ateatro 120.20 2/20/2009 Le recensioni di ateatro: L'operetta aperta di Emma Dante Le pulle debutta al Mercadante di Napoli di Dario Tomasello
Foto di Carmine Maringola.
Trascinata nella vertigine del fiabesco, sottoposta alle scosse telluriche di un’inventio dominata da una grandeur incontenibile, ora felice nei suoi esiti ora troppo innamorata di sé, Le pulle (puttane nel dialetto palermitano) di Emma Dante costituisce, forse, un momento decisivo di passaggio nell’itinerario dell’artista siciliana.
Si parte dalla direzione disorientante delle silhouettes attoriali che sembra alludere alla sagoma di Gaetano Bruno nel meraviglioso Festino, in cui si è celebrato sin qui uno dei momenti più alti del teatro di Emma Dante.
La storia dolentissima e funesta dei cinque travestiti gioca la carta dell’esibizione dei caratteri consueti di una marginalità provocatoria, nel tentativo piuttosto inutile di épater les bourgeois. Un tentativo che l’ironia, qua e là affiorante nel dettato registico, non riscatta del tutto, anche perché il punto debole di una scrittura drammaturgica spesso banalizzante e sciatta (nei dialoghi così come nei testi delle canzoni), già manifestatosi in modo preoccupante nell’episodio fallimentare di Cani di bancata, riemerge con intatto vigore.
La presunta amoralità del titolo è fuorviante, ed esteriore, sino al punto da convincere il pubblico del Mercadante, nella replica a cui siamo stati presenti, a una colluttazione tra delatori e sostenitori pericolosamente, e inconsapevolmente, parodistica delle vere polemiche di una stagione in cui la provocazione a teatro era ancora efficace, semplicemente perché la vita reale non aveva assunto l’alto coefficiente di grottesco dei nostri tempi. Emma Dante, d’altronde, questo lo sa bene, giacché cita con scoperto sarcasmo le utopie romantiche di amori “tre metri sopra il cielo” e muovendosi con sicurezza capocomicale, sotto le spoglie di una Mab attenta e premurosa, tra pulle e fatine, detta i tempi di una pièce scandita dal resoconto, al contempo, brutale e lezioso dei cinque ragazzi di vita. Da Pasolini a Ruccello sono numerosi i debiti contratti e, via via, che la tela rossa, con ritmo agghiacciato, cala sui vari episodi come l’affilata falce di una morte annunciata, mai liberatoria, tra qualche minimalismo laboratoriale di troppo e lancinanti interventi musicali, prende corpo il progetto ambizioso della Dante.
Qui corre l’obbligo di riconoscere, avendo esaurito il campo delle obiezioni possibili ad uno spettacolo destinato sicuramente a crescere, che, come già altre volte ci è capitato di ammirare, alcune invenzioni della Dante hanno del miracoloso per coraggio e struggente capacità d’indagine nelle ferite irreparabili della coscienza.
L’inseguimento notturno della pulla ballerina, per il tramite di una macchinina telecomandata, possiede la levità e la tenerezza del corpo offeso e la ferocia insistita dei persecutori in un contesto di allucinato, e festoso, sgomento.
Lo stesso che assedia Moira, impegnata in una lotta senza scampo con lo spettro materno, perturbante fantoccio a molla riemerso dal baule angusto dell’inconscio.
Se poi il sogno del travisamento sessuale della propria identità trascolora nelle tinte tenebrose dell’incubo, come nel caso desolante di Ata, le fatine smarriscono il dono frenetico del canto, della danza e della parola per divenire tre moire, funeste ed indifferenti, che attendono chi non può far altro che accettare il tiro di dadi della propria esistenza.
La Dante possiede la grazia, ovvero il talento naturale, di lavorare sapientemente con dei magnifici attori. Lo si vede, per esempio, nel momento del pettegolezzo che deflagra nella ritualità di uno scontro in cui il timbro delle voci dal farsetto sconfina inopinatamente, e con effetto di suggestivo sconcerto, negli umori cupi della minaccia virile. Eppure, spesso ne ridimensiona la portata, come nel caso di Carmine Maringola, a lungo ingiustamente trattenuto prima di esplodere in tutta la sua potenza nel concitato monologo del matrimonio immaginario finale.
Insomma, l’operetta resta aperta, registrando comunque un considerevole passo avanti della Dante lungo l’impervio cammino della propria cifra stilistica straordinaria, ma continuamente tentata da un pericoloso manierismo.