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ISSN 2279-9184

ateatro 142.16
12/13/2012 
Il Vangelo secondo Odemà
Una conversazione con Enrico Ballardini, Giulia D’Imperio, Davide Gorla
di Mariacristina Bertacca
 

Enrico Ballardini, Giulia D’Imperio e Davide Gorla sono fondatori e factotum della compagnia Odemà, nata ufficialmente a Milano nel 2009, e caratterizzata da un lavoro a sei mani, nel quale si intrecciano sperimentazione, artigianalità, gioco e improvvisazione. Fino a oggi i tre attori-registi-drammaturghi hanno dato vita a due spettacoli: A tua immagine (2009), segnalazione speciale al Premio Scenario 2009, successivamente vincitore del Premio dello Spettatore 2010 di “Teatri di Vita” (Bologna) e della rassegna Argot Off 2011 (Roma); Mea culpa, ovvero della Giurìa e dell’Ingiùria (2012), presentato in prima nazionale al Kilowatt Festival di Sansepolcro, e adesso al debutto milanese presso il Teatro Crt Salone dal 18 al 23 dicembre 2012. La ricerca artistica in continuo movimento della compagnia prosegue in parallelo ad altri progetti: da citare almeno Sabato, domenica e lunedì… nero, uno spettacolo di teatro-canzone con brani inediti di Enrico Ballardini e Stefano Zaninello; Educazione fisica (2011) al fianco di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco; Modì. Musica(l) per anime a colori (2012), in coproduzione con Tiktalik Teatro, per le musiche e su libretto del musicista Gipo Gurrado.
Enrico, Giulia e Davide mi hanno rilasciato questa intervista il 6 novembre 2012, presso il Palazzo delle Stelline di Milano.


Enrico: Lavoriamo insieme ormai da un po’ di tempo. Davide e io abbiamo cominciato a collaborare nel 2005, poi nel 2008 si è unita Giulia per lo spettacolo A tua immagine. Dall’inizio della nostra ricerca artistica abbiamo confezionato tre spettacoli, di cui soltanto due come Odemà. Ognuno di noi ha anche percorsi di lavoro e di vita diversi ma Odemà è la nostra associazione, il nostro punto di ritrovo, nel quale poter realizzare ciò che non riusciamo e/o non possiamo realizzare altrove. È come una valvola di sfogo…
Lavoriamo come attori anche con altre compagnie, e capita talvolta di non essere d’accordo con una scelta registica o drammaturgica o altro. Alcune di queste scelte invece possono essere condivise, quindi proviamo a portarle all’interno della nostra “isola felice” (anche se poi sempre così felice non è). Per noi è un luogo di creazione e di sperimentazione. Abbiamo coscientemente deciso di non avere una figura registica, ci piace lavorare insieme, dunque per il momento abbiamo sperimentato questa metodologia artistica. Anche se la nostra ricerca non si è ancora fermata, e continuiamo a sperimentare nuove metodologie e nuovi linguaggi: ci sono lavori in cui Giulia e io ci siamo avvicinati al teatro-canzone, così come Davide porta avanti altri progetti…



A tua immagine.

Giulia: Sì, Davide si occupa per esempio di lavori teatrali che hanno a che fare con la divulgazione scientifica e con l’alimentazione sostenibile. Noi tre ci accompagniamo, ma non siamo esclusivi, un po’ come in un rapporto di coppia ideale. Tu stai con una persona perché decidi di stare con quella persona. È una scelta, non è una chiusura. Noi cerchiamo di portare nella “coppia”, ossia nella compagnia, degli spunti creativi che talvolta assimiliamo in altri contesti. In ciò sta la nostra avanguardia! Non abbiamo deciso a priori di costituire una compagnia: la nostra associazione è nata grazie ad uno spettacolo, ed è stata proprio l’urgenza di fare quello spettacolo che ci ha portato a dire: «Ok, dobbiamo lavorare insieme e trovare un nostro metodo di lavoro!».

Enrico: In realtà ancora adesso chiamarci “compagnia” suona curioso. Noi siamo una compagnia in quanto compagnia di amici. Davide e io ci conosciamo da più di dieci anni, io ho cominciato a seguire i corsi di teatro che seguiva anche lui. A un certo punto abbiamo deciso di mettere su qualcosa insieme. Ma per fortuna abbiamo anche idee differenti sulla messa in scena, sulla drammaturgia… Si hanno discussioni a volte anche molto accese. Poi, essendo solo in tre, per il momento stiamo riuscendo a mettere in pratica una specie di democrazia reale.

Davide: Cerchiamo di attuare una sorta di regia collettiva a tre, cosa non facile visto che comunque abbiamo tre modi di ragionare e di stare in scena differenti: non è per niente semplice amalgamarli e farli convivere. Il risultato è ciò che si vede in A tua immagine e in Mea culpa. Poi ci sono altre due produzioni Odemà: L’anno in cui il mondo finì e Modì, che vede anche altri artisti in scena. La scelta di non avere un regista che prenda una decisione finale significa doverci accordare ogni volta e capire che cosa funzioni per tutti e tre. Ma quando hai scadenze e tempi di produzione, questo accordarsi diventa oggettivamente difficile. Però i risultati che abbiamo avuto dai due spettacoli ci piacciono: ci piace l’energia che troviamo nella scena e nello stare in scena.



Mea culpa.

Il vostro è un lavoro collettivo, un lavoro quasi corale, in cui però il “coro” non soffoca le vostre individualità, direi anzi che le esalta. Mi piacerebbe poter riflettere un po’ con voi su questo tema: il teatro come “coro”, come collettività che non annienta le peculiarità del singolo individuo. Un tema peraltro importante se riferito alla nostra società attuale, in cui accade l’esatto contrario e si tende sempre di più alla massificazione, all’idea che non possa né debba esistere l’individuo che esce dal “coro” (in questo caso con significato dispregiativo e limitativo). Ed è un tema estendibile – se vogliamo – anche alla religione intesa come istituzione di potere (tema che voi affrontate nei due spettacoli Odemà): tanto per fare un esempio, ai tempi dell’Inquisizione, il “diverso” veniva messo al rogo…

Giulia: In realtà non si tratta di uno stile né di un tema strategicamente pensati. Soltanto adesso possiamo dire che la strada che stiamo seguendo comincia a diventare una metodologia, e anche gli obiettivi che stiamo toccando. Per noi il pubblico è importantissimo, non vogliamo fare un teatro criptico e incomprensibile, non ci interessa un lavoro artistico a prescindere da quello che potrà pensare chi lo vede.

Enrico: Per noi è molto importante l’espressività, l’espressione artistica, ed è altresì importante la comunicazione, l’espressione comunicativa. Ma visto che hai parlato del tema religioso, beh, la religione è in qualche modo una convenzione così come lo è il teatro. Abbiamo provato a mettere in luce questa convenzione e a disgregarla, per porre l’attenzione su questo argomento.



Mea culpa (foto Luca Del Pia).

Davide: In effetti, dai testi che abbiamo letto e che abbiamo voluto portare in scena, è emerso che queste convenzioni sono dinamiche di potere: in un certo senso religione, famiglia, stato sociale, giustizia, senso di colpa… sono modi di preservare un potere, dunque ci interessava mettere in luce questa dinamica. Di fatto, i sistemi di potere predominanti sono anche i metodi sociali che hanno avuto successo nell’evoluzione dell’uomo. È difficile prescindere da una formazione bimillenaria che ci appartiene, anche nel momento in cui si hanno pensieri o modi di vedere, che sono o che sembrano nettamente in contrasto con la prospettiva della società e della religione. A tua immagine vuole dire all’uomo «Hai creato un Dio a tua immagine e somiglianza».

Enrico: Vivendo in questa società, questi temi ci appartengono, ne siamo in qualche modo schiavi. La nostra idea è quella di prenderne coscienza prima noi stessi e poi – attraverso i nostri spettacoli – ricordarlo alle persone che ci vengono a vedere.



Mea culpa (foto Luca Del Pia).

Giulia: Noi non facciamo teatro per portare un messaggio assoluto. Noi desideriamo andare incontro a una tematica, e il modo attraverso cui lo facciamo è quello del teatro. Ci mettiamo in uno spazio e cominciamo a “giocare”. Nel caso di questi due lavori abbiamo avuto un testo da cui partire, ma non ci dispiacerebbe l’idea di trovare situazioni di improvvisazione che possano condurci solo in seguito ad un testo, o anche a spettacoli muti, perché no?

Enrico: E poi, dal momento che noi “giochiamo” molto sulla messa in pratica, alcune cose ci vengono in mente direttamente sulla scena, quindi anche il testo si modifica. Non partiamo quasi mai da un’idea che vogliamo comunicare, spesso scopriamo le idee agendo.

Giulia: Nel caso di A tua immagine siamo partiti da un testo che abbiamo scoperto grazie a Davide: si tratta del Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago, che ha rappresentato una forte ispirazione per noi, e da cui Davide ha sviluppato un progetto drammaturgico originale, con brani tratti da Milton, Goethe, Pessoa. In questo modo abbiamo cominciato il nostro cammino. Nel caso di Mea culpa, partendo dalla nostra esperienza precedente e dopo una serie di letture mirate, Enrico ha scritto il testo e insieme abbiamo lavorato alla drammaturgia, anche se poi la messa in scena corre su un binario parallelo.



Mea culpa (foto Emanuele Girotti).

Davide: A volte la scelta attoriale/registica è diametralmente opposta rispetto a quella suggerita dal progetto drammaturgico. A tua immagine ci pone di fronte a personaggi piuttosto “pesanti” (Dio, Gesù e il Diavolo), quindi abbiamo cercato di seguire una direzione totalmente agli antipodi rispetto all’idea che ti suggerirebbero gli stessi personaggi coinvolti, proprio per spostare le convenzioni. Gesù diventa un impiegato bancario, Dio è una vecchiarda libidinosa, e il Diavolo è un “povero diavolo”…

Giulia: In occasione di una delle prima letture di A tua immagine, ho cominciato a seguire il lavoro che stavano facendo Enrico e Davide, poi è venuta fuori l’idea di farmi interpretare uno dei tre personaggi, nella fattispecie Dio. A quel punto ho iniziato a guardarmi intorno con attenzione, alla ricerca di personaggi che potessero avere una lucidità divina, e li ho trovati realmente: per esempio il pazzo di turno sui mezzi pubblici che parla da solo e racconta tutta la sua vita, di fronte al quale mi chiedo «Chi lo dice che non stia davvero dicendo una verità? Che i suoi discorsi non provengano da un suo profondo senso religioso?». Il nostro Dio ha preso le vesti di una vecchia, che ha però un’energia giovane, senza ritegno, la solita che si vede talvolta nelle persone anziane, nei bambini e nei pazzi: il nostro Dio “umano” ce lo immaginiamo così, all’immagine dell’uomo che lo ha creato e lo ha voluto a tutti i costi.

Davide: In Mea culpa questo Dio ha a che fare con i nipoti del suo primo “lavoro”, ossia Caino e Abele, ed è interessante secondo me la ricerca che abbiamo fatto sui personaggi: se non fosse per un paio di battute, fino in fondo non sarebbe del tutto chiaro su chi sia Caino e chi Abele. Da un lato abbiamo un Caino reietto dalla società, perché ha idee che lo portano a trovarsi contro il comune pensare. Dall’altro abbiamo un Abele che sembrerebbe personificare il bene in tutto e per tutto, e invece, oltre a essere il riflesso di una borghesia benestante, è una persona orrenda.

Giulia: E alle spalle di tutto c’è questo Dio che vuole giocare con le cose e con le persone: avanza una proposta a uno, trova alleanza con Abele, e poi fa finta di non vedere più niente, al punto da chiamare una giuria (che poi di fatto è lui stesso). In definitiva raccontiamo la solitudine di questi personaggi, lo stesso Dio vive da emarginato in una sorta di storia d’amore non vissuta…

Enrico: Ci preme molto questo tema, perché la solitudine dell’essere umano ha creato tutta una serie di convenzioni, è quel vuoto che ha portato alla creazione di un Dio per non sentirsi soli nell’Universo. Deve sempre esistere una coppia, una famiglia... E questa idea dell’abbandono è come un herpes che non riesci a mandare via, ti appartiene da quando nasci [solo], a quando muori [solo]. La paura della solitudine è la grande debolezza, che ci spinge a cercare sempre un rimedio di qualunque tipo.

In questi due lavori dedicati al tema religioso, affrontate questioni molto delicate, e soprattutto rappresentate Dio sotto una veste assai diversa da quella canonica: una donna arrogante, schizofrenica, bramosa di dominio e distruzione, capace di sacrificare il suo stesso figlio pur di espandere e sancire il suo potere incontrastato. Alcuni hanno letto i vostri spettacoli come manifesti per gli atei. A me sembra invece che voi non vogliate rappresentare la religione in modo assoluto, ma vogliate riflettere la religione così come viene mediata dall’uomo. E quindi nei vostri spettacoli si manifesta sia quel tipo di religiosità sfruttata per confermare e perpetrare un potere (stragi, inquisizioni, crociate…), sia quel tipo di bigottismo che ha pervaso l’individuo al punto da divenire esso stesso una costrizione volontaria, una gabbia di costrizioni mentali.

Davide: Ma infatti noi non vogliamo distruggere l’istituzione per dimostrare che non esiste, anche solo perché non possiamo prescindere da due millenni di costrizione, ma anche evoluzione, della società. Cerchiamo di mettere in luce un aspetto senz’altro critico, in parte – sotto molti punti di vista – sovversivo, ma si tratta di un invito alla riflessione.

Enrico: Peraltro, figuriamoci se vogliamo metterci a discutere sulla fede di ciascuno, è una cosa talmente personale, talmente individuale… Già noi tre abbiamo punti di vista religiosi diversi, e mi piace parlare di religione intesa come qualcosa di ampio: per me Dio potrebbe essere l’Universo dove niente si crea e niente si distrugge, la Natura con cui mi relaziono quotidianamente perché ne faccio parte… Non vogliamo limitarci a ciò che ci hanno sempre raccontato fin da quando eravamo bambini, noi andiamo a spulciare tutte quelle incongruenze, quelle contraddizioni che – come hai detto tu – ci ingabbiano in concetti e preconcetti. Tant’è vero che in Mea culpa abbiamo proprio cercato di dare questa idea di gabbia invisibile attraverso le parole: le battute sono in versi, una forma chiusa, e i personaggi possono parlare solo in forma chiusa, come se in effetti si trattasse di una gabbia mentale. Nel momento in cui uno dei personaggi sceglie di uscire dalla “gabbia” verbale, ci riesce e spiazza tutti, spiazza gli altri personaggi e il pubblico che è diventato giuria.

In effetti vedo i vostri spettacoli come un modo originale di riflettere su alcuni temi e dubbi che la religione si porta con sé, in quanto dottrina del “mistero” e del non dimostrabile in termini empirici: lotta tra bene e male, libero arbitrio e inevitabilità del fato, religione e potere…

Enrico: Quello che abbiamo scelto di fare è trovare un argomento che tutti conoscessero, per permettere a tutti di rifletterci intorno. Si sa di che cosa si parli, si conoscono i personaggi che portiamo sulla scena, e in questo senso possiamo ripresentarli, possiamo fare una destrutturazione di ciò di cui siamo stati indottrinati. Per adesso abbiamo affrontato questo argomento, ma è uno dei tanti. Nei prossimi lavori, chissà…

Giulia: C’è anche da aggiungere che noi, non avendo uno spazio ufficiale dove provare, ci stiamo confrontando artisticamente con questo periodo di crisi, e cerchiamo di trarne qualche spunto. Per esempio Mea culpa è stato coprodotto da Kilowatt Festival (Sansepolcro); noi ci eravamo iscritti al bando del 2011, abbiamo conosciuto il direttore del festival Luca Ricci, che poi ci ha chiesto di fare un lavoro insieme e ci ha trovato un debutto al Kilowatt del 2012; rimaneva però il problema dello spazio… Dopo aver cercato invano delle residenze, abbiamo chiesto a Palermo, una città che frequentiamo spesso per alcuni progetti con Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, e al Teatro Garibaldi Aperto siamo stati accolti in questa nostra richiesta. Mea culpa inizialmente era stato provato con pochi risultati in uno spazio di Milano cedutoci da un amico; poi siamo arrivati a Palermo e nel giro di una settimana con quello spazio, con quei mezzi, e con gli oggetti che abbiamo trovato lì (la scala, il bidone, la sedia), abbiamo messo su lo spettacolo. Anche in questo senso siamo “bastardi”, non abbiamo né casa né padre: e infatti siamo stati invitati nella neonata rassegna Identità Bastarde, un festival ideato dagli occupanti del teatro, durante il quale abbiamo presentato il nostro lavoro. La mancanza di spazio ci porta a vivere un momento di difficoltà, e non abbiamo nemmeno una “casa” che ci distribuisce. Abbiamo invece delle dimore occasionali, “case” di amici che ci ospitano: a Milano, il Comteatro di Claudio Orlandini e gli spazi di Quelli di Grock.

Davide: Come tantissimi altri artisti ci troviamo a fare autopromozione, e dobbiamo confrontarci con un lavoro che ha ben poco a che fare con il nostro mestiere. È rischioso perché ti risucchia, ti dà un’altra mentalità, e ti poni necessariamente sotto un’ottica commerciale, più di marketing.

Purtroppo la promozione e la ricerca di finanziamenti seguono le logiche di mercato: si devono avere un certo numero di produzioni annuali, un certo numero di repliche, nella propria zona, al di fuori del proprio territorio, ecc. È inevitabile porsi più in una dimensione di marketing…

Enrico: Noi vorremmo avere la libertà di fare il nostro lavoro creativo – che dovrebbe quindi prescindere da tutte le dinamiche economiche e di convenienza –, poter creare liberamente, anziché essere quasi costretti a mettere in scena i grandi classici come Shakespeare o Čechov. Sia chiaro, è sempre bello vedere i grandi autori, però il fatto che vengano fatti solo quelli… Se io devo continuamente pensare a che cosa richiami pubblico perché devo fare cassa, non potrò mai creare niente di nuovo, non rischierò mai, né presenterò mai qualcosa che ho appena creato, perché quella è la mia esigenza.

Penso che sia anche una questione di abitudine, di “educazione” del pubblico, di guadagnarsi la fiducia degli spettatori, di preparazione alla visione.

Enrico: Credo che il pubblico vada educato, ma ci sono alcune cose che sono universali: una cosa bella è bella per tutti. Noi non prescindiamo dal pubblico, a noi piace fare un lavoro chiaro, dunque utilizziamo un linguaggio conosciuto: quando un’opera è forte, arriva a tutti; quando mira ad essere universale, lo è per tutti, ovviamente se si tratta di una cosa di qualità.

Davide: L’altro giorno sentivo alla radio un musicista dello Zimbabwe: diceva che è molto più facile fare arte in Zimbabwe che in Italia, nonostante tutta la loro povertà. Nell’estate 2011 ho avuto la fortuna di andare a fare uno spettacolo in Cile, in Sudamerica: e lì ho testato questa cosa, in un paese che non è lo Zimbabwe, ma che in effetti ha una concezione del teatro molto più popolare. Ho presentato L’anno in cui il mondo finì, una rielaborazione del nostro primo lavoro, il teatro era pieno di gente di qualsiasi estrazione sociale che, incuriosita dalla rassegna, è venuta a vedere lo spettacolo: il teatro è stato riempito in entrambe le repliche. La rassegna era seguita sia dal borghese sia dall’abitante della favela, perché l’ingresso era gratuito in quanto finanziata totalmente dalla regione della città dove eravamo. C’è un’attenzione molto bella verso qualsiasi forma d’arte.

Enrico: Il giorno in cui ho deciso di fare teatro è stato quando ho conosciuto un nuovo tipo di teatro. Non ero stato educato o abituato, l’ho visto e me ne sono innamorato. Non è tanto l’abitudine al teatro, quanto un’abitudine alla sensibilità. Ma la sensibilità te la dà la società in generale. Tutto questo per dire che quando una cosa è di qualità, ed è bella, la si riconosce subito, che tu l’abbia incontrata prima o no. È così che nascono gli amori verso qualcosa, in questo caso per il teatro.

Anche secondo me si tratta di una questione di sensibilità, una cosa che in effetti manca. Ma purtroppo la sensibilità non si può insegnare, è qualcosa che si sviluppa e cresce in base alle nostre esperienze, in base a ciò che ci circonda, in base ad una educazione culturale ed emotiva nella quale trovi la tua formazione… E non dovrebbe essere una questione di “fortuna”: trovarti nelle occasioni di vita giuste al momento giusto. Dovremmo tutti avere un “diritto” alla sensibilità.

Enrico: In fondo la gente a teatro continua ad andare, anche se è sempre più chiusa in casa. Nel Cinquecento si andava a teatro perché era il luogo di incontro, mentre adesso tutto avviene dentro le mura di casa: abbiamo la tv, abbiamo Facebook, abbiamo la e-mail… Le cose si sono complicate per chi ha un lavoro che abbia a che fare con un pubblico reale, con un pubblico presente. Noi cerchiamo di portare avanti un tipo di teatro popolare, per questo parliamo di temi ai quali tutti possono accedere, usando un linguaggio che tutti possono comprendere… Il teatro richiede attenzione sì, ma ti pone anche in un luogo che facilita la concentrazione. Insomma, si deve concedere del tempo al teatro.

Giulia: È una finestra che si apre sul mondo. Anche io andavo a teatro e alcune cose non mi piacevano. Poi ho cominciato a vedere spettacoli che mi hanno portato a sognare. Vedendo tanto teatro mi è venuta voglia di farlo, di approfondirlo, di studiarlo, di sporcarmi le mani, senza rimanere esterna. Quanto al pubblico, è strano: una persona per un aperitivo spende anche dieci euro senza problemi, per il teatro no. Dunque mi chiedo: che cosa si deve fare? Ci dovrebbe essere un abbonamento teatrale gratuito? Oppure una specie di canone come con la televisione…

Enrico: Secondo me è perché non siamo più abituati a scegliere. Ormai ci hanno abituato a una condizione in cui c’è sempre qualcuno che decide per noi. Accendi la tv e non scegli che cosa guardare, guardi quello che c’è. Non è lo spendere i soldi, è lo sforzo di dover prendere una decisione. Siamo molto abituati a delegare ad altri: vado a teatro solo se mi ci porta la scuola, sento un concerto solo se me lo ritrovo in piazza gratis. Andare a vedere un concerto, uno spettacolo, un film, significa decidere e contribuire al mondo della musica, del teatro, del cinema. Significa fare una scelta, che non è una cosa da pigri, mentre quello verso cui ci sta conducendo la società è proprio essere sempre più pigri, più comodi, più propensi al comfort. L’unica cosa per cui siamo disposti a spendere è proprio la comodità…

Odemà, come avete dichiarato in un’altra intervista, sta per “Officina delle Mani”: evoca l’artigianalità del teatro, un luogo dove ci si “sporca” le mani, perché si plasma qualcosa come con la creta, talvolta fisicamente (penso alle scenografie, ai costumi e ad altre soluzioni sceniche), talvolta concettualmente (penso all’ideazione e alla costruzione dei personaggi oppure al plasmare il testo sulla scena, che ha comunque qualcosa di fisico in sé dal momento che le parole diventano gesto e corpo). Nei vostri spettacoli è in effetti sempre molto presente questa artigianalità, anche nel mischiare linguaggi diversi: varietà, cinema, avanspettacolo… I colori che prediligete sono colori quasi “seppiati”, che ricordano un certo cinema muto, alcuni vostri personaggi sembrano usciti dai film espressionisti, così come i giochi di ombre che si ripetono in entrambi i vostri lavori (in più di un’occasione ho rivisto il Gabinetto del dottor Caligari, per esempio). E a questo poi unite piccoli sketch da avanspettacolo o da cabaret. Legate alle tecniche cinematografiche sono anche alcune soluzioni di cambio della prospettiva, come se il pubblico vedesse i personaggi dall’alto. Una sorta di rovesciamento dei ruoli: in genere è la divinità che ci guarda dall’alto, mentre ad un certo punto siamo noi umani che assistiamo a ciò che accade in Cielo e ne diventiamo giudici. E dunque ci portate a riflettere sulla nostra condizione di pedine osservate e controllate, di pedine passive…

Davide: Sì, vogliamo proprio giocare con gli elementi della quotidianità. La sensazione che rimandiamo spesso al pubblico è: siamo entrati in una soffitta polverosa e ci siamo messi a giocare con cose dimenticate. “Artigianale” nel senso più bello della parola. Talvolta ci capita di passare intere giornate ad aggiustare alcuni particolari, però in generale si tratta proprio di un lavoro forte che noi facciamo nello spazio, forte perché ci lavoriamo mesi e mesi per tante ore di sofferenza, finché non arriva fuori qualcosa che funziona. In realtà “Officina delle mani” era il nome dell’associazione che avevamo prima: volevamo utilizzare la stessa espressione, ma non andava bene per lo Statuto, quindi abbiamo adottato un acronimo.

Enrico: Abbiamo deciso di creare questo acronimo, perché poi ha assunto diversi significati: uno di questi è “Officina delle mani”, che ha a che fare con il nostro modo artigianale di fare teatro; ma significa anche “Ode dei martiri”, “Ossa dei martiri”; e ancora “Ode al ma”, visto che con i nostri spettacoli cerchiamo sempre di suscitare la domanda: «Ma se fosse così?», come a segnalare una strada che ancora non è stata battuta, un punto di vista diverso.

Giulia: Quando ci siamo iscritti a Scenario non avevamo un nome. Abbiamo ripescato un’associazione dimenticata, le abbiamo dato una nuova vita. Giusto, un altro significato era anche la “O del mare”. Insomma, può essere inteso in diversi modi, puoi inventarlo anche tu…

Enrico: Ci piace pensare che il nostro nome sia in continuo movimento, così come del resto lo è il nostro lavoro, che non ha una metodologia predefinita: non abbiamo mai redatto un manifesto artistico, anche se poi sappiamo benissimo quale sia il linguaggio che ci piace utilizzare. Ma preferiamo pensare che sia in continuo sviluppo e mutamento.

Davide: Prima di concludere la nostra chiacchierata, volevo parlare anche di Monica Gorla, che è il nostro tecnico luci, ed è anche il nostro primo spettatore: la sua impressione è fondamentale, perché lei è la prima persona che vede il lavoro e ci dà un rimando. Molto spesso ci regoliamo a partire dalle sue sensazioni.

Giulia: Come un’artigiana, lavora con noi passo passo. L’uso della luce è narrativo, così come l’uso della musica. Per il momento abbiamo usato brani non originali, ma li abbiamo sempre scelti ad hoc, per presentare in qualche modo i personaggi.

Enrico: Non c’è una scelta puramente estetica, ma narrativa. Ad esempio in Mea culpa, il brano di Modugno Il vecchio frac ha determinato il nostro modo di muoverci e di scegliere i costumi. Così come il pezzo di Morricone tratto da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto: addirittura nello spettacolo adesso, siccome si parla di giustizia e di colpa, abbiamo inserito la voce di Gian Maria Volonté nel momento in cui – nel film – parla di repressione di popolo minorenne. Per questo dico che non è mai una scelta puramente estetica, bensì narrativa: racconta sempre qualcosa. Noi portiamo nei nostri lavori i riferimenti culturali che abbiamo scelto di seguire: ci sono persone che ci hanno ispirato nel teatro e nell’arte, e sono le stesse persone che ci hanno ispirato nella nostra vita.



Mea culpa.


 

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