ateatro 144.79 8/20/2013 Paolo Rosa: inventare e costruire Scritto per Doppiozero di Oliviero Ponte di Pino
Mi arriva un sms di Antonio: “Hai saputo della brutta notizia?” Quale notizia? “Paolo Rosa... Corfù... Un infarto, forse...” Ma era alla Biennale a luglio, e pochi giorni fa ha firmato l'appello per salvare Piazza Verdi a La Spezia...
Invece in questa sgangherata fine agosto se n'è andato uno degli artisti italiani più importanti e innovativi degli ultimi anni. Come anima della factory milanese di Studio Azzurro (fondato nel 1982 insieme a Paolo Cirifino e Leonardo Sangiorgi), Paolo Rosa era già entrato nella storia dell'arte, insieme a Nam June Paik e Bill Viola, perché è stato tra coloro che meglio e più approfonditamente hanno sperimentato le possibilità estetiche, comunicative e interattive delle nuove tecnologie. Con Giorgio Barberio Corsetti, Studio Azzurro ha realizzato uno degli spettacoli chiave degli ultimi decenni, Camera astratta (1987), che aveva insegnato, per esempio, che un essere umano è alto più o meno tre monitor da 24 pollici; e che il “qui e ora”, che fino a quel momento aveva caratterizzato lo specifico del teatro (rispetto a media teconogici come cinema e televisione) ma soprattutto lo specifico della nostra esperienza esistenziale, aveva iniziato a cambiare i suoi confini – lasciando intuire che questo cambiamento avrebbe avuto conseguenze che andavano molto oltre l'ambito teatrale.
Nelle sue installazioni, Studio Azzurro ha spesso lavorato su concetti elementari (dentro-fuori, esterno-interno, vicino-lontano, superficie-profondità), su esperienze quotidiane e immediate: erano all'epoca esperienze innovative, che si misuravano con tecnologie ancora poco diffuse, ma che anticipavano il futuro prossimo venturo in cui ora ci troviamo immersi e che cercavano di inventare una grammatica dell'esperienza. Nel progettare queste esperienze sensoriali ed estetiche, Studio Azzurro aveva due comandamenti. In primo luogo, si trattava di inventare e costruire un rapporto con l'utente, che doveva avere due caratteristiche principali: in primo luogo, indurlo a superare la prorpia passività di spettatore ed agire, all'interno di un contesto determinato; per farlo, era necessario costruire convenzioni comunicative semplici, intuitive; la seconda ispirazione di Studio Azzurro, negli esperimenti più riusciti, era una forma di poesia lieve e spiazzante come un apologo zen.
Spesso, soprattutto negli ultimi anni, Studio Azzurro ha puntato sull'impatto spettacolare, sorprendente, meraviglioso delle nuove macchinerie digitali.
Paolo Rosa, intelligente e poeta, ha anche firmato un eccentrico lungometraggio, Il mnemonista (2000) che aveva per protagonista un uomo che non può dimenticare nulla (un “caso clinico” studiato dallo psicologo sovietico Alexander Luria e portato in teatro anche da Peter Brook), protagonista Sandro Lombardi.
Di recente aveva lanciato un “manifesto per l'età post-tecnologica”, scritto con Andrea Balzola e intitolato L'arte fuori di sé(Feltrinelli, 2011) pressoché ignorata dalla stampa italiana.
In Italia non ce n'eravamo accorti, che l'esperienza di Paolo Rosa e di Studio Azzurro aveva un rilievo fondamentale. Se n'erano accorti in Germania, dove erano stati ospiti a Documenta a Kassel, in Giappone (dove aveva curato alcuni tra i progetti più ambiziosi) e persino alla Città del Vaticano (che ha affidato a Studio Azzurro il proprio padiglione all'ultima Biennale).
Non ce n'eravamo accorti in Italia, come dimostra la vicenda di Paolo Rosa all'Accademia di Brera (dove aveva contribuito a inventare di fatto una nuova facoltà), con il suo garbuglio burocratico e surreale.