ateatro 69.20 Non c’è problema di Antonio Albanese * Premio Riccione TTV per il miglior programma televisivo di spettacolo Dal catalogo di Riccione TTV 2004 expanded theatre di Oliviero Ponte di Pino
Che cosa contraddistingue, nel campo del comico, un autentico artista da un semplice mestierante, un inventore di genio da un satirico da tritacarne televisivo? E’ molto difficile dirlo, anche perché è un ambito sterminato, e per di più sempre alla ricerca di nuove strade.
Tanto per cominciare, il discrimine non può essere il successo in tv, che a volte arride ai mediocri – anche se, va subito aggiunto, quel successo Antonio Albanese l’ha avuto quasi subito – e gigantesco, e fatto anche di autentico e immediato affetto da parte del pubblico – fin dalle sue prime apparizioni a Su la testa! di Paolo Rossi, che l’ha scoperto nel 1992, e Mai dire gol che l’ha lanciato l’anno dopo.
La qualità, come al solito, va cercata nel lavoro, e nel «modo di produzione». Quello che colpiva subito in Albanese, fin dalle prime apparizioni, era che i suoi personaggi non erano costruiti a partire da caratteristiche esteriori, anche se avevano tutti tratti molto riconoscibili: il linguaggio fortemente caratterizzato e una gestualità speso carica di tic. Quello che incuriosiva era piuttosto il modo in cui erano costruite queste maschere di periferia fragili e violente: a partire dalla precisione del lavoro sul corpo – la spina dorsale, la postura, la relativa rigidità o flessibilità delle articolazioni, il punto in cui situare il baricentro (e si intuisce qui la lezione di maestri che vanno da Danio Manfredini ad Alfonso Santagata). E’ in quel torso tutto fisico, corporeo, che quei «doppi» trovano forza e coerenza.
Quando racconta come crea i suoi personaggi, alzandosi in piedi, facendo un passo o due, mostrando la loro postura, il modo in cui muovono le braccia o irrigidiscono il collo, Albanese spiega di amare molto la pittura. Le sue creature non hanno mai un’unica fonte: un personaggio da imitare, un tipo umano di cui accentuare alcuni difetti o debolezze, un «cattivo» da mettere alla berlina, un avversario da aggredire. Si tratta invece di rubare un elemento da questo e un altro da quello, così come un pittore prende i suoi colori da una tavolozza e li stende sulla tela. E’ un accurato lavoro di osservazione e composizione. E’ la dialettica tra la semplicità dell’assunto iniziale – la postura – e la ricchezza del mosaico, la moltiplicazione dei dettagli, che porta alla complessità psicologica e antropologica dei tipi umani creati da Albanese, che crea la loro musica gestuale.
Dietro a tutto questo lavoro drammaturgico – quando Antonio lo racconta un sorriso gli accende lo sguardo – c’è quello che lui definisce «il desiderio» di crearli, quei personaggi. Anche qui c’è un gioco sottile e non scontato. Da un certo punto di vista, il ciellino imbranato, il siciliano maschilista, il brianzolo avido e gretto, l’omosessuale esageratamente liberato, sono bersagli fin troppo facili. Incarnano una fauna di cui faremmo tutti volentieri a meno: il mondo, la società italiana, la nostra vita quotidiana, sarebbero certamente migliori se questa mediocre umanità ci liberasse dalla sua molesta presenza. E, si sa, la satira è prima di tutto un atto d’aggressione: nell’antica Irlanda i satirici migliori erano quelli che con le loro parole uccidevano – letteralmente – i loro contendenti.
Invece – fermo restando che costoro incarnano aspetti negativi dei nostri simili – queste creature sono il frutto del desiderio, nascono da un atto d’amore. Quando racconta quello che significano per lui gli Epifanio, gli Efrem, i Perego, i Frengo, i Drastico, gli occhi gli si illuminano ancora di più: «Io li amo!». Quando sta creando una nuova macchietta, gli scatta dentro qualcosa: questo desiderio, prima di tutto, che solo dopo si concretizza in un modo di essere, e poi pian piano si compone nei dettagli – ma è solo una cura artigianale e sempre affettuosa che può dare sostanza e profondità al quadro.
Perché Albanese non fa satira direttamente politica, anche se la sua posizione, il suo punto di vista, sono sempre evidenti, privi di ambiguità. Non lo fa in primo luogo perché non vuole giudicare le persone, i singoli individui: non si considera, non può considerarsi in nulla superiore a loro. E’ «la gente» che incontra al bar o sul treno, sono gli amici d’infanzia... Perciò rifiuta ogni posizione di superiorità culturale o di casta. L’intellettuale di sinistra cinefilo e soprattutto pentito (qualche decennio dopo l’altro straordinario critico cinematografico inventato da Roberto Benigni per L’altra domenica di Renzo Arbore), quello che rinnega imbarazzato tutte le sue prese di posizione passate, vorrebbe essere, nelle intenzioni del suo creatore, un invito all’umiltà, a non prendersi troppo sul serio, a non cadere in tutte le trappole della moda e delle ideologie (soprattutto in questa epoca dove tutto è moda e l’anti-ideologia è diventata pensiero unico). E’ per questo che Albanese deve affondare qualche strato oltre le apparenze, oltre la superficie di quello che sembriamo, per cercare di cogliere ogni volta qualcosa di più profondo, insieme nascosto e illuminante.
Insomma, Albanese si rifiuta di dividere l’umanità in «noi» e «loro», quelli che hanno capito e quelli che non possono o non vogliono capire, quelli che ridono e quelli che vengono sbeffeggiati. I buoni e i cattivi. Certo, quelli che abbiamo davanti, quelli che ci mette di fronte, sono mostri. Ma al tempo stesso siamo anche noi. Un aspetto di noi. Come ha scritto Aldo Grasso a proposito del programma, «i personaggi di Albanese fanno ridere perché parlano di noi, perché mostrano la rovina per eccesso di lucidità, perché non si smarriscono in privilegi da anemici» (Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano, 2004, p. 743).
Non c’è problema è nato come trasmissione vagamente sperimentale, una mezz’ora da seconda serata, alle 23.30, dal 13 gennaio al 16 marzo 2003, in onda il lunedì, il mercoledì e il venerdì, con la striscia Il meglio di Non c’è problema in prima serata la domenica alle 20 circa. Per quanto riguarda gli ascolti, va aggiunto, sono stati appena al di sotto delle medie della rete, come è giusto per un programma sperimentale, tra i 700.000 e gli 800.000 spettatori in seconda serata e 1.500.000-1.700.000 la domenica.
Per la prima volta Albanese ha provato [a fare] una tv a sua immagine: una sorta di «contro-varietà da camera», con tre attori e mille personaggi. E’ una produzione con scarsi mezzi, anche se con due coautori del calibro di Andrea Purgatori e Michele Serra (oltre a Gabriella Ruisi e Andrea Salerno) e due spalle di classe come Emanuela Grimalda (la pseudo-vamp Dolly) e Nicola Rignanese (vecchio compagno di corso alla Civica Scuola d’Arte Drammatica di Milano recuperato per dar corpo all’impresentabile Eterogeneo). La trasmissione, ricorda Antonio, è nata intorno a una immagine: la tribù degli Ottimisti che, di fronte a un cielo azzurro, continuano a ripetere che – appunto – «Non c’è problema» e intonano il loro inno «Tutto va bene», e ci offre il ritratto dell’ipocrita disperazione di questi tempi incerti.
Non c’è problema ha avuto diversi momenti «cult». Per cominciare i mostruosi «Perego’s», insieme sketch all’antica e paradossale ribaltamento della formula del serial, ovvero la telenovela satirico-esistenzial-disperata che ha per protagonista la famiglia dell’implacabile industriale brianzolo visto sulla scena in Giù al Nord; ma questa volta «il Perego» è corredato della moglie svampita Jasmine e del figlio degenere Manuel, un «Harry Potter da vecchio», oltre che «drugà». Sospesi tra gli ultimi echi del boom e l’imperativo dello sfruttamento e del consumo di tutto e tutti, i Perego recitano il loro mantra: «Siamo felici, dai, siamo sullo stesso divano, uniti... siamo una famiglia modello... siamo ricchi e guardiamo Domenica in..». Un particolare davvero agghiacciante: noi guardiamo i Perego’s nel nostro televisore, mentre anche loro guardano la tv e probabilmente vedono noi...
Arricchiscono questa galleria di degenerazioni il deputato-avvocato calabrese Cetto, ovvero l’Italia del malgoverno minacciosa e violenta, impresentabile, con l’irresistibile slogan «Chiù pilu per tutti, chiù pilu per tutti». E ancora il sommelier tutta scena e nessuna sostanza che come un clown bianco, lunare e insensato, si esibisce in assurde e inutili degustazioni.
A dare attualità a Non c’è problema, oltre alle maschere di questa novella commedia dell’arte del nostro orrore quotidiano, una serie di interventi di persone «reali», chiamate a interventi «seri». Il problema, oltretutto, è che Antonio Albanese è un attore che legge molto e ama le cose che legge, e dunque si fa delle domande. E poi ascolta buona musica (e a volte dà una mano, alla musica, offrendo la sua voce a Pierino e il lupo o alla prima mondiale Buffa opera del compositore Luca Francesconi): allora ecco una serie di intermezzi musicali, confluiti addirittura in un disco, Non c’è problema Soundtrack, dove oltre alla sigla The Switch dei Planetfunk figurano anche i brani preferiti da Frengo e alcuni dei duetti, come quelli con Fabrizio Bentivoglio e Cristiano De André (ne mancano altri, dove Albanese si era in pratica limitato a un contrappunto mimico-gestuale).
E’ una antropologia del mostruoso contemporaneo, quella che Albanese si è incaricato di catalogare, studiare e impersonare nei suoi spettacoli teatrali, nei suoi film, nella televisione che fa. Ma non si tratta mai di imitarli, questi mostri, angoscianti e teneri, metafisici e sociologici, poetici e concreti. Si tratta insieme di crearli e di scoprirli: perché da un lato nessuno, in fondo, è un mostro. E dall’altro siamo tutti mostri. La volgarità di queste maschere contemporanee – il primo bersaglio di molte invenzioni di Antonio Albanese –, le loro debolezze, le loro tenerezze, le loro violenze, le loro vulnerabilità, fanno parte di noi. Che ci piaccia o no.