ateatro 135.10 4/15/2011 La Ubu, il Patalogo e le leggi della Patafisica Per f.q. di Renata M. Molinari
Questo saggio verrà pubblicato sul prossimo numero della rivista “Venezia Musica”.
Nell’ultima conversazione con Franco, in una situazione dolorosamente incongrua, all’improvviso, dopo un fitto e frammentato scambio di battute e informazioni sulla reciproca quotidianità, la sua bocca ha preso decisamente la parola: “…e adesso parliamo di scelte”, ha detto, schiudendosi in un sorriso, mentre lo sguardo avvolgeva di tenerezza ironica il mio stupore.
Capitava, con f.q. (così continuiamo a chiamarlo noi, “generazione Ubu”): tu andavi a parlargli, magari in Ubu, aspettavi il tuo appuntamento, o lui ti convocava - e io pensavo di sapere di che cosa dovevamo parlare - e all’improvviso, dopo qualche scambio di battute, fra una telefonata e una consegna alla redazione, ti chiedeva cosa pensavi, come stavi procedendo a proposito di una questione che sembrava scontato fosse la ragione del tuo essere lì. Tu non eri lì per quello, lui lo sapeva e il suo sguardo ironico lo confermava, ma da quel momento, da quello sguardo, sapevi che era affar tuo: quella sarebbe stata la questione da affrontare nell’immediato, anzi, era strano, quasi grave, che non fossi già all’opera. Non per niente la puntuale e temutissima affermazione “siamo in emergenza” era una delle parole d’ordine, quasi una formula patafisica, per il lavoro in Ubu.
Franco ti spiazzava, buttandoti nell’emergenza: era uno dei suoi modi di portarti diritto nel cuore delle tue scelte.
E ora che siamo oltre l’emergenza, anche ora, faccio appello a una regola aurea del nostro lavoro al Patalogo: per parlare di qualcuno, comincia col farlo parlare; per parlare di Franco, ricordarlo, salutarlo, cerco di riascoltarlo, di rileggerlo, proprio mentre parla del suo lavoro, della Ubu e del Patalogo, nel suo contributo d’apertura per lo speciale dei vent’anni dell’annuario.
“In armonia con le leggi della patafisica, è stato sempre il caso a sovrintendere ai destini del Patalogo – ma sia chiaro non del suo progetto – ogni anno incerto fino all’ultimo circa la sua fattibilità, non per snobismo nè per scaramanzia, e mai incerto come quest’anno; anzi sicuro del suo no per precise ragioni economiche, finché, quando già s’era fatto troppo tardi per l’avvio, il sì è stato deciso solo dal fato. Un fato in forma di ventennale …”
Certo il fato lo si può riconoscere in molteplici forme, ma quella più ricorrente nel lavoro in Ubulibri è accettare, quasi fosse naturale, di cominciare quando si è ormai fuori tempo massimo per l’avvio, e di ricominciare quando è scaduto il tempo della chiusura. Il fato come responsabilità nelle condizioni dell’emergenza.
In emergenza si arriva alla Ubu, o comunque si viene accolti nel lavoro: qualcuno se ne è andato, c’è una scadenza imprevista, il puntuale e sempre incontenibile ciclone Patalogo; e anche per Franco questo continuo avvicendamento ripropone ogni volta daccapo l’azzardo della scelta; come in teatro, del resto: osservare, avvicinarsi, sapere riconoscere e aiutare a crescere.
“Dovevo accettare come una circostanza normale l’avvicendamento dei ragazzi, che avevano il diritto di andare a crescere altrove. […] e io m’ ero ormai rassegnato a ricominciare periodicamente daccapo a insegnare di nuovo il mestiere, sempre con la tecnica dell’inserimento ex-abrupto, nel punto focale del lavoro, buttando subito addosso al nuovo entrato il suo carico di responsabilità, come un fatto naturale, reprimende comprese, perché risultasse acquisito che c’era una navigazione non comoda da compiere assieme senza retorica, ma con delle mete”.
La responsabilità come fatto naturale; ma quanta cura per arrivare a questa naturalezza! Solo il viaggio di f.q. dentro i teatri, vicino agli artisti, nell’intimità del lavoro e nell’implacabile meticolosità della scrittura potrebbe aiutarci a ricostruire i tempi e i modi di questa utopica cura della naturalezza.
Un naturalezza del tutto visionaria, la sua, ma gli scenari che lui aveva in mente erano decisamente concreti. Di una concretezza che aveva nella lotta contro il tempo, contro la ragionevolezza dei tempi - la loro dittatura - le condizioni stesse del fare.
Anche se solo per la durata di una redazione, di un’opera, per sperimentare e dirci che potrebbe essere possibile…
Per il resto, i tempi avanzano, eccome!
“M’è rimasta qualche difficoltà a riconoscere che i tempi da allora a oggi sono assai cambiati, esasperando l’individualismo e l’ostentazione, anche nei riguardi dell’esterno, della prima persona, e acuendo un senso di professionalità che pone in prima linea l’orario di uscita, compresi i quarto d’ora di preallarme da impiegato statale, regole che l’abbattersi del monstrum patalogico con relativa massa di lavoro può solo in parte attutire.”
In questo battaglia contro lo spirito dei tempi, la prima sconfitta tangibile è la forzata rinuncia alla doppia uscita del Patalogo Cinema e Teatro, per cause di forze maggiore, per “le citate leggi della casualità patalogica”, per la “perdita dell’interlocutore-animatore numero uno, Gianni Buttafava, uno choc e un’assenza che non ci permettevano di rimanere gli stessi”.
Ma la chiusura del Patalogo Cinema, pur accettata e decisa – quasi naturale - per i motivi suddetti, segna un allontanamento dallo spirito dell’originaria rivista “Ubu”: “una rivista bimestrale underground, ma di modi poco underground, durata solo sei numeri e otto mesi, ma che per il parlare che se n’era fatto poteva considerarsi un successo… Erano tempi in cui un dialogo interdiscipliare lo si poteva tentare.”
Cineclub, arte, concerti, politica giovanile: come se il dialogo fra le arti potesse, patafisicamente, svelare il disegno nascosto nelle cronache del quotidiano e le ricadute nella politica dei fenomeni di costume.
“Il doppio volume non produceva solo un effetto trainante, ma era la base di quell’interdisciplinarietà e del gioco dei rimbalzi per cui avevamo incominciato e che non abbiamo dimenticato, evidenziandolo nelle occasioni che meglio si prestavano al confronto diretto con la realtà: si pensi al travaglio che ha anticipato e seguito la caduta del Muro o al rotolare da Tangentopoli alla minaccia di un regime Mediaset.
Un Patacalendario in un paio di numeri ci ha permesso per esempio di mettere i fatti della scena al passo insensato con quelli della cronaca e della politica, mentre il teatro fuori dal teatro prende sempre più spazio.”
Più l’impresa è complessa, impossibile, quasi titanica, più resta aderente alla essenzialità dell’inizio, alla semplice necessità di adesione fra il fare e le intenzioni.
Il rimbalzo fra impresa impossibile e semplice, necessaria adesione alle intenzioni dà le coordinate al lavoro del Patalogo. Ma attenzione, qui scatta la particolare natura dell’emergenza patalogica: non rinunciare mai alla qualità della visione, anzi usare l’emergenza per mettere a fuoco, se non alla prova, la tenuta, la bellezza di questa visione.
Sono qui, devo fare quel che volevo fare. Non dire mai: “peccato, poteva essere così”, né, tantomeno: “abbiamo fatto quello che si poteva…” Tutti noi in Ubu abbiamo dovuto resistere - quando ce l’abbiamo fatta - alla tentazione di imboscare una foto, un documento, la battuta di un’intervista, letta da f.q. su chissà quale testata, magari lasciata in aereo, cercata per settimane e ora recuperata, riapparsa quasi a tradimento, oltre il tempo limite. Là dove chiunque avrebbe detto, e noi volevamo dire: “ peccato, abbiamo fatto quello che potevamo, ora non è il caso…”, f.q. ricominciava a impaginare con la felicità anche capricciosa di un ragazzo che l’ha avuta vinta.
E spesso a noi sembrava un capriccio, in fondo nessuno avrebbe colto la differenza, non cambiava poi molto avere proprio quella immagine lì… Per noi, ma non per chi davanti a quell’immagine si era figurato un possibile intreccio, e della realizzazione di questo intreccio aveva fatto la posta in gioco nella sua personale lotta contro il tempo.
Nell’emergenza la strategia più capricciosa – e creativa - è dilatare il tempo: quante volte ci siamo chiesti se f.q. non stesse volutamente temporeggiando per arrivare nella condizione “altra” dell’emergenza. Nella redazione del Patalogo, vera opera teatrale, come nelle prove di uno spettacolo, la lotta non è per arrivare in tempo, ma per fare retrocedere la curva del tempo.
Non rinunciare mai, anche quando sembra che il tempo a disposizione sia finito, non rinunciare mai, anche quando sembra che il nostro mondo non abbia più tempo, non rinunciare mai, mai.
Solo così puoi accettare – non a caso, più lui che noi - che il risultato presenti qualche limite, diciamolo pure, degli errori. Ma non devi accettare limiti, lasciare correre imprecisioni, mentre fai.
Non rinunciare, mai, a fare come pensi vada fatto.
Allora l’emergenza si mostra come altra faccia dell’utopia, quella che ci è dato percorrere nel' operosità del lavoro quotidiano, verso la meta prefissata.
Ma questo sogno che fa succedere le cose non può restare chiuso dentro un laboratorio - sia pure “totale” come qualcuno ha definito la redazione del Patalogo. Senza l’amore per il teatro, “l’orgoglio di amare il teatro”, come disse Ettore Capriolo, tutto questo non ha senso. Ed ecco l’intreccio del lavoro di redazione con l’incessante “andare in cerca” di f.q., il suo nomadismo attraverso le geografie del teatro: luoghi di creazioni possibili, di relazioni, di persone “osservate da vicino” nel loro fare, per il loro fare.
“Ma guai se questo discorso che si cerca di condurre e dà senso alla nostra sopravvivenza interessasse soltanto e soprattutto a noi che lo facciamo, nel deserto della solitudine mediatica, nel deserto della dispersione mediatica in cui ormai viviamo e lavoriamo. E’ il dialogo tra noi, dopo tanto affannarsi verso un altro teatro nel quale ci riconoscevamo […] a essersi smarrito nei personalismi o negl’intrichi di interessi. Se i funzionarietti e i reggicode dei potenti hanno condotto il teatro all’attuale stato di asfissia di cui gli specialisti della routine sembrano bearsi in massa rinunciando alle idee, non possiamo rimanercene in un cantuccio a piangere i nostri morti, da Trionfo a Müller, da Neiwiller a Bartolucci”.
Franco amava e ascoltava, più di tutti, le persone di teatro: nel tempo del Patalogo le uniche pause che si concedeva nel febbrile lavoro di impaginazione erano quelle dedicate ad ascoltare un attore di passaggio, un autore amico, un compagno di viaggi teatrali. Dava valore alle loro domande. “E’ una persona di cui mi potevo fidare, la sola alla quale avrei chiesto un parere vero, sul che fare, ora”, mi ha detto un’attrice, alla notizia della morte di Franco Quadri.
Non mi sembra che Franco amasse gli anniversari, le commemorazioni, semplicemente continuava ad amare, con le intemperanze proprie del sentimento, e a onorare chi l’aveva toccato, anche nel lavoro; magari li andava a trovare, o li accoglieva e li ascoltava, anche quando ai più sembrava non avessero niente di nuovo da dire.
“Abbiamo aperto questa sezione conclusiva non per uno sterile ricordo o per parlarci addosso commemorandoci, ma nella speranza che una rivisitazione del lavoro di vent’anni ci aiutasse in una spinta in avanti, aldilà della conclamata casualità d’uscita del Patalogo, ma esaltandone lo spirito, che era soprattutto di unione, nella gioia.”
“Perché il lavoro passato non sia sterile, ma serva a innestare attraverso questo recupero una continuità dell’azione creativa”.
Allora Franco parlava del Patalogo, ma che cosa possa essere, in senso più ampio, il “lavoro passato”, l’ha precisato, molti anni dopo, dedicando lo speciale del suo ultimo Patalogo ai grandi scomparsi del mondo del teatro, cercando di farli ascoltare di nuovo, di fare parlare, ancora, “queste persone con la loro voce per ricordare e ricreare un grande periodo di teatro che grazie a loro continuerà”.
“Per questo sono qua con una certa commozione”, aggiunse, introducendo la serata dei Premi Ubu, nel febbraio del 2010.
La commozione di chi, anche oggi, continua a credere che nel ricordare sia possibile ricreare, anche quando il tempo è finito, e non aiuta per niente, proprio non serve, dirsi: “abbiamo fatto del nostro meglio”.