ateatro 142.41 1/25/2013 #bp2013 C’è del marcio in quell'occupazione? Alcune provocatorie note sul futuro del Teatro Garibaldi di Palermo di Matteo Bavera
Premetto che ho pareri diversi sulle modalità e sul senso delle diverse occupazioni teatrali in Italia e che su tutte stimo quella di Catania, dove un gruppo di artisti si è appropriato di un teatro fantasma e lo sta ricostruendo con le proprie mani.
Né appare risolutiva l’occupazione del Teatro Valle, che sembrerebbe la più compiuta ed efficace, anche per condizioni territoriali e di diffusione artistica che garantiscono una programmazione più alta, ma che non ha partorito che il topolino della “Fondazione” come strumento innovativo e di gestione dei Teatri, e che una volta ottenuta la garanzia che il teatro non diventerà un ristorante ne dovrebbe discutere chiaramente il futuro, aldilà delle riverenze con il sindaco Alemanno.
In generale non mi piace vedere scomparire la condizione “minoritaria” che il teatro si è conquistato in questi anni di solitaria resistenza e opposizione alla deriva televisiva e politica. Che cosa si può essere se non “minoritari” nell’attuale società della politica-spettacolo? Si può candidare Barbareschi al parlamento… ma non sarebbe mai stato possibile convincere Carmelo o Leo!
I Teatri Occupati, lontani dall’essere rigorosi luoghi di ricerca, di isolamento e soprattutto di formazione, rischiano inconsciamente di ribadire l’assioma narcisistico e superficiale del periodo più buio della cultura nel nostro paese, puntando chiaramente verso la ricerca di un consenso, troppo spesso, decisamente banale, che non seleziona quasi più alcuna qualità.
Non è casuale che i giornali, dopo aver relegato la critica teatrale a una barzelletta settimanale, abbiano cavalcato e cavalchino questo fenomeno di moda solo in Italia.
Non sfugge a questa dinamica neppure il glorioso Teatro Garibaldi di Palermo alla Kalsa ,già Teatro d’Europa, chiuso per lavori, da anni in attesa della sua riapertura al grande mondo del Teatro Europeo, occupato da nove mesi. Il suo paradigma potrebbe essere un testo come quello che segue, nel concerto di uno dei cantautori più apprezzati dal pubblico.
“Resto sveglio a notte fonda il giorno non arriva mai, tornano in mente tutti i miei sbagli ne ho fatti tanti e tu non lo sai, ho paura di svegliarmi e di scoprirti ad andar via, di non amarti mai abbastanza… e che sia solo compagnia… ma mentre dormi ancora un po’ sto alla finestra e guardo tutto sembra vivere nel blu… tutto è così bello niente più lo intaccherà sembra quasi felicità ,felicità … ho paura del futuro… e del presente che se ne va…delle scelte che mi faccio delle mie responsabilità… ma mentre dormi ancora un po’ sto alla finestra…
Io però non voglio giudicare che la parte teatrale dell’occupazione di piazza Magione, ne so troppo poco di questa musica avveniristica dove basta infilarsi una maschera di latex.
Voglio invece provare a raccontare l’immagine che mi si è materializzata, frequentando la rete e parlando con tanti uomini e donne di teatro, di un’occupazione che è sempre scesa furbescamente a patti senza mai diventare reale antagonista.
Prima, ingannando un commissario comunale che concesse generosamente la sala per tre giorni, poi con il perizoma di un'assemblea permanente che doveva garantire i diritti democratici dei sedicenti lavoratori dello spettacolo, infine con le contraddizioni e le fragilità della politica di questi ultimi anni.
Diciamo subito che per l’occupazione era stata convocata un'ala “militare” dei centri sociali di Palermo, qualcuno abituato a resistere e opporsi agli sgomberi se la lotta si fosse fatta dura e pura. Non esistendo però, per fortuna, alcuna opposizione poliziesca, di genovese tragica memoria, l’ala militare si accorse dell’inutilità della propria presenza e lasciò il campo velocemente ai meno belligeranti colleghi.
In realtà, l’ho già detto coloratamente, l’assemblea era poco meno che una foglia di fico da opporre all’opinione pubblica, quando invece tutte le decisioni erano prese da un direttorio, questo sì ben coperto e abbigliato.
L’assemblea è stata per un po’ lo sfogatoio e il miraggio di molti che hanno creduto in buona fede al percorso o ai proclami del collettivo e ai suoi interessi artistici ben individuabili, un luogo dove chiunque poteva proporsi e per un poco essere accettato nella schizofrenica programmazione della prima fase.
Ma a un certo punto le teste pensanti dell’occupazione pensarono, e pensarono che fosse bene dotarsi di una programmazione. E qui la retorica della denominazione comincia a diventare comica: “Bastardi” e “Orfani per desiderio”, due titoli ripetitivi ma di differente gusto per accontentare tutti i palati.
La prima rassegna è appannaggio degli artisti occupanti, la seconda viene realizzata attraverso un bando pubblico, più o meno. Minimo garantito di 200 € se l’incasso fosse stato inferiore. Se la serata, invece, fosse diventata un forno, niente di tragico: i proclami di scrittura rivendicavano il diritto al fallimento, artistico e di botteghino. Lo scacco era preventivato e inglobato nei piani di battaglia, tacitando così qualsiasi velleità critica o dissenso per la scarsa della promozione.
La critica è però importante per vendere o per avere conferme su sé stessi. Si organizza quindi un convegno di “Critica Militante”, cui qualche buon esegeta del teatro aderisce con entusiasmo e buona fede, tranne poi essere censurato sui blog degli organizzatori per recensioni sgradite, che mettessero il dito nella piaga del progetto culturale ed artistico.
Accanto a tante lodi per gli occupanti e un riferimento - non certo apprezzato - alle passate sontuose produzioni shakespeariane, Andrea Porcheddu annota: “Spettacoli forse ingenui, certo affrettati”. Nessuna traccia di questa seppur piccola e benevola critica risulta pubblicata sugli organi d’ informazione alternativa del gruppo.
Lavoratori dello spettacolo, si proclamano poi velleitariamente… ma dove sono i diritti di questi lavoratori? Dove sono i contributi e le previdenze che garantiscono questi lavoratori dagli infortuni e formano la base per usufruire delle poche lire dell’agognato “chomage” francese, il nostro povero e vergognoso sussidio di disoccupazione, o quel che ne rimane, che lo stato italiano concede ingenerosamente ai lavoratori dello spettacolo?
E i diritti d’autore? Roba vecchia: i diritti di chi scrive o compone sono un furto, quindi non li paghiamo! Prezzo politico del biglietto d’ingresso? 3 o 4 o 5 € al massimo a spettacolo sembrerebbe un prezzo giusto e praticabile.
In realtà si tratta del margine che qualsiasi Teatro, quando gli va bene, riesce a portare a casa, facendo pagare 15-20 € di ingresso, visto che qui non esistono Enpals, Inps, Inail, luce elettrica, Siae o ex Siae né tantomeno i costi del personale a vario titolo.
Chi gestisce un teatro sa bene,però, quanto queste spese incidano sulla gestione. Nella migliore delle ipotesi, se non ci fossero conseguenze penali, la potremmo chiamare concorrenza sleale.
Ma passiamo sopra tutto questo. Chiediamoci: qual è il progetto?
Scrivono, i nostri, dopo nove mesi di occupazione (anche se… bisognerebbe fare la tara su queste mensilità,visto che nel mese d’agosto hanno concordato le ferie e per Natale si sono ben guardati dal lasciare sole le proprie accoglienti famiglie siciliane. Inutile ricordare i mesi torridi di tanti mei d'agosto, quando rimanevamo chiusi al Garibaldi giorno e notte con Cecchi, e Latella o per venire a capo di un montaggio di Warlikowski, a proporre capolavori che duravano nel tempo. Quali sono i capolavori di questi nove mesi? Qual è il parto artistico?Chi li ha visti? Dove sta la forza creatrice e rigenerante di chi rifiuta i maestri per offrirsi come “bastardo” alla creazione?)
Scrivono, dicevo, una lettera ricattatoria e farneticante di cui riporto pochi tratti:
“Se il merito è oggi divenuto, in ogni campo lavorativo e soprattutto del sapere, il grimaldello utile ad ogni politica escludente, a esso va contrapposta la necessità di un reale allargamento della base dei diritti e delle possibilità. Innovativo nel nostro campo è per noi tutto ciò che riesce a muoversi e creare fuori da contingenze politiche e relazioni di potere gerarchico.”
Niente è più falso di questa affermazione! L’Italia è il paese europeo dove meno si verticalizzano le professionalità e i livelli qualitativi raggiunti dai non raccomandati, ne sono testimonianza l’emigrazione culturale e la fuga delle teste pensanti ,e certo queste affermazioni superficiali sono cosa ben diversa da quello che scriveva Don Milani a proposito dell’esclusione culturale…
E infine la balla più grassa che rivela l’obiettivo indicibile:
Diventare un Centro di Produzione Indipendente aperto a tutte le discipline in maniera trasversale, per rappresentare un palco aperto alle realtà del territorio, e ospitare quelle forme di manifestazione artistica che non troverebbero altrimenti visibilità in questa città.
Ecco: la questione è la visibilità, la garanzia di un palcoscenico per chiunque, la negazione di ogni verifica professionale e tecnica, qualche cosa che somiglia inverosimilmente alle caratteristiche per diventare uomini politici o far facile carriera nella “Cosa Pubblica” .
Dove sono le proposte affinché il teatro diventi, come in molti paesi d’Europa, un fatto realmente sociale e culturale, dove siano messi in campo sistemi di formazione, accanto alla stabilità del lavoro dell’attore, seppur in una mobilità artistica che non è mai disgiunta da altissimi valori espressivi, anche nei Teatri liberi e sperimentali? Dove sono i modelli proposti se non quelli di una deregulation delle professioni del Teatro, soprattutto dei registi e degli attori?
E dove sono, infine, queste modernissime contemporanee forme espressive trasversali che altrimenti non si vedrebbero in città, come se nel teatro occupato si praticassero, tutti i giorni, forme d’arte miracolose e talmente innovative da essere rifiutate da tutte le altre stupide strutture teatrali e culturali? In verità non mi sono mai accorto di direttori di teatro e operatori culturali, anche disonesti, che si siano lasciati sfuggire qualche talento che gli capitava tra capo e collo, nella moltitudine che, secondo gli occupanti, la nostra città ne produce.
Facciamo dunque finta che i Nostri non abbiano mai dichiarato in tutte le istanze che non erano interessati a prendersi il Teatro Garibaldi con la forza. Facciamo finta che un teatro con 100 posti agibili possa rispondere a queste idee di grandezza distributiva e produttiva e continuare a violare all’infinito tutte le leggi. Facciamo ancora una volta finta di credere alla loro buona fede come se non sapessimo che sono da sempre in trattativa per ottenere qualcos’altro …
Facciamo finta di non sapere che - mentre proclamavano l’uccisone dei padri - si sono fatti tutti comprare da un “patrono” del Teatro Biondo, consegnandosi, senza l’onore delle armi e per pochi spiccioli, a un teatro nato morto, tra le spire di un inventore che ha sempre mortificato le migliori realtà teatrali della città. Come se non aspettassero che questo mortale abbraccio, non avendo avuto l’orgoglio di presentare le opere migliori nel loro Teatro, investendovi invece in questi mesi, soltanto in laboratori, abbozzi e lacerti di teatro, riservando al più potente compratore gli spettacoli finiti e di valore.
Ma dove sono i semi di questa progettualità, innovativa e giusta? Dove sarebbero i tratti di questo modello includente, spacciato durante questi mesi di occupazione, quando i blog sono pieni di artisti esclusi secondo criteri che ritengono totalmente arbitrari? Dove sono finiti e dove si sono visti gli interlocutori culturali, distributivi e organizzativi, gli impresari europei e nazionali, affinché la recita non si trasformi in una pochade?
Neanche una nuova denominazione d’origine di se stessi, sono riusciti a confezionarsi addosso in nove mesi! Faceva più comodo appoggiare un minimo di audience sulle stagioni gloriose del Teatro Garibaldi Libero, approfittandone del nome della fama e del prestigio?
Di certo sono stati praticati metodi di omertà culturale, a cominciare dalle incertezze della programmazione, dalla mancata comunicazione degli spettacoli o dei concerti annullati, dalle dinamiche della composizione del gruppo degli occupanti stessi, che non ha certo la compattezza originaria, dai rapporti con gli abitanti del quartiere.
Eppure quella piazza, in quattordici anni di “Teatro Garibaldi Libero”, aveva imparato a sussurrare durante gli spettacoli, a far portare i motorini spenti, ad accettare la chiusura della via Castrofilippo, prima - e forse ultima - isola pedonale cittadina. In diagonale c’era lo Spasimo, che per fortuna ha riaperto: il dialogo tra questi avamposti dava il segno dell’importanza della cultura per qualsiasi forma di riscatto sociale. Una zona un tempo off limits vedeva spettatori di mezzo mondo frequentarla, e si realizzava il sogno del riscatto dei ruderi, anche umani, della città vecchia, che Franco Scaldati aveva cantato, e canta, per tutta la sua opera. Accanto al pressoché integrale restauro delle abitazioni circostanti, attuando un vero e proprio miracolo urbanistico, che desse senso Civile compiuto alla presenza di un Teatro.
“Un tribunale è diventato il Garibaldi”, mi comunicava sconsolato Franco Scaldati, dopo un ultimo e amichevole recital davanti a una quindicina di spettatori convenuti verso la fallimentare programmazione del collettivo: tutto esaurito per i cantautori e le lezioni di tango, ma tragicamente senza pubblico per i poeti veri.
Mentre scriviamo, la programmazione è ritornata alla sporadicità e all’improvvisazione di quel che offre il mercato dell’autoreferenzialità e il teatro “occupato” diventa sempre più un teatro “fuori servizio”.
Ma soprattutto, contrariamente all’apertura posticcia che affermano gli occupanti, senza nessuna coscienza di quanto quel teatro sia stato tradito e offeso dagli scellerati lavori di recupero, l’occupazione ha solo ritardato di altri nove mesi la vera riapertura del Garibaldi, tenuto conto che i lavori non sono finiti e che l’attuale amministrazione è pronta a completarli una volta per sempre, per riconsegnare realmente il teatro alla città.