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ateatro 116 Ariane Mnouchkine: "Il teatro permette di guidare la gente" Un film documentario sul Théâtre du Soleil a Kabul di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and15 VideoElektraSuperstar elektraZenSuite di Alessandro Brucini di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and16 Digital Divide e teatro Un'intervista a Marianne Weems (The Builders Association) di Anna Maria Monteverdi http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and17 BP04 bis. Il 14 febbraio si parla di lavoro Appuntamento a Milano alla Civica Scuola d'Arte Drammatica di Redazione ateatro http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and80 Lavoro e teatro: l’incontro del 14 febbraio Incentivi, contratti, indennità di disoccupazione di Agnese Bonini, Silvia Guenzi, Davide Pansera http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and20 Elezioni senza promesse La cultura e lo spettacolo dal vivo nella campagna elettorale di Mimma Gallina http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and25 La cultura e lo spettacolo nei programmi degli schieramenti politici Una sintesi di Anna Chiara Altieri http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and26 L'apocalisse comica di Andrea Cosentino: L'asino albino e Angelica Un libro a cura di Carla Romana Antolini con i due testi teatrali, un’intervista all’attore-autore e alcuni contributi critic di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and30 Le recensioni di ateatro Il grande doppiatore ovvero il Mago di Oz secondo Fanny & Alexander Him: le imprese straordinarie di Marco Cavalcoli mago-dittatore sonoro del regno di Oz di Andrea Balzola http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and35 Il teatro italiano per Ingrid Betancourt Che cosa possiamo fare di Comune di Milano http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro116.htm#116and81
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Ariane Mnouchkine: "Il teatro permette di guidare la gente" Un film documentario sul Théâtre du Soleil a Kabul di Anna Maria Monteverdi |
Le terre afghane sono solo campi di battaglia, deserti di sabbia e cimiteri. Le preghiere si frangono nella furia dei mitra, ogni sera i lupi ululano alla morte e il vento, quando si alza, affida il lamento dei mendicanti al gracchiare dei corvi. Tutto sembra arroventato, fossilizzato, folgorato da un sortilegio innominabile. Il raschiatoio dell'erosione gratta, scrosta, sgrossa, livella il suolo necrotizzato, innalzando impunemente le steli della sua forza tranquilla. Poi, senza alcun preavviso, ai piedi di montagne rabbiosamente tosate dal soffio delle fornaci, sorge Kabul… o meglio quel che ne resta: una città in avanzato stato di decomposizione.
Yasmina Khadra, Le rondini di Kabul
E’ in distribuzione presso la FNAC anche in Italia il bel film-documentario Un soleil à Kabul ou plutôt deux, una testimonianza appassionata e appassionante del lavoro del Théâtre du Soleil diretto da Ariane Mnouchkine, a Kabul chiamato dall’associazione umanitaria per la Cultura e la Società Civile e realizzato da Duccio Bellugi Vannuccini, da vent’anni membro italiano della compagnia, in collaborazione con Sergio Canto Sabido, Philippe Chevallier.
Il film prodotto da Bel Air Media è stato presentato nel giugno scorso a Torino grazie al Coordinamento delle Compagnie di Teatrocomunità dallo stesso Vannuccini insieme con Nicola Savarese e il 31 gennaio di quest’anno a Pistoia su iniziativa del Teatro Studio Blu –Centro Culturale il Funaro (Antonella Carrara, Lisa Cantini, Mirella Corso, Francesca Giaconi, Elena di Stefano).
Una “missione” - come piace ad Ariane Mnouchkine definirla - che ha coinvolto per tre settimane in Afghanistan l’intera compagnia del Theâtre du Soleil, troupe interculturale e comunitaria per definizione, che nei suoi 40 anni di vita ha messo in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà, da 1789 a Tambours sur la digue a Le dernier caravansérail. Uno stage di regia, di drammaturgia, di recitazione e di costume per i giovani afgani nel cuore di un paese dilaniato da conflitti e fondamentalismi e dove l’arte in ogni sua forma è finita sotto il fuoco incrociato dei vari regimi politici: dalla lotta contro il potere sovietico, alla guerra civile tra fazioni di mujahideen, fino al regime repressivo dei talebani che proibiva alle bambine di andare a scuola e alle donne di lavorare fuori casa. La musica e gli strumenti erano banditi, distrutti e bruciati pubblicamente come del resto i libri. Il film racconta l’avventura straordinaria di una compagnia che, come il Living, non ha mai smesso i panni dell’idealismo umanitario, che continua a contrastare i regimi autoritari, le barbarie dell’intolleranza, della violenza e dell’ingiustizia con le armi affilate del teatro. I pericoli ci saranno, gli attori vengono avvertiti sin dalla prima riunione alla Cartoucherie e Ariane ammonisce i membri della compagnia a prendere una decisione con convinzione. Dubbi, timori per la propria sicurezza e incolumità fisica, ma non per Ariane. La missione chiama e il teatro risponde, in nome del progresso, un progresso di civiltà e umanità. “Come puoi pensare che un paese possa svilupparsi economicamente se la metà della popolazione è tagliata fuori? Chi lo può dire se non voi? Questo è il vostro ruolo, questa la vostra missione, perché non c’è ARTE SENZA MISSIONE. Il teatro permette di guidare la gente”.
Teatro come resistenza all’indifferenza della società. Teatro come utopia vivente: libertà, uguaglianza, fraternità.
La Mnouchkine rompe alla fine ogni indugio: “Io vado”.
Il film intervalla immagini delle prove, delle vestizioni, delle improvvisazioni a toccanti momenti di vita quotidiana nel cuore di Kabul tra passaggi felici di bambini che giocano e immagini del degrado sociale, di povertà, dentro lo stadio dove avvengono le partite di calcio ma anche le esecuzioni sommarie, o intorno al cimitero dei martiri. Un teatro catapultato in Asia minore, tra barbarie e oscurantismo ma dove la miccia della speranza di un cambiamento è rappresentata anche dal coraggio dei giovani iscritti allo stage, dalla loro voglia di esprimere liberamente a teatro ideali condivisi.
I bagagli della Compagnia sono bauli strapieni di costumi usati in precedenti spettacoli, maschere e volumi che illustrano le vesti, i tipi e le scene della commedia dell’arte, della commedia all’improvviso. In uno spazio non attrezzato all’aperto, d’estate la compagnia insieme con le nuove leve afgane desiderose di imparare l’arte della scena, tirano su un palco provvisorio con assi di legno tagliate al momento e le quinte con stoffe colorate di arancione, di giallo, di verde. Robert, che ha chiamato la compagnia, ha radunato da tutta la regione numerosi attori professionisti e non, aspiranti registi, giovani e giovanissimi; poche le ragazze, del resto “in tutto il paese recitano soltanto 2 o 3 donne”. Le famiglie ostacolano questa attività leggera e pericolosa che contrasta con l’aspirazione comune di vedere il proprio figlio arruolato nella polizia o al limite meccanico, come raccontano i ragazzi puntualmente registrati dalla telecamera. Il regista coglie la passione sincera che alberga in loro e la gioia di fare parte finalmente di un gruppo, condividerne impegno, dedizione, fatica ma anche sorrisi, la bonheur. Perché il teatro è una festa.
Ariane ha deciso: con le maschere di tutto il mondo, della tradizione balinese e italiane i giovani attori aiutati dalla compagnia reciteranno sulla scena per denunciare attraverso il comico la stupidità e l’arroganza del potere. Ariane è lì in prima fila, non dirige, è più spettatrice casomai, aiuta loro a esprimersi sintonizzandosi sul ruolo, a trovare “il ritmo interiore”, adeguando le improvvisazioni corporee alle maschere che indossano per la prima volta e che forse non hanno mai visto prima. L’obiettivo dello stage, che Ariane spiega ai giovani è di “recitare la maschera”, di “scendere nel cuore del personaggio ma il cuore del personaggio ha bisogno del vostro cuore, vivete una passione e dategli una forma!”
Arlecchino persiano, Pantalone talebano, padroni avari, servi astuti, impostori di ogni epoca e di ogni latitudine. Moliére a Kabul. Mettono in scena sketch con i talebani come ignoranti zoticoni incapaci di leggere, e le donne che hanno finalmente la rivincita e li bastonano e li mettono alla berlina. Un mondo alla rovescia o il mondo come dovrebbe essere? Ariane approva queste improvvisazioni e ride commossa: “C’era davvero catarsi! Interpretare i talebani con queste maschere li rende umanamente accettabili e buffi, quindi è veramente una poetica trattare il nemico con il comico. Come Chaplin con Hitler, con Il grande dittatore, è la stessa cosa, lo stesso processo”.
Chiede agli uomini di indossare in scena i panni femminili. Prima però devono indossare il tchari e avere il coraggio di uscire veramente per la strada: “Provate, siete attori, e avrete vergogna, sentirete su di voi questo marchio di infamia, camminate per la strada, chi può avere questo coraggio se non voi attori? Chi aprirà le gabbie? “.
Per alcuni di loro questa sarà solo una parentesi, per altri significherà il futuro, un lavoro dentro il teatro; c’è chi partecipa a questo stage di nascosto dai genitori, uno di loro, scoperto, viene cacciato di casa. Ha perso una famiglia, ha trovato il teatro.
Altri ancora prendono alla lettera l’esortazione di Ariane: “Lasciate parlare il desiderio d’arte, non importa la nazionalità, iniziate a fare gruppo. Noi vi aiuteremo ma la spinta deve partire da voi”.
17 attori scelti da Ariane fondano alla fine dello stage il Teatro AFTAL (Teatro del Sole) e preparano per il Festival Internazionale del Teatro di Kabul Romeo e Giulietta guidati da Maurice che prende il posto di Ariane Mnouchkine alla guida della neonata compagnia.
Ariane è comunque sempre vicina, manda messaggi di auguri da Parigi, dal quartier generale della compagnia, la celeberrima Cartoucherie: “A tutti coloro che fanno brillare il sole dell’arte, del teatro, dell’amore, della fratellanza e dell’universalità dell’essere umano nella loro città fatta a pezzi: vi penso ogni giorno, siete all’inizio di un’avventura magnifica. E so che qualunque cosa accada, recitando “Romeo e Giulietta” voi rappresenterete la terribile e irrimediabile sconfitta dei Talebani”.
La nuova compagnia parte per la Francia, per due mesi vivono alla Cartoucherie vicino al Bois de Vincennes, fanno stage di danza katakhali e pratica di mimo e teatro orientale e allestiscono in persiano il Tartufe di Moliere.
Marian, la Giulietta dello spettacolo, rinuncia. La famiglia non vuole che lei continui a fare teatro: “La libertà che abbiamo trovato qua non sarà possibile in Afghanistan”.
La missione continua.
Nel film non c’è purtroppo traccia del teatro che esiste oggi a Kabul e dei suoi interpreti e soprattutto, non c’è traccia dei conflitti attualmente in corso in Afghanistan, degli scontri tra miliziani talebani e truppe della Nato, dei bombardamenti delle forze di coalizione, dei numerosi campi minati, dei rapimenti, degli attentati suicidi a obiettivi militari, dei profughi, dell’integralismo, delle esecuzioni sommarie; secondo Peace Reporter la guerra tra forze sovietiche e resistenza afgana (1979-1989), quella successiva tra le varie fazioni di mujaheddin (1989-1996) e quella tra talebani e Alleanza del Nord (1996-2001) hanno causato la morte di un milione e mezzo di afgani, due terzi dei quali civili. L’intervento armato Usa alla fine del 2001 ha provocato la morte di 14 mila afgani, di cui almeno 10 mila combattenti talebani e quasi 4 mila civili. La Storia in questa fetta dell’Asia Minore, è questa e il limite del film-documentario di Vannuccini, ricco di spunti preziosi sull’arte del Théâtre du Soleil è quello di lasciarsi paradossalmente la Storia dietro la porta, cosa che ci appare poco “in armonia” con una Mnouchkine pronta per ogni nuovo spettacolo, a un preliminare minuzioso lavoro di memoria e di documentazione. Pensiamo alla straordinaria ricerca nei campi profughi per Le dernier caravanserail: la Storia di questa umanità alla deriva ha una voce e un volto che si manifestano tragicamente davanti all’Assemblea teatrale. Del resto era proprio Mnouchkine a proposito di Méphisto, a spiegare così il suo metodo: “Plus on pénètre profondément dans l’histoire, plus elle éclaire le temps présent”.
http://www.theatre-du-soleil.fr/
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VideoElektraSuperstar elektraZenSuite di Alessandro Brucini di Anna Maria Monteverdi |
Seguendo il mito greco degli Atridi, Elettra era figlia di Agamennone e Clitennestra, sorella di Oreste e Ifigenia. A seguito della morte del padre per mano di Egisto e con il contributo della stessa Clitennestra, sua amante, Elettra incita Oreste a vendicare il padre e l’intera stirpe. La figura di Elettra ha ispirato numerose opere letterarie, da Eschilo che vi dedicò l’Orestèa a Sofocle e Euripide. In tempi recenti poche sono state le rielaborazioni significative sul piano della ricerca e della sperimentazione teatrale, televisiva e cinematografica. Possiamo citare Massimo Castri, con Elettra di Euripide, Spoleto 1993; il Collettivo di Fabbrico con L’impossibilità di recitare Elettra oggi (ideato e diretto da Ròska, Dominique Isserman, Manrico Pavolettoni, Rai 1969 [dall’occupazione di un cinema a Fabbrico, Reggio Emilia, nel 1968 con l’intervento di Godard, del Living, di Volonté e altri]. Ancora, Tonino De Bernardi Elettra di Sofocle, Rai 3, Regione Piemonte 1987, con attori non professionisti. E infine l’ Orestea di Luca Ronconi, 1972. Naturalmente occorre ricordare anche il Pasolini di i>Appunti per un’Orestiade africana, 1975.
Si misura con l’Elettra mettendo insieme un proprio “centone” di riferimenti e citazioni letterarie il giovanissimo e talentuoso Alessandro Brucini, reduce da una lunghissima lista di riconoscimenti, premi e segnalazioni internazionali per il suo video elektraZenSuite. Videomaker e grafico multimediale, nel 2003 ha creato il progetto di produzione audiovisiva indipendente ALE. http://www.alenet.eu Tra i documentari video d’arte: Il Trionfo della Morte [2004]; Parlata con Adriano Sofri [2004]. Tra i lavori sperimentali: treeGreen [2006]; Geisha [2005]; Schätzungsraum [2005]. Fiction: Momento presente [2005]; Essere felici [2004].
elektraZenSuite è una versione emozionante e inquietante, sapientemente distillata, del concetto di revenge play/tragedia della vendetta che vede protagoniste, a discapito della trama originaria e del mito, le due donne, madre e figlia. Un video che già dal titolo racchiude insieme i pezzi di questa trama fatta a pezzi: lo zen, l’arte giapponese delle spade, i film wuxiaopian (genere di cappa e spada cinese), i sumurai del cinema di Kobayashi e Kurosawa e poi anche Silvia Plath, un po’ di Tarantino, un po’ di Lars von Trier (Medea televisiva). E soprattutto Carmelo Bene nel suo “classico del rifacimento” o del tradimento del testo, Hommelette for Hamlet da Laforgue, dove la regola principe era quella del prelievo e dell’innesto.
Il collage testuale di Brucini, che proviene da un ambito di studi legato al teatro e cinema, destruttura decisamente e senza indugi l’ordine originario e il plot per prevedere insert assolutamente spiazzanti dall’Amleto shakespeariano con monologhi “off” riferiti a Elettra, lei che come Amleto si trova al crocicchio della decisione capitale: uccidere o non uccidere? Brucini sembra impostare con Elettra infatti, proprio una trama shakespeariana al femminile, un monodramma, eliminando il superfluo ovvero le comparse, le didascalie e persino il coro greco in un’asciuttezza formale di ambienti in distruzione in cui si intravede già lo spettro della tragedia e in cui gli attori non recitano e non parlano, non vedono e non sentono ma pensano. Pensano all’azione di sangue che verrà immediatamente dopo: “Vorrà sangue, dicono, sangue vuol sangue” (Macbeth).
Le parti del testo che non sono rappresentate però non eliminano il tema: è un procedimento di sottrazione e di assemblaggio che emana da un nucleo nascosto, quel testo-sorgente da cui sgorgano liberamente visioni, parole, istantanee e corrispondono alla parte nascosta della psiche dei personaggi. Questi sono per lo più ripresi in primo o primissimo piano con velocissimi campi e controcampi ma anche attraverso continui ed lentissimi movimenti di macchina che li avvolgono imprigionandoli nei loro pensieri muti a sottolineare momenti di massima tensione. Belle quelle inquadrature con tagli davvero insoliti che accentuano l’espressività di ogni singolo gesto quasi rituale e il simbolismo dei pochi oggetti scenografici, di quel paesaggio-stato d’animo virato in rosso. Niente spazio per gli effetti speciali digitali che permetterebbero ai duellanti di volteggiare in aria. Il video è incorniciato con luminescenti bordi bianchi come una graphic novel d’artista di gusto giapponese; in questi momenti il passaggio dal video al libro illustrato produce ulteriori suggestioni e sollecitazioni.
La storia diventa un susseguirsi di duelli, di sguardi, di corpi che colpiscono e corpi che cadono; volti ricoperti di biacca che sanno di un teatro antico, di un teatro orientale (“Oriente culla del teatro”, diceva Artaud), un accavallarsi di nero, rosso e bianco elettronico (quello che troneggia anche nell’Amleto televisivo di Bene) che cancella (o sospende) l’azione ultima, il gesto omicida, un gesto forse non ineluttabile. L’irrappresentabilità dell’evento genera qua un togliere di scena, perché il teatro non è ripetizione della storia o del mito; il teatro attraverso il suo alter ego, il video - come Oreste ed Elettra - inverte la storia. Così lo studioso di teatro greco Fernando Mastropasqua:
“Se ripetere il gesto è ciò che avviene nell’ambito contiguo del rituale, in teatro il significato si rovescia: il gesto non viene compiuto per essere nuovamente confermato, ma per essere messo sotto giudizio, viene compiuto per essere negato. Il teatro è il luogo dove il gesto viene compiuto per essere rimosso”.
Qual è il punto di partenza per questo video, data la lontananza dalla trama eschilea e euripidea?
M’interessava porre in primo piano la figura femminile, i guerrieri-maschi fanno quello che le donne dicono loro di fare. E lo stesso Oreste, dopo aver eliminato l’usurpatore Egisto, non è in grado di portare a termine la vendetta sulla propria madre. È allora Elettra che prende con le proprie mani la spada e materializza lo scontro figlia/madre nel duello finale con katana. Questa è la vera eversione che ho immesso nella mia visione del mito d’Elettra, quasi a dispetto dell’attenzione che ho posto nel creare un collage [nel senso più nobile del termine] di testi di epoche e tradizioni differenti, che rispettasse il senso profondo della tragedia. La chiave di lettura zen, che si è calata, nel modo più naturale, su qualsiasi aspetto formale, e ha dato significato estetico alle vicende narrate, è stata un’intuizione progressiva. Voglio dire che, se le tinte fosche, elettroniche, e post-industriali del film, erano già nelle mie prime intenzioni, mano a mano che, in quel periodo, penetravo nella conoscenza [in vero ancora oggi alquanto superficiale…] della filosofia zen, restavo sempre più affascinato dall’essenzialità rigorosa di essa; allora instaurare un parallelo con la necessità che impera sul mito greco è stato semplice e consonante.
Come hanno risposto i Festival a un video sperimentale che non va nella direzione di un video-verità ma che si mantiene saldo nel binario della suggestione, dell’astrazione, dell’onirico senza alcun effetto speciale?
La mia sfida personale si è concretizzata nella volontà di confrontarsi con i festival per cinema breve e indipendente, dove in genere altri tipi di lavoro vengono proiettati. Ovvero parlare di tragedia greca antica, di filosofia zen, farlo con modi del cinema di sperimentazione, in un film senza dialoghi, e cercare di portare tutto ciò al pubblico più vasto possibile. Se i numeri mi danno ragione [a distanza di neanche due anni, circa 50 sono le selezioni ufficiali, una menzione, e sei premi vinti], è stata l’opportunità di viaggiare, conoscere in prima persona tutta quella vitale realtà del cinema underground europeo, che mi rende felice d’aver realizzato elektraZenSuite.
Chi vuoi ricordare tra gli autori e tra le opere che citi direttamente e indirettamente?
Oltre all’Amleto di Carmelo Bene, L’intendente Sansho di Mizoguchi, i film di Kurosawa, e per i colori Sayat Nova di Paradzanov. Poi Silvia Plath, di lei mi sono innamorato a prima vista, l'ho scoperta in fase di sceneggiatura mentre cercavo le diverse "varianti" dell'Elettra. In particolare ho scelto quella poesia, anche in questo caso, per l'adiacenza cromatica [rosso che ri-emerge...], e perché molto funzionale per quello che narra, al fine della ri-costruzione del racconto.
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Digital Divide e teatro Un'intervista a Marianne Weems (The Builders Association) di Anna Maria Monteverdi |
Marianne Weems è l’ideatrice della compagnia tecnoteatrale statunitense The Builders Association specializzata in allestimenti teatrali riccamente dotati di tecnologia digitale e schermi panoramici e che nel 2004 ha portato a RomaEuropa il pluripremiato Alladeen, storia non così fiabesca di dipendenti di un call center di Bangalore, vincitore anche di un Obie Award. La tecnologia è sempre presente sia materialmente sia come argomento stesso degli spettacoli: il divario tecnologico tra Paesi civilizzati e terzo mondo, lo sfruttamento dei lavoratori attraverso nuovi sistemi telematici di lavoro a distanza, la simulazione degli eventi da parte dei media, la mediazione tecnologica che entra in ogni azione della nostra vita, il controllo elettronico. Siamo di fronte a un genuino caso di teatro politico tecnologico, giocato sempre su una scenografia straordinariamente self-evident e di notevole impatto visivo.
Supervision è la loro ultima produzione. Sono tre storie che parlano della violazione della privacy e del controllo e monitoraggio in tempo reale di liberi cittadini: vite che diventano trasparenti a cominciare dalle transazioni economiche e dagli spostamenti da loro effettuati, dallo stipendio che arriva loro in banca, dai loro incontri negli spazi pubblici sorvegliati. Marianne Weems mette in scena storie di ordinario pirataggio dati in epoca post-privata, legate al filo (o file...) comune della propria identità personale diventata informazione ramificata, incontrollabile, separata dal corpo fisico e che viaggia dentro migliaia di processori in uno spazio-dati invisibile. Persone che vivono nel white noise della costante connessione remota, viaggiatori bloccati alla frontiera a causa di controlli che incrociano informazioni strettamente personali con quelle dell' AIDC (Automatic Identification and Data Capture).
Marianne Weems (che ha lavorato come dramaturg e assistente alla regia di Elizabeth LeCompte e Richard Foreman) ha dato visibilità e concretezza palpabile a questi databodies, a questa infosfera immateriale attraverso un'imponente architettura fatta di uno schermo panoramico, proiezioni video multiple real time, animazioni computerizzate e un sistema di motion capture.
http://it.youtube.com/watch?v=jlTpsTAKDGY
Which have been the most important developing steps of your group, The Builders Association: when was it born, which is your background, and which have been the artistic models for your idea of digital performance?
We started 14 years ago by building a full-scale, “deconstructed” (Gordon Matta-Clark-inspired) house within an enormous industrial space. The house was lined with video and sound triggers which the performers activated as they moved through the house performing the Ibsen play “The Master Builder.” It was a utopian moment – the show, the house, and eventually the company emerged in that 8 months of collaboration which involved architects, software designers, film and video makers, sound and lighting designers, live musicians, and of course the performers.
I create and direct productions based on real stories drawn from contemporary life -- stories that have accessible, timely, relevant content and that reflect modern human experience. Over the last 14 years with my company The Builders Association I’ve made performances about data theft, about outsourcing, and even about jet lag. That sounds a bit dry, somehow, but the productions are big, colorful, sometimes funny, and very much about human beings wrangling with the 21st century. I’ve been told that these stories speak to a broad range of people outside of the world of experimental theater, to artists working in many other media, and to younger audience members as well as old. In this attempt to hold a mirror up to our chaotic contemporary world, I work with traditional theater actors and designers, and less traditional collaborators such as video, sound, and software designers, architects, and more. These productions have all toured extensively -- from BAM to Bogotá, Singapore to Melbourne, Minneapolis and Los Angeles to Budapest -- and have engendered passionate audience discussions about the changing nature of identity, labor, life, speed, and travel. I want to expand theater, to combine entertainment with critical thinking –and to invite the viewers to investigate the invisible networks that surround us.
How do you think is possible to achieve that interfacing and advanced technology are to be considered integral part of “aesthetic intention”?
The Builders’ projects set up a frictive relationship between the liveness of the performers and the liveness of technology, creating a kind of web of media around the performers, which they and technical operators “play” and animate in each show.
Steve Dixon proposes a definition for digital performance: “enhanced theatre” or “augmented theatre”, other “postdramatic Theatre”; how do you prefer to define your work?
We create original productions based on stories drawn from contemporary life. The company uses the richness of new and old tools to extend the boundaries of theater.
Can you talk about the common creative processes behind your shows?
These projects are built in a very inclusive manner – all of the technology, the designers, the writers, and the performers are present in very early rehearsals. This practice has allowed us to develop projects in which the technology is truly integrated into the productions – the content and form are interlinked on a deep dramaturgical level.
I was very surprised from the themes of your works which has a clearly political attack or critic against multinationals who holds economically power thanks to technology, against the way the mass media distorts facts, about, globalization (as in Alladin), the society of control (as in Jet Lag). Which is the starting point of your works and which is the real goal? ….
Our projects act as a springboard for political observation and discussion in each venue they’re presented in. For instance, when we presented Alladeen at the Barbican Centre in London there were riots going on since British Telecom had just outsourced thousands of jobs to India, and there were similar demonstrations going on in Seattle (because of Microsoft) and even in Bogota when we were there.
Supervision has a powerful scenography and the message is immediately: the negative use of technology against the individual, against his freedom; an use distorted and manipulated by government but also by ourselves which we prefer to have more and more mediated relationships and less human contacts. Do you think persons have the consciousness of this abuse, about these excesses, also of the digital divide all over the worlds?
All of our projects have to do with using technology to tell stories about technology and complications of identity – rich stories, real stories that are drawn from contemporary events. Each project looks at the cultural artefacts and effects of mediatization; through this lense we have engaged with subjects as disparate as travel (Jet Lag which we developed with the architects Diller + Scofidio), outsourcing (Alladeen, developed with the South Asian company motiroti), and of course the data sphere in Super Vision, which we developed with dbox.
Which was the contribution of the web on the diffusion of your work ?
More recently I have tried to reach outside of the proscenium space to those who have no interest in or access to theater. There are websites that accompany these productions where thousands of people have shared their thoughts and wishes. My next show Continuous City asks viewers to generate material that will be integrated nightly into the show. For me this is a big risk, creating a large-scale, high tech performance that is variable night to night and responds to the location, participation, and preoccupations of the audience. I’ve also begun working with ‘at risk’ students in Brooklyn on a long-term production (which they are probably blogging even as I write) called Invisible Cities.
I feel that each of my shows builds on broader perspectives, whether it’s the high schools of central Brooklyn, the call centers of South Asia, or the networked reach of global cities. I have gone from making pieces for myself and my closest collaborators, to embracing and evoking a bigger world.
Large part of Technology Theatre is based on the long period, using a work in progress concept going through various in-between steps (sometimes as labs), through which every single part of the show can achieve his own full autonomy (movie, video, web-site, etc.).You also use this modality? Is it for an economic problem only?
It takes time to fundraise and to literally to build these shows – there are a lot of people involved and a lot of phases of development. Of course if the funding were already in place it’s possible we could move at a faster pace, but this is the way it’s developed so far.
I should add also that each project tours for at least two years after it’s premiere, so there is a justification which balances the long development periods.
Do you think audience has the right tools for a right comprehension of this theatre?>
In Europe yes. In the U.S. comprehension is growing daily...
Which is your knowledge of the Italian artists and groups using technology on stage?
Romeo Castallucci is my hero.
Are you planning a tour in Italy?
We would like to return to RomaEuropa, we presented Alladeen there in 2004 and had a good time.
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BP04 bis. Il 14 febbraio si parla di lavoro Appuntamento a Milano alla Civica Scuola d'Arte Drammatica di Redazione ateatro |
A conclusione dell'incontro Buone Pratiche-Emergenza avevamo lanciato l'idea di un gruppo di studio sul tema del "lavoro".
Con un po' di ritardo, la prima riunione è convocata
giovedì 14 febbraio, alle 18 presso la scuola Paolo Grassi, via Salasco 4, Milano (ringraziamo anche questa volta la scuola che cortesemente ci presta un'aula).
Fra i temi da affrontare:
- l’assetto dei CCNL di lavoro (in fase di rinnovo, ma fermi da decenni in un panorama totalmente mutato)
- la gestione della disoccupazione;
- la necessità di porre il lavoro, la qualificazione e il ricambio al centro delle politiche per lo spettacolo (inclusa una valutazione della efficacia degli incentivi attuali e una verifica di altri possibili);
- la necessaria riforma dell’area della stabilità, e degli stabili pubblici in particolare;
- il rapporto formazione occupazione e le possibili pratiche di accompagnamento al lavoro.
In questa prima riunione, cercheremo di collocare le successive anche in altre sedi, e vi terremo in ogni caso informati sui risultati.
Naturalmente i contributi scritti sono assai utili.
Cooordina il gruppo Mimma Gallina.
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Lavoro e teatro: l’incontro del 14 febbraio Incentivi, contratti, indennità di disoccupazione di Agnese Bonini, Silvia Guenzi, Davide Pansera |
Lanciato in occasione dell’ultima edizione di BP-emergenza, si è tenuto il 14 febbraio presso la Scuola Paolo Grassi di Milano il primo incontro del gruppo di studio sul tema del lavoro a teatro. L’obiettivo era avviare un processo di analisi e una prima discussione informale su alcuni problemi generali e specifici che, in questa prima occasione, hanno riguardato:
1. Gli incentivi dello stato e degli enti pubblici. Gli incentivi statali per le assunzioni dei giovani (e non) funzionano e hanno funzionato?
2. I CCNL. Sono fermi nella sostanza da quarant’anni. E’necessario, opportuno e possibile modificarne l’impianto? E come si colloca l’inquadramento dei lavoratori dello spettacolo in un’organizzazione generale del lavoro caratterizzata da trasformazioni sostanziali?
3. L’indennità di disoccupazione. E’ possibile intervenire per una più sostanziale, efficace e uniforme gestione di questa forma di ammortizzatore sociale anche nel settore dello spettacolo? e come?
Sono stati presenti all’incontro Giancarlo Albori, Roberto Batta, Agnese Bonini, Patrizia Coletta, Patrizia Cuoco, Francesco D’Agostino, Nadia Fauzia, Mimma Gallina Silvia Guenzi, Simona Fremder, Mara Mapelli, Simona Milella, Alessandra Narcisi, Annamaria Onetti, Davide Panzera, Carlotta Pedrazzoli, Oliviero Ponte di Pino, Giulio Stumpo, Silvia Vendraminetto, Marisa Villa. Ha coordinato Mimma Gallina.
Si è deciso a inizio lavori, di rimandare ad un secondo appuntamento, probabilmente a Modena in data da definire, la discussione sul tema del rapporto fra formazione e lavoro (le qualifiche, le possibili forme di “accompagnamento”).
1) Il primo argomento in discussione ha riguardato le forme dirette o indirette di incentivo del lavoro contenute nei decreti ministeriali, a partire dagli incentivi per l’assunzione di giovani lavoratori, da parte di imprese dello spettacolo.
Constatazione comune è stata che le maggiorazioni dei contributi ministeriali legata all’utilizzazione di giovani – prevista nei decreti ministeriali ormai da alcuni anni - non ha avuto probabilmente –almeno a oggi e a giudicare dai dati generali ENPALS - alcuna rilevanza concreta: non siamo tuttavia in grado di valutare in termini statistici l’efficacia di questi incentivi (come del resto di molte altre prescrizioni ministeriali la cui efficacia non viene MAI misurata in rapporto alle finalità dichiarate o intuibili: si pensi in particolare alle norme che incidono sul mercato). (Stumpo, Gallina)
(Si segnala comunque la variazione della normativa: attualmente il regolamento ministeriale definisce il lavoratore “giovane” con riferimento a un’età anagrafica compresa fra i 18 e i 35 anni. Prima, venivano considerati giovani, ai fini degli incentivi, solo i lavoratori scritti all’ENPALS da meno di tre anni e dal 2006 da meno di cinque anni). Forse l’unico incentivo efficace nel corso degli anni, è stato l’obbligo per i teatri stabili, di inserire ogni anno nella formazione 2/3 giovani elementi (Cuoco), è tuttavia parere unanime che la l’assoluta rilevanza e discrezionalità delle valutazioni qualitative renda del tutto irrilevante la valutazione quantitativa (quindi poco più che retoriche anche queste indicazioni).
La discussione si è sviluppata ugualmente sul senso originario della scelta di parametrare i contributi sugli oneri sociali, che non fu fatta per incentivare il lavoro (che di fatto non ha incentivato), ma perché questo costo era più facilmente misurabile e documentabile e con l’obiettivo di limitare (anche su spinta delle organizzazioni sindacali) l’evasione dell’ENPALS, almeno da parte delle strutture finanziate. (Cuoco). Tuttavia ciò ha comportato qualche distorsione: per esempio, la pratica da parte di alcune imprese di produzione di pagare i costi previdenziali senza retribuire i lavoratori e la diffusione dell’evasione da parte delle strutture non finanziate. Non a titolo di giustificazione, si può constatare a questo proposito che molte compagnie ricevono contributi inferiori (anche molto inferiori), agli oneri previdenziali minimi dovuti. Fra le scelte che apparentemente avrebbero potuto favorire lo sviluppo del lavoro, ma si sono rivelate decisamente controproducenti, si ricorda in particolare l’ obbligo che gli spettacoli finanziati occupino almeno 6 elementi (obbligo che viene facilmente aggirato ma non per questo risulta meno lesivo della libertà artistica e di strategia economica dei soggetti finanziati). (D’Agostino, Gallina, Stumpo)
La discussione si sposta quindi sui Criteri nell’assegnazione dei contributi ministeriali. Con particolare riferimento alle compagnie “giovani” e alle prime istanze, si manifesta l’opportunità di stabilire un contributo minimo alle imprese finanziate (per esempio 30.000 euro). E’ comunque un’anomalia del sistema, e un’assurdità logica che una compagnia sovvenzionata riceva contributi inferiori ai costi previdenziali.
In sostanza emerge che, sebbene il lavoro sia sempre stato al centro (apparentemente), dei decreti ministeriali, di fatto non ci sia mai stata l’effettiva presa di coscienza del problema dell’occupazione. Che gli stessi meccanismi ipotizzati abbiano anzi favorito le irregolarità. Un problema rispetto al quale l’interlocutore più adatto potrebbe essere il Ministero del Lavoro più che il MIBAC: oggi, pur essendo i finanziamenti parametrati sui contributi, non c’è nessun incentivo alla effettiva continuità del rapporto di lavoro (è ben diverso se, per esempio, 300 giornate sono fatte da una sola persona e quindi denotano stabilità, o sono la somma di giornate effettuate da venti persone diverse. (Mapelli)
E’ necessario puntare alla continuità dei rapporti di lavoro, ad esempio attraverso possibili agevolazioni alle imprese. Si potrebbe ad esempio estendere allo spettacolo la forma del contratto di Formazione Lavoro, consentendo sgravi fiscali per le imprese (come forma sorta di contributo indiretto). (D’Agostino)
Ma forme di incentivi indirette al lavoro potrebbero derivare da servizi forniti dagli enti locali e territoriali (spazi per prove ad esempio, promozione): strumenti non finanziari dovrebbero essere parte delle politiche culturali locali (Stumpo).
2) La discussione prosegue sul tema dei Contratti (CCNL) del settore dello spettacolo. Il settore ha ben 11 contratti diversi (decisamente troppi!). La base dei contratti (in fase di rinnovo quello fra lavoratori artistici e tecnici e imprese - stabili e compagnie - relativo alla produzione di spettacoli di prosa, rivista e commedia musicale) risulta obsoleta, è rimasta infatti pressoché invariata dagli anni Sessanta.
Da parte di Giancarlo Albori (CGIL spettacolo: di seguito sintesi del suo intervento) si sottolinea la difficoltà ad interpretare e affrontare un mondo del lavoro anomalo come quello dello spettacolo. Il sindacato infatti ha mantenuto un’ottica fordista del lavoro e spesso non è consapevole della realtà attuale. Oggi purtroppo esistono dei contratti a doppio regime, anche nelle realtà più strutturate, per cui chi entra oggi nel mondo del lavoro non avrà mai gli stessi diritti dei lavoratori delle generazioni precedenti.
Questo esiste anche perché i contratti, creati da settori strutturati, fanno fatica a rinnovarsi se i soggetti interessati non intervengono, e spesso ciò accade perché si preferisce conservare quel (poco) che già si è ottenuto.
Si apre una parentesi a proposito del Rapporto Stato/Regioni. Sempre secondo Albori la gestione del FUS da parte degli enti territoriali rischia di favorire sprechi delle risorse e minori controlli (oltre a potenziali forme di ineguaglianza sul territorio nazionale e clientela diffusa). E’importante esigere anche a livello locale che ci sia una congruità tra il finanziamento pubblico e il pagamento del lavoro e degli oneri sociali, ovvero affermare la necessità di finanziare solo chi paga il lavoro delle persone che concorrono a realizzare il progetto e l’attività dell’impresa.
Ma chi può essere oggi il soggetto preposto alla riorganizzazione e modernizzazione di un CCNL?
Come si può ricostruire un soggetto? C’è una difficoltà ad aggregare i lavoratori dello spettacolo anche perché all’interno della stessa categoria sussistono molte differenze (per esempio tra un tecnico della Scala e un tecnico dell’Elfo o di una piccola compagnia), quindi l’aggregazione e l’affinità di obiettivo andrebbe ricercata tra lavoratori di strutture produttive e dimensioni simili.
E’ importante creare aggregazione per sviluppare una massa critica anche rispetto al conservatorismo delle organizzazioni sindacali.
La strada può essere creare “distretti della cultura” un’aggregazione dei soggetti occupati nel settore creativo che operi con particolare riferimento al territorio.
La discussione fra gli organizzatori teatrali presenti si sviluppa in particolare sulla questione del costo del lavoro e della precarietà delle imprese. Ammessa l’importanza di essere regolari nel pagamento degli oneri sociali, l’autoimprenditorialità diffusa e la grande circolazione di lavoratori “in nero” deriva anche dalla consistente gravosità degli oneri sociali, anche per i contratti a progetto e affini (l’ INPS è oggi al 24%).
Fra le considerazioni che emergono: l’ENPALS è una struttura obsoleta e la sua riforma è improcrastinabile. Va affrontato il tema dei compensi agli artisti e l’ipotesi di calmieri (dal nuovo decreto ministeriale è sparito il massimale ENPAL). Si ricorda anche come tuttavia i massimali (in genere) possano risultare nei fatti controproducenti (vedi l’indicazione dei massimali nei cachet degli spettacoli, che hanno già probabilmente spinto verso l’alto i cachet medi).
Il problema è una situazione estremamente frastagliata, in cui si riconosce (e pure poco!) una precarietà aurea a scapito di una precarietà nascosta che in realtà si compone della grande maggioranza delle masse dei lavoratori dello spettacolo. Prima fra tutte va sottolineata la discrepanza tra i lavoratori nei settori della lirica rispetto a quelli della prosa . Perché si dovrebbe ritenere nobile la battaglia dei lavoratori delle strutture lirico-sinfoniche (rif.precedente affermazione Albori), quando si tratta di corporazioni che tutelano i loro interessi (o privilegi) economici e contrattuali? (Cuoco)
3) Sul tema – circoscritto ma rilevante anche sul piano simbolico e dei principi - dell’indennità di disoccupazione si rende necessaria qualche premessa “storica” e considerazione generale (che non può prescindere dalla constatazione di inefficacia).
Questa possibilità, che i lavoratori dello spettacolo iniziarono a scoprire all’inizio degli anni Novanta, ma che in realtà esisteva anche prima, si basa su requisiti minimi di 78 giornate contributive per l’accesso, l’anno successivo, ad un’indennità proporzionale al compenso ricevuto. Tuttavia ci sono qualifiche artistiche che non possono e non riescono a percepire l’indennità, anche perché la maestranza artistica è da sempre considerata per sua natura autonoma e le imprese devono spesso insistere con gli stessi enti per versare la quota contributiva che - identificando il lavoratore come dipendente - gli consente di percepire l’indennità di disoccupazione (N.B. secondo alcuni però sarebbero le imprese che tendono a non versare questa quota). Inoltre si verifica una difformità di trattamento da regione a regione e tra diverse sedi INPS (così in alcune regioni gli attori vi accedono e in altre no!) e le interpretazioni risultano comunque sempre troppo restrittive. Regna la confusione e il paradosso è che mettere ordine potrebbe determinare un peggioramento generalizzato
(Cuoco, D’Agostino, Gallina)
Un’ipotesi che emerge, unificando in qualche misura le diverse tematiche riguarda una possibile diversificazione all’interno dei CCNL e nell’applicazione degli obblighi contributivi, sulla base delle diverse realtà produttive: prevedendo per esempio forme di agevolazione per le giovani imprese, “premi” alla continuità occupazionale (minimi retributivi e oneri diversificati secondo la durata dei contratti). Si tratta anche di disincentivare la tendenza delle imprese a operare per “spot”. E’comunque necessario rinnovare i contratti per combattere irregolarità che risultano quasi inevitabili, riorganizzandoli in base alla realtà produttiva e non in base alle qualifiche. (Gallina, Mapelli, D’Agostino)
Nella fase finale dell’incontro si avvia una discussione delle cause della trasformazione (del peggioramento) del quadro organizzativo e economico generale del settore, che ha determinato ricadute così pesanti sul lavoro, in particolare a partire dagli anni Ottanta. Se oggi appare dominante la tendenza agli “eventi”, non bisogna dimenticare che il FUS in termini reali era 5 volte maggiore rispetto a oggi (anche se l’interveto degli EL ha in parte compensato); si tratta certo di un quadro non semplice da analizzare, di un cambiamento che gli operatori del settore dello spettacolo non sono in grado di controllare e di cui devono prendere più chiaramente coscienza. (Coletta, Stumpo)
Come procedere?
I problemi sono così complessi e intrecciati che non risulta facile inquadrarli e analizzarli singolarmente e in modo efficace. Inoltre è importante sottolineare che il carattere informale del gruppo (l’iniziativa di ateatro), può consentire di affrontarli senza steccati e preconcetti di ruolo o di categoria, può quindi avere un valore di sensibilizzazione e indicazione, ma non ha ovviamente pretese “rappresentative”
Si ipotizza comunque:
- un altro incontro a Milano sul tema specifico delle agevolazioni fiscali e previdenziali e in genere degli incentivi per i giovani lavoratori (che il gruppo invita Francesco D’Agostino a organizzare);
- il prossimo incontro - come indicato in premessa - verrà probabilmente programmato a Modena sul tema della formazione e dell’accesso al lavoro.
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Elezioni senza promesse La cultura e lo spettacolo dal vivo nella campagna elettorale di Mimma Gallina |
Non so se provare rimpianto per quell’epoca così vicina, in cui sotto elezioni si raccoglievano impegni. Ancora due anni fa, i programmi degli schieramenti – tutti - cercavano in qualche modo di rispondere ai gridi di dolore del teatro. Raccogliere materiali e dichiarazioni – limitatamente alle arti performative - per “Hystrio” e per www.ateatro.it era costato, allora, ad Anna Chiara e a me, parecchi giorni di lavoro e parecchie pagine per raccontarlo: oggi è possibile sintetizzare in mezza paginetta gli accenni a cultura e spettacolo e le poche indicazioni specifiche dei programmi. Certo, non mancherà qua e là qualche iniziativa in campagna elettorale, ma questo è il punto di partenza.
Programmi e intenti, indicavano allora, due anni fa, alcuni obiettivi, prendevano impegni, si lanciavano in qualche promessa (anche se pochi si erano illusi, credo, che sarebbero state del tutto mantenute). La genericità che ha guidato la definizione dei programmi politici in questo appuntamento elettorale, in tutti i campi (e che la fretta ha reso del resto inevitabile), ha determinato un diverso stile nella scelta dei temi e delle priorità.e portato a dimenticare -o quasi- il settore. Il suo scarso peso specifico economico ed elettorale ne ha fatto passare in secondo piano la conclamata “centralità”, la “rilevanza internazionale”, anche - se non qua e là dove il podio lo richiede - “il collegamento col turismo”, le “ricadute economiche”. Nessuno si perde in retoriche sulla bellezza, pochi sull’identità, al massimo sul made in Italy sommerso dalla spazzatura napoletana (indubbiamente più vistosa delle evasioni fiscali).
Niente (o quasi)
Non mancano per la verità passaggi su cui meditare, allarmarsi o tranquillizzarsi: a piacer vostro. Se da un lato può incoraggiare la riforma “dell’intero sistema culturale” ispirata a una “concezione vitale e non burocratica della cultura” che è nelle intenzioni del PD, Veltroni certo non ignora che il richiamo all’imprenditorialità è sempre un’arma a doppio taglio (e significa quello che vuole chi ha in mano l’arma). Anche sul primato (di fatto) del cinema –non nuovo nella storia d’Italia- le valutazioni potrebbero essere controverse.
Quasi anche per quanto riguarda la CDL: cosa saranno - in concreto intendo: dove, come, quando, quanto - quelle cittadelle della cultura e della ricerca? La coalizione di centro destra è anche la sola che richiama esplicitamente la necessità di una legge di settore (anche se i tagli drastici al FUS del Governo Berlusconi e la particolare avversione allo spettacolo dei ministri finanziari non autorizzano ottimismo).
Di fronte a questa genericità, e ai silenzi non solo della destra, ma anche della Sinistra Arcobaleno, ha senso ricordare problemi e priorità?
Ci sono generazioni di teatranti – organizzatori soprattutto ma non solo - che hanno dedicato o perso le loro energie migliori nelle anticamere di ministeri e enti, altri non nutrono più – se mai hanno nutrito - alcuna illusione rispetto al rapporto teatro-politica. www.ateatro.it, con i suoi pochi mezzi, attraverso servizi e soprattutto con le “Buone Pratiche”, ha assieme invitato a sperimentare terreni di lavoro organizzativo-progettuale esterni alla sfera istituzionale e cercato di analizzare, a volte denunciare, sollecitare “la politica”.
Nell’ultimo incontro BP era emersa con chiarezza la necessità di informare chi ha responsabilità parlamentari. Forse anche per questa scadenza elettorale ha senso ricordare problemi e priorità, e, dopo, sarà temo molto importante moltiplicare le sedi di discussione, denuncia, elaborazione.
Bastano poche parole chiave per ricordare le emergenze e le priorità messe a fuoco recentemente da ateatro. (l’ordine è personale ma non casuale).
TRASPARENZA
Penso non solo all’alchemica gestione del FUS, ad ARCUS, da brillante idea a cassa per emergenze ed “eventi” (che non si è evidente voluto riformare), agli interventi diretti del Ministero, alla destinazione del 4 per 1000 e dei fondi lotto, alle commissioni consultive statali (cioè alla loro impossibilità di operare), ai superpoteri del direttore generale, alla modalità di rapporto stato-regioni rispetto ai finanziamenti (oggi le regioni sono chiamate ad esprimere pareri, ma non sono chiare le modalità che ciascuna dovrà adottare e non si sa quanto siano rilevanti), alla ignoranza e irrilevanza del parlamento rispetto ai temi dello spettacolo etc.
RISORSE
L’adeguamento del FUS (su cui il Governo uscente ha mantenuto le sue promesse), è del tutto insufficiente (siamo comunque al -45% crica rispetto all’85 in termini reali). E certo il FUS è ormai uno strumento discutibile (ma attenzione alle abolizioni affrettate). E’valido il famoso obiettivo dell’1% (condiviso nelle ultime elezioni dall’Unione ma anche, ad esempio, da AN e sempre che ci si accordi su come calcolarlo)
Come si intende stimolare l’interveto delle regioni e degli EL (i più penalizzati dal calo della spesa pubblica)? O sollecitare l’interveto privato? E il famoso patto Stato/regioni (l’ultima delusione), resterà quell’una tantum di nessuna rilevanza strutturale o c’è ancora la possibilità di dargli un senso?
RINNOVAMENTO
Penso al problema della qualificazione e dell’accesso delle nuove generazioni al lavoro e a molto che con buona volontà si fa dappertutto senza che finisca con l’incidere sul sistema. Ma anche alla necessità di nuove griglie per riformare i teatri stabili (non basta qualche cambio di direzione –anche se significativo- per rilanciare questi soggetti). E le istituzioni in genere: i circuiti regionali ad esempio), i teatri comunali, per cui urge migliorare la qualità di gestione. Penso all’opportunità di individuare nuovi modelli: spazi per la contemporaneità per esempio (anche come evoluzione dell’area della stabilità), o le diverse forme di residenza. Penso al lavoro, all’urgenza di aggiornare e rimeditare i CCNL e riformare gli enti previdenziali.
RIFORME
Non sarà certo (solo) la famosa e famigerata legge che non arriva a risolvere tutto questo. Anche se la legge (ma nessuna delle bozze che girano secondo me), dovrebbe finalmente darci il quadro di competenze confuse. E’un insieme di volontà e di atti che dovrebbe rimettere al centro vocazioni artistiche, missioni sociali (accesso, periferia, disagio), dimensioni e specificità economiche, ripulendo il modo di pensare degli stessi ambienti del teatro (e da chi nei palazzi se ne occupa), dalla incrostazioni e dai vincoli dei decreti e delle prassi. Pochi atti, qualche decreto: non sarebbe difficile.
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La cultura e lo spettacolo nei programmi degli schieramenti politici Una sintesi di Anna Chiara Altieri |
Se tentiamo di leggere tra le pagine dei programmi dei vari schieramenti politici che si presenteranno alle prossime elezioni alla ricerca di punti programmatici di governo che interessino i problemi del mondo della cultura e dello spettacolo i risultati sono piuttosto deludenti. Sinteticamente (da sinistra a destra):
SINISTRA ARCOBALENO: nessun accenno specifico alla cultura, vi è al punto 14 un unico riferimento ai problemi dell’informazione, con la proposta di abolire la legge Gasparri e di varare una seria legge antitrust in materia di telecomunicazioni per garantire un vero pluralismo.
Da: www.sinistraarcobaleno.org/programma
PARTITO DEMOCRATICO: nel più esteso e dettagliato tra i programmi elettorali esaminati, alla cultura viene dedicato il punto g) del capitolo n°7 (Cultura, scuola, università e ricerca). Facendo seguito ad una dichiarazione di intenti di generale riforma “dell’intero sistema culturale” ispirata a una “concezione vitale e non burocratica della cultura”, le proposte concrete riguardano da un lato l’intenzione di premiare autonomia e imprenditorialità delle istituzioni culturali (ma senza specificare modi e mezzi), dall’altro la creazione di un Centro Nazionale per il cinema e l’audiovisivo e relativo Fondo di finanziamento. Un altro riferimento a questo tema si ritrova al punto 4) del capitolo 12 dedicato alla TV: oltre ad un progetto complessivo di riforma della Rai, si accenna alla possibilità di destinare una quota del 2% dell’intero fatturato pubblicitario televisivo (circa 100 milioni di euro) al finanziamento di “produzioni di qualità”, cioè opere audiovisive, cinematografiche, teatrali, musicali di rilevante valore artistico e culturale.
Da: www.partitodemocratico.it
UDC: nel programma del partito di Casini vi sono riferimenti a scuola, università e ricerca ma neppure una riga riferita alla cultura né allo spettacolo.
Da: www.pierferdinandocasini.it/pfc.programma.do
IL POPOLO DELLA LIBERTA’: il programma del Popolo delle Libertà, strutturato schematicamente in 7 “missioni” articolate per punti, dedica una parte della quarta missione a Scuola, università, ricerca e cultura, nella quale è annunciata l’intenzione di varare una “legge quadro per lo spettacolo dal vivo (teatro, musica, danza) e per promuovere la creatività italiana in tutti i campo dello spettacolo, dell’arte e della multimedialità”. Vi è inoltre un punto dedicato alla “promozione delle cittadelle della cultura e della ricerca, con il concorso del pubblico e dei privati, per lo studio delle eccellenze italiane e lo sviluppo di piani e strategie per la valorizzazione delle produzioni tradizionali”, senza alcun altra specificazione della natura di queste realtà.
Da: www.ilpopolodellaliberta.it
LA DESTRA: nel programma presentato da Daniela Santanchè non vi è nessun accenno a tematiche culturali o a problemi relativi a questo settore. La parola cultura ricorre solo nell’accento posto sui valori e sulla cultura della tradizione romano-cristiana dell’Italia e sulla conseguente tutela di questa identità nelle istituzioni scolastiche.
Da: www.danielasantanche.com/category/programma-elettorale/
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L'apocalisse comica di Andrea Cosentino: L'asino albino e Angelica Un libro a cura di Carla Romana Antolini con i due testi teatrali, un’intervista all’attore-autore e alcuni contributi critic di Andrea Balzola |
Per i tipi della casa editrice romana Editoria&Spettacolo, che continua il suo prezioso lavoro di mappatura del nuovo teatro di ricerca e nell’ambito dell’interessante collana “Spaesamenti” diretta da Paolo Ruffini, è appena uscito il primo libro che documenta l’originale attività teatrale dell’attore-autore abruzzese (ma romano d’adozione) Andrea Cosentino.
Un volume decisamente consigliabile, a cura di Carla Romana Antolini, studiosa di teatro contemporaneo e organizzatrice culturale, che contiene oltre alla puntuale introduzione della curatrice, una bella intervista a Cosentino, i due suoi testi teatrali più recenti L’asino albino e Angelica, e penetranti interventi critici di Simone Soriani, Nico Garrone (su L’asino albino), Attilio Scarpellini (su Angelica/i>) e Paolo Ruffini, una biografia e una bibliografia (che esclude però, scelta discutibile, le recensioni degli spettacoli). Una verifica importante per le virtù drammaturgiche di Cosentino che sulla pagina perdono il supporto della sua performance attoriale, separazione traumatica per chi conosce la sua personalità e la sua bravura in scena, riesce anche difficile vedendolo a teatro immaginare i suoi testi incarnati da un altro (come a me riesce tuttora molto difficile rivedere il Mistero Buffo fatto da Fo sotto altre sembianze); eppure l’ardita prova della messa in pagina regge, funziona, offre chiavi ulteriori di lettura e di riflessione, consente approfondimenti che l’istante fuggevole della scena trascura. A dimostrazione che c’è ancora bisogno di scrivere la drammaturgia (sempre sperimentandola in scena), utile non solo per consegnare alla memoria o a un pubblico più vasto l’effimero evento teatrale, ma perché la parola che si sedimenta nell’esperienza teatrale è un distillato di molteplici saperi (concettuale, narrativo, registico, attoriale) che si possono fondere, in un vero autore, in nuove mappe della sensibilità contemporanea, non solo da divorarsi in un sol boccone a teatro ma da leggere e rileggere, con il tempo e nei luoghi che ognuno può scegliere.
Purtroppo pare che la drammaturgia in Italia venda ancora meno della poesia, ma io credo che sia il risultato di una politica editoriale pluridecennale sbagliata e poco lungimirante, che d’altronde va a nozze con il disinvestimento mediatico sul teatro. Cosentino, che è anche uno studioso del teatro e autore del saggio La scena dell’osceno (1998) e dunque un attore-autore colto, ha sempre privilegiato, fin dalla scelta dell’argomento di tesi, un teatro popolare, nella doppia accezione di un teatro capace di parlare al popolo e del popolo. Dice esplicitamente di voler fare “teatro politico”, ma occorre intenderlo nel suo significato etimologico “teatro per la polis”, anche se Cosentino non nasconde la radicalità delle sue convinzioni, non assume toni ideologici e nemmeno si allinea con la tendenza oggi dominante nel teatro “politico” nostrano della “narrazione civile” (Paolini, Baliani, Curino, Celestini, Enia, etc). E’ invece uno spietato esercizio critico nei confronti dei comportamenti stereotipati dalla “cultura” mediatica, dell’anestesia collettiva e dell’ordinaria perversione e alienazione insita nei modelli sociali contemporanei, messo in scena mediante un registro comico-paradossale che personalizza il registro drammaturgico in una miscela inedita per il teatro italiano, dove si riconoscono elaborazioni concettuali di “maestri del pensiero” (da Artaud a Debord e Pasolini), l’assimilazione “fisica” di alcuni “maestri dell’arte“(dichiarati, come Keaton, Fo e Lecoq), un’ispirazione fortemente calata nella tradizione popolare della caricatura comica (con l’uso della cadenza e della parlata dialettale) e una ricerca di stilizzazione gestuale che trova riferimenti o corrispondenza anche in altre, più lontane, culture (ad es. il “metateatro” giapponese del bunrako).
Cosentino ibrida il registro drammatico con quello comico, anche cabarettistico e clownesco, e reinventa, a partire da Angelica e il recente Antò le Momò, il linguaggio del teatro di figura, le marionette diventano delle Barbie e dei Big Jim e il teatrino d’oggi è lo schermo televisivo, qui Cosentino riproduce parodicamente l’intero palinsesto, con i suoi stereotipi di genere (il tg, la telenovela, il documentario), ma non è solo un gioco facile e divertente, poiché entra nel linguaggio cinetelevisivo, ne fa emergere gli stereotipi non solo dei contenuti, ma anche della forma, nel montaggio, portandoli alle estreme e surreali conseguenze, rivelando così come la mummificazione, il conformismo e l’anestesia delle nostre menti derivi prima di tutto da un linguaggio che ci è stato espropriato, che non ci appartiene più, che è diventato una formula seriale. Bisognerebbe dunque azzerarlo. Anche in teatro.
Infatti, le messinscene di Cosentino in realtà “tolgono di scena” perché sono assolutamente spoglie, costruite attorno ad alcuni oggetti simbolici presi dal quotidiano, trucchi o maschere rudimentali, o personaggi viceversa molto espressivi (come il Papa Woytila in Angelica, o Artaud in Antò le Momò) creati da lui stesso e poi abilmente animati sulla scena. Un teatro che potrebbe essere fatto in casa (e di fatti lui lo prepara in casa) oppure per strada, o in qualsiasi luogo non necessariamente teatrale. Un teatro riportato alla sua povertà e a una marginalità fiera in quanto indipendente, che non fa spettacolo, che gioca e si prende gioco, che riproduce parodicamente icone mediatiche e genera visioni, alcune di autentica trasfigurazione simbolica come il finale dell’asino albino in controluce e della morte della protagonista della telenovela che si spezza in parallelo alla perdita della parola del papa malato.
Soprattutto, l’idea cardine dell’arte di Cosentino, è lo spiazzamento: dello spettatore, dei generi, dei linguaggi, dei confini tra realtà e finzione, persino di se stesso. Cosentino è infatti convinto, e io concordo con lui, dell’importanza centrale di un paradosso: la finzione deve essere sincera, l’attore “non deve fingere di non fingere”, allora la pratica della menzogna dichiarata può sorprenderci – come già dicevano Picasso e Orson Welles – con qualche verità. Qualcosa che sfugge alla pratica, apparentemente cinica, della doppia negazione, cioè di una finzione che si svela non cessando mai di esserlo, spostandosi dunque di grado, di posizione, di profondità. Questa, che da Cosentino stesso e da alcuni suoi estimatori, è stata indicata come una poetica “dell’inappartenenza”, leggibile sia come “nulla mi appartiene” sia come “non appartengo a nulla”, segna non solo la consapevolezza di un’impermanenza costitutiva e la vocazione ribelle a ogni marchio o categoria sigillabile, ma soprattutto la scelta, assolutamente contemporanea, di un destino nomade, di un attraversamento costante delle soglie tra finzione e realtà, tra generi, linguaggi, dramma e parodia, vita e morte.
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Le recensioni di ateatro Il grande doppiatore ovvero il Mago di Oz secondo Fanny & Alexander Him: le imprese straordinarie di Marco Cavalcoli mago-dittatore sonoro del regno di Oz di Andrea Balzola |
Tutte le energie di Fanny & Alexander sono state catturate dal ciclone del fantastico regno di OZ (dal libro per ragazzi Il meraviglioso Mago di Oz, di F.L. Baum, ripreso dal film omonimo di V. Fleming, del 1939), ispirandosi al quale Luigi De Angelis e Chiara Lagani hanno costruito un grande progetto teatrale da realizzare tra il 2007 e il 2010, che prevede 6 spettacoli (Dorothy. Sconcerto per Oz; Him; Kansas; North, East, West, South; Emerald City), autonomi ma tra loro collegati come in una sorta di ipertesto, e un evento speciale finale (Eye of the Cyclon) che ne racchiuderà esperienze, tematiche e rilanci possibili.
Dopo aver debuttato nel 2007 in Macedonia.e ad Amburgo con Dorothy. Sconcerto per Oz, De Angelis-Lagani lo stanno portando in Italia, scorporandone una parte, Him. If the Wizard is a Wizard you will, per presentarlo al pubblico anche come spettacolo autonomo. E Him riesce pienamente a sostenere la scena, anzi, proprio la limpida essenzialità dell’idea drammaturgico-registica e la straordinaria bravura dell’attore ne fanno un piccolo capolavoro.
L’unico attore in scena, Marco Cavalcoli, si presenta vestito e con baffetti alla Hitler, si inginocchia davanti al pubblico, rievocando subito esplicitamente la nota scultura di Maurizio Cattelan che dà il nome anche allo spettacolo, “Him”: un piccolo Hitler in ginocchio, solitario, un simbolo del male genuflesso dall’arte davanti al Grande Mistero. Poi Him apre un microcomputer (sul quale scorrono le immagini del film sincronizzate alla proiezione, ma che lui non guarda quasi mai) che posa davanti a sé e impugna una bacchetta da direttore d’orchestra, mentre dietro le sue spalle si accende il grande schermo e appaiono le prime immagini del film Il Mago di Oz di Victor Fleming. Inizia lo spettacolo, l’attore-direttore si rivela in realtà un doppiatore perché il film è proiettato muto ed il pubblico sente soltanto la sua voce dal vivo, in lingua inglese come nell’originale, che dà vita sonora alle immagini.
Ma si tratta di un doppiatore particolare, di un doppiatore egocentrico, velleitario e tiranno che vuole l’impossibile: riprodurre da solo tutte le voci, i suoni, i rumori e le musiche del film. E questo produce un effetto straniante e sorprendente, lo spettatore è interdetto tra il guardare l’attore che con un’espressione esaltata, ipnotica, infantile e lievemente ironica tesse l’arazzo sonoro del film, senza quasi prendere fiato e con un ritmo incalzante “solfeggiato” dalla sua bacchetta-scettro; oppure guardare lo schermo, rivedere la mitica pellicola dell’immaginario infantile americano, con un occhio nuovo perché l’orecchio insegue i frammenti di dialogo, i rumori e le musiche simulate. Se l’occhio si sofferma troppo sullo schermo (e poco alla volta lo spettatore ne viene risucchiato), ci si dimentica l’artificio, la voce dell’attore diventa la vera colonna sonora del film, Cavalcoli è così bravo da caratterizzare perfettamente ogni personaggio, vento e galline compresi, senza alcuna esitazione, confusione o sbavatura, pare egli stesso un “omino di latta”, un computer. Se invece ci si ferma sull’attore la sua performance assume qualcosa di surreale, di sciamanico, come se egli fosse un medium grottesco che evoca mondi interi, affollati cantori dell’invisibile e dell’irrapresentabile. Se invece l’attenzione rimbalza continuamente tra lo schermo e l’attore, ne nasce un incrocio essenziale e minimalista ma straordinariamente efficace, nonché singolarmente originale, tra i due linguaggi, teatro e cinema. Fino a rovesciare anche il senso di entrambi i linguaggi, la serialità del cinema riscopre l’unicità irripetibile dell’evento, e il teatro evoca una deleuziana “ripetizione differente dell’uguale”. La meraviglia è che il mago-ciarlatano vince la sua missione impossibile di restituire la fitta complessità sonora di un kolossal semi-musical, il suo patetico e comico inseguire tutte le voci-suoni-rumori del film riesce comunque a creare una trama sonora che intrappola il pubblico, e trasforma con un incantesimo teatrale lo spettatore che ascolta in un ascoltatore che vede. Questa è la magia del tiranno – sembra dire il sottotesto dello spettacolo – la capacità di essere attore (non a caso Hitler aveva studiato recitazione, provava da attore i suoi discorsi e adorava i grandi attori), la capacità di mentire in modo così ostentato da apparire veri, la megalomania e il narcisismo che trasformano la scena in un unico grande specchio dove non l’attore-Narciso, ma il suo pubblico resta intrappolato e soggiogato.
La scelta della favola-film del Mago di Oz, non solo offre la sponda perfetta di questo disegno drammaturgico, ma identifica una mappa di temi e personaggi archetipici che fornisce la materia prima del grande progetto complessivo Oz di Fanny&Alexander, giacché oggi non nell’immaginario del mito ma nel mito dell’immaginario si ritrova la grande illusione di un riscatto del reale, luogo utopico (ma privato di ideologia) di sua ridefinizione o s-definizione, fanta-coscienza di un mondo in ombra che cerca luci artificiali e rischia di creare nuovi mostri travestiti da nuovi maghi.
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Il teatro italiano per Ingrid Betancourt Che cosa possiamo fare di Comune di Milano |
MILANO PER INGRID BETANCOURT
Milano, 6 marzo 2008
La Presidenza del Consiglio comunale, l’Assessorato alla Cultura e l’Assessorato alla Famiglia, Scuola e Politiche sociali del Comune di Milano promuovono alcune iniziative di sensibilizzazione per Ingrid Betancourt, in occasione della mobilitazione internazionale di sabato 8 marzo, centenario della Festa della donna.
Alle ore 13.30 sarà dispiegata sulla facciata di Palazzo Marino una gigantografia con la foto di Ingrid Betancourt e l’appello “Ingrid Betancourt libera”.
A seguire, nel cortile di Palazzo Marino, l’attrice milanese Carla Chiarelli leggerà brani dal libro appena edito da Garzanti Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli di Ingrid Betancourt.
Alle ore 21.00, presso il Teatro degli Arcimboldi, in occasione dell’ultima serata del “Ciclo Beethoven” che vedrà l’esecuzione della Nona Sinfonia da parte dell’Orchestra Symphonica Toscanini diretta dal maestro Lorin Maazel, il Presidente del Consiglio comunale Manfredi Palmeri, l’assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi e l’assessore alla Famiglia, Scuola e Politiche Sociali Mariolina Moioli offriranno alle donne presenti tra il pubblico in sala una copia del volume Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli di Ingrid Betancourt. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con Garzanti Libri.
Milano inoltre invita tutte le attrici italiane in scena sabato 8 marzo affinché, prima di ogni spettacolo, leggano brani tratti dal libro Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli.
Il teatro italiano per Ingrid Betancourt
Nell’ambito della mobilitazione internazionale per Ingrid Betancourt, facciamo una proposta al teatro italiano. Chiediamo che, prima dell’inizio di ogni spettacolo, un’attrice legga al pubblico un breve brano della Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli. In questo modo speriamo di diffondere le informazioni sulla sua situazione e invitiamo a impegnarsi nella campagna a suo favore.
Qui di seguito il testo che proponiamo di leggere, almeno parzialmente, consultabile sul sito del Comune di Milano area news.
Da Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli di Ingrid Betancourt (Garzanti Libri)
Giungla colombiana
mercoledì 24 ottobre
ore 8 e 34
in un mattino piovoso, come la mia anima
Mia piccola mamma cara e adorata,
ogni giorno mi alzo e ringrazio Dio perché ho te. Ogni giorno apro gli occhi alle 4 e mi preparo, in modo da essere ben sveglia quando ascolterò i messaggi della trasmissione La carrilera de las 5. Ascoltare la tua voce, sentire il tuo amore, la tua tenerezza, la tua fiducia, il tuo impegno per non lasciarmi sola, ecco la mia speranza quotidiana. Ogni giorno chiedo a Dio di benedirti, di proteggerti e di consentirmi in futuro di restituirti tutto questo, di trattarti come una regina, accanto a me, perché non sopporto l’idea di trovarmi di nuovo lontana da te.
Qui la giungla è molto fitta, i raggi del sole vi penetrano a fatica. Ma è soprattutto un deserto di affetti, di solidarietà, di tenerezza, ed è per questo che la tua voce è il cordone ombelicale che mi lega alla vita. Sogno di abbracciarti così forte da rimanere incrostata a te. Sogno di poterti dire: «Mamma, mamita, non piangerai mai più per me, né in questa vita e neppure nell’altra». Ho chiesto a Dio che mi consenta un giorno di provarti tutto quello che tu significhi per me, di poterti proteggere e di non lasciarti mai più sola, nemmeno un secondo. Nei miei progetti di vita, se un giorno ritroverò la Libertà, mamita, voglio che tu pensi di vivere con noi, o con me. Mai più messaggi, mai più telefonate, mai più distanza, nemmeno un metro ci deve separare, perché io so che tutti quanti possono vivere senza di me, ma non tu. Mi nutro ogni giorno della speranza che staremo insieme, e vedremo che Dio ci mostrerà la strada e ci organizzeremo. Ma la prima cosa che ti voglio dire è che senza di te non sarei riuscita a resistere fino a ora. (…)
Mamita, sono stanca, stanca di soffrire. Sono stata, ho cercato di essere forte. Questi sei (quasi) anni di prigionia mi hanno dimostrato che sono meno coraggiosa, intelligente e forte di quel che pensavo. Ho combattuto molte battaglie, ho cercato di scappare più di una volta, ho cercato di conservare la speranza così come si tiene la testa sopra il pelo dell’acqua. Ma oggi, mamita, mi sento sconfitta. Vorrei pensare che un giorno uscirò di qui, ma mi rendo conto che quello che è successo ai deputati, e che mi ha fatto molto soffrire, può capitare anche a me, in qualunque momento. Credo che sarebbe un sollievo per tutti. (…)
Mamita, per me è un momento molto duro. All’improvviso, vogliono delle prove della mia esistenza e così ti scrivo, la mia anima sospesa su questo foglio. Fisicamente, sto male. Non mangio più, mi manca l’appetito, perdo molti capelli. Non ho voglia di niente. Credo che l’unica cosa positiva sia questa: non aver voglia di niente. Perché qui, in questa giungla, l’unica risposta è: «No». Allora è meglio non desiderare nulla, per restare almeno libera dai desideri. Sono tre anni che chiedo un dizionario enciclopedico per avere qualcosa da leggere, per imparare qualcosa, per mantenere viva la curiosità intellettuale. Continuo a sperare che me ne procurino uno, magari solo per compassione, ma è meglio non pensarci. Qui, qualunque cosa è un miracolo. (…)
Qui la vita non è vita, è solo un lugubre spreco di tempo. Vivo o sopravvivo, su un’amaca tesa tra due pali, ricoperta da una zanzariera e da una tenda che fa da tetto e mi lascia pensare che ho una casa. Ho una tavoletta su cui metto le mie cose, cioè il mio zaino con i miei abiti e la Bibbia, che è il mio unico lusso. È tutto pronto, così possiamo partire di corsa. Qui niente è di qualcuno, niente dura, l’unica costante sono l’incertezza e la precarietà. In qualunque momento, possono dare l’ordine di fare i bagagli, e ciascuno di noi deve dormire in fondo a qualunque buco, sdraiandosi ovunque, come gli animali. Per me sono momenti particolarmente difficili. Le mie mani diventano madide, il mio spirito si annebbia, finisco per fare qualunque cosa due volte più lenta del solito. Le marce sono un calvario, perché il mio equipaggiamento è molto pesante e riesco a portarlo a malapena. A volte i guerrilleros si prendono alcune delle mie cose per alleggerire il peso, ma mi lasciano «il vasellame», cioè quello che ci serve per lavarci e che pesa di più. È tutto così stressante, perdo le mie cose o me le confiscano, come i jeans che Mélanie mi aveva regalo per Natale, quelli che avevo addosso quando mi hanno presa. Non li ho più visti. L’unica cosa che sono riuscita a salvare è la giacca, ed è stata una benedizione, perché le notti sono gelide e non avevo nient’altro per proteggermi dal freddo. Prima, mi piaceva moltissimo fare il bagno nel fiume. Siccome sono l’unica donna del gruppo, ci devo andare quasi tutta vestita: calzoncini, camicia, stivali! Come le nostre nonne di una volta. Prima mi piaceva nuotare nel fiume, ma adesso non ho nemmeno più il fiato per farlo. Sono fiacca, freddolosa, sembro un gatto davanti all’acqua. Io che amavo l’acqua così tanto, non mi riconosco più. Durante la giornata avevo l’abitudine di fare un paio d’ore di ginnastica, a volte tre. Avevo inventato un attrezzo, una specie di banchetto fatto con dei rami, che avevo battezzato «step», pensando agli esercizi della palestra: l’idea era di salire e scendere, come se fosse stato uno scalino. Aveva un pregio, non occupava molto spazio. Perché a volte i campi sono così piccoli che prigionieri si trovano in pratica gli uni sugli altri. Ma da quando hanno diviso i gruppi, non ho né la voglia né l’energia di fare niente. Faccio qualche stiramento, perché lo stress mi blocca il collo, che mi fa molto male. Con gli stiramenti, lo split e tutto il resto, a volte riesco a rilassare un po’ il collo. Ecco tutte le mie attività, mamita. Faccio di tutto per restare silenziosa, parlo il meno possibile per evitare problemi. La presenza di una donna in un gruppo di uomini che sono prigionieri da otto o dieci anni è un problema. Ascolto rfi e la bbc, scrivo molto poco perché i quaderni si accumulano e trasportarli è un’autentica tortura: ho dovuto bruciarne almeno quattro. Inoltre, quando ci sono le ispezioni, ci prendono le cose a cui teniamo di più. Una tua lettera, che era riuscita a raggiungermi, mi è stata sequestrata dopo l’ultima prova di esistenza in vita, nel 2003. I disegni di Anastasia e di Stanis, le foto di Méla e Loli, lo scapolare di papà, un programma di governo in 190 punti che avevo annotato nel corso degli anni: mi hanno preso tutto. Ogni giorno mi resta un po’ meno di me stessa.
Ingrid Betancourt
Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli di Ingrid Betancourt, prefazione di Elie Wiesel, è pubblicato in Italia da Garzanti Libri.
Ingrid Betancourt è da oltre sei anni ostaggio nella giungla colombiana, in condizioni difficilissime. Tutti i tentativi di arrivare alla sua liberazione sono finora falliti.
“Mamma morirà presto se non agiamo. Abbiamo poco tempo, è una questione urgente. Dobbiamo agire subito”: queste le drammatiche parole di Lorenzo Delloye-Betancourt, intervistato al Tg1 da Gianni Riotta il 27 febbraio 2008.
Ingrid Betancourt è stata deputato e poi senatore in Colombia, dove conduce una lotta incessante e coraggiosa contro la corruzione e i narcotrafficanti. È stata rapita dalle FARC (le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) il 22 febbraio 2002, quando era candidata alla presidenza della Repubblica.
La Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli è stata scritta il 24 ottobre 2007 da Ingrid Betancourt, su richiesta dei suoi rapitori, come prova della sua esistenza in vita. È indirizzata alla madre, Yolanda Pulencio, ai suoi figli Mélanie e Lorenzo e a tutta la sua famiglia. Il manoscritto (corredato da un video e da alcune foto) è stato sequestrato in occasione dell’arresto di alcuni guerriglieri a Bogotà.
La Lettera dall’inferno a mia madre e ai miei figli di Ingrid Betancourt (che porta anche la risposta dei figli Mélanie e Lorenzo) è pubblicata in Italia da Garzanti. Nella sua prefazione, Elie Wiesel scrive: “Leggi questa lettera. Leggila bene. La voce che ti parla ti terrà sveglio la notte”.
Per altre info, consultare il sito AgirPourIngrid, aggiornato quotidianamente.
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