ateatro 108.20 4/21/2007 Breve nota a margine sul caso dell’astice ucciso sul palco A proposito dello spettacolo di Rodrigo García di Andrea Balzola
Dopo aver letto su ateatro 107 le diverse versioni sul blocco dello spettacolo di Rodrigo García al Teatro I di Milano, dove un astice viene sacrificato in diretta teatrale, sento l’esigenza di aggiungere qualche riga all’intervento di Oliviero Ponte di Pino, che condivido e sottoscrivo completamente.
Il teatro è – dico appositamente la cosa più ovvia ed elementare che si possa dire in proposito – finzione, non è la vita o la morte in diretta e nemmeno la pseudo-realtà (con canovaccio) del Reality Show.
Una finzione che può essere anche più forte della realtà proprio perché non si limita a riprodurla, ma la interpreta, la trafigge con le sue visioni per vederci dentro e vedere oltre. Altrimenti è tautologia, e a quella ci pensano già full time i media. E – altra ovvietà – il fatto che il teatro sia finzione non significa che sia falso, e anzi il suo grado di verità è tanto più forte quanto più dichiara il suo scarto dalla mimesi della realtà, quella sì ipocrita e fasulla.
Mi viene in mente un presunto artista che a una mostra d’arte internazionale (destando anche grandi polemiche, immagino cercate scientemente per pubblicità) aveva esposto una serie di frullatori con dei pesciolini rossi vivi che vi nuotavano dentro, gli spettatori potevano, a loro discrezione, azionare il frullatore e tritare i pesci. In risposta agli attacchi di stampa, animalisti e spettatori, autore e curatore della mostra risposero declinando la responsabilità sulla morte di quei pesci, perché questa non dipendeva dall’artista ma metteva alla prova l’eventuale sadismo degli spettatori, provocando in generale il pubblico a riflettere su come “l’occasione renda l’uomo assassino”. Se mi sembrò aberrante (tra l’altro, non vi scorgevo alcunché di artistico) quella “trovata”, il fatto che nel nostro caso sia l’attore stesso a fare a pezzi un astice non mi pare meno aberrante, è forse meno ipocrita ma in compenso è ancora più determinato nella sua crudeltà.
L’idea che l’uccisione in diretta di un animale, per quanto già destinato a morte in una pescheria o in un mattatoio, sia una provocazione di grande coraggio e genialità artistica che mette in luce la nostra ipocrisia quotidiana in merito all’atto di uccidere x cibarsi è il rovesciamento paradossale e a mio parere anche decisamente inquietante di un principio etico fondamentale (il rispetto che l’arte deve agli esseri viventi, tutti quanti) ma anche di un principio logico elementare. Poiché la crudeltà è una componente fondamentale del comportamento umano e la finzione non ha un impatto abbastanza forte sulle coscienze ormai assuefatte alla violenza e in certi casi complici di essa, allora anziché produrre artisticamente metafore della violenza, meglio produrre direttamente atti crudeli, così forse riusciremo finalmente a scuotere le coscienze ipocrite o anestetizzate del pubblico. Ecco che l’arte, seguendo tale (anti)logica, per denunciare un male lo riproduce o addirittura lo produce strumentalmente per dar forza alle sue metafore (come nel caso di García).
Sembrerà banale (forse bisognerebbe tornare alla banalità del buon senso comune per ritrovare una lucidità etica sulle responsabilità del fare artistico), ma il fatto che l’uomo abbia un atteggiamento arrogante nei confronti della natura, disponendo di essa come un padrone assoluto che non la sfrutta o la sopprime solo per sopravvivere ma per ogni futile motivo, o addirittura per piacere, non solo non autorizza l’artista a fare altrettanto, qualsiasi sia la sua finalità “artistica”, ma non fa che legittimare materialmente e simbolicamente quel modello infrangendo anche uno degli ultimi tabù (positivi) rimasti: non si uccide per gioco (nel senso più ampio del verbo inglese to play).
Allora viva i tabù, le leggi, e pure le censure che impediscono di uccidere o infliggere sofferenze ovunque si possa e si riesca a farlo, e viva anche l’arte che mostra, nel dilagare quotidiano delle atrocità, dei gesti “belli” da cui trarre ispirazione, o almeno un po’ di respiro.