ateatro 143.33 3/30/2013 Scrivere su twitter tra letteratura e teatro: un (quasi) decalogo e 33 tweet d'autore L'intervento al focus "Nuova Drammaturgia", Luoghi Comuni Festival, Brescia, 23 marzo 2013 di Carlo Gabardini
Luoghi Comuni, ormai alla quinta edizione, è l'appuntamento delle "residenze lombarde" di associazione ETRE, sostenuta da Fondazione Cariplo. E' un festival anomalo, che ogni anno sperimenta un format diverso e spesso innovativo. Rispetto al fringe che aveva invaso l'anno scorso il centro di Bergamo, la proposta di quest'anno, accolta a Brescia - nella nuova sede accogliente e centralissima della residenze Idra e in altri spazi di questa (davvero bella) città - è un "focus sulla Nuova Drammaturgia" con mise-en-espace, letture, occasioni di approfondimento.
Un modello collaudato, perfino abusato? Niente di nuovo? No, anzi. A partire dalla maturità delle compagnie lombarde proprio su un tema che sembrava - con eccezioni naturalmente - uno dei punti deboli delle giovani compagnie: il lavoro sul testo, il racconto, la parola. E poi c'è l'attitudine a lavorare assieme (molte delle letture e work in progress vedono le compagnie, riunite a due a due, integrare le forze migliori), di "rubare" con intelligenza esperienze colte all'estero, di "imparare" aderendo a progetti internazionali e mettendo confronto le generazioni (mentor room, short latitudes, maratona urgenze e molte singole esperienze.
L'insieme era così interessante - e ben organizzato - che non ci sembra il caso di citare nessuno: tutto sul sito di associazione ETRE). E le generazioni in campo sono almeno tre, di autori, attori, registi, operatori, compresi giovani (veri). E i giovani -coatti e ribelli, disperati o ottimisti, passivi o d'azione- senza che nessuno lo avesse scelto a monte, sono emersi come il filo conduttore di molti fra i testi e le ricerche presentati.
L'intervento di Carlo Gabardini che ateatro ospita, è stato presentato nel quadro di un altra scelta anomala, apparentemente il solito CONVEGNO NUOVA DRAMMATURGIA ma concreto e "diverso" con ironia:
"I drammaturghi, esseri la cui natura è tuttora incerta, esistono: sono coloro che hanno avuto l’ingrato compito di portare in scena davanti a cittadini di (auspicabile) sapiente appetito le svariate vicende del mondo fatto di guerre, assassini, parricidi, stragi, danze furibonde, sepolture mancate, tradimenti, figli uccisi e, col passare degli anni e il mutamento del Presente, portare in scena anche l’anima, cercando altrettante parole per l’amore, l’essere uomo o donna, o tutti e due, o nessuno dei due; e ancora il lavoro che s’è perso e ci fa sprofondare, il significato dei legami, il senso o non senso dell’esistere. Abbiamo deciso di chiamare a raccolta quelle persone che attraverso la scrittura cercano di dare, come noi, senso all’esistenza; ad ognuno abbiamo chiesto di scrivere un decalogo sulla propria Scrittura, 10 punti per parlare della propria costellazione creativa, delle proprie ispirazioni, turbamenti, spietatezze".
Buongiorno.
Intanto GRAZIE per avermi invitato qui, a un convegno, che mi sembra roba da grandi.
Vi ringrazio molto, ne sono lusingato e anche un po’ spaventato.
In questi 8 giorni ho scritto 86 pagine di appunti per questo convegno. Ho relazioni per chiunque, se qualcuno ne fosse sprovvisto.
A me piace scrivere qualunque cosa, ho accettato perché io uno speech per un convegno non l’avevo mai scritto.
Tanto mi piace scrivere qualsiasi cosa, che da giovane non solo dicevo “Io voglio scrivere”, ma dicevo “Io voglio vivere di scrittura” e intendevo che pur di guadagnarmi il pane con la scrittura avrei scritto anche le didascalie dei giornaletti porno. Tipo: “Ah… ah… ah… godo anch’io!!!”
Credo che l’unico discorso che io abbia mai scritto e poi letto davanti a un pubblico sia il mio discorso di maturità, per la consegna dei diplomi, quando la mia classe mi terrorizzò scegliendo me. Allora iniziai con “Oggi, 8 maggio, Festa della Mamma” e partirono i fischi della platea, perché la festa della mamma non è l’8 ma la seconda domenica di maggio, e siccome era un venerdì... Mia mamma mi guardò con quella sua classica espressione che significa: “Hai sbagliato anche la prima frase?! Carlo, non so proprio cosa dirti. Che vergogna!”
Quindi oggi volevo intanto invitare mia mamma al convegno per rifarmi, ma non è potuta venire, e poi iniziare così: “Oggi, 23 marzo, Festa del Papà (e primo giorno di primavera)”, così, giusto per mantenere intatta la tradizione dei miei inizi sbagliati.
Racconto questo anche per ricordarmi che gli incipit sono importanti e che spesso lì c’è già tutto.
Mi prendete in un momento travagliato della mia vita e un po’ mi spiace, perché di solito sono più simpatico. Sono in una totale crisi creativa, che detto così fa anche figo, un po’ maledetto, giustifica un sacco di sbronze. Quindi lo dico più preciso e meno rassicurante: “Non so dove sbattere la testa e inizio a preoccuparmi”.
Insomma, sono qui per sentire cosa dicono gli altri, voglio imparare non ho da insegnare.
Però ho accettato l’invito al convegno per mettermi in difficoltà, che, per quanto mi riguarda, è una regola fondamentale del mio agire. Forse perché son pigro. Io se non mi frego fissando quasi a mia insaputa degli appuntamenti obbligatori, rischio di non fare nulla. Per quanto riguarda la scrittura poi, neanche parlarne.
Quindi al punto uno del mio decalogo metto:
1. Mettiti in difficoltà, tenditi degli agguati.
Poi interrogarsi sulla scrittura è peggio dell’analisi, nel senso che è bellissimo e dolorosissimo assieme.
2. Chiedersi perché scrivi è come invitare Freud a casa e farsi trovare completamente nudi… abbracciati a Jung, nudo anche lui (limonando).
Ecco, poi ho twittato questa frase e mi è passata l’ispirazione.
Quando non scrivo, passo la giornata a scrivere: appunti, twitter, sms, whatsapp, anche ruzzle per me è scrittura, o almeno così mi racconto per sbassare il mio senso di colpa.
Poi sono ripartito da zero e il mio decalogo iniziava così:
Punto 1. Le parole sono gratis, ma il cercare o il trovare la giusta composizione di esse, può costare la vita.
Poi l’ho twittato e mi è passata l’ispirazione.
Io non so scegliere e voglio sempre mettere tutto, non mi accontento e ciò che scrivo non mi convince mai. E secondo me, se uno non sa scegliere, non è uno scrittore.
Punto 2. Se uno non sa scegliere, non è uno scrittore.
Nelle 1970 sceneggiature di cameracafè che ho scritto o alle quali ho collaborato o che ho revisionato, non ne ricordo una che non mi sia stata strappata di mano mentre avevo ancora dei dubbi.
Quando Renata Ciaravino m’ha detto che quello che ci veniva chiesto di scrivere era un decalogo per la scrittura, mi sono pure tranquillizzato, perché mi sembrava un bellissimo spunto che mi avrebbe anche aiutato.
Ma non è mica tanto vero. Leggere decaloghi è bellissimo, doverne scrivere uno è terribile.
Decalogo. Deca. 10? Già suona come i comandamenti, le regole, le cose giuste. Già sai che ti dimenticherai milioni di cose. (Non son sposato, ma mi sa che è come far l’elenco degli invitati al matrimonio, tra l’altro con un tavolo da 10! Quante zie lasci a casa?) Poi, figurati, io che so che il mio problema è che vorrei scrivere una cosa che contenga tutto, e questo è impossibile.
Punto 3. Bisogna occuparsi di una parte, di una cosa. La totalità è troppo bloccante.
Mi rimetto a twittare, mi passa l’ispirazione, ma me ne viene un’altra: twitter.
Io è da twitter che sto reimparando alcune cose precise della scrittura che forse sono utili.
Non credo di dover spiegare cos’è twitter, vero?
Libero subito il campo da un fraintendimento: qualcuno, visto che il personaggio che interpreto in cameracafè è il tecnico informatico Olmo, pensa che io sia un esperto di computer, un nerd, un mago della rete. Io sono esattamente l’opposto, sono un inetto-digitale, uso il computer come macchina per scrivere e internet come una biblioteca. Fine. E twitter.
Sono iscritto a twitter dal giugno 2011, quindi da nemmeno due anni. Ero a un compleanno e verso mezzanotte la festa è degenerata in “Iscriviamo Gabardini a twitter!!!”. E va bene, iscriviamolo. [insisteva anche @gallizio che so che, inspiegabilmente, mi vuol bene.]
Non sapevo nemmeno cosa fosse twitter. Me l’hanno spiegato così: “Carlo hai in mente quando certe notti da ubriaco mandi sms a mezza rubrica del telefono? Ecco, twitter è quello, al cubo, e gratis!”
E va bene: “Iscriviamo Gabardini a twitter.”
Mi hanno iscritto. Non mi sono opposto, ma ha scelto qualcun altro per me. E il mio primo tweet lo dice chiaramente.
Il 27 giugno 2011 twitto:
carlogabardini Carlo G. Gabardini
m'hanno incastrato sfruttando i 40 anni di gianluca neri. poi in realtà ne son contento. se scrivo male o brutto, non ditelo a mia mamma
27 Giu
[Negli incipit c’è già tutto…]
Quindi il Punto 1 va bene:
1. Mettiti in difficoltà, incàstrati, tenditi degli agguati, iscriviti o lasciati iscrivere a twitter senza pensarci.
2. È nei limiti che c’è la libertà. Se puoi far tutto non fai proprio niente. (Mi vien da ridere a dire questa frase, perché sto finendo di scrivere un’opera lirica che inizia con questo esatto verso, e autocitarmi mi sembra buffo e anche non bellissimo.)
Comunque, l’obiezione maggiore che si fa a twitter è proprio la sua forza: la questione del limite dei 140 caratteri per tweet. Perché uno giustamente dice: “Ma se io voglio scrivere una cosa di 179 caratteri, perché non dovrei potere? Perché dovrebbe essere peggio del tuo di 140!”
Non è peggio. Non puoi scriverlo perché twitter è una palestra. E in palestra ti alleni, non hai lo spazio per correre la maratona dal bar alla sauna.
Sarebbe come uno che dice: “Salve, mi chiamo Proust. Ho scritto La Recherche. Mi state dicendo che non posso venire lì a leggerla tutta a Brescia al convegno Luoghi Comuni perché avete messo la vostra regolina dei 18 minuti?”
Sì, esatto, non puoi, Proust. Non puoi. Il che non vuol dire che La Recherche sia brutta, vuol dire che questo non è il luogo per leggerla, ti farai tradurre da Raboni e pubblicare nei Meridiani. A posto così.
3. La scrittura è riscrittura. Sempre. Non è mai la prima stesura di getto.
Twitter questo te lo insegna subito, semplicemente imponendotelo: perché ti viene un pensiero, lo scrivi, e solitamente è troppo lungo. Certo, se la tua urgenza è scrivere “Justin Bieber ti amooooooooooooooooooooooooooo” il compito è facile perché basta che togli le “o” in eccesso e hai fatto. Ma stiamo parlando di scrittura, ovvero di urgenza di comunicare.
(Poi potrei aprire una parentesi, perché io sono di quelli che su twitter segue anche la faida fra fan di Justin Bieber e fan degli OneDirection, perché io penso che tutto sia scrittura e qualsiasi scrittura mi incuriosisce e ha la sua dignità. Ma è un altro discorso.)
Parliamo dell’urgenza di uno scrivente di comunicare una cosa. La pensa, la scrive, si accorge che travalica i 140 caratteri, e quindi per poter pubblicare il proprio pensiero è costretto a riscrivere. Questa fase è il nocciolo della questione, per me: perché scrivere è una lotta con le parole. Sempre. Comunque. Anche se non hai un limite di lunghezza. E twitter ti costringe a farlo, sul breve, è una simulazione da laboratorio.
Perché io quando twitto, ho l’urgenza di dire una cosa precisa: quindi se sono troppo lungo, non è che per me una parola vale l’altra, non è che al posto di BELLO scelgo di scrivere figo perché ha un carattere in meno, perché FIGO in molti casi è troppo diverso da bello, porta con sé un mondo, anche un punto di vista, dice anche un sacco di cose su di me.
Quindi anche se ha un carattere in meno, magari preferisco andare a sintetizzare da un’altra parte, e comincio a ristrutturare l’intera frase - perché in realtà non si sintetizza, si riscrive. Magari scelgo di sottintendere il soggetto nella subordinata in modo da non doverlo ridigitare; se metto tre aggettivi, scelgo i due che mi sembrano più pregnanti o scelgo di sostituirne uno. Adesso non è importante elencare la casistica, che è immensa: è importante scoprire che ci si sta mettendo a scrivere, che le parole sono importanti, che ci sono milioni di modi diversi per dire una cosa.
Tra parentesi aggiungo che il complimento più bello che m’hanno fatto in twitter è stato un tweet di @ginetta1976 che m’ha scritto:
@carlogabardini ma come fai a scrivere tutta questa roba in un tweet? Per me bari, il tuo #Twitter ha più di 140 caratteri!
Ovviamente per abbreviare c’è chi usa mezzi illeciti (anch’io a volte lo faccio, anzi: molto più spesso che non “a volte”): come il fantastico mondo delle abbreviazioni, togliere gli spazi dopo la punteggiatura, storpiare parole, fingere refusi che - guarda caso - sono sempre in sottrazione. E questo è meno interessante. Anche se vorrei aggiungere:
4. Infrangere le regole a volte crea nuove regole migliori.
E faccio un esempio stupido e un po’ ignorante al quale però tengo molto, anche se volendo nega il mio stesso Punto 4.
Combatto su twitter una mia personale battaglia per rendere accettabile – al posto di NON - la grafia nn. Vi tranquillizzo subito: la sto perdendo di brutto, perché comprensibilmente la massa è conservatrice. Mi piace la grafia nn perché la trovo arabeggiante, rapida e soprattutto è di immediata comprensione e univoca. (Poi effettivamente ha anche un carattere in meno e per noi twittatori questo è importante.)
Ma la cosa interessante non è tanto la mia stupida presa di posizione, è il confronto. Dalle prime volte che ho scritto nn, centinaia di persone si son prese la briga di dire la propria: “è vietato”, “sei pazzo”, “è scorretto”, “fa schifo”, “stronzo”, “come ti permetti”, “BASTARDO!”. Ne è nato un piccolo dibattito. Perché se scrivi una cosa su twitter, gli altri leggono, ci pensano e poi di solito contestano, oppure propongono, smettono di leggerti, si offendono, approvano. Quindi…
5. Si scrive per QUALCUNO, non per sé.
Ecco, questa cosa in twitter è lampante. Il feedback a volte è in tempo reale.
Mi è capitato di scrivere tweet che mi sembravano bellissimi, e invece nessuno li retwittava, e io mi arrabbiavo moltissimo. Pensavo: “Questi non capiscono niente” e poi immancabilmente, tutte le volte, rileggendo il mio tweet ero costretto ad ammettere che fosse poco comprensibile o fraintendibile o effettivamente contorto. Insomma, sostanzialmente mi rendevo conto che era semplicemente scritto male, che era colpa mia. Ecco, twitter sbassa il tuo ego, o perlomeno il mio.
6. Per imparare a scrivere non c’è che scrivere.
E twitter ti spinge a scrivere. In realtà fa di più: rende pubblico il tuo scritto, a tutti. Twitter è pubblicare. Ogni tanto penso che con un tweet potenzialmente posso raggiungere 7 miliardi di persone. Anche se ho solo 3 followers, cioè tre seguaci-lettori, se ognuno di loro lo manda ai propri followers che a loro volta lo mandano ai loro followers, idealmente si può arrivare a tutti. E’ un paradosso, perché ovviamente non tutti hanno accesso diretto a internet, c’è la questione della lingua, eccetera. Però, per quello che riguarda la distribuzione, io che a casa mia scrivo due righe, premo invia e posso arrivare a essere letto da tutto il mondo mezzo secondo dopo, è una cosa che fa tremare le vene e i polsi. È un po’ lo stesso passaggio che avvenne dai manoscritti all’invenzione della stampa, o forse un po’ di più.
Ecco, a questo punto forse bisognerebbe parlare di Internet - perché questa cosa della distribuzione non è solo di twitter - e la cosa si fa troppo dura, troppo vasta. Non ne sono in grado. La scrittura forse no, non ancora, ma la sua fruizione è completamente cambiata e soprattutto la sua distribuzione. E non si può far finta di non accorgersene. In nessuna altra epoca si è mai scritto così tanto. MAI come oggi così tante persone scrivono e rendono accessibili le proprie scritture.
Vabbè, arrivato a Internet, mollo il colpo. Ed esco nuovamente dalla numerazione, perché bisognerebbe dire ancora che twitter è anche scrittura in diretta; il livetwitting, cioè twittare durante un evento, è condivisione di opinioni, dialogo, montaggio di scritture. Personaggi che dialogano in una sorta di compresenza virtuale. Chi agisce-scrive e chi osserva-legge, seppur fisicamente in luoghi diversi, sono idealmente nello stesso luogo e nello stesso momento e possono comunicare. Twitter ha a che fare con il teatro. Twitter è guardare uno spettacolo assieme a milioni di persone, commentandolo come si faceva una volta al bar. Twitter è il più grande bar del mondo perché ha miliardi di posti a sedere e si parla solo per iscritto. Twitter ti ricorda che quando scrivi non sai mai in che luogo e in che stato d’animo sarà chi ti legge. Twitter ti mostra che quello che scrivi si inserisce in un discorso iniziato prima da altri e che proseguirà dopo e senza di te.
Poi ci sono un sacco di comprensibili obiezioni.
Ne cito due che si è già fatto tardi.
“Ma Carlo, su twitter ci sono milioni di persone, come fai a seguire tutti?”
Semplice: NON seguo tutti. Leggo chi mi va di leggere. A me personalmente viene più ansia in libreria. Dovremmo chiudere le librerie perché nessuno sarà mai in grado di leggere in una vita anche solo l’intero catalogo Mondadori? Io credo di no.
“Ma Carlo, su twitter c’è chi scrive cose orribili, stupide, inutili, volgari, porno, sgrammaticate!”
Vero. Twitter è un mezzo, e il mezzo di per sé non è né buono né cattivo. Twitter è un mezzo come la carta stampata. Io personalmente non penso che siccome anche Hitler e Scilipoti hanno scritto dei libri, io dovrei smettere di leggere libri.
Twitter ti insegna che non è dal numero di follower, cioè di lettori, che si giudica uno scrittore. Twitter mostra che scrivere è trovare una propria voce e che se la tradisci i tuoi lettori se ne accorgono subito. Twitter ti fa capire che non puoi piacere a tutti. Twitter ti fa toccare con mano che scrivere può diventare una droga.
Twitter poi è l’invenzione di un simbolo, HASHTAG, che è sì indicizzazione, tema, chiave di ricerca; ma, come direbbe un giovanotto oggi, l’hashtag è tanta roba, proprio TANTA ROBA: è titolo, può essere negazione di ciò che si è appena dichiarato, è sottolineatura, corsivo, accento, gioco, ribaltamento. Insomma, hashtag è una soluzione che arriva da un altro mondo.
Finisco con un’ultima cosa. Direi che la mia lotta con la scrittura è mostrata chiaramente dal magma caotico di questo mio intervento. Io credo che scrivere sia sempre TENTARE DI SCRIVERE. Per questo convegno avevo scritto dei decaloghi che erano molto più precisini, con tutte le parole del caso: per intenderci, finivano mettendo al punto 10: “L’unica regola è che non ci sono regole”. Ma mi facevano schifo, tanto quanto il decalogo che ho scritto ora, con l’unica differenza che questo risponde meglio a ciò che penso sia la scrittura: mostrarsi nudi e abbassare le difese.