata, bloccato dopo la prima puntata malgrado l’ottima audience: Mediaset chiede uno strampalato risarcimento da 20 milioni di euro perché le gag della Guzzanti non erano satira ma informazione (una battuta involontaria ma geniale, che dà l’idea di quanto sia ridicola la situazione del nostro paese); la Rai finge di spaventarsi e Raiot non va più in onda.
Paolo Rossi, invitato di Paolo Bonolis nel 2005 a Domenica In, vorrebbe leggere il discorso di Pericle sulla democrazia: non glielo fanno nemmeno iniziare, e per ripicca la Rai pochi giorni dopo non manda in onda nemmeno la seconda parte del suo Questa sera si recita Molière (guarda caso un altro comico con problemi di censura...).
La storia si ripete con varianti minime. Un buffone di successo affronta un tema d’attualità, qualcuno ritiene che la gag sia un po’ troppo impertinente e scatta la reazione: una censura preventiva o l’immediata sospensione della trasmissione incriminata, e la successiva epurazione del reo. Il quale si proclama naturalmente vittima della stupidità del potere e rafforza la propria fama di “uomo (o donna) contro”: “Io sono un artista libero!”. Va peraltro tenuto presente che, nell’Italia dell’inciucio televisivo Rai-invest, farsi cacciare da una trasmissione significa di fatto essere cacciato da tutte le reti televisive, perché l’intero sistema è sotto stretto controllo politico. Per fortuna ci sono le esibizioni live, dove il nostro bravo comico può sfruttare al meglio la propria trasgressiva scomodità: il pubblico – un certo pubblico, ma sufficiente a riempire teatri, piazze e palazzetti dello sport – apprezza proprio questo.
Peraltro la censura non può imporre a chiunque di tacere su qualunque argomento e in qualunque luogo. Solo un imbecille può pensare di stabilire per legge che cosa devono dire i comici. Solo due ingenui come gli avvocati Stefano Previti (figlio d’arte) e Pieremilio Sammanco – che per conto di Mediaset hanno querelato per Raiot Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Studio Uno s.r.l. (la società produttrice) e la Rai – può pretendere di circoscrivere la funzione della satira e di limitare il suo campo d’azione, riducendola a passatempo edificante e consolatorio:
E' noto, in verità, che la satira sorge per l'innato bisogno di irridere personaggi noti e potenti e non risponde, a differenza della cronaca e della critica, a finalità informative. La giurisprudenza più volte sul punto ha infatti espresso che “il diritto di satira a differenza del diritto di cronaca non assume l'informazione come proprio obiettivo (primario o anche solo concorrente)” (Dir. Inform., 1989, 520).
Non può dunque fondamentalmente affermarsi che la satira contribuisca alla formazione della pubblica opinione e questo perché il mezzo espressivo prescelto è intrinsecamente connotato dall’intento dissacratorio. Ragion per cui, se una funzione si deve assegnare alla satira, essa va individuata nell'esercizio di un controllo sociale verso il potere; la satira, in definitiva, attraverso l'arma incruenta del sorriso assolve la funzione di “moderare i potenti”, di smitizzare ed umanizzare i personaggi famosi, di umiliare i protervi, favorendo la diffusione di un clima di tolleranza che attenuerebbe le tensioni sociali.
E' allora evidente quindi la diversità di funzione rispetto alle altre manifestazioni del pensiero, atteso che la satira non può, per sua natura, perseguire il fine di contribuire alla formazione della pubblica opinione.
Secondo i due avvocati, toccherebbe alle vittime della satira decidere che cosa debba essere la satira. Ovviamente la loro balorda richiesta è stata respinta (anche se a quel punto Raiot ormai non c’era più, colpita e affondata). Per l’estensore della sentenza di archiviazione, Giuliano Turone, procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, le battute della Guzzanti sulla legge Gasparri «scritta da qualcuno molto vicino a Confalonieri», su «Retequattro abusiva», o sul ministro Gasparri («Tutte le volte che si critica la sua legge risponde l’ufficio stampa di Mediaset anziché il suo»), «trovano un riscontro nei contenuti delle due sentenze della Corte Costituzionale e nella memoria dell’Antitrust», oltre che in «fatti, avvenimenti e circostanze» non soltanto «socialmente rilevanti» ma anche «obiettivamente veri nei loro elementi essenziali»: insomma, non solo era diritto del comico affrontare quegli argomenti, ma li ha anche trattati in maniera corretta. Come ha spiegato Beppe Grillo a suo tempo,
Trovo triste abitare in un paese dov’è un comico a dover spiegare la politica in tv o sulla piazze.
(“la Repubblica”, 1° luglio 1994)
Peggio ancora (o ancora più buffo), Grillo è stato chiamato come testimone in diverse indagini in materia economica (di recente anche per il crac Parmalat, che aveva anticipato nei suoi esilaranti comizi-spettacolo):
Possibile che le informazioni ai giudici debba darle un comico?
(“la Repubblica”, 7 febbraio 1995)
Insomma, il problema non sono i comici: il problema sono magistrati che non indagano, sono i giornali e i giornalisti che queste verità non le dicono (o non le possono dire).
Ovviamente i censori non vogliono solo mettere a tacere il loro bersaglio dichiarato: a un livello più generale, cercano di screditare e intimidire tutte le opinioni scomode. Poche sere dopo la cancellazione di Raiot, Sabina Guzzanti ha riproposto le sue gag in una tournée che ha raccolto decine e decine di migliaia di spettatori, sollevando un vero caso politico. A un’artista che ha già costruito la propria immagine artistica e consolidato fama e pubblico, una censura di questo genere pone certamente gravi problemi, ma non distrugge la sua integrità e dignità artistica, se solo ha la forza di resistere alle lusinghe del disimpegno; anzi, lo premia con l’aureola del martirio. Ma per i suoi colleghi più giovani un messaggio del genere (“Se superi certi limiti, ti chiediamo danni per milioni di euro”) ha un effetto intimidatorio, perché spinge a una sistematica autocensura: il problema non è solo la fondatezza della querela, o l’entità del danno, ma anche le spese legali e le ansie che chi “tiene famiglia” dovrà affrontare.
La censura del resto è un meccanismo complesso, che non è possibile ridurre agli episodi più clamorosi ed espliciti. In primo luogo la censura non riguarda solo e tanto la verità che non si può dire: ancora prima, è necessario decidere l’“ordine del discorso”, ovvero gli argomenti di cui è possibile parlare e quelli di cui non si può parlare (i temi che “non sono in agenda”). E poi si tratta di stabilire chi può parlare di un determinato argomento (perché è “autorevole”) e chi invece no: o meglio, si decide che quel tizio, se parla di quell’argomento, spara inevitabili sciocchezze, e dunque è inutile e dannoso rispondere. Perché in subordine si stabilisce che l’effetto di una certa affermazione varia a seconda di chi l’ha fatta (a seconda del momento in cui l’ha detta, e del ruolo che ricopre in quel momento). Persino il papa – dice l’apposito dogma – è infallibile solo quando parla “ex cathedra”, altrimenti è fallibile persino lui. (Curiosamente in Italia esiste un comico “infallibile”, al quale tutti permettono –magari a denti stretti – di dire e fare tutto ciò che vuole: Roberto Benigni, al quale venne perdonato persino un irriverente “Woytlaccio!” al Festival di Sanremo...)
Spesso il buffone non si limita solo a dire una scomoda verità. A volte è addirittura dotato di una certa capacità profetica. Basti pensare a Dario Fo, che nelle sua farse denunciava le tangenti sulle pompe funebri con qualche decennio d’anticipo, o a Paolo Rossi: nel 1983 il “Lenny Bruce dei Navigli” parlava “di tangenti sul pianeta Craxon e dicevano che esageravo”, dieci anni dopo Tangentopoli spingeva il leader socialista alla latitanza.
Peraltro, come abbiamo visto, la denuncia di un comico – anche se vera – in genere non ha alcun effetto pratico,
La satira diretta ai potenti ha mostrato di non provocare reazioni. La controparte è immobile.
(Altan, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 marzo 1992)
Però quando le persone “autorevoli” tacciono, o parlano in modo da non farsi capire, qualcuno (forse meno autorevole) pensa bene di prendere la parola. In questi mesi per esempio sono numerosi i buffoni che nei loro monologhi affrontano i temi (serissimi e riservati agli esperti) dell’economia e del lavoro, con particolare attenzione al precariato: Marco Paolini (con I Miserabili – Io e Margaret Thatcher), Paola Cortellesi (con Gli ultimi saranno ultimi), Ascanio Celestini (con Appunti per un film sulla lotta di classe), meritandosi a volte i rimbrotti dei critici perché osano occuparsi di argomenti sui quali sono impreparati: vedi la recensione di Renato Palazzi ai Miserabili di Marco Paolini sul “Sole 24-Ore” (guarda caso il quotidiano della Confindustria).
Certo, la censura è prima di tutto un problema di avvocati, di querele e tribunali, dei consigli d’amministrazione dei vari media e dei teatri, delle commissioni parlamentari e delle interrogazioni parlamentari. Ma il campo viene delimitato, per così dire, da molti altri attori: programmatori di teatri e programmisti-registi radiotelevisivi che possono ammettere o escludere uno spettacolo o uno sketch, critici, intellettuali, professori ed editorialisti che possono difendere o attaccare il guitto sotto accusa, giornali e case editrici che possono pubblicare e promuovere testi e autori scomodi. Senza dimenticare il ruolo del pubblico, che decretando il successo di un comico difende anche la propria libertà. E naturalmente ha un peso anche la battaglia per la sopravvivenza (e il successo) dei comici medesimi, che con il loro coraggio e le loro paure, i loro opportunismi e le loro astuzie cercano di salvaguardare (tra l’altro) il proprio posto di lavoro.
Del resto, il comico ama da sempre giocare con il potere, tanto che si è sedimentata una vera e propria mitologia. Inutile ricordare il bambino che punta il dito, “Il re è nudo”, diventando il santo patrono della satira politica. Altrettanto inutile ricordare la figura del buffone di corte, il Fool che trova nel Re Lear di William Shakespeare la sua incarnazione più esemplare e poetica. Rispetto alle epoche barbariche dove regnava Lear, bisogna precisare che in questi nostri tempi moderni, segnati dal trionfo della democrazia e dalla morte di Dio, il ruolo e i limiti della satira sono assai cambiati. Da un lato, la satira ha avuto un ruolo fondamentale nell’abbattere disuguaglianze, idoli e superstizioni: basti pensare a Voltaire e al suo Micromega. Se la satira ai suoi inizi - vedi Aristofane - era tendenzialmente moralistica, e dunque in sostanza conservatrice, con l’illuminismo razionalista ha assunto invece una funzione dissacrante e potenzialmente progressista.
Come giullare di corte della società moderna, l’intellettuale ha il dovere di dubitare di tutto ciò che è ovvio, di considerare relativa qualsiasi forma di autorità, e di porre tutte quelle domande che gli altri non osano fare... La verità del buffone quindi non è mai troppo seria poiché le manca l’importante avallo della responsabilità (e anche, naturalmente, del potere). Ma questo non diminuisce il suo valore e dimostra che è tanto più irragionevole affrontarlo con l’artiglieria pesante del sospetto pubblico e della denigrazione. Il mondo in cui una società accetta gli intellettuali giullari di corte, che mettono criticamente in discussione le sue istituzioni, ci dà la misura della sua autorità e della sua solidità.
(Ralf Dahrendorf , “Die Welt”, 1953)
Ma ora che i valori della critica si sono affermati (forse irreversibilmente), qualcuno sostiene che il comico avrebbe perso la sua funzione: dopo il trionfo del nichilismo razionalista, abbattuti gli ultimi idoli, non ci sarebbe più niente di cui ridere.
Dall’altro, in una società gerarchica in cui ciascuno aveva un ruolo prestabilito, al quale corrispondevano precisi diritti e doveri, il fool aveva totale libertà di parola proprio perché non ricopriva alcun ruolo preciso (correva peraltro qualche rischio: se davvero esagerava, il buffone di corte non perdeva solo il lavoro, ma anche la testa...). Ora che siamo tutti uguali di fronte alla legge, e che i ruoli sociali si sono indeboliti, tutti possono ridere di tutto. Ecco un paradosso: potremmo ridere di tutto, anche se non c’è più niente da ridere. Infatti i comici dilagano, mettendo in ridicolo il mondo intero. E noi continuiamo a ridere con loro di tutto, ma con un riso un po’ forzato.
Il Novecento che ci siamo lasciati alle spalle è stato un secolo terribile, segnato da guerre atroci e stragi insensate: non c’era letteralmente niente da ridere, e tuttavia tra le grandi creazioni dello spirito umano di quel periodo ci sono la fioritura dell’umorismo ebraico, che non si è fermato nemmeno davanti alla camere a gas; e la proliferazione delle irresistibili barzellette sul regime sovietico. Se proprio bisogna aver fede nell’essere umano, questa libertà di sghignazzo di fronte all’orrore potrebbe essere una buona motivazione.
Di più: un tempo c’era chi poteva ridere e chi no, perché per lui non era dignitoso. In compenso, c’erano momenti – come il Carnevale – in cui era “obbligatorio” ridere, anche perché in quel periodo il mondo funzionava all’incontrario e il buffone diventava sovrano – il Re di Carnevale (ma anche qui, almeno anticamente, rischiava una brutta fine). Oggi, in una società dove è d’obbligo “divertirsi da morire” (e dove i politici sono più a loro agio nelle barzellette e nei tribunali che in Parlamento, quando non diventano essi stessi barzellettieri), possiamo e dobbiamo ridere sempre. Per questo oggi il Re di Carnevale può autorevolmente candidarsi alle elezioni. L’aveva fatto in Italia del dopoguerra il commediografo Guglielmo Giannini, l’eroe dell’Uomo Qualunque. L’ha fatto un genio dello sberleffo politicamente scorretto come Coluche, che all’inizio degli anni Ottanta si candidò alle presidenziali francesi con lo slogan “Per rompere le palle alla destra fino a sinistra”: nei sondaggi ottenne un tale successo che venne obbligato a ritirarsi. Inutile aggiungere che gli italici “comici-candidati” sono solo pallide imitazioni di Coluche: basta citare alcune delle sue memorabili battute:
· Mi permetto solo di far notare agli uomini politici che mi prendono per un buffone che non sono stato io a cominciare.
· Tutti gli uomini politici di tanto in tanto fanno i comici. Io su di loro ho un vantaggio: sono un professionista.
· La destra ha vinto le elezioni. La sinistra ha vinto le elezioni. Ma la Francia quando vince?
· Fare il politico è un mestiere difficile? Mica vero! Bastano cinque anni di diritto e tutto il resto di traverso.
· Il 50% degli uomini politici sono dei buoni a nulla. L’altro 50%? Sono pronti a tutto.
(Coluche, Pensées et anecdotes, le cherche midi, Paris, 1995)
Grillo-Masaniello si muove sulla scia di Coluche, adattandola alla realtà italiana. Può essere stato espulso dal piccolo schermo per leso Craxi e lesa pubblicità, ma intanto può continuare a riempire i palazzetti e i teatri di tutta Italia, e vende decine di migliaia di copie dei suoi libri e dei suoi video. E può organizzare manifestazioni politiche (o anti-politiche) come il “Vaffa Day” che nel settembre 2007 ha riempito le piazze d’Italia.
Ovviamente Grillo può avere più successo come politico che come buffone solo se i politici sono più efficaci come buffoni che come comici. Il Re del Carnevale diventa autorevole solo se il Re ha perso credibilità. Il buffone può aspirare al trono solo se la politica del sovrano non è riuscita a dare risposte soddisfacenti.
Da questo punto di vista, la censura è un problema di rapporti di forze e di conflitti di potere. Così il critico televisivo del più autorevole quotidiano italiano può cercare di rimettere in riga i comici
che nel frattempo sono diventati maestri di pensiero, piccoli guru, guide spirituali. Non fanno più ridere ma in compenso si atteggiano a intellettuali, scrivono pensosi editoriali e, in video o al cinema, fanno prediche. (...) Molti comici si sono trasformati in professionisti della comunicazione.
(Aldo Grasso, “Corriere della Sera”, 15 marzo 2008)
Anche se in questo hanno avuto certamente un “aiutino”:
Ormai i giornali mi chiedono l’opinione anche sulla proporzionale, si vede che in un momento di vuoto politico la politica la dettano i comici.
(“il manifesto”, 16 dicembre 1992)
Tuttavia la faccenda non è così semplice. Perché dietro la maschera del comico si nascondono – e tuttavia si avvertono – altre due risate. La prima è quella del diavolo: nella risata c’è una forza destabilizzante, liberatoria e sovversiva. Per i Padri della Chiesa l’ebbrezza del riso è addirittura un’arma diabolica. Sant’Ambrogio ammoniva:
Anche se le battute e gli scherzi possono essere moralmente belli e gradevoli, essi tuttavia ripugnano alla disciplina ecclesiastica, poiché di ciò che non abbiamo trovato nelle Scritture, come possiamo farne buon uso? In effetti dobbiamo evitarli, anche nelle conversazioni, per timore che sviliscano la dignità di un progetto di vita più austero. “Maledetti voi che ridete, perché piangerete”, dice il Signore; e noi, noi cerchiamo cose di cui ridere, in modo che, ridendo qui in basso, piangeremo là sopra!
(De officiis, I, 23, 102-103)
Dietro la risata, c’è sempre il rischio che riaffiori il demoniaco – anche se non possiamo più credere né al demonio né all’inferno. Dunque temiamo il riso e ne siamo affascinati. Per Baudelaire, che arriva molti secoli dopo i Padri della Chiesa, quando la comicità e il demonio si sono evoluti, “il riso è satanico, e dunque profondamente umano” (De l’essence du rire).
La tradizione conosce anche un altro riso, a questo paradossalmente apparentato: è quello terribile di Dio, che ride delle disgrazie e delle miserie degli esseri umani. Ora che Dio è morto, non possiamo nemmeno più sentirlo ridere di noi. E dunque a noi umani tocca tocca un difficile compito: ridere di noi stessi. Non è un caso che dopo la democratizzazione dell’ironia, dopo il trionfo di uno scetticismo che azzera nella risata ogni valore, ora dilaghi l’autoironia: ormai dobbiamo ridere di noi stessi.
Il riso non è solo problema politico, una questione di controllo ideologico o sociale. Adesso che ridiamo di tutto proprio perché non c’è più niente da ridere, il comico può tornare a essere, per un breve istante, quasi per sbaglio, una voragine filosofica e metafisica. Come se la nostra risata, a un certo punto, tradisse la nostalgia della risata del diavolo e di quella di Dio... Come se, in questa società polverizzata in mille individui-consumatori, dove anche la risata diventa spesso bene di consumo piacevole e consolatorio, potesse resuscitare il fantasma della sovversione totale, e dunque anche quello di una società di cui sovvertire regole e gerarchie. Ma questa nostalgia del trascendente si perde e si brucia tutta subito, nell’immanente: nel “qui e ora” della risata, nel suo scoppio fragoroso e gratuito.
Ecco, forse l’ansia e l’angoscia segreta dei censori è questa: fare in modo che la risata non dilaghi, non diventi contagiosa – come in quelle epidemie di fou rire idiota e insensato che ci colpivano quando eravamo adolescenti, e ci chiudevano in una piccola bolla fuori dal tempo e dallo spazio, irrecuperabili da diritti e doveri. come se non potessimo né volessimo più tornare indietro, dentro questa storia, dentro questa realtà.
Io sono soltanto una cosa, e nient’altro che quella: un clown. Questo mi mette a un livello superiore a qualsiasi uomo politico.
(Charlie Chaplin, “The Observer”, 17 giugno 1960)
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Genius Loci Eventi Live! alla Palmaria Dal 2 agosto al 6 settembre di Ufficio Stampa | Backstage Cafè Ars Gratia Artis Xlab
GENIUS LOCI EVENTI LIVE!
Isola Palmaria (Portovenere-La Spezia)Fortezza Umberto I
2 agosto-6 settembre h.21-2.00 tutti i sabato.
a cura di Anna Maria Monteverdi e Francesca Sommovigo
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laboratori per bambini tutti i giovedì dalle 18 a cura di BARBARA SIGNANINI
Backstage café: aperitivi, ristorazione, finger food dalle ore 17
SABATO 2 AGOSTO ore 21-23
GIACOMO VERDE/BAD SECTOR: A METTERE MANO
Azione collettiva di riciclaggio TV
Al termine Djset by Mass Prod/Vj set Kapitane Fracasse
SABATO 9 AGOSTO ore 21-23
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INLUOGODIPAROLA
Ambiente poetico, parole in movimento e live mix per voce e suono
Al termine DJSET
SABATO 16 AGOSTO ore 19.30 - 20.30
Compagnia EDINAMIKA. Musiche di Irene Mori e Cristina Alioto
"Corpi in musica" - Spettacolo di danza contemporanea.
ore 21.30-22.30 "La chiave" - Performance di teatro-danza. Regia ed interpretazione: SILVIA FRANCI,video live: GABRIELE NARDINI e NICOLA BRUSCHI, musica: GIULIA CERONI.
SABATO 23 AGOSTO 2008- ore 21-22
ANNALISA MAGGIANI-YUMIKO YOSHIOKA,
Video di Mario Morleo. IL LABIRINTO DI ORFEO- Danza Butoh - Performance per corpo, videoproiezioni e ritrovamenti.
SABATO 23 AGOSTO 208 -Ore 23-24
OTOLAB
CIRCO IPNOTICO-Live Audiovisual Performance
Session d'improvvisazione audiovisiva live con formazione aperta di performer, sintetizzatori e laptop
SABATO 30 AGOSTO ore 19-24
SERATA MOTUS-+DjSet
Con Daniela Nicolo', Enrico Casagrande, Silvia Calderoli. (MOTUS)
RUN, video installazione per due schermi; Ics.
Note per un film, mediometraggio, Dj Set by Silvia Calderoli .
SABATO 6 SETTEMBRE
ELISABETTA VITTONI/ARIMELA
5 IN SABATO, Performance of dance
Al termine, GIACOMINO DJ (in collaborazione con Loggia dei Banchi)
INFORMAZIONI:
L'ISOLA SARA' RAGGIUNGIBILE VIA MARE GRAZIE AL SERVIZIO DI TRASPORTO EFFETTUATO DA “NAVIGANDO 5TERRE”: ALLE ORE 20 PARTENZA DALLA SPEZIA PER LA PALMARIA DAL MOLO ITALIA (zona Faro) .
Navigazione nel Golfo con aperitivo e musica a bordo della nave.
Secondo imbarco a Portovenere alle ore 20,30; acquisto dei biglietti sulla motonave
Arrivo alla Palmaria ore 21.
Ore 21 Fortezza Umberto I: inizio eventi, spettacoli + Dj set
Ritorno alla Spezia in nave: ore 2.00 (con scalo a Portovenere)
info: 347-5234868; 347-2351993
Costo biglietto:15€
Prevendite presso:
- Backstage cafe' (Sp-Piazzetta del Bastione) orario : 7.00-23.00 - info: 347-2351993 – 3475234868
- Biglietteria Navigando Cinque Terre (SP, Molo Italia, davanti alla Capitaneria di Porto) – Orario: 8.30-10.30/15.30-17.30 info: 0187-520777
Servizio Bar & Finger Food Fortezza Umberto I: aperto dalle ore 17 dal 31 luglio al 13 settembre by Backstage cafè
In caso di maltempo l'orario di rientro potrà subire variazioni
Chi volesse muoversi autonomamente con servizio taxi boat (necessaria la prenotazione con tre giorni di anticipo) può consultare il sito: www.geniusloci2008.org o telefonare ai numeri 347-8024817 per servizio da e per Portovenere (gruppi da 4 a 10); o 348 3204812 da e per Fezzano (gruppi da 4 a 10). Il servizio taxi in entrambi i casi è attivo fino a mezzanotte.
Info: 347-5234868/ 347-2351993
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Ci accadeva di chiederci in qual modo, un giorno avremmo pensato a quegli anni, cosa avremmo raccontato a noi e agli altri.
Quando parliamo tra noi di quell'estate, facciamo come se l'avessimo avuta in pugno. La verità è che fu lei ad averci in pugno e a fare di noi quel che voleva>>
C.Wolf, Recita estiva
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