ateatro 115.20 Il teatro nell'era della globalizzazone? Anteprima da Mimma Gallina, Organizzare teatro a livello internazionale, Franco Angeli, Milano, 2008 di Oliviero Ponte di Pino
E’ in libreria il nuovo libro di Mimma Gallina, Organizzare teatro a livello internazionale. Linguaggi, politiche, pratiche, tecniche (Franco Angeli, Milano, 2008, 320 pp., euro 26,00, realizzato in collaborazione il Politecnico della Cultura delle Arti delle Lingue), con contributi di Fanny Bouquerel, Giovanna Crisafulli, Andrea Pignatti, Oliviero Ponte di Pino e Alessandra Vinanti.
Il voume verrà presentato venerdì 22 febbraio, ore 18.00, alla Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano alla presenza degli autori.
In anteprima per il lettori di ateatro, un estratto del capitolo iniziale di Oliviero Ponte di Pino.
La città e il carrozzone
Il teatro si muove da sempre tra due poli in apparenza inconciliabili e tuttavia entrambi indispensabili.
Da un lato il teatro è espressione di una comunità, è un’arte civile che presuppone un radicamento nella collettività che è insieme il suo committente e il suo destinatario. Il teatro è dunque un motore di identità, un’occasione attraverso la quale una società si mette in scena, nelle sue varie articolazioni: con la sua cultura, con il suo immaginario, con le sue strutture sociali, con i suoi rapporti di potere, ma anche con le proprie contraddizioni e conflitti.
D’altro canto, fin dai tempi del mitico carro di Tespi il lavoro dell’attore è legato al viaggio. Gli istrioni che nelle piazze, nei mercati e nelle fiere “trasformano e trasfigurano il proprio corpo sia con turpi salti o gesticolazioni sia turpemente denudandosi, sia ancora indossando orribili maschere” (così li definisce il Penitenziale di Tommaso di Cobham, arcivescovo di Canterbury, alla fine del XIII secolo) sono giramondo che fanno parte di una sorta di società parallela, e forse di una fragile utopia. Anche perché spesso la città li emargina, ritenendo i guitti moralmente e politicamente sospetti. Il teatro è dunque incontro con l’altro e con il diverso, è esso stesso esperienza di diversità per attori e pubblico, e diventa dunque momento di scambio e di conoscenza.
La diversità è la materia base del teatro. Il fatto che oggi sia vissuta come una drammatica condizione storica e che il suo tema inquieti i governi e i singoli individui, non deve farci dimenticare che essa è ciò su cui il teatro ha sempre lavorato. Chi fa del teatro la propria professione deve saper lavorare sulla propria diversità. La deve esplorare, tesserla, trasformando la cortina che ci divide dagli altri in un velo ricamato, affascinante, attraverso il quale gli altri possono guardare, e ciascuno possa scoprire le proprie visioni. (...) Per un immigrato come me, che afferma che le sue radici sono nel cielo, il teatro è divenuto lo strumento per cercare l’incontro e lo scambio, per superare l’indifferenza reciproca. E’ una tecnica che costruisce relazioni, aiuta a resistere all’omologazione e costruisce ponti.
(Eugenio Barba, discorso in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Plymouth il 27 ottobre 2005)
Paiono così contrapporsi e intrecciarsi un’ideologia urbana che dà al teatro una forte impronta politica, e una mitologia nomade, che sottolinea invece la valenza antropologica dell’incontro teatrale.
Stabili e scavalcamontagne
Ogni spettacolo teatrale nasce all’interno di un contesto che ha determinate connotazioni sociali e politiche, una tradizione culturale ed estetica, e dunque un preciso linguaggio. In questo contesto ha anche, naturalmente, il proprio pubblico, in grado di cogliere e decodificare i segni e i messaggi, le emozioni e le idee che quello spettacolo vuole trasmettere: e naturalmente quel pubblico può reagire con il rifiuto e con lo scandalo, perché il teatro può anche essere provocazione (e anche perché spesso, come recita l’adagio, nemo propheta in patria).
Dopo di che, uno spettacolo, o meglio una compagnia, può viaggiare, al di fuori del contesto in cui è nato e cresciuto. E’ inutile sottolineare l’importanza di questi vagabondaggi. L’esempio canonico riguarda gli attori italiani che nel Cinque e Seicento portarono la Commedia dell’Arte in tutto il continente e, si può dire, crearono il teatro europeo, soprattutto per la straordinaria fortuna che ebbero a Parigi.
Prima di varcare le Alpi in cerca di fortuna, le nostre compagnie di “scavalcamontagne” erano già abituate a viaggiare lungo la penisola, e gli attori italiani continuano a farlo ancor oggi, molto più dei loro colleghi. In questo il teatro italiano è assai particolare, proprio nella sua predisposizione al nomadismo. Anche perché dal punto di vista dello spettacolo il nostro paese non ha mai avuto (e non ha ancora oggi) una capitale. O meglio, ne ha avute tante, di ricchissima tradizione: da Firenze a Ferrara, da Mantova a Venezia, da Napoli a Milano. Nessuna di queste città era però in grado di garantire le lunghe teniture che permettono la sopravvivenza di una compagnia stabile: più precisamente, per una troupe era più redditizio e meno rischioso cambiare città e rinnovare il pubblico. Ancora oggi a Milano e Roma uno spettacolo di richiamo si replica per tre o quattro settimane al massimo, e nelle altre città italiane le permanenze sono molto più brevi. Ogni compagnia tende dunque a produrre un nuovo allestimento all’anno (o addirittura ogni due anni), da far girare nel corso della stagione nelle diverse piazze.
In questo il nostro paese è molto diverso dalla Francia o dall’Inghilterra, dove l’attività teatrale tendeva (e tende) a concentrarsi nella capitale; le tournée in giro per il paese avevano una importanza relativa e l’attività teatrale fuori dalla capitale era ridotta (anche se negli ultimi decenni sono stati fatti seri tentativi di decentramento, soprattutto in Francia). Metropoli come Parigi e Londra, con il loro grande bacino di utenti, consentono oggi agli spettacoli di maggior successo teniture di mesi – o addirittura di anni, come nel caso dei musical, che richiedono enormi investimenti produttivi che si possono ammortizzare solo su tempi lunghi.
Il modello italiano è altresì molto diverso da quello tedesco, dove i teatri erano invece legati originariamente alle diverse corti principesche e ducali, e sono poi diventati teatri municipali caratterizzati da una forte stabilità. Tipicamente in Germania la compagnia della città tiene in repertorio un numero di nuovi allestimenti (anche sei-otto) e di riprese sufficiente a coprire (quasi) tutta la stagione. La compagnia e l’istituzione sono dunque strutturate per rispondere a queste esigenze.
Il problema della lingua: grammelot e sopratitoli
La collettività cui fa riferimento una compagnia può dunque avere orizzonti assai diversi: una piccola città di provincia oppure la metropoli dove hanno sede i centri del potere, o addirittura un’intera nazione dove è necessario trovare le sollecitazioni più adatte per ogni piazza.
Vi è tuttavia un orizzonte cui deve far riferimento ogni compagnia teatrale, ed è quello della sua comunità linguistica.
Quello della lingua in teatro è un confine difficile da superare. E’ chiaro che lo spettacolo non è solo il testo drammatico: è anche mimica e gestualità, suono e spazio, luce e movimento. In tradizioni teatrali dove la lingua e la recitazione sono state maggiormente codificate (basti pensare all’Inghilterra da Shakespeare in poi, o alla Francia da Corneille e Racine alla Comédie Française), la voce e la dizione hanno un peso determinante; gli attori italiani sono invece apprezzati da sempre soprattutto per la loro capacità di “recitare con il corpo”, un’abilità che ha aiutato a superare la barriera della lingua e a ottenere straordinari successi all’estero: un recente clamoroso esempio è la fama planetaria di Roberto Benigni, con la sua fisicità esplosiva e liberatoria.
Un’altra antica abilità degli attori italiani, ripresa e rilanciata da Dario Fo, è il grammelot: “una serie di suoni senza senso apparente ma talmente onomatopeici e allusivi nelle cadenze e nelle inflessioni da lasciar intuire il senso del discorso” (Le commedie di Dario Fo, vol. II, p. 133), “un gioco onomatopeico di suoni, dove le parole effettive sono limitate al dieci per cento e tutte le altre sono sbrodolamenti apparentemente sconclusionati che, invece, arrivano a indicare il significato delle situazioni” (Il mestiere dell’attore, p. 67). Lo stesso Fo fa risalire l’invenzione del grammelot ai comici dell’arte che, ai tempi della Controriforma, utilizzavano questo trucco per sfuggire alla censura ecclesiastica e politica, attenta soprattutto ai testi e ai loro messaggi, e lo avrebbero poi usato per farsi capire all’estero.
Per limitare le difficoltà determinate per il pubblico dall’uso di una lingua straniera, si possono utilizzare altri accorgimenti. A partire da quello cui ricorre lo stesso Fo prima di esibirsi in un brano in grammelot: lo fa precedere da un breve prologo-didascalia in cui vengono sommariamente anticipati la situazione iniziale e lo sviluppo drammaturgico di quello che verrà poi recitato. E’ anche possibile distribuire agli spettatori una breve sinossi scritta che descriva la sequenza delle scene dello spettacolo. In alternativa, grazie alle moderne tecnologie, si possono predisporre una traduzione simultanea con cuffie (che però sovrasta la voce degli attori) o i sopratitoli proiettati su appositi schermi al di sopra o ai lati del boccascena. E naturalmente gli attori sanno da sempre che è molto più facile seguire uno spettacolo di cui si conosce già lo sviluppo, almeno a grandi linee, come nel caso dei grandi classici del teatro, dai tragici greci a Shakespeare.
Ma al di là di questi ausili, è risaputo che alcuni spettacoli “viaggiano” all’estero più facilmente di altri: sono quelli dove gli aspetti testuali hanno minore importanza, e dove invece viene enfatizzata la scrittura scenica, ovvero l’insieme di tutti gli elementi che concorrono all’evento spettacolare, “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione” (Giuseppe Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, p. 325). Sono così favoriti la danza e il mimo, e gli spettacoli musicali; ancora, le diverse forme di teatrodanza e il nouveau cirque. Ma anche l’avanguardia che – proprio lavorando sulla pratica della scrittura scenica – a partire dagli anni Sessanta e Settanta ha valorizzato il corpo e l’immagine, e poi ha usato sulla scena le nuove tecnologie.
Incontri sconvolgenti
Oggi, nell’era della mondializzazione, quando il destinatario di ogni nostro gesto o messaggio è (almeno potenzialmente) l’intero pianeta, diventa sempre più difficile trovare l’equilibrio tra globale e locale, tra la comunità in cui si è nati e cresciuti e un pubblico il cui gusto è plasmato da artisti e celebrities che invadono la mediasfera, tra la fedeltà alle proprie radici e la proiezione su una platea pressoché infinita. Nel “qui e ora” planetario della CNN e di internet, la città e il viaggio sembrano aver perso il loro senso. Dopo l’esplosione delle comunicazioni di massa, il teatro appare una forma d’arte e comunicazione pateticamente élitaria: qualunque mediocre trasmissione televisiva raggiunge un pubblico molto più vasto dello spettacolo di maggior successo. Tuttavia proprio questa diversa e più antica misura nel rapporto con lo spettatore può aiutarci a indicare una strada: quello che può dare il teatro non sono i grandi numeri, ma l’intensità della presenza e la profondità dell’esperienza.
E’ stata proprio l’intensità sconvolgente di alcune presenze a cambiare in più di un’occasione la storia del teatro. Anche qui gli esempi potrebbero essere numerosi, ma bastano due episodi chiave della storia del teatro del Novecento.
Le apparizioni moscovite di Ernesto Rossi e Tommaso Salvini – che come molti altri grandi attori italiani, dai tempi degli Andreini “Comici Gelosi” e di Tristano Martinelli, straordinario Arlecchino nella Parigi di Maria de’ Medici, a quelli della Duse, vennero acclamati in tutta Europa – ebbero un effetto folgorante sui teatranti russi: proprio ammirando il Romeo di Rossi e l’Otello di Salvini e riflettendo sulla loro arte, Konstantin Stanislavskij diede un impulso decisivo a una riflessione destinata a fondare la regia e la recitazione moderni.
Qualche decennio più tardi, all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, Antonin Artaud assistette per la prima volta a uno spettacolo balinese: quell’incontro fece scattare un’altra scintilla destinata a rivoluzionare il teatro contemporaneo, fino ad approdare alle teorizzazioni del Teatro della Crudeltà. Probabilmente quello che Artaud vide (o credette di vedere) non corrisponde a quello che è effettivamente il teatro balinese, e oltretutto il contesto in cui venne presentato quello spettacolo appare oggi politicamente ambiguo: ma l’importante è che la visione di un teatro “altro” e sconosciuto ebbe l’impatto di una rivelazione.
Lo scambio tra culture e tradizioni diverse è un’esperienza che può arricchire entrambi. Chi viaggia, portando la propria arte in nuovi mondi e offrendosi a nuovi sguardi, può utilizzare questa esperienza per aggiungere altri colori alla propria tavolozza e alle proprie tecniche di promozione: già nel Cinquecento Tristano Martinelli seppe imporsi sulla difficile piazza di Parigi dopo una complessa riflessione su di sé e sulla maschera di Arlecchino, e grazie a un conseguente e adeguato marketing.
Per lo spettatore, la visione dell’altro, l’immersione in un universo inesplorato, può avere un impatto dirompente e destabilizzare il suo immaginario (anche se spesso le novità “esotiche” vengono progettate e diffuse proprio per confermare e lusingare i luoghi comuni più prevedibili).
Non è un caso, allora, che Faust e don Giovanni – probabilmente i due unici miti moderni, i soli eroi tragici che negli ultimi secoli siamo stati in grado di aggiungere alle ricchissime mitologie antiche e classiche – abbiano viaggiato a lungo tra diverse tradizioni.
Il dottor Johannes Faust, medico e negromante tedesco, amico di Lutero e Melantone, divenne figura leggendaria in Germania grazie a vari Volksbücher (come quello di Johann Spiess, pubblicato nel 1587) per approdare nel 1592, grazie a una traduzione anonima, in Inghilterra e diventare l’anno successivo protagonista del capolavoro di Christopher Marlowe; tornato in Germania attraverso gli spettacoli di burattini, venne ripreso da Goethe nel 1772 in una riflessione creativa che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Il seduttore di Siviglia (come ha raccontato magistralmente Giovanni Macchia in Vita, avventure e morte di Don Giovanni), partito nel 1630 dalla Spagna di Tirso de Molina, arriva attraverso le compagnie dei comici italiani dal Regno di Napoli fino alla Parigi di Molière e alla Vienna di Mozart.
La capacità di adattamento di Faust e don Giovanni è probabilmente la prova della loro forza archetipica. O forse, più precisamente, le loro figure si sono andate arricchendo e affinando proprio attraverso i viaggi e le peregrinazioni da una cultura all’altra, fino a diventare patrimonio condiviso.
La nascita del teatro moderno: dal grande attore alla regia
Fino a pochi decenni fa l’Italia era un paese piuttosto povero, e dunque poco attraente per chi avesse voluto far fortuna esibendosi al di qua delle Alpi. Inoltre, come abbiamo accennato, il nostro paese è portatore di una ricchissima tradizione teatrale, che affonda le radici da un lato in una realtà antropologica e sociale assai varia, articolata in mille particolarità e tradizioni linguistiche (in primo luogo i dialetti) e culturali (basti pensare alle maschere, a cominciare ovviamente da Arlecchino e Pulcinella); e questa tradizione ha saputo mantenere un filo diretto con la straordinaria fioritura culturale delle corti rinascimentali. Il nostro è dunque un teatro insieme colto e popolare, dove da sempre s’intrecciano alto e basso, la corte e le campagne: basti pensare al Ruzante, apprezzato nel contado padovano e nei palazzi veneziani.
La bilancia commerciale del settore teatrale per l’Italia è stata dunque per secoli tendenzialmente in attivo. Si è già accennato alle fortune straniere dei Comici dell’Arte e dei grandi attori dell’Ottocento e dei primi del Novecento, i quali potevano oltretutto contare sull’affettuosa attenzione delle comunità italiane residenti soprattutto in Argentina, Brasile e Stati Uniti.
La situazione cambia con l’imporsi della drammaturgia ottocentesca, nelle sue punte artisticamente più elevate, ma soprattutto con i copioni del teatro di boulevard, assai apprezzato dal pubblico borghese dell’epoca; e ancora di più con la rivoluzione teatrale novecentesca e con l’avvento della regia. Sulle nostre scene, mentre la tradizione del grande attore e quella del teatro dei ruoli a esso legato si avviano all’inevitabile tramonto, i nuovi modelli stranieri arrivano con un certo ritardo.
La cultura europea combatte feroci battaglie culturali a favore del naturalismo e dei nuovi autori. Alla svolta del secolo il giudizio su Henrik Ibsen diventa il discrimine tra modernizzatori e conservatori, così come era accaduto poco prima per il teatro musicale con Richard Wagner (che nel 1876 crea il primo e più longevo festival moderno, quello di Bayreuth). Mentre gli ultimi grandi attori italiani trionfano nelle loro tournée in tutto il mondo, sul terreno della drammaturgia l’Italia può mettere in campo il decadentismo di Gabriele D’Annunzio, con un certo successo soprattutto parigino: nel 1898 Sarah Bernhardt interpreta La città morta, qualche anno dopo Claude Débussy musica Le martyre de Saint Sébastien.
Ma all’inizio del Novecento il clima culturale sta cambiando. Il divismo trova nuovo sfogo nel cinema, il naturalismo del palcoscenico non può competere con la riproduzione della realtà sulla pellicola, l’illusionismo scenotecnico non può rivaleggiare con i trucchi di un Meliès. Ad attrarre verso le poltrone dei teatri il pubblico più sofisticato delle capitali culturali non è più l’ammirazione per il grande interprete, in grado di trasmettere potenti emozioni, quanto l’aggiornamento culturale sul quale si appoggiano la regia e la sua evoluzione. Ora gli spettacoli si muovono spesso in seguito a inviti, che sono il risultato delle scelte operate da intellettuali e funzionari chiamati a progettare e dirigere le diverse manifestazioni culturali, rivolgendosi direttamente alle compagnie oppure utilizzando le agenzie che le rappresentano all’estero. Il modello non è più quello della tournée organizzata e gestita da capocomici alla ricerca di facili guadagni. Se prima ad animare il mercato internazionale era tendenzialmente l’offerta di un impresario che investiva nel progettare la tournée e sperava di incontrare il favore del pubblico nei diversi paesi visitati dalla star straniera, ora a far muovere uno spettacolo è piuttosto la domanda di organizzatori che selezionano dalla scena internazionale le esperienze più interessanti da proporre nello scenario culturale del proprio paese.
Tra le due guerre in Italia – dove il teatro resta ancorato ai vecchi modi del capocomicato – a svolgere questo compito di aggiornamento culturale sono in particolare le rassegne legate a due grandi istituzioni culturali come il Maggio Musicale Fiorentino e la Biennale di Venezia. In queste lussuose vetrine, che per il regime fascista rappresentano insieme un fiore all’occhiello e uno stimolo alla modernizzazione della vita culturale nazionale, approdano alcuni maestri della regia: tra gli altri, nel 1933 alla prima edizione del Maggio Musicale Fiorentino partecipano l’austriaco Max Reinhardt, che allestisce ai Giardini di Boboli con una compagnia d’attori italiani Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, il suo spettacolo-manifesto, destinato poco dopo a diventare un kolossal hollywoodiano; e Jacques Copeau, con La rappresentazione di Santa Uliva nel secondo chiostro di Santa Croce; il regista francese tornerà a Firenze nel 1935 per il Savonarola in piazza della Signoria e tre anni dopo per allestire un altro testo di Shakespeare, Come vi garba (ovvero As you like it), nel cortile del Bacchino.
La stagione dei festival
Le speranze e il fervore culturale che seguono la fine della Seconda guerra mondiale si concretizzano anche nei grandi festival con vocazione internazionale. Nel 1947 nascono il Festival di Avignone e quello di Edimburgo, nel 1948 quello di Aix-en-Provence. Viene rilanciato nel 1945 il Festival di Salisburgo, inaugurato da Felix Mottl nel 1887 e rilanciato da Max Reinhardt nel 1903. La Biennale di Venezia, nata nel 1895, riapre i battenti per la prosa nel 1947 e nel 1954 porta per la prima volta in Europa il teatro No. Nel 1958 il compositore Gian Carlo Menotti dà vita al Festival dei Due Mondi di Spoleto, che pochi anni più tardi fornirà lo sfondo a uno dei grandi romanzi italiani del dopoguerra, Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino.
Ogni estate, da decenni, Avignone e Edimburgo diventano vere e proprie “città-festival”, dove accanto alla rassegna ufficiale, ospitata nei teatri e negli spazi più prestigiosi, proliferano in tutti gli anfratti disponibili gli spettacoli indipendenti e autoprodotti: sono l’off di Avignone e il fringe di Edimburgo, che presentano centinaia di proposte, spesso al limite del dilettantismo; un feroce processo di selezione lancia autori, attori, gruppi, fenomeni e mode.
Per i festival internazionali l’età dell’oro sono probabilmente gli anni Settanta: l’esplosione creativa, iniziata nel decennio precedente con l’emergere della regia critica e dell’avanguardia del nuovo teatro, tocca il culmine. Le novità e le rivelazioni si susseguono, con personalità artistiche di straordinario livello che allestiscono spettacoli-capolavoro. Possono bastare due esempi: la Rassegna dei Teatri Stabili di Firenze, dove nel 1973 si ammirano tra l’altro le nuove messiscene di Ingmar Bergman (Sonata di fantasmi) e Peter Stein (Il principe di Homburg con Bruno Ganz), sancisce l’egemonia del teatro di regia; e la Biennale veneziana diretta nel 1975 da Luca Ronconi, diventato una star grazie al successo mondiale dell’Orlando furioso nel 1969, che chiama a raccolta l’avanguardia internazionale: nel giro di poche settimane in laguna è possibile scoprire i lavori – tra gli altri – di Eugenio Barba, Peter Brook, Jerzy Grotowski, Living Theatre, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, Memè Perlini, Giuliano Scabia, Andrei Serban, Robert Wilson, tutti all’apice della loro creatività. Quella Biennale è insieme una straordinaria vetrina e un grande laboratorio, così come lo era stato poco prima anni il Festival di Nancy creato da Jack Lang, che tra gli anni Sessanta e i Settanta aveva lanciato Jerzy Grotowski, il Bread and Puppett, Bob Wilson, Pina Bausch e Tadeusz Kantor.
A mettere in crisi quel tipo di manifestazione sono da un lato l’affievolirsi delle spinte innovative, dall’altro l’aumento dei costi da sostenere per far circolare le produzioni dei grandi teatri e dei nuovi maestri della scena. Se non vogliono diventare costosi musei, i festival devono dunque trovare motivazioni diverse e nuove formule.
Una prima soluzione consiste nel progettare delle rassegne di tendenza, in grado di identificare filoni emergenti o di portare all’attenzione di critica e pubblico nuove generazioni teatrali. Nel 1985 la Biennale Venezia diretta da Franco Quadri (dopo l’edizione del 1984 dedicata ai maestri Barba, Bausch, Castri, Serban, Wilson, quasi a ricollegarsi a quella ronconiana di un decennio prima, cui lo stesso Quadri aveva collaborato), presenta i gruppi del nuovo teatro italiano, facendo debuttare i lavori di Carrozzone-Magazzini, Giorgio Barberio Corsetti, Raffaello Sanzio, Santagata & Morganti, Marco Solari e Alessandra Vanzi, Andrea Taddei-Padiglione Italia e Teatro della Valdoca.
Nel decennio successivo Teatri 90, a cura di Antonio Calbi, presenta in tre successive edizioni una nuova onda di gruppi italiani, tra cui Motus, Fanny & Alexander, Masque, Teatro degli Artefatti.
Festival di tendenza (con alcune aperture internazionali) è quello di Santarcangelo, che da trent’anni esplora le frontiere del nuovo e ne consolida la tradizione. Rassegne come questa – così come il Kunsten Festival des Arts di Bruxelles – si sono assunte il compito di scoprire e valorizzare i talenti emergenti, e dunque attraggono critici e operatori stranieri, che fungono da talent scout in grado poi di far circolare i lavori più interessanti. Ma, anche in questo caso, la formula (o forse gli artefici-autori della manifestazione) dà periodicamente segni di stanchezza e impone costanti aggiornamenti.
Un’altra alternativa alle grandi e costose vetrine è rappresentata dalle rassegne tematiche. Le più antiche sono quelle dedicate al teatro classico, anche se in genere la loro apertura internazionale è scarsa. In Italia innanzitutto a Siracusa: la prima edizione del Ciclo di Spettacoli Classici risale addirittura al 1914. In Grecia (dopo una Elettra con Katina Paxinou nel 1938 a Epidauro), sia Atene sia Epidauro danno vita nel 1955 al loro Festival del Teatro Antico (rilanciando l’attività pionieristica di Eva Palmer-Sikelianos, che nel 1927 aveva allestito a Delfi il Prometeo accompagnato da un’esibizione di ginnasti). Hanno grande tradizione anche le manifestazioni shakespeariane. La città natale, Stratford-upon-Avon, presenta da tempo spettacoli legati a Shakespeare: fin dal 1769, quando David Garrick organizza una prima rassegna (dove peraltro non è presente alcun testo shakespeariano); dalle rappresentazioni di Stratford nasce nel 1961 la Royal Shakespeare Company. A Stratford, nell’Ontario, Alec Guinness, protagonista di Riccardo III, inaugura nel 1953 uno dei più prestigiosi festival shakespeariani. Cinque anni più tardi, a Verona la prima edizione del Festival Shakespeariano si apre naturalmente con Romeo e Giulietta, tradotto da Salvatore Quasimodo e affidato alla regia di Renato Simoni e Giorgio Strehler. Ma sono sempre più numerose le “personali” dedicate a uno scrittore, magari in occasione di qualche anniversario (da Henrik Ibsen a Samuel Beckett, da Bertolt Brecht e Heiner Müller a Hans Christian Andersen), a un regista (per esempio Pina Bausch alla Biennale del 1984, o Eimunatas Nekrosius) o a una compagnia o a un gruppo (come l’Odin Teatret o la Socìetas Raffaello Sanzio), presentando tre-quattro spettacoli con contorno di incontri e seminari.
Un’altra formula interessante è quella adottata da Intercity, la rassegna creata a Sesto Fiorentino da Barbara Nativi, che dedica monograficamente ogni edizione a una diversa capitale teatrale internazionale.
Malgrado i segnali di crisi e le difficoltà a rinnovare formule spesso estenuate, festival e rassegne sono ormai entrati stabilmente nel panorama culturale, e anzi si moltiplicano, senza necessariamente coinvolgere le ospitalità internazionali che danno solitamente lustro a iniziative di questo genere, o concentrandosi su un nome di grande richiamo. Il format finisce per compenetrarsi alle “normali” stagioni dei teatri cittadini, che contano sull’appeal della formula per dare una struttura al loro progetto (e magari per attirare ulteriore pubblico), anche se non si tratta magari di un autentico festival ma solo di un intenso weekend, o di due o tre spettacoli accomunati da un qualche elemento comune.
Nessuno sa quanti siano esattamente i festival e le rassegne made in Italy, ma siamo certamente nell’ordine delle migliaia, anche se le manifestazioni di una qualche risonanza sono molto poche. E nessuno sa quanto possa costare questa “Festivalia” (il termine è un’invenzione di Ennio Flaiano), ma certamente il suo fatturato complessivo ammonta almeno a diverse decine di milioni di euro (in grandissima parte denaro pubblico).
Le difficoltà dei capostipiti sembrano solo aver liberato la fantasia dei più piccoli (e giovani): dunque rassegne monografiche o schieramenti di tendenza, omaggi a grandi uomini, generi o capolavori del passato e del presente, contaminazioni con altre discipline, media, perversioni, religioni... Con la possibilità, sempre più ambita, di uscire dai teatri (soprattutto d’estate) e tracimare in altri spazi, metropolitani o eccentrici: sferisteri e catacombe, carceri e conventi, mense e capannoni, stalle e stazioni...
Quella dei piccoli festival è una forma leggera, flessibile, inventiva, che permette a realtà agili e innovative di aggirare i vincoli di un sistema teatrale bloccato e bolso. Offre spazi di sperimentazione e ricerca, anche nel rapporto con il pubblico e con lo spazio (oltre che migliori possibilità di contrattazione con i funzionari degli enti locali). Sono molti i gruppi e le compagnie che in questi anni producono i loro lavori grazie al sostegno di festival e rassegne. Naturalmente questa allegra sarabanda finisce per essere piuttosto dispersiva, sia sul versante delle risorse sia su quello dell’attenzione.
L’altra strada è quella della cosiddetta “eventizzazione”, ovvero la creazione di spettacoli per qualche motivo eccezionali (a cominciare dai costi), e dunque in grado di catturare l’attenzione dei media (e dunque, si presume, del pubblico opportunamente informato e incuriosito). E’ una strada che hanno seguito e seguono diversi festival, oltre che molti enti pubblici e istituzioni culturali. Ha tuttavia diverse controindicazioni. In primo luogo il “grande evento” concentra le risorse su iniziative effimere che si consumano immediatamente, senza effetti strutturali. Molto spesso l’evento viene consumato anticipatamente dai media, a prescindere dall’effettiva qualità artistica e dal rapporto che costruisce con il pubblico. Inoltre l’eventizzazione (e in parte anche la festivalizzazione) sposta l’accento dalla dimensione “feriale”, civile e politica, del teatro, e insomma dalle stagioni “normali”, che hanno impatto più profondo sul tessuto culturale. Puntare su pochi eventi “straordinari” offre grande e rapida visibilità a chi lo promuove (politici e sponsor tra tutti), ma può anche servire a nascondere le lacune della normale attività.
Oltre i festival
Questi sono alcuni degli elementi che hanno portato a sviluppare nel corso degli ultimi decenni altre modalità di circolazione internazionale degli spettacoli e dei talenti, e che vanno oltre la semplice ospitalità di prestigio e gli scambi.
Capita sempre più spesso che un teatro scritturi un regista straniero per curare uno spettacolo: al di là della presenza del nome di richiamo in cartellone (sperando magari di incrementare gli abbonamenti, come capita alle squadre di calcio che ingaggiano un campione straniero), l’obbiettivo è spesso anche quello di rivitalizzare la situazione locale attraverso il confronto con un’esperienza inedita, e con un’altra tradizione artistica e produttiva. Sono inoltre sempre più diffuse le formule di coproduzione, che consentono a un teatro di presentare una compagnia straniera all’interno della propria stagione.
Da diversi decenni l’aspetto pedagogico – o meglio autopedagogico – ha assunto un ruolo centrale: dunque si sono moltiplicate residenze con stage, corsi e seminari (ora magari ribattezzati pomposamente master o masterclass), che possono portare alla creazione di uno spettacolo-saggio: esemplari in questo senso le attività degli statunitensi Living Theatre e Bread & Puppett, che dagli anni Settanta hanno iniziato al gesto teatrale generazioni di appassionati.
Sul fronte della pedagogia, va segnalata la formula dell’Ecole des Maîtres, il corso internazionale di perfezionamento teatrale ideato e diretto da Franco Quadri, che dal 1990 permette ai giovani teatranti di diversi paesi europei di seguire un percorso formativo con i grandi maestri della scena, spesso destinato a sfociare in spettacoli-saggio.