[ateatro]
[Associazione Culturale Ateatro]
[ate@tropedia]
[l'archivio]
[cerca nel sito]
[contatti]
 
 
Gli speciali di www.ateatro.it
[Le Buone Pratiche 2012]
[Un teatrino dell'Io]

ISSN 2279-9184

ateatro 137.23
12/1/2012 
Un imbroglione con un senso etico fortissimo
Un’intervista a Luca Ronconi sul teatro di Rafael Spregelburd dopo il debutto della Modestia
di Oliviero Ponte di Pino
 

Per la prima parte di questa intervista vedi Uno spettacolo infinito di un teatro in fuga.
Vedi anche Per una fenomenologia dell'attore (con risata). Due week end a Santarcangelo 41, con una divagazione sulla Modestia a Spoleto.

Nel corso delle prove, rispetto alla tua lettura del testo di Spregelburd e al progetto iniziale, quanto spazio è rimasto a te e agli attori per cambiare la tua visione della commedia e dello spettacolo?
La prima cosa che ho detto agli attori, il primo giorno di prova - e a quel punto si sono quasi spaventati - è: “Guardate che io non sono per niente preparato. Non ho un progetto già fatto, ma credo di conoscere molto bene la commedia. Però non mi sono posto il problema di quello che ne deve venir fuori.” Non è che mi capiti sempre di trovarmi in una situazione del genere, ma in questo caso ci ho voluto provare.

Mentre di solito, quanto inizi a provare, hai già preparato la messinscena nei dettagli? Dalla caratterizzazione dei personaggi ai movimenti degli attori…
No, questo non mi capita mai. In questo caso avevo in mente diverse ipotesi, diciamo tre o quattro possibilità di lettura del testo o di una determinata scena. Secondo me questo è un buon punto di partenza. In genere mi dico: “Beh, questa scena potrebbe essere così, ma potrebbe anche essere fatta in quest’altro modo”. È una logica combinatoria: le commedie di Spregelburd sono costruite proprio così, ed è per questo che mi piacciono. Dunque penso che il mio fosse l’atteggiamento giusto per affrontare un testo come questo… Poi, come sempre, durante le prove sono arrivati momenti di difficoltà. E la difficoltà può essere risolta pensando: “Beh, forse questa cosa qui è quest’altra”.

Quando parli di momenti di difficoltà, puoi fare un esempio?
Penso alla scena che viene dopo che hanno annaffiato María Fernanda per spegnere l’incendio. Quando si passa all'altra situazione, quella “russa”, e l’attrice che interpretava María Fernanda diventa Leandra, la didascalia spiega che è “bagnata”: la situazione viene giustificata drammaturgicamente spiegando che Leandra era uscita per cercare Terzov e facendole dire che “pioveva tanto che non...”. Stranamente questo scambio di battute non funzionava, perché si tratta una giustificazione meschina. Allora ho pensato: “Se qui a raccontare la storia, a motivare la situazione di Leandra, non fossero i personaggi, ma fossero gli attori?” Insomma, immaginiamo che in quel momento gli attori si inventino una storia, lì per lì, in modo da giustificare quello che è già successo. Non so se sia giusto o no, se l'autore ci avesse pensato mentre scriveva la pièce. Però in scena funzionava molto bene. Siccome la commedia è fatta tutta a puzzle, se una cosa s'incastra vuol dire che va bene. Così nello spettacolo ci sono alcune scene in cui gli attori, invece che essere i personaggi dell'una o dell'altra storia, si danno consigli a bassa voce.

È una soluzione che per certi versi contraddice il tuo atteggiamento nei confronti del testo.
Spregelburd lavora per citazioni, rimandi, frammenti, e per accumulo. Dunque è come se mettesse moltissime virgolette all'interno della sua scrittura drammaturgica. In genere, tu hai lavorato con gli attori proprio togliendo queste virgolette, chiedendo loro di prendere il testo alla lettera, battuta dopo battuta: “Siete in questa situazione, e dunque dover comportarvi di conseguenza”.
Ma contemporaneamente, quando gli attori sono in una delle due situazioni, diciamo nella vicenda russa, sono anche in quell’altra, quella sudamericana…

Però introducendo questo gioco del teatro nel teatro, è come se aggiungessi altre virgolette.
C’è un’altra situazione di questo genere nel finale.

Ti riferisci al crollo?
No, ancora dopo. Tutta la confusione finale… Accade un po’ come in altre commedie di Spregelburd: sembra che l’autore non riesca a venire a capo di tutti i fili che ha tirato. E allora, per giustificare quello che è accaduto, arriva quel finale. Ma perché bisogna giustificarlo? Il finale è quello, e basta… Ma può essere utile anche tener presente che questo testo Spregelburd l’ha anche interpretato: faceva la parte di Terzov/San Javier, quindi la parte dell'autore. Io sono sicuro - è una mia illazione, ma puoi anche essere sicuro delle tue illazioni, anche sapendo che restano illazioni… - sono sicuro che Spregelburd, recitando quel testo e occupandosi anche della regia, fosse anche un po’ curioso di vedere quello che combinavano gli altri personaggi. La situazione del suo personaggio è quella di chi capita in una certa situazione, non sa bene che cosa stia succedendo ed è curioso di capire come potrà evolvere. È quasi una posizione autoriale: sembra un po' un autore di fronte a un gruppo di personaggi liberi. Nella Modestia ci sono otto personaggi, quattro per ciascuna delle due situazioni, ma potrebbero anche essere dodici, perché c’è anche l’essere attore dei personaggi. Infatti ci sono nello spettacolo diversi momenti in cui questa chiave funziona benissimo. Tanto è vero che a un certo punto ho pensato che non fosse necessario fare dei passaggi così scanditi, bruschi, tra le due situazioni, quella “russa” e quella “sudamericana”. Nei primi quadri è utile e giusto far capire che c’è un cambio di scena: si vedono anche mobili e oggetti che si spostano a vista, per indicare il cambio di situazione, perché in una pièce a chiave è necessario avvertire gli spettatori che esiste una chiave. Però, una volta che la chiave è stata enunciata, non è più necessario seguirla così rigidamente. Così nello spettacolo ci sono alcuni passaggi in cui i personaggi, all’inizio della scena successiva, parlano ancora come quelli della scena precedente. Addirittura in un’occasione, quando si passa alla scena “russa”, uno dei personaggi parla ancora in una specie di spagnolo...

E gli attori, che cosa hanno dato a te e ai loro personaggi nel corso delle prove?
Il ritmo! Io posso dare loro soltanto delle indicazioni molto precise sulla battuta...

Indicazioni sulle motivazioni e sulle intonazioni?
Piuttosto indicazioni di movimento e di rapporto. Soprattutto di rapporto. Però il ritmo dello spettacolo è assolutamente merito loro. I quattro protagonisti della Modestia sono bravissimi per due motivi: in primo luogo fanno bene i loro personaggi, e poi hanno un affiatamento che un regista non può costruire. Non glielo può imporre. Ho insistito molto sul fatto che il testo è basato sui rapporti tra i personaggi: ma un personaggio non sa mai chi è l’altro, non lo deve mai sapere, perché la situazione deve sempre rimanere sospesa. Però più di questo non potevo dare.

Dunque dagli attori sono arrivati il ritmo e il rapporto tra i personaggi...
Il modo in cui sono riusciti ad affiatarsi. Abbiamo provato relativamente poco, ma al debutto di Spoleto sembrava che avessero provato per tre mesi...

Invece, per quanto riguarda le intenzioni, ci sono state scene in cui tu avevi un problema e gli attori ti hanno tirato fuori dai guai?
Direi di no...

Insomma, mi pare di capire che hai lavorato quasi più a togliere agli attori le idee che potevano essersi fatte sul loro personaggio, i loro pregiudizi...
Anche perché una qualità dei personaggi di Spregelburd che apprezzo è che nemmeno loro stessi si conoscono così bene. Uno dei motivi del fascino della Modestia, e in genere di tutte le commedie di Spregelburd, è che i personaggi hanno degli obiettivi sull’azione, sanno benissimo quello che devono fare in quel preciso momento, ma non hanno certezze sulla propria identità. È qui che la commedia diventa davvero interessante...

Anche nel lavoro sugli attori...
Perché nel lavoro sugli attori si riproduce il senso della commedia... Quello che deve fare ogni attore è soprattutto lasciarsi portare da questo meccanismo. Se l’attore gestisce troppo il personaggio, se si pone in maniera eccessiva il problema delle sue motivazioni, e se deve metterle in relazione alle motivazioni dell’altro personaggio, il meccanismo s’inceppa. Seguendo questa strada, ne uscirebbe una specie di commedia psicologica, che però non terrebbe più, perché in scena perderebbe tutto il suo ritmo. Per questo ho molto spinto sul versante della mobilità, verso una mobilità totale.

Nei testi di Spregelburd c’è moltissima ironia, molte scene comiche. Anche nella tua messinscena della Modestia ci sono scene molto divertenti, ma alla fine dallo spettacolo emerge una visione assai più tragica dell'esistenza, anche rispetto ad altri allestimenti dei testi di Spregelburd...
Però lo spettacolo è molto divertente!

Ma anche profondamente tragico...
Alla fine della Modestia, quello che ti resta, non tanto dalle singole battute ma dall'intera commedia, è che nessuno dei personaggi è più al proprio posto, nessuno si sente più al proprio posto da nessuna parte. E questo non è tragico?

Può essere sia comico sia tragico...
Può anche far ridere. Però a pensarci bene, e facendo riferimento anche alle nostre esperienze, non è più così divertente... Succede anche con Il panico, un altro tassello della Eptalogia sui sette vizi capitali di Spregelburd, che porterò in scena l’anno prossimo. La commedia ruota in torno a un morto circondato dai vivi, e come La modestia fa molto ridere. Però se fai attenzione ti accorgi che tutti i personaggi “vivi” sono degli spostati: il Terapeuta fa il dog sitter, la sensitiva Susana si “occupa di una bambina”... Tutti i personaggi fanno centomila cose insieme e devono di fatto essere dappertutto. Non riescono mai ad essere concentrati su quello che stanno facendo in quel preciso momento, perché stanno già correndo da un’altra parte... L’unico personaggio che si sente al proprio posto è proprio Emilio, il morto intorno a cui ruota il testo: lui ha la serenità di chi è crepato, mentre gli altri sono in preda al panico causato da questa continua bilocazione. È una trovata che potresti trovare in una pièce di Coward o di Priestley, quasi un gioco da commedia brillante. Invece in questo caso, siccome il riferimento è il cinema horror, il testo si colora di un’altra tinta.

Quest’anno Rafael Spregelburd ha vinto per il secondo anno consecutivo il Premio Ubu per la migliore novità straniera, per Lucido. Ha mandato un messaggio di ringraziamento, nel quale ha sottolineato l’attenzione che ha oggi l’Italia per la sua drammaturgia, che è nata in una Argentina profondamente segnata dalla crisi economica, proprio come l’Italia di questi ultimi anni. Questa sensazione di incertezza, questa necessità di arrabattarsi facendo più parti in commedia, questo sdoppiamento, è certamente un riflesso di questa crisi...
Sotto sotto, però, c’è un altro aspetto, anche se non viene mai esplicitato. Nel teatro di Spregelburd c’è incertezza su tutto, ma non c’è alcuna incertezza sui valori fondamentali dell’esistenza: la lealtà, l’etica... I personaggi sono altrettanti imbroglioni, ma con un senso etico fortissimo.

Ma come è possibile essere degli imbroglioni con un senso etico fortissimo?
Sono imbroglioni che però sanno che cosa è il bene e che cosa è il male. In loro non c’è cinismo, e questo è molto piacevole. Anche artisticamente, nell'approccio di Spregelburd al teatro, accade la stessa cosa. La sapienza con cui sono costruite le sue commedie è certamente frutto di una straordinaria furbizia drammaturgica, però al loro interno c’è anche un elemento di saggezza. In questo senso, si può dire che Spregelburd, a differenza di tantissimo teatro contemporaneo, non la vuol dare a bere.

Che cosa vuol dire che “non la vuol dare a bere”?
Che non vuol farla franca, che è sincero nel momento in cui costruisce le sue finzioni.

(Milano, 21 dicembre 2011)

 

ISSN 2279-9184

 

 

blog comments powered by Disqus
 
 
 
Copyright © 2001-2015, www.ateatro.it - Proprietà letteraria riservata.

 

 
blog comments powered by Disqus