ateatro 66.30 Debutta a Prato l'Antigone con la regia di Federico Tiezzi Autopsia di una tragedia. Una intervista a Federico Tiezzi di Oliviero Ponte di Pino
Debutta il 14 aprile al Teatro Metastasio di Prato (con repliche fino al 18 e poi a
Modena, Teatro Storchi, dal 21 al 25 aprile 2004 e a Correggio (RE), il 27 e 28 aprile 2004) l’Antigone di Bertolt Brecht con la regia di Federico Tiezzi. Qui di seguito l’intervista al regista che comparirà sul programma di sala dello spettacolo. Illustrano il testo i bozzetti di Francesco Calcagnini, che firma le scenografie.
Perché, dopo aver portato in scena un testo giovanile di Brecht come Nella giungla delle città (che hai allestito nel 1997) hai deciso di passare a un testo del Brecht più maturo, e per di più scegliendo la riscrittura di un classico?
I testi di Brecht che preferisco sono, in effetti, quelli giovanili, nei quali si consumano le ceneri dell’espressionismo: testi sperimentali sia dal punto di vista linguistico sia da quello scenico. Questa Antigone, riscritta da Sofocle attraverso Hölderlin, mi interessa perché è un poco parente dei testi giovanili; perché c’è sullo sfondo Hölderlin con la sua traduzione, sublime e di importanza capitale per la grande cultura tedesca moderna nonostante le ‘sviste’ e gli ‘equivoci’ che gli furono rimproverati dai suoi contemporanei. Mi interessa perché mi spinge a lavorare su Sofocle e la tragedia classica; infine mi riporta a un momento cruciale della giovinezza, quando vidi lo spettacolo del Living Theatre, protagonisti Judith Malina come Antigone e Julian Beck nel ruolo di Creonte. Avevo diciassette anni e quel lavoro segnò la mia vocazione in maniera indelebile... Quello che accomuna Brecht agli altri autori sui quali ho lavorato – penso a Pasolini o a Testori, a Bernhard...
...e magari anche a Müller e Beckett...
...è l’anti-classicità: tutti sono portatori di valori non ortogonali, anti-accademici. La scrittura di questi autori si pone il problema della ‘scena’, dello stile rappresentativo, non solo letterario. Sono autori, insomma, con i quali posso continuare il mio lavoro di ‘scrittura scenica’, più che di ‘messa in scena’. E tra gli sperimentali manca un nome, quello di Dante – che secondo Contini è il più sperimentale di tutti – al quale proprio qui a Prato ho dedicato tre anni di lavoro per enucleare il teatro presente nella Commedia.
Quando dici che questi autori si pongono il problema della scena teatrale, ti interessano perché se lo pongono dal punto di vista della regia o da quello dell’attore?
Tutti e due. All’attore danno combustibile linguistico e idee. Brecht, ad esempio, trasferisce i significati in un tedesco erto e scosceso, in parole, immagini e metafore fortemente espressive e falsamente razionali, piene di umori e invenzioni. Come ho potuto toccare con mano lavorando alla traduzione della Giungla delle città. Alla regia invece Brecht (come gli altri autori) offre un rapporto di collaborazione. Il testo non è pensato solo per la pagina: il riferimento alla scena, al palcoscenico è centrale. Quello che mi affascina dal punto di vista registico è confrontarmi con autori che hanno uno stile ‘scenico’: che poi posso tradire magari, disattendere, provare a rovesciare... Brecht porta con sé lo stile epico, per esempio...
Nel caso di Brecht, come fai a tradirlo?
Per esempio prendendo alla lettera le sue indicazioni e facendo scaturire le idee di regia proprio da quelle. Applicando le didascalie del Modellbuch dell’Antigone (il quaderno di regia dell’autore nel quale una serie di didascalie avevano il compito di illustrare le foto delle differenti scene) al mio spettacolo per separare i vari momenti dell’azione e ottenendo così un effetto di raffreddamento, di razionalizzazione del racconto, di antiemotività... Allo stesso modo ho inserito nello spettacolo alcuni elementi della recitazione straniata... Forse il modo per avere un Brecht non ‘brechtiano’ è proprio quello di applicare alla scena il suo metodo di lavoro, di stile. Così attraverso il teatro ‘epico’ ho fatto dell’Antigone una sorta di dramma didattico...
A questo punto sorge spontanea una domanda, che in qualche modo riflette l’esperienza di un discepolo eretico di Brecht come Heiner Müller: che rapporto c’è tra dramma didattico e tragedia?
La riscrittura che Brecht fa del testo è meno ricca dell’originale di Sofocle, e semplifica anche la traduzione di Hölderlin. Il testo brechtiano ha un’asciuttezza dimostrativa che fa immediatamente pensare al dramma didattico: c’è una divisione nettissima tra bene e male. Quando nel 1947 Brecht si mise a lavorare sul testo, l’ultima guerra era appena finita, la divisione tra male e bene era possibile, evidente. Nel suo testo l’eroina segue le diverse stazioni, i diversi quadri di una narrazione epica. La narrazione è condotta come una forma matematica che porta alla fine a un risultato necessario, direi inevitabile. Per Brecht quello di Antigone è un gesto buono, quello di Creonte un gesto cattivo. Solo che Brecht ha scritto il suo testo sessant’anni fa... Cosa risuona, invece, nelle nostre associazioni e connessioni, oggi? Antigone fa un gesto in nome della religione: a suo modo potrebbe essere quasi una integralista un po’ fanatica? Ci appare sicuramente meno libertaria e anarchica di come potevamo vederla – e di come la vedevamo sulla scorta della lettura livinghiana – alla fine degli anni sessanta; e ci si evidenzia di più che combatte nel nome del ghenos, della stirpe, della famiglia, della tribù. Prearistotelica. E Creonte, che parla in nome della ragion di stato, dobbiamo limitarci a vederlo, come voleva Brecht, come il fantoccio perverso di un potere cieco e rapace? Eppure parla anche in nome della razionalità che governa i rapporti tra gli uomini all’interno di una città... Allora Antigone non parla forse in nome dell’irrazionalità?... Insomma, nel portare in scena il testo altre sono state le domande che questo mi ha posto... sicuramente diverse da quelle che spinsero il Living Theatre a interessarsi a questa riscrittura. E il mio spettacolo non poteva che cercare una strada lontana da quella del Living, non certo per rinnegare o esorcizzare l’amore di cui avevo rivestito quell’esperienza... Al contrario, per misurare, pasolinianamente, il tempo trascorso e l’ennesima tragedia toccata alla nostra generazione: la sopraggiunta impossibilità di vedere il mondo attraverso uno sguardo – com’era quello luminoso di Julian Beck – che è certo di saper distinguere tra il bene e il male, tra la purezza rivoluzionaria e la biecaggine dell’oppressione... A suo modo anche Giorgio Strehler poteva ancora permettersi il lusso di reinventare Brecht con la certezza di far coincidere il sentimento con l’ideologia... Certamente è stato Strehler a ‘introdurmi’ alla regia sull’autore: le immagini del suo Galileo, i racconti che me ne faceva Ferruccio Marotti, che di quello spettacolo era stato assistente, quella particolare geometria dello spazio, i gesti, le maschere facciali e le posture di Tino Buazzelli (memori, forse, di quelli di Charles Laughton nel Galileo americano diretto dall’autore), gli aneddoti su come si fa a recitare lo stile epico in italiano... e soprattutto la misurabilità dello spazio, che mi parlava di una misurabilità del racconto, di una sua prospettiva... Mi diceva che ogni azione individua, ogni conflitto tra esseri umani (i personaggi) è contenuto in una scatola più grande, la Storia, con il suo scontro di classi. Solo gli idioti hanno scambiato per estetismo le formalizzazioni perfette che, del teatro di Brecht – che tra le righe le richiede – hanno fatto, pur se in modi diversi, Strehler come Beck... Gordon Craig dichiarava di lavorare per la bellezza (così si esprimeva nel discorso introduttivo agli attori di Amleto a Mosca nel 1911)... Sì, anche il ‘bello’ è politico; non solo il ‘brutto’...
Da un certo punto di vista quella che hai suggerito è una lettura sostanzialmente hegeliana della tragedia. La cosa curiosa è che per farlo hai scelto di utilizzare la riscrittura forse più anti-hegeliana del testo, quella che ha ispirato lo spettacolo del Living Theatre.
Tengo conto anche di una serie di considerazioni di Bernard-Henri Lévy, che mi erano sembrate giuste, su Creonte come portatore di cosmos, cioè di ordine. Ma non di un ordine per l’ordine, come era quello nazista (che Brecht aveva in mente) ma di un ordine fondato sulla ragione. Certo, Antigone porta con sé un gesto di pietà, e per quanto possa essere letto come un gesto integralista, è quello che tutti noi faremmo: seppellire il nostro fratello. Nel contrasto tra queste due letture ritrovo il nocciolo della tragedia di Sofocle.
Come ti confronti con il testo, dal punto di vista della regia?
L’ambientazione è una scena fissa: un obitorio, con letti sui quali stanno cadaveri: sono il coro dei Vecchi di Tebe... sono anche coloro sui quali Creonte domina: un mondo di cadaveri (di morti viventi, o viventi che aspettano con terrore l’arrivo dei guerrieri da Argo). All’interno dell’obitorio avviene la dissezione della tragedia: una dissezione linguistica e strutturale del racconto, un’analisi, una sorta di autopsia che metta a nudo i nervi, i muscoli, i tessuti del racconto tragico. Come in fondo chiedeva Hölderlin nel suo testo teorico sul tragico....
Ma in questa autopsia vai cercare i nodi strutturali oppure i lapsus?
I nodi strutturali...
...perché i lapsus non li hai trovati o non li hai cercati?
Brecht è pieno di lapsus, ma ho preferito l’analisi serrata. Rileggere il testo secondo un taglio più analitico e didattico possibile. Come passato alla dissezione dell’intelligenza di un Wittgenstein. Poi su tutto c’è la malinconia... di Brecht, e mia...
... Malinconia?
Sì: malinconia. Mi venne spontanea al pensiero questa parola quando, qualche settimana fa, Gianfranco Capitta mi chiese per il suo giornale una riflessione sul perché della rimozione di Bertolt Brecht nel teatro di oggi. Come a volte accade solo quando si viene stimolati dall’esterno a una risposta, mi chiesi: «Perché voglio fare Brecht?» E d’acchito, pensando a una possibile risposta, mentre uscivo in una Napoli pazza di vita dal Teatro San Carlo, dove stavo lavorando al mio Verdi preferito, quello ‘popolare’ e sanguigno del Trovatore, avendomi colpito una luce obliqua di tramonto e il suono d’una musichetta di strada, mi venne di dire: per la sua malinconia...
Un impulso irrazionale...
Certo, un’intuizione che, in quanto tale, si presenta senza titoli di pensiero, di riflessione. Poi la ragione reclamò subito i suoi diritti sulle motivazioni del cuore e mi riportò indietro, col pensiero, a una decina d’anni fa, a Camaldoli, quando, in una pausa degli incontri che l’allora priore Benedetto Calati organizzava mettendo a confronto persone tra le più diverse purché unite dalla voglia di dialogare, Rossana Rossanda mi chiese quali fossero i miei progetti per il futuro. Io le dissi che avevo intenzione di trarre uno spettacolo dal primo dei Tre lai di Giovanni Testori, quello dedicato a Cleopatra e poi di affrontare il mio primo Brecht, quello giovanile di un testo ambiguo e fermentante come Nella giungla delle città.... ‘Benissimo!’, esclamò Rossana, ‘Brecht va sempre bene!’... Era vero. Brecht va sempre bene. Come Verdi. Come Cechov...
E dunque : perché Brecht va sempre bene?
Troppo facile sarebbe rispondere con l’ideologia, i tempi bui, la reazione – Dio mio! fino a qualche anno fa si sarebbe detto strisciante... oggi, ahimè, conclamata e conclamante... in atto – le ingiustizie sociali sempre più spaventose, i conflitti su scala planetaria... Nell’Antigone in particolare, ce ne sarebbero a iosa dei cosiddetti ‘motivi d’attualità’... Vi si parla di una guerra, mossa da Tebe ad Argo perché la prima vuole impossessarsi delle miniere della seconda... C’è un detentore del potere – Creonte – che usa tutta la sua dialettica per spingere i maggiorenti della città a manipolare con tutti i mezzi di comunicazione possibili le coscienze del popolo affinché questo non si lamenti delle spese sostenute per la guerra... C’è una ragazza che antepone al guscio vuoto di una legge impietosa il cuore caldo della sua pietà per i morti, per tutti i morti, non solo quelli caduti in battaglia combattendo la ‘guerra giusta’...
Ma tu non hai mai scelto, mi pare, un testo in base ai suoi contenuti...
E’ vero. Tuttavia sento che oggi troppo facile sarebbe rispondersi con la giustificazione opposta del fatto che Brecht scriveva meravigliosamente per la scena, che conosceva il teatro in tutte le sue pieghe e che dunque offre a chi lo utilizza a fini spettacolari un materiale di prim’ordine, con personaggi indimenticabili, con un senso del teatro straordinario, con una lingua densa e ricca... Ancora sarebbe facile rispondersi dicendo che lo si sceglie per entrambe le ragioni : la compresenza di un contenuto importante con una forma scenica che lo esprime alla perfezione... Allora, alla vigilia delle prove per la Giungla, riflettevo soprattutto su questioni di linguaggio scenico. Mi chiedevo: cos’hanno in comune Brecht e Testori? E mi rispondevo: l’invenzione di una lingua per la scena, di una lingua specifica per la propria idea di scena, la volontà e la capacità di non cedere al ricatto della pagina, di non pensare ai posteri ma alla platea dei contemporanei, l’amore nei confronti degli attori – un amore tutto immanente alla scrittura, un amore che non ha bisogno di dichiararsi teoricamente perché si attua nella prassi dell’invenzione di parole fatte apposta per loro, commisurate alle voci e alle assi dei palcoscenici – come sempre è stato del resto nel vero teatro, quello dei Goldoni, degli Shakespeare, dei Molière, di quella forma della parola che non è – come credevano gli idealisti e come credono, ahimé, ancora tanti intellettuali di oggi – non è, dicevo, un limite della letteratura... Pensieri vaganti mentre scendeva la sera su via Toledo e nella testa mi risuonava la romanza di Leonora : ‘Tacea la notte placida e calma in ciel sereno, la luna...’ ed ecco che, come avviene a volte nella chimica della mente, tutto è andato a posto e per un attimo ho avuto chiara la risposta... Perché Brecht? Ma certo : per l’inquietudine di chi cerca risposte e non ne trova ma ugualmente non si ferma... per la caparbietà nel voler penetrare i segreti del vivere sociale e per il sentimento del tempo che passa... per la nettezza con cui sono scolpite figure indimenticabili e per la cura con cui sono scritti sempre anche tutti i caratteri minori, delineati con tratto grottesco e marcatamente espressionista, ma anche memori della tradizione della commedia dell’arte... per la convinzione che il teatro possa essere uno strumento didattico: qualcosa che ci aiuta a imparare a vivere... per la furia visionaria con cui torna e ritorna ad accamparsi al centro della scena lo scontro impietoso tra la giovinezza che si apre alla vita e il declinare dell’età che si ribella al destino... Sì: era proprio come avevo pensato intuitivamente all’inizio: per la sua malinconia...
Ma torniamo all’impostazione analitica: con una forte enfasi sui contenuti, non si pone al polo opposto rispetto al teatro di poesia che hai teorizzato e praticato in questi anni?
No, è la stessa cosa: solo che tra Genet a Tangeri, Ritratto dell’attore da giovane e Vita immaginaria di Paolo Uccello (i miei testi degli anni Ottanta) e questa regia ci sono in mezzo vent’anni durante i quali ho vissuto nel mondo, nella vita... Ricordi quella trilogia? Erano tre testi assolutamente dimostrativi, soprattutto il Ritratto. Se la scrittura di Brecht è molto asciutta, riesco poi ad amplificare sulla scena tutti gli elementi che mi avevano portato al teatro di poesia, anche se in questo caso sto molto attento ai significati. Ma per certi aspetti sono diventato quasi un razionalista storico, è vero...
Anche rispetto alle Scene di Amleto, dove giocavi in chiave post-moderna la molteplicità delle interpretazioni del testo...
Qui si tratta di portare tutto a un fine, a una prospettiva. In Brecht tutto è prospettico. Ecco, il grande fascino che ho sempre provato per lui viene proprio da questa sua prospettiva assoluta, perfino ottusa: dove però trovi malinconia, e voragini di buio, abissi della mente, come diceva Samuel Beckett. Brecht aveva il culto della ratio: ma dentro quella ragione dilagano sacche di buio e di notte che mi catturano. Poi Brecht mi ricorda la mia giovinezza. ‘Il caos è finito. E’ stato il tempo migliore’ così si conclude Nella giungla delle città....
E il lavoro con gli attori?
Li ho scelti con attenzione, uno dopo l’altro, per una loro epicità naturale, per una facoltà oltre che razionale straniante. Per una immaginazione creativa che potesse rimpolpare le maschere, a volte un poco deboli, del testo... Sono quasi tutti attori con cui avevo già lavorato: altri li conosco da anni...
Con loro lavori in chiave di teatro epico?
Quello che mi interessa è che i personaggi abbiano carne e sangue. Desidero che Antigone sia una fanciulla pazza, esaltata e piena di emozioni, così come ce la consegna Hölderlin. Brecht la raffredda troppo. Il lavoro con Chiara su Antigone è stato proprio quello di creare una passione fredda: non per raccontare Antigone, ma per viverla dal di dentro. Per Creonte, con Sandro, ho fatto un lavoro sull’ironia, sul distacco: la sua è una razionalità ironica, la razionalità più pura. Non potevo pensare a Creonte solo come a una maschera grottesca di potere. Ho chiesto a Sandro di enucleare anche gli aspetti ‘psicologici’ presenti nella funzione di chi esercita il potere. Il conflitto tra questi due personaggi lo vorrei concreto, umano... Così come ho cercato di lavorare su una concreteza di scontro non solo mitologico quando al Creonte già vacillante per l’andamento della guerra si contrappone la violenza visionaria di Tiresia, il veggente cieco, l’ermafrodito che vive ai margini della società. Tiresia è Giampiero Cicciò, con cui avevo già lavorato per un testo di Pasolini. E l’ho chiamato proprio per ricollegare la visionarietà profetica del personaggio alla misteriosa capacità di prevedere il futuro che Pasolini manifestò negli anni estremi. Così com’è umanissimo il conflitto tra Creonte ed Emone (Alessandro Schiavo), tra i quali Brecht insinua uno dei suoi ricorrenti motivi che generano dramma: il contrasto delle generazioni, la gioventù che si scontra con l’età matura... Questo scontro si ripete anche nella scena, che Brecht delinea con tratto giustamente comico, che a Creonte oppone un soldato (Massimiliano Speziani); e in quella, che invece vorrei lirica ed epica insieme, in cui un altro soldato (Fabio Mascagni) racconta al tiranno la morte del figlio Megareo. E non mi dispiacerebbe suggerire l’idea che sia lo stesso Megareo, già morto, che appare al padre – in sogno o in forma di visione – a rivivere la propria morte... Anche il rapporto tra il Coro (Silvio Castiglioni, Marion D’Amburgo, Massimo Grigò, Lucia Ragni) e la dolce, inerme sorella Ismene (Debora Zuin) è in fondo un ennesimo aspetto dell’incomunicabilità tra vecchi e giovani...
Uno degli elementi fondanti dello straniamento è la dialettica tra quello che succede in scena e quello che fanno gli attori-personaggi...
Qui mi prendo il massimo della libertà: non voglio essere troppo rigido, perché il testo è già didattico e non voglio che risulti schematico e troppo freddo.