ateatro 135.5 4/15/2011 Smarketing per il teatro: come promuovere lo spettacolo in tempo di crisi Un corso alla Paolo Grassi di Milano di Marco Geronimi Stoll
E' una questione di sopravvivenza, dobbiamo fare tre cose: staccare gli italiani dalla televisione, farlo usando internet e il passaparola, portarli anche in teatri eterodossi e di nicchia. La scommessa è difficile ma il tempo è propizio.
Prima di approfondire, fatemi annunciare il corso di smarketing per il teatro alla Paolo Grassi di Milano.
Scuola Paolo Grassi di Milano ven 13 e sab 14 maggio 2011
Smarketing per il teatro: come promuovere lo spettacolo in tempo di crisi
docente Marco Geronimi Stoll
Rivolto a organizzatori teatrali, attori, registi, studenti, compagnie che vogliano trovare soluzioni nuove e necessarie per promuovere il loro lavoro.
Costo € 70 Chiusura iscrizioni e pagamento 09/05/2011
1. Teatro: c'è troppa offerta o poca domanda?
Povero teatro italiano in crisi di dipendenza da sovvenzioni. Pensate a questo delirio kafkiano del FUS e delle accise sulla benzina: pazzesco, no?
Eppure alla fine quanti hanno pensato “meno male” come se, dalla tavolata della Repubblica Fondata sul Tubo Catodico, qualcuno ogni tanto gettasse un pietoso osso al teatrante che magari scodinzola. Gratitudine per chi generosamente lo farà morire domani e non oggi.
No, i fondi siano basi su cui puoi fare progetti artistici solidi nel tempo, altrimenti di necessità si fa virtù e di virtù sfida.
La sfida è di farcela da soli; che non è il “farcela” imprenditoriale del vincente in cravatta anni '90, ma il suo contrario speculare, l'emancipazione conflittuale contro chi cerca di tapparti la bocca, di ucciderti per fame.
Grazie al cielo quello non è l'unico cibo che c'è in giro. Io non sono sotto a quel tavolo, e nemmeno molti di voi. Da sempre saltimbanchi e griot, cori greci e burattinai hanno dato al loro pubblico il cibo dell'anima ricevendone in cambio il cibo per il corpo. Anche quando c'era più fame in giro di oggi.
Capovolgiamo quindi la questione: perché la sera tutti i nostri concittadini si stravaccano sul divano a guardare la TV più brutta d'Europa? Perché intere generazioni non mettono piede a teatro mai una volta in vita loro?
L'Italia è piena di gente alienata che ha bisogno di dare un theatrum alla propria esistenza, che ha bisogno di pathos, disperatamente. Hanno bisogno di bellezza, perché non corrono in massa a riempire tutte le nostre poltroncine, anzi proprio loro sono gli ultimi che lo farebbero? E' la domanda che dobbiamo farci ogni volta che le sedie sono vuote, così ovvia che sembra banale, eppure ineluttabile: se non ce la poniamo, non andiamo da nessuna parte.
2. Vendere il teatro come se fossero mele biologiche
Anche la risposta sembra ovvia; ma come tutte le cose troppo vicine al nostro naso, la vediamo sfocata.
Non è solo una questione di costo dei biglietti. Non è solo una questione di scarsa alfabetizzazione di base.
E' la stessa motivazione per cui compriamo delle mele insipide e chimiche al supermarket invece che delle mele buone e sane dal contadino: abitudine, o meglio disabitudine indotta per passivizzazione. Comodità, o più precisamente pigrizia inculcata.
C'è un tandem diabolico tra TV e ipermercati. Si rinforzano a vicenda, non potrebbero vivere uno senza l'altro. Il centro commerciale è una periferica della televisione che si manifesta nel mondo reale.
Quando mettiamo qualcosa nel carrello, non vogliamo comprare concretamente quel prodotto, ci interessa la personalità artificiale che i pubblicitari hanno associato all'immaginario del prodotto. Come nella dieta dei cibi, anche la dieta mediatica riempie gli italiani di tossine, li anestetizza dalla capacità e dalla voglia di gustare i sapori veri. Soprattutto li lascia sempre famelici, insaziabili, anche se divorano tonnellate di schifezze. Li lascia sempre vuoti e inappagati qualsiasi cifra spendano. Passata la cassa e recuperato il bancomat, l'orgasmo dell'acquisto è già esaurito: nei sacchetti che scarichi dal carrello al bagagliaio adesso c'è solo roba, ormai l'hai comprata e per liberartene deve diventare prima possibile pattume; per tornare a comprare.
Si chiama marketing, induce il bisogno di un'assenza; il desiderio indotto dal consumismo non può che essere inappagabile, se no la domanda si saturerebbe e il mercato crollerebbe: che bello, bisognerebbe dire, che trionfo sarebbe il crollo di questo baraccone per tornare a un'economia sana, etica ed ecologica. E invece nessuno lo dice; tutti dicono “se c'è la crisi, aumenta la disoccupazione” invertendo la causa con l'effetto. Invece questo baraccone crea un sacco di disoccupazione; anche tra i teatranti.
Il teatro appaga bisogni reali e profondi; il teatro è anticonsumista per natura. Il teatro, come il gioco, il sesso, l'esperienza della natura, le altre arti: è un processo, non un prodotto. Quando sei felice non hai bisogno di merce, la felicità impedisce gli affari.
Il contadino che sceglie il bio non fa solo un'azione agrotecnica, compie anche un gesto etico e politico; è una ribellione oltre che un'autodifesa: difende il suo lavoro ma anche il suo territorio, noi e l'intero ecosistema. Il teatrante che sceglie circuiti laterali, programmazione via internet, autopromozione... difende il suo diritto a pagarsi il mutuo e la cena, ma anche difende tutti noi; la sua (faticosamente) conquistata autonomia economica è una sfida che serve al nostro territorio, a noi e all'intera cultura.
3. Il momento è propizio per cambiare tutto
Agenti? Assessori da arruffianarsi, critici da corteggiare? Sponsor canaglia che ci brandizzano i manifesti coi loro loghi puzzolenti? Basta: accendete il computer!
In pochi anni stanno cambiando tutti i fondamentali.
Ad esempio, le recensioni: devono servire ad avere sovvenzioni o ad avere pubblico? Se servono solo al secondo scopo, diventano più importanti quelle su internet: secondo voi, chi vuole scegliere dove andare stasera, legge davvero la critica su Repubblica o preferisce quella del pubblico di ieri sera su Facebook? E' il terziario 2.0; ogni critico intelligente lo ha già presentito da quando, dovendo scegliere una vacanza, invece di entrare in un'agenzia di viaggi è andato su Trip Advisor.
Altro esempio: quanti soldi vengono spesi ogni anno in affissioni e inserzioni? Che ritorno dei costi hanno? Spesso quello che rendono non vale neanche una piccola parte di ciò che costano in soldi, tempo, carta e, troppo spesso, anche in compromessi col buon gusto.
E le realtà più grandi, quelle che fino a ieri potevano permettersi un marketing manager, non sarebbe ora che, invece di licenziare i dipendenti, licenziassero piuttosto lui e assumessero al suo posto qualche giovane capace di fare il community manager, che costa la metà spende un ventesimo e rende il quadruplo?
Chi ha pochi soldi, è meglio che li usi bene. Poca carta e tanto internet; meno rumore e più senso; meno generalismo e migliore empatia con le nicchie. Soprattutto è il momento di approfittare dell'indebolimento della TV e dell'avvento dell'uso di massa dei personal media.
Non è fantascienza pensare, fra pochi anni, a spettacoli autoconvocati direttamente dagli spettatori col telefonino, o a gruppi d'acquisto solidale di cultura.
Già, perché oltre a tutto internet priva il teatro di quell'aura di pseudo-superiorità che tiene lontana tanta gente cosiddetta normale: se diventa una cosa strana, intrigante, curiosa, allora acquisisce un'alta quantità di informazione, è notizia, incuriosisce e avvince, fa parlare di sé. Genera passaparola.
Postulato: non è automaticamente vero che più è radicale meno è popolare, anzi se ci sai fare è vero il contrario.
Più andiamo avanti col digitale potente e fluente, più ci sarà prezioso e speciale ciò che non può essere trasformato in fiumi di zeri e uni: il corpo umano che agisce davanti a noi. Ne sono convinto, il mezzo di comunicazione più potente regalatoci da internet è il l'attore dal vivo, la sua voce, i suoi gesti, il suo occhio che vede il mio.
Quando succederà (e sta già cominciando a succedere) saremo pronti? o invece saremo ancora quel vecchio tipo di attore che sa fare comunicazione solo dal palcoscenico?