ateatro 118.14 9/29/2008 ateatro come laboratorio “inutile” di idee per una nuova cultura teatrale del futuro remoto In risposta a La fine del (nuovo) teatro di Andrea Balzola
L’intervento estivo di Oliviero Ponte di Pino sulla Fine del (nuovo) teatro italiano offre un’analisi lucida e spietata che condivido pienamente e pone degli interrogativi a cui sarebbe importante, nei limiti della nostra personale visuale, tentare di dare risposta o eventualmente articolare con ulteriori domande. Mi riferisco soprattutto a coloro che in questi otto anni di ateatro hanno partecipato attivamente alle discussioni che la rivista ha cercato di innescare. E naturalmente invito a farlo anche quei molti lettori silenziosi ma assidui che ci hanno seguito.
Come Oliviero sa, io comprendo la grande, talvolta insopportabile, fatica di portare avanti per puro “volontariato culturale” un progetto come quello di una rivista, per quanto ridotta all’osso nella sua grafica, libera e informale nella sua conformazione, nei suoi contributi e persino nella sua periodicità. Oggi occuparsi di cultura in generale, e in particolare di “cultura teatrale”, costa molto e paga poco o nulla. Come un agricoltore che da anni lavora per arare e fertilizzare la terra, che da anni semina e non ha mai un raccolto.
E’ entrato da tempo in crisi anche il rapporto dialettico, in decenni passati vitalmente polemico, fatto di odi e amori, di grandi intuizioni e anche di grandi cantonate, che esisteva tra i creatori e i critici, tra autori e studiosi. Oggi le recensioni che contano sono quelle dei quotidiani, sempre più ridotte a finestrelle telegrafiche che nonostante l’intelligenza e l’abilità dei loro redattori non hanno più nulla a che fare con le caratteristiche della vecchia recensione. Fare una recensione equivale a esercitare un piccolo potere, variabile in relazione alla diffusione e al prestigio della testata, e ricevere una recensione favorevole equivale a un aumento di punteggio nell’indice di gradimento di enti e organizzazioni teatrali. Niente più a che vedere con lo sviluppo di un dibattito estetico, culturale, etico-politico.
La stra-vittoria della Destra in Italia, una Destra neo-populista (populismo mediatico), con componenti estremiste xenofobe o intimamente nostalgiche del nero ventennio (assolutamente atipica in Europa come Destra di governo), come segnalava il Moretti del Caimano, è stata prima ancora una vittoria sulla cultura della sinistra e poi una liquidazione della politica di sinistra.
La sinistra che dal dopoguerra ha in Italia oggettivamente, e con indubbio prestigio per molte stagioni, egemonizzato la cultura – e il teatro – ha anche creato dall’interno le condizioni della disfatta “culturale”, poco alla volta, come un esercito di tarli lentamente e inesorabilmente al lavoro. Il nodo di tutto io credo si trovi nella perdita del modello etico che caratterizzava la cultura di sinistra fino agli anni Settanta-Ottanta, c’era una cultura di sinistra ideologica, dogmatica, come ironizzava Longanesi perfino “trina ricciuta”, e c’era una cultura di sinistra minoritaria, ma molto “rumorosa”, indipendente, coraggiosa nell’andare controcorrente, quella dei Pasolini, Sciascia, Flaiano, Fo, Bene, etc, ma c’era anche un denominatore comune: i valori etici di riferimento, il rigore e la coerenza dei comportamenti e della deontologia professionale, gli intellettuali e gli artisti rischiavano forti danni economici, denunce, processi, aggressioni, persino la vita per sostenere le loro idee, frequentavano anche i buoni salotti e qualche volta gli studi televisivi ma non ne facevano l’unica sede della loro esperienza sociale.
In seguito alla grande Paura del terrorismo e allo sfaldarsi delle istanze radicali di massa, la cultura di sinistra è stata quasi completamente assorbita dalle istituzioni: gli enti pubblici, le università, i teatri stabili, le grandi testate giornalistiche e i grandi gruppi editoriali, i grandi network televisivi, i partiti. Dalle pratiche culturali al potere culturale. E qui, mi dispiace per l’onorevole Andreotti, ma il potere “logora chi ce l’ha”, può sicuramente annientare chi non ce l’ha, ma piega alle sue leggi chi lo detiene, soprattutto se in modo egemonico, il potere spersonalizza chi lo detiene, cosa nota da millenni. Alla Sinistra è accaduto questo: trasformare l’egemonia culturale in un potere sulla cultura, di fronte a un tale fine si sono potuti giustificare mezzi fino allora impensati e impensabili: manipolare i concorsi universitari e trasformare in un Risiko baronale l’assegnazione delle cattedre e dei posti da ricercatori; gestire in modo “carismatico” (di fatto nepotista) le grandi istituzioni teatrali, costruendo cartelloni con asettici scambi di produzioni tra gli Stabili, riducendo al minimo gli spazi della ricerca; lottizzare la direzione delle televisioni; privilegiare nella promozione mediatica ma anche nei finanziamenti pubblici intellettuali e artisti di partito (o simpatizzanti); usare l’esercizio della critica in modo più funzionale alla prospettiva di creare e pilotare un’imprenditoria culturale per gestire festival, rassegne e teatri.
In questo modo si è progressivamente soffocato l’humus culturale che nasce e cresce in un habitat favorito dalla libertà, dalla curiosità, dallo scambio anche polemico, dal contatto diretto con le realtà sociali, con le tensioni e le contraddizioni del paese reale. Sovrapponendovi una Rete, sicuramente più efficiente ma sedativa, di centri di potere, grandi e piccoli, ognuno occupato da un clan e dalla sua dinastia, in costante contrattazione di spazi, di fondi e di canali mediatici, fino a far prevalere la logica del “come fare” sulla qualità del “cosa fare”. Fino a organizzare preventivamente le stagioni teatrali secondo modelli che sembrano provenire dal mondo della moda: un anno va la “narrazione civile”, l’anno dopo “il teatro di movimento”, etc.
Se questa è la logica, a cui fortunatamente sfuggono sempre delle “Buone pratiche” (come hanno testimoniato le iniziative di ateatro) e che non riesce a spegnere definitivamente lo spirito avventuroso degli artisti affetti dal recidivo morbo della ricerca, si capisce come non ci sia ascolto possibile per un dibattito “vecchio stile” sulla cultura teatrale promosso da una rivista come ateatro e nemmeno per le denunce indignate verso la logica delle spartizioni di potere e di fondi documentate dalla stessa rivista. Siamo in un paese dove non c’è più la capacità di scandalizzarsi e di indignarsi, i pochissimi che lo fanno vengono considerati dei “fanatici rompicoglioni”, dove la moralità è diventata una parola vuota che non corrisponde più a comportamenti e reazioni effettive, concrete. Persino la Magistratura dovrebbe astenersi, secondo molti, dal perseguire i comportamenti illeciti dei potenti. E questo forse ce l’ha insegnato la vecchia DC e Berlusconi ne è diventato paladino e maestro, ma la Sinistra l’ha imparato benissimo: quando di fronte all’evidenza delle responsabilità di Bassolino (non l’unico ma certo uno dei più rappresentativi responsabili) nello scandalo dei rifiuti in Campania, il leader del “rinnovamento della politica italiana”, di un partito proiettato al futuro come il PD, non solo ha ignorato la necessità di chiederne le dimissioni ma a chiusura della campagna elettorale ha addirittura chiesto alla gente di Napoli di applaudirlo per il “bene fatto alla Campania” (quella stessa Campania in ostaggio del Sistema Camorra, così coraggiosamente descritto da Saviano), allora i principi morali diventano una pura formalità oratoria. E sono sempre meno credibili per la gente, danno spazio alle invettive a 360° di Grillo e la vecchia “maggioranza silenziosa” finisce per preferire il modello berlusconiano della furbizia vincente, della legge del più forte in un’assenza dichiarata di regole morali.
Così come credo che nella politica sia necessario ripartire dalle molteplici esperienze concrete sul territorio, dal lavoro tenace e costruttivo dell’associazionismo e di molto volontariato, dall’impegno di molti onesti amministratori locali, credo che nel teatro e nella cultura teatrale sia necessario da una parte continuare a monitorare e mettere in relazione le “buone pratiche”, magari arrivando a un’elaborazione teorica di modelli alternativi di organizzazione e produzione artistica, e dall’altra parte avviare un processo di “purificazione morale” (termine che farà ridere alcuni e spaventerà altri, ma non riesco a trovarne uno migliore) e di rifondazione teorica del ruolo che il teatro oggi non ha e che invece potrebbe avere, riacquistare, nella società. Esperienze apparentemente marginali come il teatro nelle carceri (Volterra, Tam Teatro, etc) o il teatro con i disabili mentali e fisici, e alcune esperienze di integrazione etnoculturale (dalle Albe a Marco Baliani) o psicosociale (Delbono), hanno dimostrato una straordinaria incisività dell’esperienza teatrale sulla vita delle persone coinvolte e anche una capacità di comunicare al pubblico questa intensità. Uscendo dalla catena di montaggio delle produzioni teatrali seriali, del ritorno alla retorica del capocomicato, e dalle trasposizioni in palcoscenico degli sketch o degli show televisivi. Il teatro è nella sua essenza laboratorio antropologico, luogo di elaborazione delle utopie e dei lutti sociali, luogo di sperimentazione espressiva, di ricerca di nuovi linguaggi e di nuove commistioni tra essi, luogo dove lo scenario tecnologico nel quale oggi siamo immersi dovrebbe disvelare i suoi meccanismi, le sue potenzialità e i suoi condizionamenti interpretando il futuro. Che funzione allora può avere una piccola piazza elettronica dove pochi cocciuti osservatori, studiosi, ricercatori e artefici di un’idea alternativa di cultura teatrale e di pratiche teatrali, si ritrovano per discuterne, offrendo ai lettori informazioni e punti di vista non allineati? Non una funzione utile nel senso di un possibile riscontro nei nodi di potere della cultura teatrale, sempre più sordi a una visione di medio lungo periodo e ancorati con gli artigli ai loro orticelli, ma una funzione inutile – nel senso che non ha presunzione di risultati concreti immediati - di confronto, di dialogo, intorno a qualcosa – il teatro – che nonostante tutto, misteriosamente, continua da avere un’anima e sue molteplici, imprevedibili manifestazioni. Forse, se la cultura della sinistra si è mummificata proprio per inseguire costantemente una finalità utile, rinunciando progressivamente anche a ogni forma di principio morale per raggiungere gli obiettivi del potere culturale, allora una pratica del digiuno di potere (noi non abbiamo mai avuto tale potere ma abbiamo avuto la velleità di rivolgerci a coloro che ce l’hanno), di “purificazione” dal finalismo del discorso culturale, un nuovo liberatorio senso dell’inutile, un ritorno ai contenuti puri. Perché è da qui che si può lentamente ricostruire un senso dell’operare, la sensazione che si ha in Italia – diversamente da ciò che accade fuori dai nostri confini – è che domini la stanchezza, la demotivazione a confrontarsi e a progettare, la sfiducia nella possibilità di un cambiamento, gli artisti non si parlano tra loro, ognuno tira avanti faticosamente il proprio carro, molti emigrano in cerca di una fortuna (che è in realtà riconoscimento e stima) molto più probabile all’estero, parlano poco anche con i critici, spesso ne dipendono ma con insofferenza, gli operatori vivono nella diffidenza che qualcuno li sostituisca o nell’incubo che i fondi siano “ulteriormente” tagliati, molti sono esasperati dalle infinite anticamere che devono subire per avere udienza dall’assessore di turno, anche dopo anni di valida attività. Domina la stanchezza, la fatica, la perdita di entusiasmo, la speranza in un futuro diverso. Perché la palude è ormai troppo estesa e ramificata, starci fuori significa rinunciare a esserci, starci dentro significa subire continue umiliazioni e delusioni, in ogni caso corrompere, offuscare la propria identità artistica ed etica.
Allora può forse essere utile fermarsi a riflettere, individualmente e collettivamente, riprendersi lo spazio e il tempo di parlarsi aldilà degli schieramenti e dei clan (il cui potere si riduce sempre più), ragionare sui contenuti del lavoro artistico – nel nostro caso teatrale – nell’attuale contesto, riflettere sulla sua necessità, sull’impatto che non ha e che invece dovrebbe avere sulla società, su come i linguaggi stiano cambiando, soprattutto con l’imporsi dei new media e delle nuove tecnologie, su come anche le forme e i formati stessi dello spettacolo stiano mutando, creando inedite trasversalità con la Rete, con le arti visive, con il cinema e l’animazione digitali… Se in Italia la dimensione concreta della produzione e della distribuzione teatrale attuale è sconfortante e regressiva dovrebbe invece destare grande curiosità ed entusiasmo la trasformazione accelerata dei nuovi linguaggi, basterebbe alzare un po’ la testa e guardare oltre gli scenari casalinghi per accorgersi che una nuova era del teatro è già nata, se in Italia non se ne accorgono, per ignoranza o per pigrizia, questo non significa che non sia reale. Quindi è questo che propongo ad ateatro di diventare – e in un certo di continuare ad essere (in gran parte è già nel suo dna) - : un laboratorio “inutile” di idee per una nuova cultura teatrale del futuro remoto.
Passo e chiudo.